“Governo e Mittal vicinissimi all’accordo”.  Intervista a Giuseppe Sabella

 

L’affaire Ilva sembrava approdato su un binario morto, anche perché la tensione montata sulle elezioni regionali – in particolare in Emilia Romagna – pareva rendere incerta la tenuta dell’esecutivo. La vittoria di Bonaccini ha dato fiato al governo e, così, anche il dossier Ilva è a un punto di svolta. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0, secondo il quale “governo e ArcelorMittal sono molto vicini ad accordarsi”.

Sabella, a che punto è la situazione?
La trattativa sembrava essersi incagliata e lo sarebbe stata se in Emilia Romagna avesse prevalso la candidata della Lega Lucia Borgonzoni, la cui vittoria avrebbe innescato una forte turbolenza per il governo. Anche la rottura consumata nell’emisfero a cinque stelle non è certamente un fatto positivo per la tenuta del Conte 2. La vittoria di Bonaccini ha però allontanato il fantasma di una crisi di governo – non di un probabile rimpasto – e ha restituito centralità al dossier Ilva, anche in ragione delle imminenti scadenze giudiziarie.

Come stanno procedendo azienda e governo?
Anzitutto, com’è noto la procura di Milano attende un accordo entro il 31 gennaio, vale a dire questa settimana. Diversamente, il giudice si pronuncerà circa l’atto di citazione depositato da Mittal per il recesso del contratto di affitto, preliminare all’acquisto, dello stabilimento di Taranto e delle altre sedi del gruppo.

E questo accordo ci sarà?
Ho sempre sostenuto – anche su queste pagine – che a Mittal non c’era alternativa e che Mittal non voleva lasciare Taranto a tutti i costi. Cercava un’intesa, oggi vicinissima, per ridiscutere il piano industriale dopo la revoca dello scudo penale che, di fatto, ha creato le condizioni per questa discussione. In questo, bisogna riconoscere che Conte e Gualtieri hanno fatto un buon lavoro predisponendo un’operazione di rilancio importante della ex Ilva.

Su quali basi?
La cosiddetta area a caldo sarà affiancata da un’area green che produrrà  attraverso due forni elettrici e la tecnologia DRI (gas, idrogeno e monossido di carbonio). Ciò ha il pregio di innovare la produzione e di avviare una rilevante fase di decarbonizzazione.

E, come si dice da tempo, lo stato sarà azionista di ArcelorMittal Italia. Ma a che prezzo?
Lo stato sarà azionista di AM Italia in una percentuale importante (30/40%) ma c’è ancora qualche variabile. Mittal e governo comunque si sono intesi, siamo ai conteggi finali dei tecnici della produzione. Chiaro che l’investimento è importante, solo per i due forni elettrici si parla di 900 milioni di euro. Poi vi sono i costi dell’investimento sul preridotto (o DRI) ma qui il governo sta coinvolgendo i privati. Poi potrebbe esserci qualche concessione a Mittal come quella sul fitto (180 milioni anno) e la cassa integrazione per una parte di lavoratori, con l’obiettivo di reintegrarli tutti entro il 2023.

Come mai in questi giorni l’azienda ha avvicendato quasi interamente la direzione aziendale?
Ho interpretato queata scelta come la volontà di ArcelorMittal Italia di farsi più italiana, per facilitare la sua restart e la miglior integrazione possibile con il nuovo azionista tutto italiano. Mi è sembrato un fatto positivo, ad ogni modo Mittal non può più commettere errori, perché è evidente che in questo anno e mezzo circa qualcosa non ha funzionato.

Quali volumi di produzione prevede l’accordo?
Sono dettagli non ancora trapelati per una comprensibile riserva nei confronti del sindacato a cui il nuovo piano andrà sottoposto. Tuttavia, possiamo dire che l’azienda vuole mantenere la produzione di acciaio attorno ai 4 milioni di tonnellate. Questi livelli produttivi saranno integrati dalla produzione DRI che significa circa 2/2,5 milioni di tonnellate.

E con il sindacato ci sarà accordo?
Credo che ci siano elementi per far comprendere alle Parti la qualità del nuovo piano industriale. Il problema degli esuberi potrebbe riguardare soltanto 2000 lavoratori con l’obiettivo di reintegrarli entro il 2023 quando la produzione sarà portata a 8 milioni di tonnellate. Il governo ha sbagliato a coinvolgere le Parti sociali solo in questa fase, tuttavia ritengo si possa gestire con intelligenza questa transizione. Il sindacato, durante tutta la vicenda Ilva, è stato attore responsabile. Lo sarà anche ora perché è consapevole che è troppo importante per il nostro Paese salvare la siderurgia. Bisogna però imparare a gestire le crisi industriali in un modo più consono ad un Paese manifatturiero come il nostro.

 

 

“Il destino della Libia, per ora, è quello di una ‘instabilità controllata’ “. Intervista a Michela Mercuri

Lo scenario libico è sempre più instabile Continue sono le violazioni della tregua. Anche ieri sono avvenuti scontri. Questi sono avvenuti nelle città costiere di Al Hisha, Wed Zumzum e Abu Qurain a sud della città situata a 200 chilometri a est di Tripoli. Lo riportano fonti delle milizie alleate al governo di Tripoli, riconosciuto a livello internazionale. Le forze di Haftar stanno avanzando a circa 120 chilometri a est di Misurata, vicino alla città di Abugrain. Allo stesso tempo, un ufficiale delle forze di Haftar ha fatto sapere di aver strappato il controllo di due città, Qaddaheya e Wadi Zamzam, proprio sulla strada per Abugrain.  In questo contesto si fa sempre più complicata e difficIle la possibilità di una soluzione del grande marasma libilico Cerchiamo di fare il punto con la professoressa Michela Mercuri. Michela Mercuri è Docente universitario, componente dell’Osservatorio sul Fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista (O.F.T.). Analista di politica estera, consulente, autrice, editorialista e commentatrice per programmi TV e radio nazionali. Le sue attività si concentrano su Mediterraneo e Medio Oriente, analizzando l’impatto della storia sulle problematiche attuali. Ha firmato diverse pubblicazioni, tra cui il libro Incognita Libia – cronache di un paese sospeso (2017).

