Il futuro è nelle nostre mani: la grafologia e le nuove sfide post-pandemia. Intervista a Sara Cordella

Questi sono giorni difficili, e assai complicati, Ma sono, anche, giorni -di riflessione Sul nostro futuro. Ci interroghiamo pure su quali risorse mettere in campo per la “ricostruzione”(che è ancora tutta progettare). Il segreto, forse, di un percorso inedito sta, letteralmente parlando,  nelle nostre mani. Ne parliamo con Sara Cordella, grafologa forense. Molti sono gli spunti che ci vengono da questo dialogo con una persona molto originale… 

 

Sara, stiamo vivendo una situazione di crisi dovuta ad una gravissima pandemia. Il “Coronavirus” è devastante non solo per i nostri polmoni ma rischia di diventarlo (anzi per certi versi lo è già diventato ) anche per la nostra realtà sociale. Insomma ci imporrà scelte non facili da compiere . Un esempio il mantenimento della distanza (quella dei due metri nel rapporto “vis a vis”). Sono sconvolgimenti non facili da gestire……Tutto il nostro corpo è investito da questi cambiamenti. Il virus si diffonde attraverso le mani e la bocca (che sono gli strumenti basilari della nostra intimità umana). Ma forse è dall’avere le mani, pulite ovviamente, che può rinascere uno sviluppo di nuova profondità umana. E’ così Sara?

Le mani sono state il segno di ricostruzione dopo ogni tragedia. Pensiamo al dopoguerra, quando hanno ricreato, mattone dopo mattone, le città devastate dalle bombe o a quelle immagini storiche nelle quali una stretta di mano ha rivoluzionato il mondo. Il virus sta sicuramente modificando le percezioni e l’utilizzo di tutti i sensi e probabilmente sarà così per il futuro.

Anche quando si riprenderà, gradualmente, la vita, non potremo affidarci al “dove eravamo rimasti?” di Enzo Tortora. Questa volta non potrà essere semplicemente una ripresa, perché dovremo imparare un nuovo linguaggio del corpo che si rifletterà in ogni sfera relazionale, pubblica e privata.

Avremo nuove mani, ma avremo anche nuovi occhi e impareremo un diverso gusto della vita.

 

Anche la nostra organizzazione del lavoro sta facendo i conti con la pandemia. Stiamo sperimentando lo ” smart working” (ma forse si è trattato più di lavoro domestico), una modalità che può avere degli sviluppi interessanti, ma occorre una disciplina del lavoro non banale.. Tu da professionista che esperienza hai fatto?

Io, come credo tutti, non ero preparata a una situazione così repentina e imprevedibile. Quindi mi sono trovata, nel tempo di una settimana, a gestire una situazione di lavoro complessa, con la chiusura dei Tribunali, e due figlie con la didattica a distanza. Di conseguenza, anche la casa è dovuta diventare un ambiente di lavoro, di coworking, variegato con spazi e supporti informatici per tutti. Scrivendo ora mi accorgo di quanto la nostra impreparazione si veda anche dalla quantità di termini che abbiamo dovuto mutuare dall’inglese per dare corretta idea di quello che stiamo facendo a casa. Il lavoro domestico, infatti, fino a ieri era solo quello inerente la pulizia e le faccende di casa.

 

Dicevamo delle Mani e quindi della grafologia. Quale potrebbe essere  il contributo alla nuova organizzazione del lavoro ?

La grafologia è nata come scienza a servizio dell’uomo e, mai come ora, potrà contribuire a questa ricalibrazione degli spazi in quanto usa uno strumento non invasivo, la scrittura, che non necessita contatto diretto e nel quale il foglio di carta può divenire un filtro protettivo più di qualsiasi mascherina.

In sintesi potrebbe intervenire in maniera efficace almeno in quattro fasi del percorso lavorativo:

