“Per durare il Conte2 dovrà creare un amalgama per la coalizione”. Intervista a Fabio Martini

Con il voto di ieri sera al Senato il governo ha ottenuto la Fiducia. Si conclude, così in modo imprevisto, la crisi politica scatenata da Matteo Salvini poco più di un mese fa. Quali sono i nodi politici dell’inedita coalizione “5 Stelle – PD”? Come si svilupperà la navigazione del “Conte 2”?
Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, il Conte 2 ha ottenuto la fiducia. Sappiamo quanto il parto sia stato complicato. A questo riguardo facciamo un passo indietro. La crisi nasce dalla decisione di Salvini di “capitalizzare il consenso elettorale” della Lega. E scatena la crisi dopo l’approvazione da parte del parlamento del decreto sicurezza 2 e della TAV. Due risultati positivi per la Lega. È un Salvini che ha il vento in poppa, euforico a dismisura (chiede i “pieni poteri”. E qui comincia il disastro…. La hubris si è manifestata con effetti imprevisti per lui: da dominus assoluto del governo si ritrova all’opposizione…. Cosa non ha funzionato nel calcolo di Salvini?
Il capo della Lega non ha fatto bene i conti con i numeri in Parlamento, con la volontà quasi disperata dei Cinque stelle di evitare la distruzione personale e politica di capi e parlamentari nelle elezioni, a quel punto imminenti. E non ha calcolato quanta poca presa il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, avesse sui propri gruppi parlamentari. Come si può notare troppi errori in una volta sola. Anche se un errore più degli altri, agli occhi di Salvini, deve risultare imperdonabile: non aver capito la psicologia politica dei Cinque stelle con i quali ha convissuto per quasi un anno e mezzo.

Stando agli ultimi sondaggi, per quello che possono valere, la Lega ha pagato il pegno per questo errore politico di Salvini: perde punti percentuali, così come la fiducia in Salvini diminuisce. Ti chiedo, è strutturale questo calo?
Nessuno può dirlo. Il calo c’è, ora Salvini tenterà di fermarlo. Magari attenuando la propria natura guascona. Non si può affatto escludere, come segnala il suo intervento in Senato, un profilo diverso: tosto ma non distruttivo. Certo, si proporrà come capo dell’opposizione. E curiosamente anche come punto di riferimento per i fautori di una democrazia governante. Se, come pare, torna il sistema proporzionale, la politica torna in mano a quattro capi, pronti a fare e disfare come meglio credono. Che Salvini riprenda la battaglia di Romano Prodi, di Mario Segni, di Achille Occhetto e del primo Berlusconi è un paradosso, uno dei tanti di questa stagione.

Veniamo al Presidente Conte, indubbiamente ha dimostrato abilità. È un nuovo Zelig o l’Italia ha scoperto un nuovo statista?
Un po’ Zelig lo è, ma nessuno come lui incarna come lui questa stagione così cangiante e così indifferente ad un minimo di coerenza. Nessuno meglio di lui, perché nei 14 mesi della prima stagione da presidente del Consiglio ha dimostrato di saper maneggiare bene la dimensione di governo, i dossier, la macchina amministrativa. Di statisti l’Italia ne ha avuti pochissimi e secondo qualcuno bisogna tornare a De Gasperi per trovarne uno degno di questo nome. E comunque sia chiaro: senza il decisivo appoggio di Sergio Mattarella, nelle ore del veto espresso dal Pd su di lui, Conte non sarebbe più a palazzo Chigi. Si scrive Conte-2, ma si legge Mattarella-1.

Parliamo di alcuni protagonisti di questa “pazza crisi”. Il governo “giallo-rosso” ha tanti “padri”. Incominciamo dalla “coppia” inedita: Gríllo-Renzi. Per motivi opposti hanno sbloccato il percorso. Ti chiedo : che ruolo giocheranno? Si dice che il premier Conte temi Renzi. Per te?
Beppe Grillo sembrava confinato nell’irrilevanza, ogni tanto emetteva le sue sentenze, ma nessuno dei suoi lo ascoltava più. E invece ha giocato un ruolo decisivo, nel far pendere la bilancia a favore del nuovo governo e contro, decisamente contro, gli orientamenti della Casaleggio e di Luigi Di Maio. Ora tornerà nel suo ruolo di profeta, con la  differenza che ogni volta che si sveglierà dal suo silenzio, gli altri saranno costretti ad ascoltarlo. Renzi ha compiuto quel che ogni politico dovrebbe avere nel suo vademecum: in ogni azione tentare di conciliare l’interesse generale e quello personale. Se ci fossero state elezioni anticipate, Renzi sarebbe stato ulteriormente ridimensionato. Ora può giocarsi la sua partita del partito moderato e decidere lui quando chiudere la legislatura. Da questa visuale, Conte dovrà scrutare sempre con la massima attenzione le mosse di Renzi.

