La preziosa eredità di San Giovanni Paolo II vive nella Chiesa di Francesco. intervista a Giacomo Galeazzi

Chi ha paura, ancora oggi, di Papa Giovanni Paolo II?

A questa domanda cerca di rispondere un libro, uscito proprio all’inizio dell’anno del centenario della nascita di Karol Wojtyla, scritto da due importanti vaticanisti: Giacomo Galeazzi e Gianfranco Svidercoschi. Il titolo del libro è emblematico: “Chi ha paura di Giovanni Paolo II. Il Papa che ha cambiato la storia” (Ed. Rubbettino). Con Giacomo Galeazzi,   vaticanista della Stampa, in questa  intervista mettiamo in evidenza i punti strategici del pontificato di Wojtyla.

Giacomo Galeazzi, il vostro libro (scritto insieme all’amico Gian Franco Svidercoschi) esce proprio nell’anno del centenario della nascita di Karol Wojtila. Allora proprio, come prima domanda, dal titolo : chi ha paura di Giovanni Paolo II?

 “Gli ambienti permeati dal peggior clericalismo. Parto da un esempio. L’accusa al recente Sinodo dei vescovi sullAmazzonia è arrivata da settori tradizionalisti: autorizza riti pagani in Vaticano e nella parrocchia di Santa Maria in Transpontina, oltre a legittimare eresie dottrinarie. Nel 1986 dagli stessi ambienti ultraconservatori arrivarono gli attacchi allincontro interreligioso di Assisi: consente agli animisti di sgozzare polli sullaltare della chiesa di Santa Chiara per compiere i loro riti, oltre a favorire il sincretismo religioso. Ieri ad essere criticato era San Giovanni Paolo II, oggi Jorge Mario Bergoglio. Veniva da lontano, lidea di una via religiosa alla pace”.A lanciarla, per primo, era stato Dietrich Bonhoeffer. Infuriava il nazismo e leroico pastore luterano, fatto più tardi uccidere da Hitler, aveva proposto unAssemblea mondiale delle Chiese cristiane che gridasse “la pace di Cristo al mondo impazzito e teso ad autodistruggersi“.  Ad aver paura di Wojtyla. sono sempre stati coloro che per spirito di conservazione del loro potere hanno cercato di boicottarlo e fraintederlo. Tre mesi dopo lelezione, in Messico, Giovanni Paolo II pronunciò delle parole rivoluzionarie. “La Chiesa vuole mantenersi libera di fronte agli opposti sistemi, così da optare solo per luomo”. Abituati, dai tempi di Costantino, a combattere o a cercare lalleanza della Chiesa, a seconda che la Chiesa si opponesse ai loro interessi o li sostenesse, Stati e regimi politici si trovarono spiazzati – e impauriti” – a scoprire una Chiesa che si liberava definitivamente dal fardello delle collusioni ideologiche e politico-economiche. 130 Tentarono di volta in volta di appiccicargli le etichette più diverse. Ma Giovanni Paolo II – parlando di pace, di giustizia e in difesa della vita – non fece altro che rivendicare la verità di Dio. E, per ciò stesso, la verità sulluomo”..

Sappiamo quanto sia imponente la personalità di Wojtila. Il vostro libro è un tentativo, autorevole, di riproporre all’opinione pubblica (non solo cattolica) gli elementi strategici del Pontificato wojtiliano. Partiamo dal primo: il suo Cristocentrismo. Ricordiamo la sua prima omelia : “Aprite, spalancate le porte a Cristo”…. È un Cristocentrismo vissuto in maniera “apocalittica” (in senso positivo ovviamente). È così?

Cristo è al centro. Traccio un identikit del sacerdozio secondo Wojtyla. Un prete impegnato in prima linea nel sociale che al tempo stesso però difende la vita e la famiglia, i migranti e le fragilità. Per capirci, una figura simile a don Aldo Buonaiuto, il sacerdote anti-tratta della Comunità Papa Giovanni XXIII. fu papa Wojtyla a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «lantica unilateralità clericale»; ma fu poi la realtà” profonda del cattolicesimo, sotto lazione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Ma va anche ricordato che, questo progetto di Chiesa, si imbatté in forti resistenze, subì ritardi e addirittura correzioni di rotta”, e, in genere, andò incontro a molte incomprensioni. E non sempre a causa di una vera e propria opposizione, ma anche, non di rado, per pigrizia”, per timore delle novità. Fu quanto accadde, con diverse intensità, sia nella Curia romana, sia in non poche diocesi, e perfino in numerose parrocchie. Dove spesso – per la persistenza di un autoritarismo clericale, quello del parroco-padrone – i laici continuavano a essere esclusi da qualsiasi responsabilità. Ma già Giovanni Paolo II, per primo, aveva messo in conto tutto questo. Sapeva bene come le rivoluzioni, specialmente quelle spirituali, avessero bisogno di tempi lunghi, prima di riuscire a entrare nelle coscienze e, più ancora, nelle strutture. Infatti, il Papa non si preoccupò più di tanto, quando venne a sapere dellesistenza di un fronte del no”. A lui importava seminare, e cioè che, nellhumus profondo del cattolicesimo, si depositasse questa immagine di una Chiesa rinnovata. Più che un uomo di governo, Wojtyla si sentiva fondamentalmente un pastore, un vescovo, e non era ossessionato dal fare-per-fare, o dal vederne subito i risultati”.

Il secondo elemento strategico, che ho colto dalla lettura del vostro libro è la critica antropologica alle ideologie: prima al comunismo e poi al capitalismo imperante. Come si sviluppa questa via “antropologica” nel discorso sociale di Giovanni Paolo II?
C’è un episodio che trovo rivelatore. Wojtyla era convinto che la Chiesa fosse credibile nella sua voce esterna solo dopo un processo di revisione e di purificazione interna. Per parlare alluomo e delluomo la Chiesa deve emendare le proprie colpe storiche. essere Finito il Giubileo del 2000, condensando e commentando il tutto nella sua splendida lettera apostolica, Giovanni Paolo II verso la fine se ne uscì con quellincredibile passaggio: «Ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio. È stato fatto?». Un interrogativo che, non essendo poi seguito da una risposta, aveva un che di estremamente critico o di provocatorio, o tutti e due. Voleva dire che nessun vescovo – nessuno! – aveva toccato largomento. Nessuno aveva fatto sapere come fosse andata, nella propria diocesi, lattuazione dei documenti conciliari. Si sarebbe tentati di chiedersi: ma come fa un Papa, con un episcopato così, a cambiare ciò che non va nella Chiesa? Papa Wojtyla sapeva bene che il cammino che aveva scelto sarebbe stato lastricato di ostacoli e di incomprensioni. E che avrebbe suscitato inevitabilmente un certo malessere in non pochi credenti: disorientati di fronte alla prospettiva – erronea, certo, ma più che comprensibile – che la storia della Chiesa non fosse altro che una serie ininterrotta di colpe, di ombre oscure. E molto probabilmente, proprio a motivo di queste preoccupazioni, Giovanni Paolo II decise di percorrere la strada dei mea culpa”, come vennero poi chiamati, sostanzialmente da solo”.

Questa critica “antropologica” fa da supporto al suo disegno geopolitico. E su questo bisogna essere molto chiari: Nel pensiero di Giovanni Paolo II non c’è spazio per i nazionalismi e i sovranismi. È così?