  1. In fase di assunzione. Lo studio della grafia permette di identificare delle componenti fondamentali per le Risorse Umane. Si pensi all’intelligenza, la flessibilità, la precisione, la gestione dello stress, la capacità di lavorare in gruppo o da soli. Questo solo da un foglio scritto, senza la necessità di incontrare direttamente i candidati. La grafia permette di prevedere alcuni comportamenti a lungo termine e anche di vedere alcuni segnali di allarme. Come già avviene da molti anni in Francia e in altre nazioni Europee, la grafologia può essere un primo filtro, economico e in totale sicurezza, di valutazione di un candidato.
  2. Il rientro. Non possiamo non pensare al fatto che il lockdown sia stata un’esperienza inedita, complessa e lunga per tutti. Chi tornerà al suo lavoro, tornerà cambiato comunque, forse impaurito, forse disorientato. Affidarsi a figure per la comprensione e la gestione del proprio stato d’animo, percepite “sanitarie”, può non essere sempre facile da accettare. Lo strumento grafologico, che ovviamente non è curativo, ma solo di riflessione, può essere uno strumento meno invasivo che permette di parlare di se stessi con una chiave di lettura differente.
  3. La ricollocazione. Probabilmente alcune posizioni lavorative ed alcune mansioni andranno riviste. Mai come ora, diventerà importante avere l’uomo giusto al posto giusto. In confronto con il datore di lavoro sarà importante, lavorando sulle risorse del dipendente, capire, attraverso le competenze trasversali che emergono dall’analisi della scrittura, come valorizzare al meglio e nella giusta posizione il lavoratore.
  4. Lo smart working. Sicuramente questa parola, fino a ieri percepita lontana, diventerà di utilizzo quotidiano. Permettere al lavoratore di svolgere parte delle attività da casa offrirà una possibilità di gestire autonomamente i tempi di lavoro, fatta eccezione per le conference call che, comunque, saranno solo una parte dell’orario complessivo. Si passerà, in alcuni casi, da una condivisione di spazi di intere giornate, ad una riduzione, privilegiando il lavoro a distanza e andando a perdere il polso della situazione relativo allo stato di benessere o frustrazione del lavoratore. Anche in questo caso la grafologia può aiutare e facilitare un dialogo e la corretta percezione dello “stato di salute” delle persone che lavorano da casa.

 

La scrittura apre uno squarcio profondo sulla persona. Oggi, però, non sappiamo più scrivere con la nostra grafia (per colpa dei social). Bisogna riprendere confidenza con la nostra grafia…Un compito arduo! Non trovi Sara?

Ma forse è proprio questo il momento giusto! Ci troviamo, da genitori, a incoraggiare i figli ad usare strumenti che fino a ieri erano sinonimo di alienazione. Ora siamo noi stessi, per la scuola, ma anche per mantenere i rapporti con gli amici, a mettere in mano il tablet ai ragazzi. Allora perché non invertire i momenti? Perché non sconnettersi dal virtuale che ci riempirà anche in futuro la vita, per creare delle piccole oasi di benessere e intimità in cui ci troviamo in tre, senza assembramenti, noi, il foglio e una penna e riprendiamo confidenza con questa dimensione così privata e unica nella sua capacità di espressione? Stiamo riscoprendo il pane fatto in casa, e lo vediamo dal lievito che va a ruba, la manualità dell’acconciarci i capelli, noi donne private dell’indispensabile parrucchiere, perché non usare le mani come occasione per riprendere anche la penna in mano?

 

Ultima domanda: Tutti auspicano, per il dopo, una ricostruzione. Dal tuo punto di vista, di grafologa, da dove partiresti ?

Io, da grafologa, vorrei si ripartisse dalle piccole cose, dalle relazioni che sono sopravvissute alla lontananza e che richiedono tempo e pazienza, come quello della scrittura; dal percepire il foglio come filtro che arricchisce e non isola; dalla volontà di fare scorrere il tempo come scorre la penna, senza cristallizzarlo; dal non aver paura di lasciare un segno, anche andando contro corrente, perché i  fogli bianchi  non dicono nulla. Partiamo dalle mani per capire che ogni strumento diventa utile solo se lo sappiamo utilizzare.

“DOPO LA PANDEMIA L’UMANITA’ DOVRA’ CAMBIARE LA DIREZIONE DEL SUO DESTINO”. INTERVISTA A LEONARDO BOFF

Il Covid-19 si sta allargando in tutti continenti. Anche in America Latina l’emergenza sanitaria si sta facendo sempre più drammatica. Come in Brasile.

Ne parliamo con un grande intellettuale brasiliano, il teologo Leonardo Boff.

Leonardo Boff

 

Leonardo, il Coronavirus sta colpendo, con circa un mese di ritardo, anche il Continente Latinoamericano. Sappiamo della drammatica situazione in Ecuador (in particolare della città di Guayaquil, dove i cadaveri dei malati vengono gettati per strada). In Brasile com’è la situazione?

 

Il Brasile vive una situazione drammatica. Ci sono già 431 morti e 10.275 contagiati per coronavírus (dati di ieri ndr). La nostra fortuna è che, a differenza degli USA, abbiamo il Sistema Universal de Saude (SUS) che assiste gratuitamente tutta la popolazione. Sotto l’attuale neo-liberismo estremo, la tendenza stessa del Governo era privatizzare tutto il sistema. Adesso si rivela come un grande strumento che sta salvando molta gente, specialmente i poveri. La nostra disgrazia è il fatto di avere un Presidente, Jair Messias Bolsonaro che, unico al mondo, e contro la Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), del Parlamento Nazionale e del suo proprio Ministro della Sanità, Mandetta si oppone al distanziamento sociale. Fino a due giorni fa in televisione sollecitava il popolo ad andare nelle strade, riprendere il lavoro, mantenere aperte tutte le attività commerciali, i ristoranti e i bar.