 


Professoressa  Mercuri, il dopo Berlino, cioè la conferenza internazionale dedicata alla Libia, si sta caratterizzando sempre più come una finta tregua tra le parti. Nei giorni scorsi vi sono stati combattimenti a sud di Tripoli, ma soprattutto il generale Haftar ha chiuso i rubinetti del petrolio (provocando finora danni per 318 milioni di dollari), ma sul ricatto petrolifero di Haftar torneremo dopo. Torniamo alla Conferenza di Berlino. Nel commentare i risultati del vertice, qualche osservatore internazionale aveva parlato di “bicchiere mezzo pieno”. A me sembra, guardando i comportamenti dei “signori della guerra”, che il bicchiere sia completamente vuoto. Esagero?

Direi ancor di più: il bicchiere è caduto e si è rotto in mille cocci e questo non dovrebbe stupirci. A Berlino, mentre i “grandi del mondo” approvavano il piano tedesco per un embargo sull’arrivo di nuove armi e per un percorso politico e istituzionale – con la creazione di un nuovo Consiglio presidenziale, preludio per elezioni e per una nuova costituzione- nella ex Jamahiriya si combatteva e le armi continuavano ancora a giungere indisturbate nel paese. La fragile tregua, mediata da Russia e Turchia qualche giorno prima, iniziava già a scricchiolare, mentre il generale Khalifa Haftar ordinava il blocco dei terminal petroliferi dell’est. Purtroppo la conferenza di Berlino è fallita ancora prima di cominciare e questo era prevedibile. Haftar a Mosca, solo 7 giorni prima, aveva rifiutato “il piano di pace” concordato da Russia e Turchia. Il suo obiettivo, nonostante la sua presenza ai vari vertici, era, è e sarà quello di entrare a Tripoli e Misurata. Detta in altri termini, chiudere il cerchio e conquistare tutta la Libia. Con l’aiuto degli Emirati che continuano a rifornirlo di armi potrebbe riuscire a farlo. Perché accettare il piano “onusiano” ed arrivare a patti con Fayez al-Serraj?

Parliamo, ora, del blocco dei rubinetti petroliferi da parte di Haftar. Un vero e proprio ricatto quello del generale della Cirenaica. Contro chi è rivolto e quali obiettivi vuole realizzare?

Haftar vuole dimostrare di avere il controllo del paese e i pozzi di petrolio rappresentano l’economia libica. Ne consegue che controllare i pozzi vuole dire controllare il paese. E’ una prova di forza e al contempo un’arma di ricatto nei confronti della comunità internazionale. E’ come se il generale stesse dicendo agli attori internazionali: “o sostenete me o l’economia libica rimarrà in ginocchio e i problemi si rifletteranno anche su di voi”. In effetti, da quando la Libia è stata privata di più di 800.000 barili al giorno, i prezzi del petrolio sono lievitati: in poco più di una settimana, il prezzo del Brent (il riferimento mondiale per il mercato del greggio che determina il 60% dei prezzi sul mercato) ha guadagnato quasi un dollaro, arrivando a 66 dollari al barile. Inoltre con questa mossa Haftar vorrebbe depotenziare la Noc (la compagnia petrolifera statale con sede a Tripoli) per ottenere un’autorità petrolifera anche nell’est, area da cui viene estratto il maggior quantitativo di greggio. Il generale ha più volte cercato di aggirare la Noc – che invia i proventi di petrolio e gas alla Banca centrale di Tripoli, che lavora principalmente con il governo di Serra- per ottenere un maggior controllo sulla distribuzione dei proventi.

La guerra libica, per certi versi, può diventare ancora più pericolosa della guerra siriana. È così?

In questo momento ci sono tutti gli elementi per preconizzare una grave escalation di violenze che potrebbe mietere ulteriori vittime tra la popolazione. La Turchia continua a inviare mercenari in Libia a supporto delle milizie dell’ovest, sull’altro fronte, in barba a qualunque rassicurazione di rispetto dell’embargo, “piovono armi” dagli Emirati e continuano a combattere mercenari russi. In queste ultime ore l’esercito di Haftar avanza verso Misurata, probabilmente per rompere l’asse militare Tripoli-Misurata, attaccando quest’ultima per far perdere alla capitale il suo massimo alleato. Il generale sta agendo in fretta, prima che gli strateghi turchi prendano il controllo delle operazioni a Tripoli. Gli scenari non sono facilmente prevedibili. O Misurata cadrà e Haftar avrà la possibilità di arrivare a Tripoli o avremo una energica risposta turca con un enorme bagno di sangue.  In questo caso la guerra che si gioca (anche) per procura assumerebbe sempre più le sembianze del conflitto siriano, con la Turchia da un lato, la Russia dall’altro e con il gioco sporco di alcuni paesi del Golfo. C’è un’altra similitudine con la Siria: la Russia e la Turchia, grazie ai loro interessi economici comuni (come il TurkStream) potrebbero continuare a tentare un’intesa. Tuttavia, come già accaduto, gli interessi di Haftar e dei suoi alleati del Golfo potrebbero prevalere. Inoltre, il caos prodotto potrebbe favorire la presenza di jihadisti che, si sa, si muovono alla ricerca di teatri instabili in cui trovare spazio per creare ulteriore destabilizzazione, funzionale alla loro espansione. Molti combattenti sarebbero giunti in Libia dalla Siria e molti erano già presenti nel sud libico in cui si erano riparati dopo la sconfitta subita a Sirte nel 2016. Anche la presenza di jihadisti sul terreno ci riporta, in qualche modo, seppure con le dovute differenziazioni, al teatro siriano. Per quanto concerne il fattore “pericolo”, ogni guerra è una storia a sé ed è un pericolo tout court ma, per l’Italia, avere un conflitto di tale portata alle porte di casa non è certo rassicurante.