Nulla è più lontano da Wojtyla della prospettiva suprematista. Chi oggi cerca strumentalmente di arruolarlo tra i suprematisti non conosce il suo pensiero. Al tempo stesso il suo sguardo era rivolto al mondo senza essere mai mondialista. Giovanni Paolo II era convinto della necessità di riformare in profondità lOnu e, in diversi Angelus, richiamò esplicitamente il personale diplomatico delle organizzazioni internazionali a cambiare strada sui temi bioetici. «Nel Consiglio di sicurezza, per esempio, serve una migliore rappresentatività. La composizione a quindici membri è stata ritoccata negli anni 60 e in mezzo secolo i membri delle Nazioni Unite sono arrivati a quasi duecento: la Santa Sede esorta a fare una riforma», sottolinea il cardinale Martino. E quella di Wojtyla contro il mondialismo è stata «una illuminante strategia per lazione, presente e futura, della Chiesa nella società, a partire dallattenzione ai diritti umani e dalla proposta di un umanesimo integrale, aperto al trascendente». Quello di Giovanni Paolo II è stato un attivismo morale più vigoroso di quello dei sui predecessori, teso a far accettare la legittimità della questione morale in seno ai dibattiti secolari. E, sottolinea il cardinale Martino, contro Karol Wojtyla «hanno agito potenti lobbies culturali, economiche e politiche mosse prevalentemente dal pregiudizio verso tutto quello che è cristiano: nuove sante inquisizioni piene di soldi e di arroganza perché contro la Chiesa cattolica e i cristiani ogni metodo è lecito se serve a zittirne la voce; dallintimidazione al disprezzo pubblico, dalla discriminazione culturale allemarginazione». Ne è un esempio la disinvolta e allegra maniera con cui queste lobbies promuovono tenacemente la confusione dei ruoli nellidentità di genere, sbeffeggiano il matrimonio tra uomo e donna, sparando addosso alla vita, fatta oggetto delle più strampalate sperimentazioni”

 Una parola bisogna dirla sulla visione di Europa che aveva Giovanni Paolo II. Come dimenticare il discorso a Strasburgo, al Parlamento Europeo, nel 1988. Il sogno di una Europa riconciliata… Est e Ovest, i due polmoni, ma anche con l’ambiente. Un Papa europeista. È così?

Si. E per capirlo compiutamente scorriamo rapidamente, come in un documentario, i fotogrammi di questa storia. Cominciamo dalla Seconda guerra mondiale, dai due totalitarismi di segno opposto ma di uguale ferocia che si erano succeduti. E, proprio per la conoscenza diretta che ne aveva dovuto fare, in Wojtyla – e sarà uno dei princìpi ispiratori del suo pontificato – si era rafforzata «la sensibilità per la dignità di ogni persona e per il rispetto dei suoi diritti, a partire dal diritto alla vita». Quindi, riprendendo il filo della storia, la spaventosa vicenda della Shoah, i campi di sterminio e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, lEuropa tagliata in due dalla cortina di ferro”, la Guerra fredda… Finché, sul quadrante della storia, era scoccata unaltra data fondamentale: il 9 novembre del 1989. Una data che aveva segnato la fine della divisione del continente europeo. «Una delle più grandi rivoluzioni della storia», aveva commentato Giovanni Paolo II. Anzi, inquadrandola in una dimensione di fede, laveva accolta come un intervento divino: «Come una grazia». In pochissimi anni, era cambiato il corso della storia. Era caduto un impero che sembrava incrollabile. Erano falliti i messianismi politico-economici, avvelenati dalle loro stesse false ricette. E tuttavia, non aiutato”, non sostenuto, e anche non capito da un certo mondo politico, convinto che labbattimento di un sistema” significasse automaticamente il trionfo del sistema” opposto, quel cambiamento – perché, comunque, fu un grande cambiamento – durò poco; o, almeno, non si sviluppò come si sarebbe sperato. Ricominciò la via crucis del mondo contemporaneo. Centinaia di milioni di donne, uomini, e specialmente bambini, ridotti alla fame, alla miseria. Oppure costretti a subire le tragiche conseguenze della esplosione di nazionalismi, di razzismi, di fondamentalismi, di conflitti armati, e infine di un terrorismo, quello islamico, diffuso su scala planetaria. E, nello stesso tempo, una serie infinita di orrori, di veri e propri genocidi. Le pulizie etniche” nellex Jugoslavia. La prima guerra del Golfo. L11 settembre. La strage in Afghanistan. La seconda, ancora più inutile e devastante, guerra del Golfo. E i tanti attentati, dallEuropa allAfrica, allAsia”.

Anche sull’America Latina il Papa Giovanni Paolo II ha ancora qualcosa da dire. Sappiamo, però, quanto fu complicato il suo rapporto con quel continente…

Nel rapporto con lAmerica Latina va fatta piazza pulita di alcuni fraintendimenti. Nella concezione integralmente umana e cristiana di Karol Wojtyla, in ogni economia e in ogni società andavano garantite la destinazione universale dei beni della terra, la garanzia della proprietà privata come condizione indispensabile dellautonomia individuale, il rifiuto di considerare il lavoro come mera merce, la promozione di una ecologia umana, il ruolo sociale dello Stato, la necessità di una democrazia basata sui valori. Nellintervista concessa a Jas Gawronski il 2 novembre 1993 e pubblicata da «La Stampa», Giovanni Paolo II precisò che «il comunismo ha avuto successo in questo secolo come reazione ad un certo tipo di capitalismo eccessivo, selvaggio, che noi tutti conosciamo bene: basta prendere in mano le encicliche sociali, e soprattutto la prima, la Rerum Novarum, nella quale Leone XIII descrive la situazione degli operai a quei tempi». E, proseguì Karol Wojtyla, «lha descritto a suo modo anche Marx e la realtà sociale era quella, non cerano dubbi, e derivava dal sistema, dai princìpi del capitalismo ultraliberale». Quindi «è nata una reazione a quella realtà, una reazione che è andata crescendo e acquistando molti consensi tra la gente, e non solo nella classe operaia, ma anche fra gli intellettuali».Insomma, secondo il Papa cera un «nocciolo di verità nel marxismo e questa non è una novità, è stato sempre un elemento della dottrina sociale della Chiesa, lo diceva anche Leone XIII e noi non possiamo che confermarlo. Del resto è anche quello che pensa la gente comune. Nel comunismo c’è stata una preoccupazione per il sociale, mentre il capitalismo è piuttosto individualista”.

Un altro punto strategico, come hai ricordato prima, è quello dell’incontro di Assisi. Impressionante fu quell’incontro. Un incontro che alcuni, nella Chiesa, tentarono di ridimensionare. Ma che oggi, a distanza di anni, si può ben considerare una pietra miliare per il dialogo e la fraternità tra le religioni. È così?