Psicanalisti lo hanno già analizzato come un paranoico con manie di persecuzione. Vede tutto come un complotto del comunismo internazionale per dominare la globalizzazione. Una cosa ridicola, visto che non esiste più il sistema comunista, eccetto in Cina, alla quale prima si era approssimato e dopo è passato ad attaccarla.

Lui odia il popolo, i neri, i poveri, gli indigeni e tutte le persone con altre opzioni sessuali. È una persona che mente al popolo attraverso la televisione. Usa frequentemente fake news e propaga direttamente l’odio. Fortuna che i militari, sono più di 200 ad occupare funzioni di governo, lo hanno frenato. Oggi sappiamo che non dispone più del potere di prendere qualsiasi decisione. Il Generale  Braga Neto, Ministro da Casa Civil (Capo di Gabinetto della Presidenza della Repubblica) è il “Presidente Operativo”. Significa che è lui l’effettivo Presidente del Brasile e Bolsonaro continua nell’incarico solo pro forma.

In pratica, è avvenuto un golpe interno. Questo fatto non è oggetto di notizie e commenti in nessun organo di stampa e televisione in Brasile, che sono sotto censura, in quanto si temono reazioni violente dei seguidor fanatici di Bolsonaro.

Agli amici continua a dire, contro tutto il mondo, che si tratta di un “lieve raffreddore” e di una “isteria collettiva”. Si vede che vive in un mondo parallelo, di fantasia, incapace d’intercettare la realtà brasiliana e mondiale.

Eravamo governati da un psicopatico che portava avanti una politica, da molti chiamata di necropolitica, che esalta la morte e lo sterminio dei suoi oppositori che non li vede come avversari, ma come nemici.

 

 

Quali sono le zone più colpite? E nelle favelas qual è la situazione?

 

Siamo appena nella seconda settimana dell’epidemia. Le classi ricche e medie sono state le prime ad essere raggiunte, specialmente a São Paulo con più di 17 milioni di abitanti e 260 morti, a Rio de Janeiro con 58 morti e poi la capitale Brasilia, con alcuni morti. In totale fino ad oggi (domenica 5 aprile) sono 432 morti e 10.278 contagiati. Ancora non è arrivata nelle favelas. A Rio sono circa 3 milioni le persone che vivono in grandi conglomerati, quasi senza nessuna infrastruttura sanitaria, molti senza acqua corrente e senza alcool o gel per difendersi contro il virus. A São Paulo è più o meno la stessa situazione. Se arrivasse alle favelas che esistono in quasi tutte le grandi città si teme una vera ecatombe.

Non ci sono posti letto sufficienti negli ospedali. Dappertutto mancano le mascherine e l’alcool-gel, che interessano il corpo medico e infermieristico. La curva è ascendente e la mortalità è del 4,3%. Il Ministero della Sanità è riuscito ad imporre il distanziamento sociale generale, includendo fabbriche, scuole e le famiglie. Ma sono molti, specialmente a Rio de Janeiro che non ubbidiscono, continuano nelle strade senza protezione, animati dalle parole insane e irresponsabili del Presidente Bolsonaro. Temiamo una ecatombe con migliaia di morti, data l’estensione continentale del Brasile, l’assenza di infrastrutture sanitarie specifiche e la saturazione degli ospedali.

 

La Chiesa brasiliana come sta operando?

 

La Chiesa sta fornendo un grande aiuto. La Conferenza nazionale dei Vescovi ha fatto successivi appelli affinché tutti restino in casa. Utilizza tutta la vasta rete di comunità ecclesiali di base (che sono migliaia) e le parrocchie per soddisfare i più bisognosi. Sta organizzando grandi raccolte di alimenti, vestiti, articoli sanitari e si attiva nelle favelas per orientare sul coronavirus la popolazione povera che non ha mezzi per seguire i notiziari. Si sta riscontrando molta solidarietà nella popolazione, che dona tonnellate di alimenti, carta igienica e medicine.

 

Ultime, ma fondamentali, domande : la pandemia ci costringe tutti a pensare. Quali priorità sta ridefinendo per l’umanità? Per un credente cosa può significare questa terribile pandemia? 