Altra coppia inedita : Di Maio – Zingaretti. I due capi partito hanno giocato una partita parallela. Il risultato, forse mi sbaglierò, è che tra i due il più “caldo” nei confronti di questa esperienza governativa sia Zingaretti…. Di Maio è ancora “orfano” di Salvini?
E’ vero il più caldo appare Zingaretti, che inizialmente puntava ad elezioni anticipate. Ora si è “accomodato” bene nel nuovo scenario e lo incoraggia con aggettivi entusiastici, che oggettivaente stridono con gli anatemi e i “mai e poi mai” scagliati per mesi contro i 5 stelle. Il leader di un partito, una volta gettato il cuore oltre l’ostacolo e una volta entrato in un governo, non può che diventarne un paladino. Quanto a Di Maio, una volta escluso il fattore affettivo, di chi si potrebbe sentire “orfano” di un altro leader, la prossima decisione veramente strategica riguarda le elezioni regionali: se in una, o più di una delle Regioni dove si vota, i Cinque stelle accederanno ad un’alleanza organica col Pd, allora la mutazione genetica del M5s avrà segnato il passaggio decisivo: da forza anti-sistema a forza dentro il sistema. In un’alleanza di sinistra.

Uno sguardo alle opposizioni. Quello che emerge è una accentuata radicalizzazione sovranista del “centrodestra” (molto più destra che centro). Dove andranno i “moderati” di Forza Italia?
I moderati di Forza Italia confluiranno in una nuova formazione moderata, che si farà sicuramente ma non ha ancora contorni precisi

Pensi che questa radicalizzazione della Destra possa creare un nuovo bipolarismo?
Avremo un sistema a quattro poli, dunque diverso dal tripolarismo del post-2011: allora c’era il centro-sinistra, il centro-destra e il grillismo. Ora si va verso quattro poli: Pd, 5 stelle, nuovo Centro, destra-centro.

Comunque sia al di là dell’antisalvinismo, che non è sufficiente per creare una amalgama governativa (intesa come “anima”, “respiro”). Pensi che l’orizzonte europeo possa creare questo?
Anima e respiro se ne vedono pochi, siamo alla sopravvivenza pura. Per tutti. Certo, l’anti-salvinismo non basta, ma per ora non c’è Europa che possa aiutare: il coraggio se non ce l’hai, non te lo regala nessuno. E neanche lo spessore politico. Si navigherà alla giornata
Il premier Conte guarda al suo governo, come ad un governo di legislatura.

Proprio per la mancanza di una amalgama profonda non mancheranno le difficoltà di navigazione. Quando si manifesteranno?
Questo governo nasce per prendere tempo e per impedire a Salvini di prendersi il Paese. Probabilmente per arrivare all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica nel 2022, la ricetta “migliore” sarà quella di mettere in cottura il minor numero di cose possibile. Per non lacerarsi. Non decidere per durare.

Le elezioni amministrative in Emilia, Toscana e Umbria costituiranno un pericolo per il governo?
In Umbria il Pd rischia molto e se non ci saranno alleanze col M5s, una sconfitta in una Regione rossa non sarebbe un buon viatico per il governo. In Emila e Toscana i  rischi sono assai relativi per il Pd. Il governo? Molto dipenderà dalle alleanze Pd-M5s, che in troppi danno per scontate. Se ci saranno, il governo non rischierà nulla, se non ci saranno i rischi aumentano ma non di molto.

Chi rischia di più in questa esperienza governativa? Il PD o il M 5stelle?
Entrambi. Una ragione di più per abbandonare lo schema del precedente governo, ognuno con la sua bandiera e puntare invece su riforme condivise e non soltanto finalizzate al consenso breve.