La Giornata mondiale di preghiera per la pace (onorata dalla sospensione delle guerre in tutto il mondo, non una sola vittima) fu certamente liniziativa più audace, più coraggiosa, più “nuova” di Giovanni Paolo II, ma anche la più contestata. Lo stesso Wojtyla, seppure in tono scherzoso, raccontò di come per poco non lo scomunicassero”. Alcuni cardinali e non pochi curiali protestarono per il presunto sincretismo, per laver messo le religioni tutte sullo stesso piano. Ma non era stato così. Invece, quella Giornata rappresentò come uno spartiacque nella storia dei rapporti tra le religioni, dopo secoli di divisioni, di contrasti, di incomprensioni. Ed è stato un grande merito della Comunità di santEgidio, laver tenuta accesa la fiaccola” di Assisi e averla portata in giro in tutto il mondo. Giovanni Paolo II aveva maturato la convinzione che la sapienza” di Dio, anziché riservata solamente ad alcuni, fosse una porta spalancata a tutti gli uomini. Un punto di convergenza in cui i credenti delle diverse religioni avrebbero potuto riconoscersi come figli di uno stesso Padre e, addirittura, come fratelli . Una preghiera mondiale per la pace In più, cera da tener conto del continuo aggravarsi della situazione internazionale”. Alla fine, Giovanni Paolo II ebbe un quadro preciso, e ruppe ogni indugio: Una preghiera di tutte le religioni per la pace, ecco che cosa ci vuole”. E decise che la città di san Francesco fosse la sede più adatta per un evento del genere. E così fu così. Per la prima volta, il 27 ottobre del 1986, ad Assisi, i rappresentanti di tutte le religioni, ossia di più di quattro miliardi di donne e di uomini, si trovarono a pregare nello stesso luogo, nello stesso momento, per chiedere allAltissimo il dono della pace”. Le preghiere erano diverse. Diverso il modo di pregare. Diverso anche il destinatario”, alcuni rivolgendosi a un Dio unico, altri a un Assoluto impersonale, senza nome”.

E da ultimo il Papa del no alla guerra in Iraq e del dialogo con l’Islam. Cosa resta di questo insegnamento?
Resta limpostazione di fondo. Già nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo, Giovanni Paolo II, proponendo di metter mano a una riforma del diritto internazionale, aveva opposto un rifiuto assoluto al ricorso alle armi come strumento per regolare i rapporti tra gli Stati. «La guerra – diceva – è unavventura senza ritorno».«Non è una fatalità; essa è sempre una sconfitta dellumanità». E, tale convinzione, il Papa laveva immediatamente ribadita al profilarsi del secondo conflitto del Golfo (o guerra dIraq), per il quale non cera più nemmeno l’“attenuante” etica di dover porre rimedio a una invasione, quella del Kuwait. In più, nel giudizio di Wojtyla, questa operazione militare internazionale – per le motivazioni stesse che ne erano allorigine – portava in sé un carico enorme di pericolosità. Per il rischio di nuovi estremismi, e di «tremende conseguenze» sia per le popolazioni dellIraq sia per lequilibrio geopolitico dellintera regione mediorientale. Papa Wojtyla comunque non si era limitato a mettere in guardia i diretti responsabili, Saddam Hussein, presidente Usa e membri del Consiglio di Sicurezza. Si era anche adoperato – con i suoi strumenti”, sia spirituali che diplomatici – per una vasta opera di prevenzione. 113 Aveva proclamato una Giornata di digiuno e preghiera per la pace in Medio Oriente. Aveva parlato di quel gravissimo argomento con molti capi di Stato. E aveva inviato due suoi personali ambasciatori, a Baghdad e a Washington, per un estremo tentativo. Era stato il cardinale Roger Etchegaray, a incontrare i governanti iracheni. I quali, per la verità, si erano detti disposti a collaborare con gli ispettori delle Nazioni Unite (incaricati di verificare che venisse eliminato «ogni motivo di intervento armato»); ma si erano mostrati assai reticenti circa le accuse di possedere le cosiddette«armi di distruzione di massa», e di sostenere il terrorismo islamico. Atteggiamento non proprio negativo, ma fortemente ambiguo e, quindi, pericoloso. Laltro inviato pontificio, il cardinale Pio Laghi, aveva parlato con il presidente americano, George W. Bush. Il quale, senza neppure leggere la lettera inviatagli da Giovanni Paolo II, aveva risposto che comprendeva perfettamente le ragioni morali del Papa (secondo alcune fonti, invece, si sarebbe detto addirittura convinto che fare la guerra allIraq fosse la «volontà di Dio»), ma non poteva ormai tornare indietro. Anche perché aveva imposto un ultimatum di quarantotto ore a Saddam Hussein”.

Ultima domanda : alcuni circoli di cattolici di destra, supportati dai sovranisti, mettono in contrapposizione Giovanni Paolo II e PAPA FRANCESCO. Mi sembra unoperazione scorretta. Per te? 

Euna strumentalizzazione di corto respiro. Chi attacca oggi Bergoglio, criticava ieri Wojtyla. Torno allesempio iniziale. Per la prima volta nella storia, il 27 ottobre 1986, i leader delle grandi religioni mondiali si incontrarono per dialogare e pregare per la pace. Si aprì una nuova stagione di dialogo, che ha contribuito a superare incomprensioni, diffidenze e chiusure. “La pace è un cantiere aperto a tutti”, disse Giovanni Paolo II in un mondo segnato dalle tensioni della guerra fredda. 33 anni dopo Francesco ha chiuso in Vaticano il Sinodo dei vescovi sullAmazzonia. Una coincidenza di date che ha scatenato dietrologie negli ambienti ultra-trazionalisti che accomunano Giovanni Paolo II e Jorge Mario Bergoglio nellaccusa di eresia, sincretismo religioso e negazione del Magistero tradizionale della Chiesa”.

“La competizione tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini si sposterà sul Vaticano”. Intervista a Maria Antonietta Calabrò

Giorgia Meloni, Matteo Salvini (Ansa)

All’interno della destra italiana si sta sviluppando, in maniera ormai palese, una competizione, per l’egemonia politica e culturale, tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Una competizione  che toccherà anche gli ambienti vaticani e  quelli ultra conservatori statunitensi . Come si svilupperà? Ne parliamo con Maria Antonietta Calabrò, vaticanista, giornalista d’inchiesta all’Huffingtonpost .

 

Mariantonietta, nei giorni scorsi a Roma, al Plaza Hotel, si è svolto un convegno della “National conservative conference” (un Think tank internazionale ultra conservatore). Il titolo del convegno era emblematico: “Dio, onore, patria: il presidente Ronald Reagan, Papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”. C’erano diversi leader ultra conservatori europei, da Orban alla Meloni. Dei rilevanti aspetti politici parliamo dopo. Soffermiamoci prima sul titolo della Conferenza. Non trovi strumentale utilizzare il nome di San Giovanni Paolo II per una operazione in evidente contrasto con Papa Francesco? In nome di che cosa si usa la figura di Giovanni Paolo II?

“Appena ho saputo dell’iniziativa mi venuto in mente un detto che mi è stato riferito più di quindici anni fa, poco dopo l’elezione di Benedetto XVI. “Il Papa che va bene è sempre il Papa morto”. Anche la  Conferenza di Roma  non sfugge a questo aforisma. Giovanni Paolo II venne vissuto ai suoi tempi come un pericoloso destabilizzatole dello status quo, tanto che gli spararono. Anche dopo la caduta del Muro di Berlino venne attaccato per le sue aperture, concretizzatesi nello spirito di Assisi, per non parlare della sua ferma opposizione alla guerra in Iraq, del suo anatema contro i mafiosi e della sua critica al capitalismo selvaggio che lo trasformarono anche lui in un …”comunista”.

Quindi, l’operazione non è strumentale solo in rapporto al magistero di Papa Francesco, ma lo è per la memoria stessa del Papa Polacco.