 

La pandemia del coronavirus sta rigettando tutte le tesi del neo-liberismo e dello stesso capitalismo. Questo difendeva la competizione quando ora  l’importante è la cooperazione e la solidarietà. Difendeva l’individualismo quando ora ci rendiamo conto del fatto che tutti siamo interdipendenti. Sfruttava in una forma impietosa la natura e ora ci rendiamo conto che dobbiamo rispettare e prenderci cura della Madre Terra, in quanto il virus è una reazione e una rappresaglia della stessa Terra contro le aggressioni che gli facciamo da più di due secoli. Il Micro sta sconfiggendo il Macro. Il coronavirus rende ridicolo tutto l’apparato bellico dei paesi militaristi che hanno costruito armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche e biologiche. Ci sta dando una lezione: cosi come stiamo trattando la Casa Comune, con pochissimi miliardari a spese di miliardi di poveri e della sistematica depredazione della natura, non possiamo continuare.

Il virus non distingue ricchi e poveri, gente di potere e altri senza potere. Attacca indistintamente tutti. Può essere quello che gli scienziati tanto temono: il NBO (Next Big One) il “prossimo grande virus”, quello che può sterminare la specie umana. Questo possiede caratteristiche somiglianti al Big One. Sicuramente non distruggerà la specie umana, ma Gaia, il pianeta Vivo, la Madre Terra ci sta dando segnali. Questa è la prima guerra globale dentro un mondo globalizzato. Tutti sono colpiti: o stabiliamo relazioni di solidarietà e cooperazione, prendendoci cura gli uni degli altri e dell’unica Casa Comune o ingrosseremo la processione di quelli che spingono nella direzione di un abisso.

Possibilmente il mondo sarà un altro dopo che avremo attraversato la crisi del coronavírus. O il sistema si imporrà con più violenza ancora, o dovremo cambiare la direzione del nostro destino su questo pianeta.

Come cristiani crediamo in quello che sta scritto nel Libro della Saggezza 11,26: ”Dio è l’innamorato amante della vita”. Alimentiamo la speranza che Lui non lascerà che questa vita sparisca per l’irresponsabilità degli esseri umani. In qualche modo la vita è stata resa eterna da Gesù risuscitato e da Maria assunta al cielo. Noi, la Terra e l’universo dovremmo avere lo stesso destino loro. Ma ciò non è automatico. Possiamo essere tanto stolti di distruggere le basi chimico-fisiche ed ecologiche che supportano la vita, anche la nostra. E li sarebbe la fine della specie homo sapiens/demens. La Terra continuerà seguendo nello spazio siderale, intorno al sole, ma senza di noi. Ma la nostra speranza è maggiore di qualsiasi altra pazzia commessa dagli esseri umani.

 

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti).

Mobilitare tutta la “flotta delle zanzare” nella battaglia contro il virus. Intervista a Luigi Bobba

Prima giornata di lavoro per i Volontari di Protezione Civile e Croce Rossa

Come rafforzare il volontariato nella battaglia contro il virus? Quale sarà il ruolo del Terzo Settore nella ricostruzione? Ne parliamo, in questa intervista, con Luigi Bobba già Presidente delle Acli ed ex sottosegretario al Welfare.

 

Il Presidente Luigi Bobba

Presidente Bobba, lei ha usato una metafora, per far comprendere il ruolo del volontariato in questa “strana guerra”, quella della “piccola flotta delle zanzare. Una metafora che colpisce, può spiegarcela ?

 

La metafora non è mia. L’ho  presa in prestito da un grande della storia,il primo ministro inglese Winston Churchill.Siamo alla fine del maggio del 1940. A Dunkerque ,nel nord ovest della Francia,le truppe corazzate tedesche avanzano inesorabilmente e chiudono in una sacca senza via di uscita le divisioni britanniche e francesi.L’unica via di scampo è il mare. Churchill mobilita il meglio della Marina reale britannica, ma lancia anche un drammatico appello alla nazione perche tutti i civili dotati di un’imbarcazione (mercantili,barche da pesca o da turismo,ecc) si mettano in mare e raggiungano il porto di Dover. Migliaia di inglesi raccolgono l’appello e si portano verso le spiagge di Dunkerque. Il rischio che le truppe anglo – francesi vengano completamente decimate è altissimo, anche perche’ i cacciatorpedinieri della Marina militare inglese non riescono ad attraccare al porto di Dunkerque, ormai distrutto dai bombardamenti dell’aviazione tedesca. Cosi’, per portare in salvo i soldati, approfittando dell’oscurita’ della notte, la miriade di imbarcazioni civili, piu’ agili e veloci, si avvicinano alle spiagge di Dunkerque, caricano i soldati ormai allo stremo e  li trasferiscono sulle grandi imbarcazioni della Marina Reale. Churchill, ad operazione conclusa, lodo’ l’opera dei suoi ammiragli, ma ringrazio ‘ in particolare la “flotta-zanzara”, senza la quale il numero delle vittime sarebbe stato enormemente piu’ elevato. Cosi’ in questa nostra “strana guerra”, mi e’ venuto in mente questa metafora che avevo già utilizzato piu’ di 25 anni fa, quando cominciai ad occuparmi di Terzo settore. Fuor di metafora: per salvare tante vite e curare le ferite di molti, sono fondamentali le istituzioni dello stato (la sanita’,la protezione civile, l’esercito) ma non bastano. Serve anche la “flotta delle zanzare” , servono la miriade di associazioni e organizzazioni di volontariato presenti nelle nostre comunita’, perche’ piu’ vicine alle persone da salvare e piu’ veloci nell’arrivare in tempo per evitare troppe sofferenze e troppo dolore.