“La devastazione dell’Amazzonia è una conseguenza dell’avidità di denaro e dell’ ambizione sfrenata di profitto”. Intervista a P. Roberto Jaramillo S.J

 

Con questa seconda intervista, dopo quella al teologo brasiliano Leonardo Boff, concludiamo il nostro
approfondimento dedicato all’Amazzonia e al Sinodo sull’Amazzonia, convocato nel mese di Ottobre, a
Roma, da papa Francesco. Oggi il dialogo è con Padre Roberto Jaramillo Bernal, gesuita colombiano,
Presidente della Conferenza dei Provinciali gesuiti dell’America Latina e dei Caraibi.

 

 

 

 

Cosa può fare la comunità internazionale per difendere l’Amazzonia?
Due settimane fa abbiamo assistito a un momento unico di consapevolezza planetaria sull’importanza dell’Amazzonia: dopo 17 giorni di incendi, quando nella grande città di San Paolo (Brasile) il pomeriggio si è oscurato dalla densità del fumo proveniente dagli incendi dall’Amazzonia, il mondo intero ha iniziato a spaventarsi; e solo allora (seconda settimana di agosto) i grandi “media” e i governi iniziarono a pronunciarsi. L’azione efficace ha richiesto molto più tempo e in alcuni casi non si è nemmeno verificata. Tuttavia, dopo due settimane di dibattiti, accuse, foto scandalose e dichiarazioni di buona volontà, oggi le notizie che destano preoccupazione nello “spazio sociale” sono altre. Nonostante ciò, la nuova coscienza planetaria è piena di speranza; ma la preoccupazione comune per la “casa in cui viviamo” dovrebbe essere non solo promettente, ma anche riparativa. Ed è qui che credo che la comunità internazionale debba – contrariamente alla manipolazione effimera delle notizie (e non sto esprimendo un giudizio morale) – lavorare su due compiti fondamentali: in primo luogo pressione globale dei cittadini sui governi che hanno responsabilità diretta nella cura e conservazione delle foreste tropicali del mondo, ovvero: l’Amazzonia, il bacino del Congo e le foreste dell’Asia meridionale e orientale; e quando dico “pressione” non mi riferisco solo ai governi di quei paesi, ma anche a coloro che sfruttano o hanno sfruttato secolarmente quei territori e quei popoli a loro vantaggio. In secondo luogo, abbiamo la sfida – che a volte sembra impossibile – di generare e sviluppare un compito educativo attraverso il quale gli abitanti della terra assumono abitudini di consumo responsabile nel consumo del cibo, nell’igiene, nell’industria, nella estetica, nell’edilizia, nei trasporti e nei campi più svariati. Il compito sembra essere solo all’inizio e ha molti nemici.

 

Sappiamo che le irresponsabili politiche del governo di Bolsonaro sull’Amazzonia si basano su un’ideologia “estrattiva”. Ma esiste anche la pericolosa ideologia “sovranista”, ovvero “l’Amazzonia appartiene al Brasile”. Questo dice Bolsonaro. È così?
Bolsonaro non è altro che l’espressione di metà di un paese che lo ha eletto presidente, come è accaduto in altri paesi potenti: Stati Uniti, Israele, India, Russia, Cina. Il nazionalismo non è una malattia tropicale o brasiliana, ma un’arma politica per difendere gli interessi egoistici e meschini, sempre più monopolizzati a livello internazionale. Il problema di questo dibattito sull’internazionalizzazione dell’Amazzonia non è geografico ma politico; di più, non è nemmeno geopolitico ma geo-economico (e non solo per il governo brasiliano): ciò che viene difeso non sono gli interessi nazionali ma quelli economici delle imprese!Questo è il motivo per cui è così importante sviluppare quella coscienza universale riguardo alla “casa comune” e che si traduce in pratiche concrete di consumo sempre più responsabile (austero) e nell’esercizio di una cittadinanza universale che non dovremmo lasciarci portare via (ricerca, dibattito, pressione, organizzazione). 