Del resto gli organizzatori , riguardo  a Papa Francesco, hanno fatto un po’ male i loro conti. Visto che fu proprio Wojtyla a nominare cardinale Bergoglio. Secondo me il tentativo fatto a Roma, di brevissimo respiro, ha a che fare con la necessità di tentare di  trovare una nuova “sponda” in una figura che è stata Papa, visto che il riferimento che questa destra ha fatto negli ultimi anni al Papa emerito,  Ratzinger, ha perso, strada facendo, molto del suo appeal”.

E cioè?

“Il riferimento ad un essere cristiani “  et si Deus non daretur,” anche se Dio non esistesse, ha fatto il suo tempo . Il fatto è che lo stesso Ratzinger ne ha preso pubblicamente le distanze, già molti, molti anni fa.  Lo stesso  risulta nei documenti preparatori della sua Enciclica “Caritas in veritate” (2009), che ho pubblicato pochi mesi fa sull’Huffingtonpost. La formula degli atei devoti è sopravvissuta a lungo, ma solo sui media”.

 

Sappiamo benissimo che Gíovanni Paolo II era un anticomunista tenace, ma non era un uomo di destra. Le sue encicliche sociali parlano chiaro. E poi era un grande europeista.Lo stesso Reagan non era come Trump. Insomma se l’intento era di dare un’ anima agli ultra conservatori mi sembra che sia venuta fuori solo una “furbata ” per interessi politici… È così?

“Si, ma  bisogna intendersi su cosa si vuole dire con la parola politica. Mi sembra che si tratti di un tentativo di fornire un apparato ideologico-valoriale a movimenti, personaggi e anche partiti politici chenon  hanno sufficienti radici ideali. E’ il dramma di questa galassia di destra millennials: che va dallo scrittore conservatore Rod Dreher al cattolico austriaco che ha buttato nel Tevere la statuetta lignea della Pachamana”.

 

Al Convegno ha partecipato Giorgia Meloni. La stessa Meloni ha partecipato, a Washington, al “National prayer breakfast”. Ci puoi spiegare perché questo evento è così importante per gli ambienti USA e perché questa apertura di credito nei confronti di Giorgia Meloni? Agli occhi degli USA perché è più affidabile rispetto a Salvini?

“Io penso che la Meloni stia cercando un rapporto Oltreoceano, che con il suo partito non c’è mai stato. Alla fine non ha avuto l’opportunità di nemmeno una foto con Trump. Ha potuto salutare il Segretario di Stato Mike Pompeo. Salvini ebbe un incontro nel giugno dello scorso anno con Pompeo, al dipartimento di Stato , ma era vicepresidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, e non andò affatto bene. Dopo due mesi la Lega e’ uscita dal  governo. Ed è arrivato “Giuseppi” (Conte).

L’evento del National parer breakfast risale al diciottesimo secolo, e ha avuto una nuova forma in base ad una legge del 1951. E’ un evento cui per legge deve partecipare il Presidente degli Stati uniti in carica, per sollecitare il popolo americano a ricorrere alla preghiera. Da noi sarebbe impensabile. Invece il  legame tra la vita civile della nazione americana e il rapporto con Dio è profondo: sulla moneta è inciso il motto “in god we trust”, il giorno del suo insediamento, il Presidente giura sulla Bibbia, non sulla Costituzione”.

 

Matteo Salvini, nei mesi scorsi, aveva ricevuto la “benedizione” del Cardinale Ruini, ex potentissimo presidente della CEI. Che tipo di conseguenze ha avuto la benedizione ruiniana? E come si sta muovendo Salvini nel mondo cattolico italiano?

“Lo  schema riuniamo non è storicamente più riproponibile. Assolutamente. Magari Salvini stravince le prossime elezioni, quando si tornerà a votare. Ma  se ciò avverrà ,le avrebbe stravinte comunque. Voglio dire che le potrebbe stravincere, non perché incamera i voti cattolici, ma  proprio perché l’Italia non è più ormai un paese cattolico”.

 

Opus Dei e Comunione e liberazione: come guardano a questi movimenti all’interno della destra italiana?

“Non guardano, secondo me. Francamente. Con tutti i loro limiti, si tratta di due strutture pienamente ecclesiali e quindi in comunione con il Papa, che è uno solo e che è Francesco”.

 

E la C E I come reagisce a queste manovre? 

“L’ha ben detto il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della CEI , chi non perde occasione di attaccare il Papa, chi pensa che la barca di Pietro sia troppo stretta, se ne faccia una ragione e vada da qualche altra parte”.

 

Per concludere pensi che, nei prossimi mesi, si svilupperà maggiormente la “gara” tra Salvini e Meloni per conquistare il voto cattolico?

“Ribadisco, che oggi come oggi, a livello di opinione pubblica diffusa, non esiste più un sentimento cattolico della popolazione. Ma penso che la Meloni porterà la competizione con Salvini anche per rapporto alla Chiesa ed in particolare al Vaticano.    Saprà essere più sottile e rassicurante. E’ una donna: è più duttile, meno grezza. Anche perché baciare rosari e farsi i selfie a Medjugorie, alla fine, non aggiunge molto. Se non la volontà di accaparrarsi per la propria politica delle pratiche religiose, ma poi trasforma questo in folclore e lascia il tempo che trova. Pochi giorni fa è stata pubblicata una bellissima copertina del Tablet in cui si vede Papa Francesco contendere lo stivale della penisola italiana a Salvini. Per il momento, forse, ci è riuscito”.

“Nel sovranismo ‘l’uomo forte’ alimenta un clima di egoismo e di nazionalismo esasperato”. Intervista a Padre Bartolomeo Sorge SJ

Anche nell’ambito del mondo cattolico italiano il “sovranismo” sta facendo discutere gli intellettuali, i teologi e i laici impegnati in politica. Sappiamo che Papa Francesco, nel suo Magistero sociale, ha più volte, anche con parole dure, messo in guardia dai pericoli del populismo e del sovranismo. Ma quali sono, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, i limiti di questo orientamento politico?  Il cattolicesimo democratico ha ancora un ruolo nella società italiana?  Quali sono le “strutture di peccato”che condizionano gravemente la politica italiana? Di tutto questo parliamo con un grande protagonista del cattolicesimo italiano: Padre Bartolomeo Sorge. Padre Sorge, gesuita, è  stato per molti anni direttore di due prestigiose riviste cattoliche: La Civiltà Cattolica e Aggiornamenti Sociali. Ha inoltre diretto l’Istituto Pedro Arrupe di. Palermo. Nel suo lungo apostolato intellettuale ha collaborato alla stesura di documenti importanti del Magistero della Chiesa. E’ autore di numerosi saggi. Tra gli ultimi ricordiamo quello scritto con la politologa Chiara Tintori: Perché il populismo fa male al popolo. Le deviazioni della democrazia e l’antidoto del «popolarismo» (Ed. Terra Santa, 2019).

 

Nell’ultimo rapporto CENSIS c’è un punto che ha colpito molto l’opinione pubblica: un italiano su due «spera nell’«uomo forte al potere», che non debba preoccuparsi di parlamento ed elezioni. Tutto questo in un quadro sociale sempre più «incattivito» e ansioso. Che spiegazione si è dato in questa «speranza» nell’uomo forte?