 

Sappiamo che la prima linea in questa battaglia è formata dai medici e infermieri. Non solo loro ma anche la grande rete del volontariato e delle Ong è presente. Può darci qualche numero orientativo per farci capire la grande mobilitazione in atto?

 

Innanzitutto, dopo la prima linea degli operatori sanitari, c’è una seconda linea, appunto, fatta dalle reti delle associazioni di volontariato (Anpas, Misericordie, Croce rossa,ecc) che svolgono un’opera quotidiana di supporto e sostegno  nel primo soccorso  e nel trasporto degli ammalati . Sono decine di migliaia di volontari e di operatori che non si risparmiano e sono anche loro esposti al rischio di contagio del Coronavirus. Poi c’e’ un mondo,rimasto in buona parte invisibile, che opera nelle retrovie. Parlo dei tantissimi che sono vicini e accanto alle persone piu’ fragili: gli anziani, i bambini, le persone con disabilita’, i senzatetto,i migranti. La loro presenza in termini di servizio e assitenza e’ fondamentale per proteggere queste persone che ,proprio perche’ piu’ fragili,sono maggiormente esposte. Ancora, penso  ai tanti che, con le forme piu’ fantasiose, stanno intervenendo per soddisfare i bisogni alimentari: chi fa volontariato nelle mense della Caritas, chi consegna cibo a domicilio, chi, come la Fondazione Foqus nei Quartieri spagnoli di Napoli, organizza la “spesa sospesa” e assiste centinaia di famiglie. E ancora, pensiamo alle Ong abituate ad operare nella situazioni di guerra e nei paesi del Sud del mondo. Ora sono li’ , nelle nostre comunita’ locali,  con i loro medici e i loro operatori (Emergency , Medici senza frontiere, gli Alpini) a dare una mano per curare ed evitare che il nostro sistema sanitario collassi. O, infine, chi struttura un database – come ha fatto Italia non profit  – per far incontrare le potenzialita’ donative delle aziende e delle fondazioni filantropiche con i bisogni piu’ urgenti degli Enti del Terzo settore.

 

Mentre si cerca di combattere la pandemia bisogna anche pensare al dopo. Un “dopo” che sappiamo durissimo. C”è il rischio di pesanti conflitti sociali. In questo contesto diventa fondamentale il ruolo del volontariato. Su quali punti va rafforzato il suo ruolo?

 