Parliamo di due attori assolutamente fondamentali nello scenario libico:il Qatar e l’Arabia Saudita. Loro non hanno, ovviamente, problemi di petrolio. Cosa vanno cercando in Libia?

Partiamo, intanto, da una evidenza. Il Qatar supporta Serraj, assieme alla Turchia, mentre i Sauditi e, soprattutto, gli Emirati arabi unti armano Haftar. C’è una spaccatura nei paesi del Golfo ed è dettata da vari interessi che, naturalmente, hanno poco a che vedere col petrolio visto che si tratta di paesi produttori. In primo luogogli interessi sono di tipo geopolitico: per gli Emirati e l’Arabia saudita è vitale frenare l’avanzata dei Fratelli musulmani che si trovano nell’ovest. Per i sauditi, in particolare, è fondamentale espandere in Libia la corrente madkhalita (una corrente di stampo salafita ultraconservatrice fondata dallo sceicco saudita, Rabi al-Madkhali, al soldo della casa reale saudita) in opposizione alla fratellanza musulmana. Anche per questo Riad sostiene il generale. Per gli Emirati, inoltre, l’idea europea secondo cui il conflitto libico deve essere risolto sul piano diplomatico e non militare non è accettabile. Da qui l’evidente impegno di Abu Dhabi nel non far mancare armi ad Haftar. Dall’altra parte c’è il Qatar che è stato uno dei principali sostenitori delle rivolte anti-gheddafiane. I motivi per cui Doha è vicina all’asse Tripoli-Ankara, sono di natura interna al Consiglio di cooperazione del Golfo in cui vi è stata una più di una “rottura” tra il Qatar e gli altri componenti, soprattutto da quando alla guida del paese c’è Tamim bin Hamad al-Thani, che ha costretto il padre ad abdicare, mostrando un atteggiamento assai più spregiudicato del predecessore. Da qui il sostegno ai Fratelli musulmani ma anche ad alcuni gruppi della galassia estremista per fare da contrappeso all’influenza degli ex alleati del Golfo, Emirati e Sauditi in primis.

Guardiamo a Macron. In Libia si sta dimostrando, forse non tanto paradossalmente, un sovranista assai duro. Qual è il vero obiettivo di Macron?Nello scenario estero la Libia è stata la massima espressione della politica ipernazionalista di Macron. Il presidente francese sostiene apertamente il generale Haftar per perseguire i suoi interessi in termini energetici ed egemonici, spesso in totale contrapposizione alla linea europea e dell’Onu. Per ben due volte ha convocato in via del tutto unilaterale delle conferenze sulla Libia invitando Haftar e Serraj e avvertendo solo a giochi fatti i membri dell’Unione europea, Italia in primis. Pochi giorni fa laFrancia si è rifiutata di votare una risoluzione europea, sostenuta anche dagli Stati uniti, che condannava il blocco della produzione del petrolio da parte di Haftar.Non servono ulteriori esempi per dire che Macron, nonostante la sua presenza a Berlino, sostenga solo ed esclusivamente Haftar e non abbia alcuna intenzione di scendere a patti con gli altri membri dell’Unione europea per una linea più inclusiva. Dirò di più: il presidente francese in questo momento, per quanto concerne la Libia, è l’elemento disgregante dell’Ue.

Erdogan e Putin, il neo Califfo e il nuovo zar, stanno giocando una partita parallela. Anzi, per usare un termine “antico”, stanno realizzando una convergenza parallela. Per entrambi il gioco è estendere la sfera di influenza a discapito della UE e degli USA. MA siamo sicuri che questo legame sia inossidabile?

Non ci sono legami inossidabili in un mondo in cui ogni Stato persegue solo ed esclusivamente il proprio interesse nazionale. Al massimo ci sono “alleanze a geometria variabile” tarate su singoli interessi comuni. E’ il caso di Russia e Turchia che in Libia (come in Siria) hanno tentato di trovare un accordo non per il bene dei libici ma perché hanno interessi che vanno ben oltre la ex Jamahiriya. In ballo non c’è solo l’affare miliardario della vendita alla Turchia da parte della Russia di sistemi missilistici S-400 ma anche questioni energetiche come il già ricordato progetto del TurkStream, il gasdotto che consentirà alle forniture russe di arrivare direttamente in Turchia attraverso il Mar Nero. La Russia è il secondo partner economico di Ankara, che nel 2018 ha visto aumentare le sue esportazioni verso Mosca del 50% rispetto agli anni precedenti. Non servono altre parole per spiegare quanti siano gli interessi in ballo e di quale portata. Anche se l’accordo per un cessate il fuoco in Libia, predisposto da Ankara e Mosca, ha avuto vita breve non credo che l’alleanza funzionale tra i due ne potrà risentire. Allo stesso modo, come ci ha dimostrato Berlino, questi player sono riusciti a marginalizzare un’Ue incapace di parlare con una sola voce e gli Stati uniti disinteressati al dossier libico. L’unico rischio che la Russia potrebbe correre nel quadrante libico è quello di essere marginalizzata dagli Emirati, i veri sostenitori di Haftar in questa sua avanzata.