Il rapporto CENSIS conferma la crisi della democrazia rappresentativa in Italia. Questa, che è la forma più alta di democrazia finora sperimentata, dava sicurezza ai cittadini, perché poggiava sulle ideologie di massa, le quali garantivano coesione, ispirazione ideale e speranza. Nello stesso tempo, l’esistenza di partiti ideologici, fortemente strutturati grazie al «centralismo democratico», facilitava e in certa misura imponeva la partecipazione dei cittadini alla elaborazione e al controllo della politica nazionale.

Venute meno le ideologie di massa (smentite dalla storia), sono venuti meno di conseguenza i partiti ideologici, e i cittadini si sono trovati sbandati e insicuri. A questo punto, il bisogno innato di sicurezza che tutti abbiamo ha alimentato l’illusione che il superamento della crisi di fiducia e dello sbandamento seguiti alla fine dell’era ideologica, si sarebbe ottenuto affidando il potere a un solo «uomo forte». Sono nate così le due pseudo-ideologie del populismo e del sovranismo.

Nel populismo, l’«uomo forte» esercita il potere, richiamandosi direttamente al popolo, praticamente ignorando le intermediazioni istituzionali, caratteristiche della democrazia rappresentativa. E’ rimasta famosa la frase di uno di questi «pseudo-salvatori della patria»: «Anche se la Magistratura mi condanna, non importa; c’è il popolo che mi vota!» E’ evidente che, negando l’equilibrio e l’autonomia dei diversi poteri, si distrugge la democrazia rappresentativa.

Nel sovranismo invece l’uomo forte mira a ottenere democraticamente i «pieni poteri»; si atteggia, perciò, a difensore dei confini, dei valori e dell’identità nazionale («prima gli italiani!»), e non esita perfino a strumentalizzare la fede e i simboli religiosi. Così facendo, però, alimenta e diffonde un clima di odio, di egoismo, di razzismo e di nazionalismo esasperato..

Papa Francesco, con il suo magistero evangelico sociale, in questi anni ha messo in guardia contro i pericoli del populismo e del sovranismo. Ciononostante, diversi cattolici, anche fra la gerarchia, subiscono il fascino sovranista. Perché? Qual è la cosa più pericolosa del sovranismo?

I cattolici sono particolarmente sensibili alle ragioni appena ricordate. Del resto. non è la prima volta che membri del clero e della Gerarchia si lasciano affascinare dalla difesa  che l’«uomo forte» ostenta di alcuni valori che stanno a cuore alla Chiesa ai credenti, quali la difesa della vita, l’indissolubilità del matrimonio, l’affissione pubblica del crocifisso e altre forme di religiosità. Non ci si rende conto che la «buona politica» non consiste solo nel tutelare l’uno o l’altro valore fondamentale, se contemporaneamente – come avviene in tutte le dittature – si negano la libertà e altri diritti essenziali alla convivenza umana.

 

Le chiedo: come studioso della “Dottrina sociale” della Chiesa, la quale è molto attenta alle ragioni dei poveri, c’è una via per riavvicinare la democrazia ai poveri?

La grave questione del rapporto tra democrazia e povertà non si risolve con l’assistenzialismo (sebbene in certi casi, esso sia necessario), ma il problema va affrontato all’origine e alla radice, cioè eliminando le disuguaglianze. Tuttavia, ciò non è possibile, se la politica non ricupera la tensione etica e ideale, oggi smarrita, se la politica economica, in particolare, non è orientata al bene comune, che oggi è costantemente sacrificato alla ricerca del profitto e di altri’interessi settoriali. La politica finanziaria non può essere fine a se stessa. Nello stesso tempo, però, occorre trovare il modo di interpellare direttamente i poveri e le periferie sociali ed esistenziali, coinvolgendoli come soggetti responsabili del loro stesso sviluppo e non considerandoli solo un obbiettivo da raggiungere o un problema da risolvere. Si tratta, in altre parole, di realizzare una «democrazia matura».

Qual è la «struttura di peccato», per usare un termine della dottrina sociale della Chiesa, che condiziona la politica italiana?

Purtroppo non ce n’è una sola, ma le strutture di peccato che condizionano la nostra politica nazionale sono numerose e di natura diversa.  Alcune ci sovrastano dall’esterno, come per esempio il sistema economico internazionale, che – in questa stagione di progressiva globalizzazione – sono quelle che più generano disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo e nello sviluppo dei singoli popoli, fino a «uccidere», come denuncia papa Francesco. Vi sono poi molte altre «strutture di peccato», prive di solidarietà, che mirano esclusivamente al proprio profitto (si pensi, per esempio, ai paradisi fiscali, alle mafie e alle varie forme di organizzazione del crimine e della corruzione, all’industria della guerra e degli armamenti) e impediscono la nascita di una società fraterna e giusta, inclusiva, in grado di armonizzare sviluppo e integrazione.

Un autorevole Cardinale, in una intervista al Corriere della Sera,  ha affermato che il cattolicesimo democratico ha esaurito la sua rilevanza Le chiedo: il cattolicesimo democratico può avere ancora un ruolo in questa Italia egemonizzata dalla cultura «sovranista»?

Il cattolicesimo democratico non ha affatto esaurito la sua forza propulsiva. Grazie anche al ruolo determinante e insostituibile che esso ha avuto sia nella rinascita del Paese, dopo  le devastazioni dell’ultima guerra mondiale e del ventennio fascista, sia nella elaborazione della Carta costituzionale, i cui principi fondamentali concordano con la tradizione cattolico-democratica (in piena sintonia con la dottrina sociale della Chiesa): personalismo, solidarietà, sussidiarietà, bene comune. Ecco perché i grandi protagonisti del cattolicesimo democratico, da De Gasperi a Moro, non hanno perduto il loro valore ideale ed esemplare, sebbene la loro figura e la loro prassi partitica non siano più riproducibili nella mutata società dei nostri giorni, post-ideologica, secolarizzata e globalizzata.

Ci sono stati tentativi, anche recenti, di ricostruzione di strumenti politici cattolici (partiti d’ispirazione cristiana), mentre anche la Chiesa italiana insiste sulla esigenza di una presenza politica dei cattolici più efficace. C’è una via per un rinnovato protagonismo laicale profetico?

La presenza di un partito d’ispirazione cristiana (quali furono il Partito Popolare prima e la DC poi) si era resa necessaria nell’epoca delle ideologie di massa, quando votare per un partito significava scegliere una determinata ideologia, cioè preferire l’uno o l’altro tra modelli alternativi di società. La DC, perciò, incarnava l’ideologia «cattolica», contrapposta all’ideologia «comunista» e a quella «liberista».  Oggi, nell’era post-ideologica e della globalizzazione, i partiti sono sempre necessari, ma non ha più senso parlare di «partiti ideologici». Tanto meno ha senso parlare di partito o di politica «cattolici», dopo il Concilio Vaticano II. Nel mondo globalizzato non c’è più spazio per le vecchie contrapposizioni ideologiche. C’è bisogno invece di una «buona politica» universale, fondata su un nuovo umanesimo comune. E’, questa, una mèta difficile da raggiungere, perché è difficile cambiare mentalità, dopo cinquant’anni di battaglie e di lotte ideologiche; difatti non abbiamo ancora trovato quale nuova forma di presenza i cattolici debbano adottare per contribuire a realizzare una «buona politica» universale, condivisibile da tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle vecchie appartenenze ideologiche. Papa Francesco ha dedicato a questo tema alcuni densi paragrafi della sua prima enciclica Evangelii gaudium (nn. 223-233), che devono ancora essere ben capiti, approfonditi e applicati. Ecco perché educare e formare soprattutto i giovani alla ricerca di nuove forme d’impegno sociale e politico dovrebbe essere una delle più importanti preoccupazioni pastorali della Chiesa. Un po’ come fece in Italia, a suo tempo, Pio XI, quando, durante la dittatura fascista, si preoccupò di preparare all’impegno sociale e politico una schiera di laici maturi, attraverso l’Azione Cattolica e l’Università Cattolica di Milano.