Certo il dopo sara’ durissimo e le ferite, non solo economiche, si potraranno nel tempo. Per questo serve “la flotta delle zanzare”. I provvedimenti finora intrapresi dal Governo hanno avuto due priorita’: la sanita’ e l’economia. Ma attenzione, se si sottovaluta la dimensione socio-relazionale, i soggetti piu’ fragili pagheranno un prezzo molto piu’ pesante e il danno si riverberera’ su tutta la comunita’ nazionale. Cosa voglio dire? Che il quasi certo aumento delle famiglie povere (più 200.000 secondo la Banca d’Italia); che la crescita della solitudine degli anziani e la  difficolta’ di proteggere adeguatamente tutti i soggetti piu’ vulnerabili saranno il vero banco di prova per quando, sperabilmente, saremo usciti dall’emergenza sanitaria. Qualcosa il Governo ha cominciato a fare con i 400 milioni destinati ai Comuni per sopperire ai bisogni alimentari delle le famiglie piu’ povere, coinvolgendo anche il Terzo settore. Ma bisogna fare molto di più. Ho proposto che il Governo proceda rapidamente all’erogazione del 5 per 1000 attribuendo non solo le somme spettanti per l’anno 2017 ma anche per il 2018. E’ inaccettabile che debbano passare due anni da quando il contribuente scrive il codice fiscale dell’ente a cui vuole destinare il suo 5 per 1000, al momento in cui tale somma viene effettivamente erogata al beneficiario, C’è un Dpcm fermo da tempo che disciplina proprio questa materia. Lo si faccia uscire subito. Cosi per giugno 2020, a circa 55.000 enti del terzo settore verrebbero attribuiti non 500 milioni, bensi’ 1 miliardo di euro. Una iniezione di liquidita’ fondamentale nel breve periodo. Secondo: ci sono circa 80.000 giovani che negli ultimi due anni si sono visti respingere la domanda di fare Servizio civile, un anno di volontariato realizzato con gli enti del terzo settore o con i Comuni. Si proceda con un bando straordinario per ingaggiare questi 80.000 giovani – un piccolo “esercito del bene comune” – per riparare quelle molte ferite sociali e relazionali che ci accompagneranno nel dopo emergenza. Costo:circa 400 milioni di euro. Terzo si incrementi il Fondo per la non autosufficienza: per queste soggetti i costi della crisi saranno piu’ onerosi. Occorre incrementare i servizi di sostegno e assistenza e supportare le famiglie che li hanno a carico. Infine si mobiliti l’esercito nascosto del volontariato individuale. L’Istat ci dice che, oltre ai 4,4 milioni di volontari associati, ve ne sono cira 1,5 che fanno volontariato senza essere aggregati ad una rete associativa. E allora si mutui quanto sta facendo il governo inglese creando un’apposita App scaricabile  sul proprio smartphone per far incontrare domanda ed offerta: da un lato i bisogni delle persone, dall’altra la disponibilità di tempo dei volontari. Quello che è accaduto con i due bandi della Protezione civile per reclutare medici e infermieri, ci dice che c’è un capitale di generosità e disponibilità che va portato allo scoperto e messo in opera. Il governo affidi a qualche solida rete del Terzo settore un’operazione di questa portata per rafforzare ed ampliare quanto gia’ fanno le migliaia di volontari inquadrati oggi negli enti del Terzo settore.

 

Ultima domanda: tutti gli osservatori, intellettuali, politici, economisti, dicono che il “dopo” sarà come una ricostruzione. Io penso che il dopo dovrà essere “rivoluzionario”. Nel senso della “conversione” solidale del nostro stare insieme. Lei come vede il “dopo” come un “ripristino” oppure come una “conversione”?

 

C’e’ la tentazione di pensare il dopo come se questa fase acuta dell’epidemia fosse una parentesi oppure, all’opposto, c’è chi crede che questa drammatica esperienza ci conduca automaticamente ad una palingesi del nostro modo di vivere, lavorare ed incontrarci. Sono due tentazioni da respingere. La prospettiva potrebbe invece essere individuata prendendo spunto dalle parole del monaco di Bose, Guido Dotti , che ha suggerito di uscire dalla metafora e dal linguaggio bellico (guerra, eroi ,nemico,fronte); metafora e linguaggio che io stesso ho utilizzato. Come allora vivere la transizione per il dopo? Non e’ un tempo di guerra- dice Dotti , ma il “tempo della cura”. Cura di noi stessi, dell’altro e della Terra. E’ una metafora meno potente di quella della guerra , ma forse ci aiuta a pensare con categorie nuove il tempo della “rinascita”. Ci auguriamo tutti che presto si trovino cure adeguate e vaccini per prevenire epidemie di questa portata. Ma non basta. Gli interrogativi vanno piu’ in profondita’.Questa pandemia ci ha resi consapevoli di quanto siamo interdipendenti e fragili. Di quanto le nostre vite siano intrecciate con quelle degli altri; di quanto la nostra smisurata potenza tecnologica possa essere incrinata da un invisibile virus. La sfida consisterà’ – come ha detto Papa Francesco – nel respingere la tentazione di riaffidarci unicamente alle categorie del successo e della potenza, ma provare a costruire una società solidale e fraterna. Possiamo tentare di indicare la direzione di marcia con le parole di Sandro Calvani, – una lunga esperienza in Caritas e in organismi delle Nazioni Unite – che evoca l’espressione “prosperita’ inclusiva e sostenibile”. Un ‘utopia? No, piuttosto una meta che presuppone che la “rinascita” sia inclusiva, ovvero che consenta a tutti una vita dignitosa; che sia partecipata, ovvero, che tutti possano avere una voce in capitolo; che sia sostenibile, cioe’ che lasciamo alla Terra il tempo di respirare, curando l’ambiente in cui viviamo.

E’ possibile un’economia che crei i mezzi per una vita felice ? E’ possibile una politica non dominata dalla volonta’ di potenza che si impone con la violenza e con i muri? E’ possibile una convivenza non piu asservita al principio dell’ “homo homini lupus” , ma ispirata al suo contrario di “homo homini natura amicus”,(Antonio Genovesi), ovvero che l’uomo è per natura amico dell’uomo? Sono solo domande, ma per trovare le risposte giuste servono le domande giuste. Il resto e’ tutto da compiere, tutto ancora da vivere e costruire.