Parliamo di due attori in cerca di autore. UE e Italia. per loro, dopo Berlino, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

Anche in questo caso devo dire che il bicchiere è rotto. Berlino è stata la cartina al tornasole dell’inconsistenza della politica italiana in Libia e nell’Ue. I nostri sforzi diplomatici, seppure tardivi, non sono stati premiati dall’Unione che ci ha relegati in seconda fila (in tutti i sensi). Tuttavia la stessa Europa si è dimostrata totalmente incapace di mediare una soluzione per la Libia, seppure avesse al tavolo i principali player qui coinvolti (Russia, Turchia, Emirati etc.).  La verità è che se l’Italia vuole avere una voce in Europa deve averla prima in Libia ma per ora tace. Tuttavia abbiamo ancora un buon capitale di fiducia con alcuni gruppi libici, al di là di Haftar e Serraj. Una fiducia sviluppata negli anni ma che si sta inesorabilmente affievolendo. Solo riaprendo a un dialogo con gli attori locali che conosciamo meglio di chiunque altro possiamo sperare di ritagliarci di nuovo un posto in Libia e, magari, di riflesso, anche in Europa.

E gli USA di Trump non hanno dire nulla?

Agli Usa non importa molto della Libia e agiscono di conseguenza. Hanno inviato a Berlino il segretario di Stato Mike Pompeo più per protocollo che per reale convinzione. L’ambasciata americana in Libia ha emanato un comunicato di condanna per la chiusura delle strutture petrolifere da parte di Haftar (peraltro su twitter) più per dovere che per reale convinzione.  E’ tuttavia evidente che, seppure a distanza, gli Usa tifino per Haftar poiché i suoi sponsor del Golfo sono i principali partner commerciali americani, specie per la vendita di armi.

Qual è secondo lei la via per stabilizzare la polveriera libica? 

Purtroppo non esiste una soluzione diplomatica in uno Stato in guerra. Esistono varie opzioni militari che, però, dovrebbero essere realizzate sotto egida europea o, meglio, delle Nazioni unite ma queste troverebbero l’ostracismo di molti Stati, tra cui ad esempio la Francia che vuole una vittoria tout court di Haftar. Dunque anche l’opzione militare appare lontana. Credo che, purtroppo, il destino della Libia, per lo meno per ora, sia segnato: una “instabilità controllata”con momenti di tensione più o meno intensi tra gli attori locali e i loro sponsor internazionali. E’ questa, per ora, l’unica soluzione win win per le grandi potenze regionali ma, purtroppo, non per il popolo libico.

 

 

“Il ventennale di Craxi è stato un’occasione mancata per una riflessione non faziosa”. Intervista a Fabio Martini

 Nel ventennale della morte di Bettino Craxi sono usciti diversi libri che ricordano la figura del leader socialista, tra questi c’è l’importante saggio di Fabio Martini, uscito per la casa editrice Rubbettino, dal titolo “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”. Il libro vuole raccontare il “vero” Craxi, l’ultimo leader della Prima Repubblica. Una figura che “parla” alla politica dei nostri giorni con la sua lunga gavetta, diversa dalle fulminee ascese di tempi più recenti: Craxi impiegò 24 anni prima di diventare segretario del Psi, un apprendistato che lo aiuterà a guidare uno dei governi più longevi dell’Italia repubblicana. Volle la migliore élite del Paese e prese decisioni impopolari, contribuendo all’ultima stagione di crescita dell’Italia. Leader accentratore e controverso, non fu mai populista. Fabio Martini getta, così, una nuova luce su molte pagine oscurate o inedite della vicenda politica e umana di Craxi… In questa intervista con l’autore cerchiamo, anche, di fare un ragionamento un pochino più profondo su alcuni “nodi” problematici della figura di Bettino Craxi. Fabio Martini è Cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, partiamo, nel ventennale della morte di Bettino Craxi, da un dato di cronaca: in pochissimi giorni sono usciti diversi libri, il tuo è uno di questi, un film, Hammamet, che fa registrare sale piene. A questo aggiungiamo il grande interesse della stampa nazionale. Insomma, come ti spieghi tutta questa rinascita di interesse nei confronti di Bettino Craxi? Cos’è nostalgia del leader forte o c’è qualcosa di più profondo?

 Un insieme di motivi spiegano un interesse e un pathos che non ci furono 10 anni fa, quando anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano scrisse una lettera alla vedova Craxi, per la prima volta dando voce istituzionale alla teoria del capro espiatorio: in quel caso la sortita presidenziale cadde nel vuoto e nel persistere di un diffuso giudizio negativo. Già da qualche anno sulla Rete era in corso una riscoperta carsica del Craxi diffidente con i “poteri forti” ma non c’è dubbio che l’interpretazione di Pier Francesco Favino nel film Hammamet e anche le sue interviste televisive abbiano fatto da rompighiaccio. Anche se l’avvio di una riconsiderazione collettiva va collegata al gap – per certi versi enorme – tra l’attuale classe dirigente e quella della Prima Repubblica. Oltretutto Craxi aveva una dote – saper decidere in tempi stretti – che difetta assai all’attuale classe politica.

Rino Formica ha definito questa riscoperta “compassionevole”… Condividi? 

Sì. Il film, quasi tutti i libri usciti e gran parte della discussione pubblica si sono concentrati sulle ultime settimane di vita di Craxi. Una vicenda drammatica, quella della malattia, ma il suo percorso politico – che viene prima – ha un interesse e una valenza quantomeno pari alla vicenda umana. Da questo punto di vista, direi che non c’è stata riscoperta e neppure una rivisitazione critica: finora è stata un’occasione mancata per una riflessione non faziosa.

 Veniamo al tuo libro. Tu ricostruisci la vicenda politica e umana di Bettino Craxi. Offrendo anche, su alcuni aspetti, delle chiavi interpretative poco studiate nella saggistica sul leader politico milanese . Mi riferisco al tema del “vitalismo socialista”. È una categoria interessante. Sembra quasi una categoria “filosofica” e “psicologica”. Per me è la chiave di lettura del libro. Insomma Perché usi proprio questo termine?