Se dovesse indicare a un giovane che vuole impegnarsi seriamente in politica una figura cui ispirarsi, per esemplarità, chi consiglierebbe?

Avrei solo l’imbarazzo della scelta… Preferirei, perciò, spiegargli la bellezza dell’impegno politico in sé. Insisterei sul fatto che dedicarsi alla politica è una «vocazione» e non una professione come un’altra qualsiasi. Infatti, vi sono scelte professionali che suppongono la vocazione, in quanto esigono la donazione totale di se stessi al servizio degli altri e del bene comune, rinunziando a cercare il proprio interesse e la propria affermazione; così avviene, per esempio, per un medico o per un sacerdote. Avere la vocazione significa soprattutto realizzare nella propria vita la sintesi tra spiritualità (tensione etica e ideale) e professionalità. Per essere bravi politici (o medici o preti) non basta essere «santi», ci vuole anche la preparazione professionale; ma non può  bastare la sola professionalità, se manca la «santità», cioè la dimensione oblativa, tipica di chi vive un ideale.

In questi mesi si è affermato il movimento delle «sardine». Cosa L’ha colpita di più?

Il fenomeno delle «sardine» costituisce una reazione positiva della coscienza democratica di fronte ai fenomeni patologici del populismo e del sovranismo e di fronte alla crisi e all’inerzia dei partiti. Le «sardine» quindi vanno viste come un segnale positivo, una ventata di aria nuova e fresca! Tuttavia, è ancora presto per giudicare quali siano la reale consistenza del movimento e il suo vero messaggio politico. Siamo di fronte a una gemmazione: può crescere e svilupparsi, ma potrebbe anche «bruciarsi» e seccare.

Ultima domanda: Lei ha un sogno per l’Italia?

Più che un sogno è un voto e un impegno: che tutti gli italiani imparino a vivere uniti, rispettandosi diversi.

 

(Ha collaborato Chiara Tintori)

“Mi auguro che il Pd possa presentarsi come uno sbocco accogliente e interessante per le Sardine”. Intervista a Giorgio Tonini

Sono giorni di acuta fibrillazione per la maggioranza governativa. Infatti è alla ricerca di una possibile mediazione sulla prescrizione. Non sarà facile mediare tra due rigidità contrapposte: quella di Renzi e quella del ministro Bonafede. Intanto nel PD, dopo lo scampato pericolo in Emilia-Romagna, si è aperto un dibattito sulle prospettive future di quel partito. Ne parliamo, in questa intervista, con Giorgio Tonini Capogruppo Pd nel Consiglio della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige ed esponente di spicco dell’anima liberal del PD.

Giorgio Tonini, mi consenta, prima di addentrarci nel tema principale della nostra conversazione (il PD), di fare una domanda di stretta attualità politica. Ovvero non è che Matteo (Renzi) sta esagerando sulla prescrizione? I toni sono apparsi un po’ troppo “salviniani”… il governo avrebbe bisogno di coesione… Invece qui siamo all’opposto, non le pare?
Sulla prescrizione sono sostanzialmente d’accordo con Matteo Renzi, che del resto sta ripetendo e rilanciando le ragioni del no del Pd alla riforma voluta e imposta dal M5S ai tempi del governo con la Lega. Lega che ora strilla e strepita, ma quando era al governo, quella riforma ha subìto e votato senza fare una piega. Penso che non possa non esserci, nel nostro ordinamento giuridico, un termine che traduca in pratica il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi. Per evitare l’abuso delle prescrizioni bisogna sveltire la macchina della giustizia, non allungare indefinitamente i tempi. Detto questo, se si decide di andare al governo coi grillini, e Renzi ha deciso questo, anche forzando la parte più scettica del Pd, non si può non sapere che su temi come questi, posto che a nessuno si può chiedere l’abiura delle posizioni sostenute, è inevitabile ricercare e costruire faticose mediazioni. Renzi finge di ignorare questa elementare verità.
E finisce così per comportarsi come, ahimè, si comportano tutti i partitini, che hanno
l’ossessione della visibilità. Anche a costo di minare la coesione e la stessa credibilità
delle coalizioni di governo di cui fanno parte. È una dura legge della politica, che prescinde
in una certa misura dalla volontà soggettiva dei singoli leader. Una legge che ho visto
drammaticamente all’opera nel Senato diviso in due come una mela al tempo dell’Unione
(2006-08). Fu anche per superare quella situazione che nacque il Pd.

Parliamo del PD. Il successo di Bonaccini, in Emilia – Romagna, ha portato una boccata di ossigeno ai Dem. Al di là della particolarità regionale, c’è una lezione che può valere per l’intero partito?
La prima lezione, la più importante, è che non bisogna mai dimenticare che in democrazia
nulla è per sempre e che qualunque vittoria e qualunque sconfitta sono sempre reversibili.
Nel nostro dibattito pubblico c’è invece troppa emotività legata a situazioni contingenti.
Ricordo ancora lo psicodramma, in parte abilmente provocato, ma in parte anche sincero,
che si aprì nel Pd nel 2008, dopo la (inevitabile e assai onorevole) sconfitta di Veltroni, col
33 e mezzo per cento e 12 milioni di voti. Nei mesi successivi, come accade in tutte le
democrazie del mondo, i sondaggi premiarono Berlusconi (si chiama “luna di miele” e
gratifica tutti i governi…) e punirono il Pd, a vantaggio di Italia dei valori, il movimento di Di
Pietro che aveva preso il 4 per cento alle elezioni e veniva accreditato dell’8. C’era chi sosteneva che il Pd era già morto e il futuro del centrosinistra era l’ex-pm… Bene, io penso
che la prima lezione del voto emiliano è che bisognerebbe lasciarsi meno impressionare
dalle istantanee e sforzarsi un po’ di più di cogliere le tendenze di medio-lungo periodo, le
uniche sulle quali si possa ragionevolmente intervenire. Con pazienza e tenacia, due virtù
sconosciute ad un sistema politico-mediatico ossessionato da quello che Tomaso Padoa-
Schioppa chiamava lo short-termismo.

Il successo emiliano, però, ha messo in evidenza dei limiti grossi del riformismo di quella regione. Ed è anche un limite di tutto il riformismo a livello nazionale. Ovvero la distanza dai piccoli centri e dalle periferie…
Uno dei fenomeni di medio-lungo periodo evidenziati dal voto emiliano è in effetti il
dualismo tra aree urbane e aree rurali/montane e tra grandi e piccoli centri. La sinistra è
forte in città e la destra (in particolare la Lega) nelle campagne. Non è una novità. Già
dieci anni fa il sociologo bolognese Fausto Anderlini aveva segnalato la massiccia
infiltrazione della Lega nelle aree periferiche dell’Emilia Romagna. E aveva rilevato come
la persistente egemonia del centrosinistra in quella regione, specularmente alla situazione
del Veneto, fosse dovuta proprio alla prevalenza demografica delle aree urbane. Anderlini
ammoniva il centrosinistra rispetto all’emergere di una nuova insidia: il manifestarsi e lo
strutturarsi, principalmente nelle aree urbane, del M5S, che rischiava di svuotare
dall’interno il principale bacino elettorale del Pd, come in effetti è avvenuto negli anni
successivi. È stata proprio la riconquista del proprio elettorato urbano, grazie al declino del
M5S, la principale spiegazione del successo del Pd e di Bonaccini. Ma proprio per questo
la vittoria del centrosinistra in Emilia, che pure testimonia la resilienza del Pd e la sua
possibile ritrovata superiorità competitiva rispetto alla minaccia di erosione da parte del
M5S, non segna affatto il superamento delle ragioni strutturali del primato della destra,
oggi a guida leghista, nel nostro paese.