Il rigorismo economico nordico ha radici antiche. Intervista a Luigino Bruni

il ministro dell’economia Gualtieri in videoconferenza con i suoi colleghi dell’UE

In questi giorni tragici si sta discutendo, a livello europeo, su quali strumenti economici siano più adatti per fronteggiare la drammatica crisi creata dalla Pandemia del COVID-19. Una delle ipotesi, sulla quale l’opinione pubblica si sta soffermando, è quella dei “coronabond”. Ipotesi subito criticata dai rigoristi del Nord (Olanda e Germania) che non ne vogliono sapere di condividere il debito con l’Europa mediterranea (Francia, Italia Spagna). Ovviamente a loro fa paura il debito italiano. Ma al di là degli aspetti economici, che non vanno assolutamente sottovalutati, in un recente articolo Luigino Bruni, ordinario di Economia Politica e di Storia del pensiero economico all’Università LUMSA di Roma, ha approfondito, in un articolo, apparso pochi giorni fa, sul quotidiano cattolico Avvenire, le radici “filosofiche” della questione del debito. Ha fatto partire la sua riflessione da Nietzsche: “Questi genealogisti della morale si sono mai, sino a oggi, anche solo lontanamente immaginati che, per esempio, quel basilare concetto morale di ‘colpa’ ha preso origine dal concetto molto materiale di ‘debito’?». Questa famosa frase è tratta dalla ‘Genealogia della morale’, da qui inizia il nostro dialogo.

Lei afferma che c’è un diverso approccio al debito tra “nordici” e “latini”, ovvero la “colpa” e la “vergogna”. Può spiegarcelo?

Le parole contano, sempre. Non certo a caso i tedeschi e gli olandesi hanno una sola parola (la stessa nelle due lingue) per dire debito e colpa: schuld. Noi ne abbiamo due, e queste cose non sono mai banali. La Germania e l’Olanda non sono solo, rispettivamente, Lutero e Calvino ma sono anche Lutero e Calvino; i tedeschi, per così dire, sono prima tedeschi poi protestanti e cattolici, e così gli olandesi (basta entrare in una chiesa cattolica di quei paesi per capirlo). Lutero e Calvino sono nati e cresciuti in quei paesi perchéé c’era già una cultura fertile. La cultura della colpa è in genere distinta dalla cultura della vergogna (R. Benedict, ne La spada e il crisantemo, ha approfondito questa distinzione). I paesi asiatici sono essenzialmente culture della vergogna, dove un comportamento è condannato se visto – e quindi se nessuno ci vede è come se quell’errore/reato non ci fosse (l’ideogramma cinese per dire ‘peccato’ è un uomo catturato da una rete). Anche i paesi mediterranei sono essenzialmente culture della vergogna. La Bibbia, e in un certo senso anche il mondo greco (si pensi ad Edipo), hanno sviluppato una cultura della colpa, che nel cristianesimo ha continuato il suo cammino soprattutto nel mondo nordico-protestante (un ruolo importante l’ha avuto il monachesimo, soprattutto quello britannico e irlandese), nato grazie ad un forte ruolo di Agostino (Lutero era un monaco agostiniano).

 

 Torniamo a Nietzsche c’è questo legame tra colpa e debito, ne consegue che non solo l’individuo, secondo una interpretazione ultra-rigorista, è colpevole ma lo è anche lo Stato. Se così stanno le cose, visto come è stato gestito e creato il nostro debito, tutti i torti non c’è l’hanno. Non è così professore?

Soprattutto lo Stato è colpevole, più dell ’individuo. Il debito privato (si pensi all’altro grande paese calvinista: gli USA) è molto più tollerato.

 

 Eppure, anche il debito ha una sua legittimità morale, ovviamente con dei limiti. È  così?

Certamente il debito non è sempre colpa. Lo sanno bene gli imprenditori, che senza credito (da credere) morirebbero nelle crisi. Discorso diverso è il tema degli interessi sul debito e della finanza speculativa, ma questo è un altro discorso.

 

Come abbiamo detto all’inizio l’Europa è investita da una pandemia devastante. Una pandemia che rischia di far soccombere il sogno europeo. Insomma, anche per i rigoristi Nord è giunto il momento della responsabilità. Ovvero di lasciare alle loro spalle le parole che condizionano il loro agire. In che misura riusciranno a farlo?