E’ una lettura molto centrata . In effetti, il gruppo dirigente socialista raccolto attorno a Craxi espresse, per buona parte della sua storia, un marcato vitalismo politico e antropologico. Craxi, appena eletto esprime due concetti: “primum vivere” e l’autonomia per i socialisti è come l’aria. Autonomia politica significò segnare un confine netto dal Pci e dai suoi miti autoritari, a cominciare da Lenin e dalle dittature comuniste. Vitalismo è non accomodarsi nella gestione più o meno efficace del presente, ma dare un segno identitario: così fu per Sigonella e così fu per il decreto sulla scala mobile. Ma soprattutto il vitalismo socialista fu, per un gruppo dirigente laico, esprimere tutta la propria potenzialità politica qui ed ora. Per i socialisti non c’era un disegno provvidenziale da assecondare e neppure una terra promessa da raggiungere. Qui ed ora esauriva tutto. Nel bene e nel male.

 Restiamo sempre nell’ambito, definiamola così, della antropologia politica. L’uomo Craxi lo hai definito come un ribelle, un libertario. Eppure, nel libro, mostri anche quanto lui sia stato un accentratore al massimo livello. È una contraddizione tipicamente craxiana questa?

Proprio così. Il Psi, prima che Craxi ne assumesse la guida, era un partito libero e libertario, politicamente quasi libertino, nel senso che era “dissoluto”, nella sua difficoltà a concentrarsi su un obiettivo politico forte. Craxi, che si era iscritto al Psi nel 1951, esprimeva quello spirito ma al tempo stesso lui stesso decise che quella dissoluzione andava superata. Lo fece, accentrando e sprigionando un’arroganza esibita e anche praticata. Era l’unico modo per salvare il Psi? Sul breve, probabilmente sì, sul lungo periodo forse no. Ma chi ragiona sulla successiva dissoluzione del Psi attribuendola a Craxi e alla sottovalutata questione morale, dice una parte di verità: dimentica che nessun partito della Prima Repubblica ha retto al crollo del Muro di Berlino.

 La sua voglia di indipendenza, e tutta la vita politica di Craxi ha questo tratto, lo ha portato a fare scelte anche coraggiose. Dove si è manifestato di più questo autonomismo?

Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, essere anti-comunista a sinistra significava non soltanto apparire come “destri”, ma anche compromettere carriere. Craxi coerentemente combattè l’egemonia comunista quando era minoranza nel partito, ma anche quando diventò segretario del Psi. Quando i socialisti europei – Spd in testa – scommettevano sulla tenuta dei regimi comunisti dell’Est, Craxi fu quasi l’unico che sostenne finanziariamente e concretamente i dissidenti, contribuendo in alcuni casi alla loro liberazione. Quando gli Usa dirottarono illegalmente un aereo egiziano verso Sigonella, Craxi tenne duro ma al tempo stesso fu il segretario del Psi che diede il via all’installazione degli euromissili, decisione che gli Usa apprezzarono assai. L’ autonomismo di Craxi in politica fu questo: essere alleati senza essere sudditi”.

Hai ricordato la politica estera di Craxi. Qualcuno lo ha definito, con gli occhi di oggi, un sovranista… Mi pare una definizione senza senso…Cosa ne pensi?

 Sì, senza senso. Il sovranista sostiene la difesa della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in contrasto con la globalizzazione e con le politiche sovrannazionali di concertazione. Craxi fu europeista e atlantista. Certo, lo fu in modo critico e vigile, nel senso che fu attento alla sovranità e all’orgoglio nazionale.

 Nel libro tratti del rapporto di Craxi con Moro e Berlinguer…. Per il primo sappiamo, anche da recenti ricerche, quanto sia stato forte l`impegno per la sua liberazione. Calcolo politico o c’è qualcosa di più profondo?

 Proprio così. Calcolo e convinzione: entrambe le cose. La posizione trattativista fu il primo, clamoroso smarcamento del Psi craxiano dal “duopolio” Dc-Pci e quello fu un investimento, calcolo. Ma Craxi credeva per davvero che non si potesse sacrificare la vita di un uomo sull’altare della ragion di Stato. Uno dei discorsi più belli di Craxi, riportato in Controvento, riguarda proprio questo aspetto. Tanti che allora erano convinti che non si dovesse trattare, oggi hanno cambiato idea.

 Con Berlinguer il rapporto fu duro. Ricambiato con la stessa moneta dal segretario del PCI. Al di là della antipatia personale , quale è stato il motivo politico di rottura?

Craxi e Berlinguer furono, coerentemente e convintamente,  due leader radicali. Craxi un socialdemocratico, duro e puro, Berlinguer un comunista italiano, duro e puro. Ecco perché non si trovarono mai.

 Torniamo per un attimo alla “antropologia” e all’etica : il rapporto con i soldi. Quello di Bettino Craxi fu un rapporto maledetto….tanto da portarlo alla rovina. Possibile che un uomo forte non ci sia reso conto della maledizione del denaro?

Craxi, diventato segretario nel 1976, si adattò al sistema di finanziamento illegale che esisteva prima di lui e che coinvolgeva in forme diverse tutti i partiti, compreso il Pci. Potenziò quel sistema che gli pareva fisiologico, non lo considerava immorale, esattamente come gli altri partiti. Ma non soltanto era insensibile eticamente a quel “così fan tutti”, ma centralizzando sotto il suo controllo una parte del flusso illegale (non per arricchirsi), quando partirono le indagini, non fu difficile incastrarlo. Craxi detestava le tangenti, si rese conto della pervasività del sistema, ma non fece nulla per contrastarlo, anche perché in quegli anni – in tutta la classe politica – c’era un forte senso di impuni

Siamo alla fine della nostra conversazione. Cosa può dire Craxi oggi , con tutti i suoi limiti, alla politica italiana? 