Insomma dove c’è più bisogno di proteggere, il PD non c’è. Una brutta eterogenesi dei fini per una forza di sinistra. Non è venuto il tempo di elaborare una idea di sinistra per la “protezione”? Perché lasciare alla propaganda securitaria della Lega questo tema?
È un grande tema europeo e occidentale. Provo a rispondere con le parole di Branko
Milanovic, che sull’ultimo numero di “Foreign Affairs”, dedicato al futuro del capitalismo,
scrive che “Il malessere occidentale rispetto alla globalizzazione è in gran parte il prodotto
del gap tra la ristrettezza numerica delle élite premiate dalla globalizzazione stessa e le
masse che ne hanno tratto ben modesti benefici e, più o meno fondatamente, identificano
nel commercio globale e nell’immigrazione le cause dei loro mali”. Rispetto a questo
malessere, le forze politiche di sinistra vengono percepite come impotenti, se non
addirittura complici. E se non è visibile nessuna realistica prospettiva di tutela e
promozione degli interessi deboli dentro la globalizzazione, si finisce per considerare
come unica risorsa disponibile l’opposizione alla globalizzazione in quanto tale, attraverso
le forze politiche, sociali e culturali di stampo populista, sovranista, identitario. In quello
stesso saggio, Milanovic sostiene (e per quanto mi riguarda condivido questa sua
posizione) che non sarà il ritorno ad un vecchio schema socialdemocratico la via d’uscita
della sinistra dalla sua crisi. Piuttosto servono vie nuove, come quella che lo stesso
Milanovic definisce “People’s capitalism”, capitalismo popolare, “simile al capitalismo
socialdemocratico nella preoccupazione per la disuguaglianza, ma proteso verso un tipo
diverso di uguaglianza, centrato non più tanto sulla redistribuzione del reddito, quanto su
quella degli asset, in particolare finanziari, e di skill, di profilo formativo e professionale”.
Suggestioni interessanti, ma siamo, come si capisce, molto indietro rispetto all’urgenza di definire una proposta programmatica convincente e vincente. Una proposta che peraltro
dovrà assumere una dimensione europea. E questo, stante l’attuale stato di salute
dell’Unione, è un problema nel problema.

Ora per Zingaretti è prioritario aprire il PD, “spalancare” le porte, per usare una espressione di Papa Wojtila, a tutto il campo progressista. Però, paradossalmente, non è un limite? Voglio dire che Bonaccini è stato in grado di raggiungere altri lidi, lo stesso Beppe Sala vince perché raggiunge mondi diversi. Qual è il suo pensiero? E ancora: questa apertura, che cerca Zingaretti, implicherà una rottura delle oligarchie interne? Qui c’è il tema della cessione di potere alla società civile…
Quello dell’apertura alla società civile è un tema permanente nella vicenda storica dei
grandi partiti, che tendono sempre a stabilizzare il primato del gruppo egemonico, anche a
prezzo di perdere una quota di consensi. Il Pd si è proposto sin dalle origini come “partito
aperto”, sul piano organizzativo, e “a vocazione maggioritaria”, su quello politico e
programmatico. Siamo tuttavia lontani dal raggiungimento di questo modello. Al contrario,
il Pd in questi anni ha conosciuto una grave involuzione oligarchica, che ha segnato un
ritrovato controllo dell’establishment correntizio sul partito, attraverso la gestione delle
carriere politiche. Basti pensare ai criteri con i quali è stata composta la delegazione del
Pd al governo: l’antico manuale Cencelli lasciava più spazi alla fantasia… La progressiva
chiusura su se stesso del partito “aperto” (si pensi al rarefarsi del ricorso alle primarie
come strumento per rendere effettivamente contendibili le candidature, almeno alle
cariche monocratiche) ha portato anche ad un parallelo, progressivo appannarsi della
“vocazione maggioritaria”, fino a revocare in dubbio l’identità stessa del Pd come Casa
comune dei riformisti. Al contrario della tensione unitaria e unitiva che caratterizzava
l’Ulivo e poi il Pd delle origini, basati sulla scommessa che l’incontro tra forze e tradizioni
politiche diverse fosse elettoralmente oltre che politicamente espansivo, fino a raggiungere
ceti, interessi, culture collocati ben oltre i tradizionali confini della sinistra, oggi assistiamo
ad una nuova, pericolosa tendenza alla divisione e alla frammentazione. Mi auguro che
Zingaretti voglia e riesca ad invertire questa tendenza e a rilanciare in termini innovativi la
duplice impresa del partito aperto e a vocazione maggioritaria.

Parliamo delle “6000 Sardine”. Le Sardine hanno fatto un grande lavoro di “coscientizzazione” nel popolo del centrosinistra e non solo. Però, in questi giorni, sono uscite delle fibrillazioni causate da una fotografia con Benetton. È stato un brutto scivolone certamente. Forse per loro è suonata una campana d’allarme?
Il principale motivo dell’interesse che hanno suscitato in me le “Sardine” è stato il loro
presentarsi come un movimento contro la politica “contro” e per una politica “per”. In
questo senso hanno ricreato il clima dell’Ulivo di Prodi e del Pd di Veltroni. Dopodiché,
sappiamo che questi movimenti, che in alcuni tornanti storici possono giocare un ruolo
decisivo, sono strumenti monouso. Mi auguro che il Pd possa presentarsi come uno
sbocco accogliente e interessante per le energie, in particolare giovanili, che con quel
simbolo solo apparentemente leggero (come l’ulivo anche il pesce è un antico simbolo
cristiano…) si sono radunate e ritrovate. Alle elezioni emiliane, a me pare che le “Sardine”
abbiano rappresentato il principale veicolo simbolico del ritorno al Pd dei voti persi in
direzione del M5S. Un “effetto collaterale” provocato dalla bulimia comunicativa di Salvini e
del suo messaggio estremistico e divisivo. Col suo invadente presenzialismo nella
campagna elettorale emiliana, Salvini ha ripolarizzato fortemente lo scontro sull’asse
destra-sinistra, ridimensionando l’altro crinale, quello vecchio-nuovo. Salvini ha così
prosciugato l’acqua nella quale nuotavano i grillini che sono tornati al centrosinistra in
forma di sardine. Ma per le ragioni strutturali descritte da Anderlini, se prevale l’asse destra-sinistra, in una regione come l’Emilia-Romagna, finisce per vincere la sinistra. Una
strategia suicida, quella del leader della Lega, se si pensa che gli sarebbe bastata una
cifra elettorale appena più alta dei grillini per assicurarsi la vittoria. Dopo il pesante
fallimento della prova di governo e la sconcertante ingenuità con la quale ha condotto la
manovra di palazzo che avrebbe dovuto portare alle elezioni anticipate, Salvini esce dalle
elezioni emiliane fortemente ridimensionato anche come stratega elettorale. Il che non
significa, almeno nell’immediato, che non resti fortissimo sul piano del consenso.