Qui si sta giocando molto della possibilità dell’Europa di non essere solo un contratto commerciale ma anche un ‘patto’, come lo volevano i suoi fondatori. Anche perchéé l’Europa nasce dai pellegrinaggi, dal monachesimo e dai santi, faccende molto più ricche dei soli mercanti, che pur hanno fatto l’Europa. Un Europa senza ’spirito’ non ha né presente né futuro

 

Ma il tempo della responsabilità è arrivato anche per i “Latini”. Ovvero non dovranno cedere al populismo. Vede, nella tragedia che stiamo vivendo, questo rischio?

Certo, il rischio è grande. La propaganda sarà forte, ma sarà ancora più forte se l’Europa del Nord non darà segnali di solidarietà. Chi oggi ama l’Europa deve capire questo.

 

 Ultima domanda: Quale sarà la parola chiave per ricostruire, dopo la pandemia, l’Europa?

Fraternità. L’Europa moderna nasce attorno ai tre principi delle rivoluzioni: libertà, uguaglianza e fraternità. Le crisi sono il tempo nel quale si riscopre la fraternità, e si capisce che la libertà e l’uguaglianza non bastano. Ma come ci dice il mito di Caino, la fraternità confina sempre col fratricidio. A noi la scelta.

Lettera aperta ai Segretari Generali di CGIL,CISL,UIL: “Coinvolgete le migliori intelligenze per la ricostruzione dell’Italia”

 

Pubblichiamo un appello, scritto da tre personalità storiche del sindacalismo confederale italiano (Giorgio Benvenuto, Cesare Damiano e Raffaele Morese), ai Segretari Generali di Cgil-Cisl-Uil. Le tre personalità invitano gli attuali dirigenti sindacali a rendersi protagonisti intelligenti di un progetto di futuro dell’Italia con il coinvolgimento delle migliori risorse  italiane.

 

Carissimi,

sappiamo che siete alle prese con una gestione dell’emergenza sanitaria ed economica di dimensioni inedite, giunta tra capo e collo su tutti noi. Giustamente siete concentrati sulle misure che assicurino nell’immediato ai lavoratori e alle lavoratrici il massimo di sicurezza reddituale possibile e che scongiurino licenziamenti di massa. Lo state facendo mantenendo ferma la barra sulla priorità della tutela della salute, rispetto a spinte e controspinte tendenti a rendere centrali soltanto le esigenze della produzione e degli affari. Questo atteggiamento dà sicurezza nel periodo – sperabilmente corto ma non brevissimo – della diffusione del covid 19.

 

Ma ci permettiamo di sottolineare che occorre dare anche speranza alle persone. “Andrà tutto bene” è un bel messaggio ottimista. Sappiamo che questa pandemia mondiale accelererà cambiamenti già visibili prima di questo evento terribile, ma che tutti pensavamo graduabili nel tempo. Non sarà così, ce lo dicono tutti gli analisti sociali ed economici più avveduti. Anche se, ovviamente, nessuno dispone di ricette salvifiche.

 

Né conviene farsi prendere dalla voglia di soluzioni facili. Dare speranza in una fase di prevedibile, grande transizione dall’industrialismo novecentesco all’economia circolare e dell’intelligenza artificiale è impresa nello stesso tempo titanica ed entusiasmante. Anche in Italia. Viene in mente ciò che provarono Di Vittorio, Pastore e Viglianesi di fronte alla gigantesca trasformazione dell’Italia da Paese prevalentemente agricolo, a Paese industrializzato, nel corso degli anni 50. Di certo, non si scoraggiarono, né si arroccarono sull’esistente.

 

Ora, è chiaro che se non si hanno visioni lunghe, le difficoltà che si profilano – sia perché l’Europa non è in grado di porsi in un atteggiamento di ampia solidarietà, sia perché le tensioni potrebbero alimentare arretramenti anche sul piano della democrazia sostanziale – ricadranno sui lavoratori e sugli strati più deboli della società, a partire dai giovani.

 

Perciò, vi chiediamo di proporre a prestigiose personalità dell’economia, della finanza, delle scienze sociali e tecnologiche, dell’ecologia, del diritto e della cultura di collaborare con voi, in uno sforzo generativo di nuove energie e nuove prospettive. Occorre progettare il futuro del lavoro, in modo da avere a disposizione obiettivi, strumenti e politiche che consentano di trasformare la realtà e di farlo in un clima di condivise certezze.

 

Soltanto le grandi organizzazioni sindacali, oggi, possono svolgere un convincente ruolo di orientamento, avendo a disposizione non solo esigenze da rappresentare ma anche proposte da realizzare. In questo modo, chi un posto di lavoro ancora ce l’ha, chi lo sta per perdere, chi non l’ha mai avuto, individueranno quel bagliore di speranza che consenta di continuare a credere nel futuro.

 

Giorgio Benvenuto
Cesare Damiano
Raffaele Morese

(foto Ansa)