La politica è decisione. Craxi fece capire, allora come oggi, che dopo aver esaminato pro e contro, si decide. Anche in modo impopolare, se serve. La politica è anche tenuta su alcuni principii. Se credi in alcuni valori, ci credi per tutta la vita, ovviamente modificando le idee che si rivelano sbagliate. Ecco, non cambiare idea dalla sera alla mattina è un altro insegnamento di politici come Craxi. Fermiamoci un attimo e ripensiamo non solo a Craxi, ma anche a Berlinguer, a Moro, a Fanfani, a De Gasperi, a La Malfa: ce li vediamo che la sera dicono una cosa e la mattina dopo il suo opposto? Senza dubbio non ce  li immaginiamo. E comprendiamo un’altra ragione della riscoperta di personaggi, pur controversi, come Bettino Craxi.

“Ratzinger e Sarah, Una obbedienza filiale da brividi”. Intervista ad Andrea Grillo

Le anticipazioni del libro di Ratzinger e Sarah, che uscirà mercoledì in Francia, stanno facendo discutere l’opinione pubblica mondiale. Il libro tratta del celibato del Sacerdozio cattolico. Un tema discusso, anche, nel recente Sinodo amazzonico di Ottobre. In quell’occasione l’assemblea si era espressa, a grande maggioranza, per l’ordinazione dei viri probati. Ed è proprio contro questa apertura che si scagliano i due autori del libro. Un estremo tentativo, dell’ala conservatrice, di condizionare Papa Francesco?
Ne parliamo, in questa intervista, con il teologo Andrea Grillo docente di Teologia al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma.

Professore, ieri le Figaro ha pubblicato, in esclusiva mondiale, alcuni brani del prossimo libro di Benedetto XVI (il papa emerito) scritto insieme al Cardinale Sarah. Il libro uscirà in Francia mercoledì. Il titolo “Des profondeurs des nos coeurs” è emblematico, vuole essere, quasi, una supplica al Papa regnante perché non ceda alla richiesta, contenuta nel documento finale del Sinodo sulla Amazzonia, di aprire il sacerdozio, a certe condizioni, ai viri probati. Insomma, pur manifestando obbedienza filiale al Papa, l’anima conservatrice non rinuncia minimamente a condizionare pesantemente Papa Francesco. Qual è il suo giudizio?

L’obbedienza filiale ha molti volti. Si può anche obbedire come il figlio maggiore della parabola e vivere la comunione pieni di risentimento. Ad ogni modo vi è stato un Sinodo, al quale il Card. Sarah ha partecipato, e che ha aperto una fase di ripensamento delle forme di identificazione dei candidati al presbiterato, almeno in Amazzonia. Tutto questo può essere anche discusso o contestato, ma parlare come se l’eventuale documento del papa che autorizzasse questa riforma fosse una “catastrofe”, appare un modo irresponsabile di porsi nella vita della Chiesa. La obbedienza filiale assomiglia in questo caso ad un individualismo smisurato e ad una mancanza di rispetto verso le diverse condizioni che vivono le Chiese nei diversi continenti. In una vicenda come questa, ed anche nelle reazioni ufficiali, si tocca con mano che nella Chiesa uno dei peccati più diffusi è quello di usare parole vuote. A mio avviso il termine “obbedienza filiale” può essere utilizzato per parlare di queste dichiarazioni solo facendo abbondante ricorso ad un linguaggio segnato da clericalismo e da ipocrisia. In tutta onestà, qui io non trovo alcuna obbedienza e tanto meno figliolanza. La retorica ecclesiastica in questi casi è un rimedio peggiore del male. Chiamare le cose con il loro nome resta sempre il primo atto che la fede ci chiede. E lo chiede tanto ai pastori, quanto ai teologi, quanto ai giornalisti.

Apriamo una piccola parentesi. Riguarda il “papa emerito”. Sappiamo, dal diritto canonico, che un papa che rinuncia al proprio ufficio non è più papa. Insomma aver consentito di usare un titolo come quello di “papa emerito” rischia di creare non pochi problemi alla comunione ecclesiale. Perché Ratzinger non si rende conto di questo?

Credo che la questione del “papa emerito” sia una sfida per la istituzione ecclesiale. Nella sua novità, ha richiesto una certa dose di improvvisazione, che ora stiamo pagando. Il vescovo emerito di Roma non ha più alcuna autorità di ministero. E, fin dall’inizio, ha cercato, credo veramente, di tenere il profilo più basso possibile. Non è un arbitrio ritenere che il ruolo di un “papa emerito”, quando un altro papa è stato eletto dopo di lui, sia evidentemente vincolato ad un estremo riserbo, per non dire ad un “silentium incarnatum”. Questa è la conseguenza della concentrazione di potere che il papa ha assunto lungo i secoli. Ogni confusione diventa pericolosa, per la Chiesa in quanto tale. A maggior ragione la cosa diventa del tutto distorta se un vescovo emerito di Roma pretende di esercitare una sorta di “veto” sugli atti che il suo successore deve ancora assumere. Per quanto la si circondi di un’aura spirituale, orante, filiale e paterna, questo non è il set di un film. E deve essere gestito con assoluta chiarezza, senza lasciar adito a dubbi.

Torniamo al contenuto del libro. Stando alle anticipazioni gli autori espongono, sentito come un dovere morale, le loro riflessioni sul Sacerdozio cattolico. Per loro il sacerdozio e il celibato sono “uniti fin dall’inizio della” nuova alleanza”di Dio con l’umanità stabilita da Gesù, la cui oblazione totale è il modello stesso del Sacerdozio”. Insomma, per i due autori, c’è una “astinenza ontologica”…. Il termine è assai forte.…

Mi pare, però, che proprio su questo piano ciò che viene scritto nel libro sia teologicamente troppo fragile, quasi imbarazzante. Sembra più il frutto della penna incerta di Sarah che della mano sicura di Ratzinger. Le argomentazioni con cui si vorrebbe giustificare la “immodificabilità” dei criteri di selezione dei prebiteri sono stentate, zoppicanti, ingenue o paradossali. Da due pastori con così grande responsabilità il popolo di Dio si aspetterebbe qualche maggiore motivazione, per giustificare il fatto di aver assunto una posizione drastica come quella che hanno voluto manifestare. Altrimenti, se le ragioni sono davvero quelle indicate, sembra di assistere alla resistenza un poco cieca dello “status quo”, contro ogni possibile cambiamento.