Zingaretti dice: siamo tornati al bipolarismo “destra-sinistra”. Le chiedo come si fa a concepire un nuovo bipolarismo quando i 5 Stelle continuano nella loro ambiguità e l’accordo, tra le forze di governo, prevede una forte legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5%?
Dalle elezioni regionali (tutte, non solo quelle dell’Emilia-Romagna) è emersa una
conferma dello schema bipolare lungo l’asse destra-sinistra. Credo tuttavia che sia un
errore ragionare di legge elettorale avendo presente il panorama politico (e magari, perfino
i rapporti di forza) di una determinata stagione. È una delle varianti più gravi di quello che
prima, citando Padoa-Schioppa, chiamavo lo short-termismo. Per me la legge elettorale
deve garantire la rappresentanza, ma anche combattere la frammentazione e soprattutto
consentire ai cittadini di decidere chi debba governare. Mi piacerebbe che il Pd si sedesse
al tavolo del confronto con questa visione ben chiara. Poi sulle scelte tecniche si possono
fare tutte le mediazioni. Purché sia chiara la visione di democrazia che proponiamo. E si
provi a tradurla in una legge elettorale che valga se non per sempre, per un arco
temporale di lungo respiro.

Ultima domanda: Qual è l’avversario più temibile, nella destra, Giorgia Meloni o Matteo Salvini?
Oggi il leader della destra è Salvini, domani non sappiamo. Perché i leader passano, gli
schieramenti, la destra e la sinistra, si modificano, evolvono o involvono, ma restano. Per
questo ho sempre trovato, non saprei dire se più penose o più risibili, le scissioni motivate
da questioni contingenti. Una volta si usciva da un partito in base al giudizio sull’Unione
Sovietica. Oggi si lascia perché non si condivide un segretario o una scelta di governo. Ma
la politica democratica ha bisogno di istituzioni forti e di partiti grandi e stabili. Non
dell’inseguimento di mode passeggere.

“IL CORONAVIRUS PESERÀ GRAVEMENTE SUL PIL DELLA CINA”. Intervista a Simone Pieranni

Il “coronavirus” sta creando una vera psicosi mondiale. Alimentata, anche, dalla diffusione di Fake News.  Intanto, nell’opinione pubblica internazionale , si fanno possibili previsioni sulle ricadute socio-economiche. Con Simone Pieranni, giornalista del quotidiano Il Manifesto e co-fondatore del sito di informazione “China Files”, facciamo il punto su alcune conseguenze , pesanti , dell’epidemia.

Simone Pieranni, il coronavirus si sta allargando anche in altre zone del  pianeta. Ultimi casi sono quelli dello Skri Lanka e della Germania. Possiamo dare qualche numero verificato sulle vittime e sui contagi? 

I numeri verificati sono forniti ogni giorno dai media cinesi e da alcune organizzazioni internazionali. Sono numeri dichiarati, ma non è detto che ci siano casi che ancora non sono stati registrati. In particolare sul numero dei contagiati non mi pare ci sia ancora una certezza. C’è anche chi dubita che i numeri “cinesi” siano realistici ma al momento nessuno pare in grado di fare una stima realistica al 100%

Come si è sviluppato il virus?

Stando alle ricostruzioni, le prime persone contagiate sarebbero lavoratori del mercato ittico di Wuhan, da qui la considerazione che tutto sia partito da lì, dalla macellazione non proprio ottimale di qualche animale selvatico in vendita (nonostante il mercato sia in teoria “ittico”). Sembra chiaro che tutto sia partito

da lì, del resto anche la Sars pare sia partita da uno zibetto…

Sappiamo, quando scoppia una epidemia, quanto sia strategica e fondamentale la circolazione di notizie fondate. Come giudichi il comportamento, al riguardo, del governo cinese: Si è mosso in ritardo? È aperto veramente alla cooperazione internazionale?

La Cina ha tutta una serie di caratteristiche che ben sappiamo, una di queste è la censura che viene operata sui media e sui social.

Ma in questo caso il ritardo non è stato dovuto a questo, quanto alla relazione tra centro e periferia. Il sindaco di Wuhan ha detto che la responsabilità – come stabilisce effettivamente la legge cinese – per annunciare emergenze sanitarie spetta al consiglio di stato, ma di sicuro a Wuhan è stata sottovalutata o si è ritenuto meglio non allarmare subito Pechino. Dopo questa impasse la Cina è partita spedita come suo solito, mentre stando a quanto si dice nella comunità scientifica i medici cinesi sono stati rapidi a condividere ogni informazione sul virus in loro possesso.

Fa impressione leggere di milioni di persone, in Cina, messe in quarantena. La cifra di 56 milioni è mostruosa. È realistica una cifra del genere, ma soprattutto è efficace?

La cifra è realistica perché solo Wuhan fa 11 milioni di abitanti. Sull’utilità delle quarantene ci sono dibattiti storici, ma generalmente, pur essendo una misura che è stata presa più volte, si può che dire che sia utile ma non completamente risolutiva. A Wuhan, ad esempio, prima della quarantena almeno 5milioni di persone sarebbero andate via. Significa che sono in giro per il paese o all’estero senza che si sappia la loro condizioni di salute. Quindi chiudere Wuhan non è sufficiente al contenimento del virus.

Sappiamo di Multinazionali che hanno lasciato la zona di Wuhan. Quanto pesa l’epidemia sulla economia cinese e quali danni ha fatto e potrà ancora fare? 

Sull’economia cinese potrebbe pesare, stando a diversi studi, tra 1.5 e 4 punti di Pil. Sarebbe una vera crisi economica. Inoltre la chiusura del paese fa si che i milioni di cinesi che solitamente alimentano l’industria del turismo non ci saranno. Allo stesso tempo ne risentiranno i brand di lusso, oltre alla compagnie aeree. Infine, la Cina è la fabbrica del mondo: uno stop alle attività produttive finirà per creare scompensi di natura globale.

Dicevamo della importanza della circolazione delle informazioni. In questi giorni abbiamo avuto, anche, la diffusione di Fake news. Quali sono state le più clamorose, diffuse non solo dai social ma anche da testate giornalistiche?

La più clamorosa è quella secondo la quale la Cina stava compiendo esperimenti per la guerra batteriologica, ma ce ne sono di ogni tipo, ogni giorno ce n’è una nuova. In generale si tratta di notizie infondate o non verificate, spesso utilizzate solo per fare qualche clic. la verità è che questo crea allarmismo ingiustificato.

La conseguenza di questa diffusione di Fake news è che spesso alimentano la sinofobia. Abbiamo avuto, in questi ultimi giorni, episodi pesanti in Italia di crescita della sinofobia?

Sì ce ne sono stati diversi, aggressioni e in generale un atteggiamento sospettoso quando non direttamente ostile nei confronti dei cinesi.

Come sta reagendo la comunità cinese italiana a questi fenomeni?

Le comunità di Roma e Milano hanno emesso dei comunicati nei quali chiedono solidarietà e non bieco razzismo. Ma purtroppo alcuni pregiudizi, unitamente alle fake news di cui parlavamo prima, nonché a certi titoli di quotidiani, non favoriscono questo processo di tolleranza.