Un altra affermazione, a me sembra malata di catastrofismo, è quella che “la possibilità di ordinare uomini sposati rappresenterebbe una catastrofe pastorale, una confusione ecclesíologica e un oscuramento della comprensione del Sacerdozio”. Qui ogni apertura è cedimento allo spirito del mondo. Non è esagerato tutto questo?

Appunto: esagerazione. Una grande esagerazione. Il Card. Sarah non è nuovo a queste esagerazioni, sempre in relazione ai Sinodi. Si ricorderà come, durante il Sinodo sulla famiglia, in un suo intervento paragonò “fondamentalismo e gender” alle “bestie dell’Apocalisse”. Ogni mutamento rispetto alla struttura della Chiesa ottocentesca viene percepito come cedimento, tradimento, resa al mondo moderno e alle sue rovine. Il pregiudizio antimoderno diventa il criterio di un discernimento senza sfumature. E che presuppone una idea di Chiesa e di Sacerdozio vecchia di quasi 200 anni.

Eppure nella Chiesa latina vi sono sacerdoti sposati… Sono causa di catastrofi?

Non mi pare proprio. La tradizione latina conosce il presbitero uxorato. Ma la chiesa di oriente conosce quasi solo presbiteri uxorati. Un minimo di conoscenza del mondo e delle diverse tradizioni ecclesiali dovrebbe suggerire un giudizio meno drastico, più sfumato, più attento. Soprattutto più informato. Penso che anche un certo provincialismo curiale non sia estraneo a questo modo di esprimersi, che appare rozzo e autocentrato.

Ultima domanda: Quest’ultima uscita di Ratzinger svela, ancora una volta, il paradigma di fondo di una parte della Chiesa: la paura della storia. È così professore?

A me sembra che questo testo abbia un grande valore: manifesta la persistenza ostinata di un modello di autocomprensione della Chiesa che definirei “dispositivo di blocco”. La Chiesa non ha alcuna autorità, se non quella di ripetere quello che è stata nel passato. E per questo deve solo respingere ciecamente ogni cambiamento. Può contare soltanto sulle “tre cose bianche”: l’ostia, l’immacolata e il papa. Come è evidente il dispositivo entra in crisi quando una delle tre “cose bianche” non si piega ad essere stereotipato a restare senza autorità, e inizia ad aver fiducia di poter iniziare percorsi di cambiamento e di riforma. Se la Chiesa esce dal museo e si riscopre giardino, può fiorire. Ma i profeti di sventura, alla prima brezza fredda, o alla pioggia più intensa o al primo sole cocente, sono subito pronti ad esprimere la loro nostalgia per l’aria condizionata, i sistemi di sicurezza e la silenziosa prevedibilità ovattata che il museo loro garantiva. Francesco conosce bene il funzionamento cieco di questo “dispositivo”. E non si lascerà ridurre a “cosa bianca”.

 

I “calcoli” di Donald Trump sull’Iran. Intervista a Marina Calculli

Dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani il Medioriente ha vissuto giorni di grande tensione. Con le parole pronunciate, dopo il simbolico bombardamento iraniano, dal Presidente americano siamo in una fase di “tregua armata”. “Il precipizio non si è allontanato”, come ha scritto oggi su Repubblica,  Bernardo Valli, grande inviato di guerra. Le tensioni, infatti, nel mondo arabo sono  altissime (vedi Libia, Siria e Yemen). Ma quali sono stati i “calcoli” di Donald Trump sull’ Iran? Ne parliamo con la politologa, esperta di relazioni internazionali. Marina Calculli è Lettrice di “Middle East Politics”  all’Università di Leiden.

Marina Calculli  partiamo dall’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani – per ordine di Trump. Un uccisione che destabilizza ancora di più un’area che è piena di tensioni e di guerre. Le, “ragioni”, secondo gli USA, sono, da una parte, la rappresaglia verso le milizie che si sono rese responsabili dell’assalto alla ambasciata di Baghdad e dall’altra la prevenzione verso  possibili futuri attacchi. Una risposta, quella americana, non credibile. Qual è stato, secondo te, il vero “calcolo” di Trump?

L’idea di una guerra contro l’Iran è ben radicata in una parte dell’establishment neo-con di Washington che è lì da prima che arrivasse Trump alla Casa Bianca. Però mi sembra che nella contingenza Trump abbia preso una decisione ‘autoritaria’, dettata in buona parte dall’esigenza di distrarre l’opinione pubblica dalla questione domestica dell’impeachment. E’ in chiara polemica con il Congresso, che non era stato informato dell’attacco, la cui presidente Nancy Pelosi, è in prima linea sul fronte di coloro che vorrebbero l’impeachment di Trump. Per aggirare il Congresso Trump ha dovuto usare l’argomento, politicamente e soprattutto legalmente poco difendibile, dell’autodifesa contro un attacco imminente – poco credibile dato che Soleimani era in Iraq per incontri ufficiali ed è stato ucciso in un aeroporto civile.

E’ stata anche una decisione poco astuta, a giudicare sia dalle reazioni immediate domestiche sia da quelle degli alleati mediorientali degli Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita in primis, tutt’altro che giubilanti e che hanno evidentemente contribuito a spingere Trump alla moderazione, almeno per ora. Questo perché, nonostante gli amici-clienti di Trump in Medio Oriente abbiano in passato spinto Trump a far saltare il JCPOA, l’accordo nucleare firmato da Obama nel 2015, e a riprendere la politica classica di isolamento dell’Iran, una guerra contro l’Iran non è uno scenario ideale per nessuno nella regione. Persino Netanyahu ha detto che l’uccisione di Soleimani era una cosa ‘tutta americana’ e che ‘Israele non c’entrava nulla’. Nella visione cinica della destra israeliana e della casa reale saudita, molto meglio sarebbe la prosecuzione della cinica strategia che Trump stava già perseguendo: strozzare l’Iran lentamente con le sanzioni e indebolire contemporaneamente il Levante arabo. Una guerra potrebbe avere invece conseguenze disastrose soprattutto per i paesi del Golfo che l’Iran è certamente in grado di colpire.

Nella guerra all’Isis, il generale e gli americani erano dalla stessa parte…. E poi che è successo?

Erano tecnicamente, non politicamente, dalla stessa parte, anche se è vero che in molte occasioni gli americani hanno collaborato sul terreno con le milizie sostenute dall’Iran in Siria e in Iraq. Il problema centrale a mio parere è che, al di là della guerra all’ISIS, nessuno dei due ha mai pensato che questo potesse tradursi in un concreto riavvicinamento. E’ possibile che l’Iran sperasse di rendere l’ostilità di Washington più costosa sbandierando il proprio impegno contro l’ISIS – che è d’altronde un’arma che tutti hanno usato per cercare di ottenere credito presso le opinioni pubbliche internazionali per poi tradurlo in un vantaggio politico. Anche i curdi ci hanno provato però, come è noto, con scarso successo… Il problema dell’Iran però è più profondo per Washington. E’ intanto storico: l’odio americano contro l’Iran che trapela per esempio nelle minacce di Trump (seppur smorzate successivamente) di distruggere 52 siti culturali iraniani, simbolo dei 52 americani presi in ostaggio all’ambasciata americana nel 1979, mostra come l’impero americano abbia vissuto in modo traumatico la ribellione di uno stato che ai tempi dello scià era un fermo alleato degli Stati Uniti e che dalla rivoluzione del 1979 è diventato il principale sfidante della loro strategia mediorientale. Poi ci sono questioni più recenti: dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, l’America puntava a indebolire il regime iraniano e potenzialmente anche a provocare un cambio di regime a Teheran, cosa che G.W. Bush rese peraltro esplicita. Ma il risultato è opposto: l’Iran si è rafforzato nella regione, non solo contro le aspettative dell’America ma soprattutto capitalizzando sui limiti della ‘guerra al terrorismo’ americana in Medio Oriente. E’ questo che rende una parte dell’establishment di Washington, quello che rappresenta meglio la mentalità imperiale degli Stati Uniti, fanatica nelle manifestazioni di odio anti-Iran, almeno quanto fanatici possono essere i falchi anti-americani del regime iraniano.

Qasem Soleimani è stato definito, da qualche osservatore, come il “Machiavelli del Medioriente”. Trovi giusta questa definizione?

Le guardie rivoluzionarie iraniane e i loro alleati, come Hezbollah, hanno dedicato molte energie nell’elaborazione di un pensiero strategico militare. Certamente questo ha pagato, se si guarda agli indiscutibili vantaggi militari che l’Iran, anche grazie al suo principale alleato libanese Hezbollah, ha ottenuto nel Levante arabo e in Iraq, soprattutto dopo il 2003. Ma questa strategia militare ha delle falle politiche profonde, soprattutto perché a farne le spese sono state le popolazioni civili e in particolar modo i movimenti sociali nella regione: penso ai siriani anti-Asad in Siria, schiacciati direttamente e indirettamente dalla strategia iraniana in Siria. Penso alle recenti rivolte in Libano e in Iraq che rivendicano la fine delle ingerenze esterne, sia quella iraniana sia quella americana, che hanno sistematicamente impedito il consolidamento di un ordine politico domestico, sottoponendolo alle rispettive politiche di potenza.

Guardiamo la cosa dal punto di vista iraniano. Per la Repubblica islamica, l’omicidio di Soleimani, è una perdita grave. Che tipo di conseguenze politiche potrà avere per l’Iran?

Come diceva Conrad in Lord Jim, ‘nessuno è indispensabile’. Tanto più in un regime come l’Iran in cui, seppur ancora in grado di sfruttare la retorica della ‘guerra eroica’ e dei ‘martiri’, le transizioni vengono accuratamente pianificate. La forza dell’Iran nella regione non dipendeva da Soleimani, ma dalla strategia complessiva del regime e delle guardie rivoluzionarie in particolare. Per fare un parallelo, nel 1992 gli israeliani assassinarono Abbas al-Musawi, il segretario generale di Hezbollah in Libano, sperando così di sbaragliare tutta l’organizzazione. Il risultato fu l’elezione di Hassan Nasrallah, ancora oggi segretario generale di Hezbollah, forse persino più carismatico di al-Musawi, che ha portato avanti esattamente la linea che aveva prevalso nel 1992.

Teheran aveva detto che la vendetta sarà pesante…. E la risposta è stata il lancio di missili ballistici su una base americana in Iraq. Dopo il bombardamento sono arrivate le parole di Trump di ieri pomeriggio che rivendicando, ovviamente dal suo punto di vista, la giustezza della uccisione di Soleimani, si è detto disponibile a trattare un accordo di pace con l’Iran. Come giudichi le parole di Trump?

L’Iran ha voluto dimostrare simbolicamente e politicamente di non voler entrare in una guerra che comunque non potrebbe vincere, ma anche di poter dare filo da torcere all’America nel caso di escalation. L’attacco molto preciso alle due basi americane colpite in Iraq ha svolto questa funzione. Trump è tra due fuochi: da una parte, ha pensato di poter sfruttare una guerra contro l’Iran a suo vantaggio nell’anno cruciale delle elezioni, macchiato dal rischio di impeachment. Dall’altra sa bene che proprio un’ennesima e costosa avventura militare potrebbe alienare parte del suo elettorato che il presidente americano ha conquistato anche con la promessa di un ritiro dal Medio Oriente.

Donald Trump (Ap)