 

Oltre a queste ideologie, quali sono le altre “strutture di peccato” che stanno devastando l’Amazzonia?
Devastare è una parola piuttosto pesante; penso, in verità, che la devastazione delle foreste tropicali del mondo – dall’Indonesia e dalla Malesia, dalle foreste del Congo alla Panamazonia – sia una diretta conseguenza dell’avidità di denaro e dell’ambizione di guadagni egoistici e senza misura.Dietro quella pulsione che vende come “naturale” il sistema attuale vi è un enorme , un tremendum vuoto: e questo tremendum ha a che fare con lo spirituale e il religioso. Esistono alcune “strutture di peccato” (per continuare con l’espressione della tua domanda) che avvelenano la testa e il cuore di persone e gruppi: famiglie, corporazioni, compagnie, partiti, nazioni e che rendono l’umanità veramente cieca: cammina verso la propria distruzione. Come ha ripetuto Greta Thungber nei suoi discorsi: i nipoti dei “Bolsonaros della vita” – per quanto ricchi possano essere – non avranno né acqua pura, né acqua potabile né cibo sano. Questo è ciò che stiamo lasciando alla prossima generazione. 

 

Come si muove la Chiesa cattolica per difendere l’Amazzonia?
Anche la Chiesa si sta svegliando lentamente. Storicamente non siamo stati un esempio per nessuno: sia i conquistatori che i colonizzatori di ieri e di oggi sono stati principalmente il frutto del cristianesimo: questo tipo di umanità devastante che in cinquecento anni ha messo a rischio il frutto di milioni di anni di evoluzione.Tuttavia, all’interno di questo cristianesimo ci sono molte persone, e anche persone della Chiesa cattolica, che iniziano a pensare e agire in modo personale e istituzionale in un modo nuovo. Ad esempio, l’accoglienza straordinaria che l’enciclica Laudato Sì ha avuto negli ambienti universitari dell’America Latina, specialmente tra le persone che non confessano di essere credenti praticanti, è un chiaro segno che la Chiesa è in grado di ascoltare e sintonizzarsi con i desideri più profondi dell’umanità: quelli con i quali “lo Spirito geme al suo interno come per i dolori del parto” (Rom. 8, 22-23).Le chiese della regione amazzonica hanno una speciale sensibilità spirituale che si rivela essere un dono per il corpo universale. E il suo più grande contributo è l’affermazione, la difesa e la promozione di risorse umane, etiche e spirituali, che sostengono una visione globale, attenta e compassionevole della creazione. 

 

Sappiamo dalla storia che esiste un legame profondo tra la Compagnia e la causa degli indios. Come si sviluppa concretamente l’azione di promozione umana della Compagnia nei confronti degli indios?
Nella cosiddetta panamazzonia, condivisa da 9 paesi sudamericani, i gesuiti hanno una presenza significativa per noi e per la Chiesa (anche se piccola) nel lavorare con le popolazioni e le culture native: nell’alta giungla del Perù, nelle pianure di Moxos in Bolivia, nella Guyana inglese occidentale, nelle savane del sud dell’Orinoco, nella foresta pluviale dell’Ecuador, e da Leticia (Colombia) a Belem do Pará (Brasile) alla foce dell’Amazzonia; Ci sono circa 45 gesuiti che lavorano a tempo pieno.Una priorità apostolica è lavorare e sostenere le iniziative di organizzazione e difesa culturale delle molte popolazioni indigene che abitano secolarmente in questi luoghi: compiti pastorali ed educativi, difesa e promozione dei diritti umani individuali e collettivi, promozione delle loro culture, comprese le loro visioni politiche e religiosi, sostegno nella difesa dei loro territori e progetti di vita, tra gli altri, sono opere realizzate dai Compagni di Gesù insieme a molti altri religiosi e laici con i quali collaboriamo.Insisto sul fatto che è un lavoro significativo per noi (e forse per le chiese locali) ma che di fronte all’immenso territorio umano e geografico che abbiamo di fronte è molto piccolo: come un fermento nel mezzo della massa. Stiamo imparando insieme a molti altri che sono lì e che sono rimasti per secoli al servizio dei popoli nativi dell’Amazzonia. 

 

Papa Francesco, come sappiamo, ha convocato, per il prossimo ottobre, il Sinodo sull’Amazzonia. Nell’Instrumentum laboris, molto denso e profondo, c’è la proposta di promuovere una “ecologia integrale” in Amazzonia. Cosa significa questo?
È forse il concetto più originale che Papa Francesco abbia avuto la grazia di coniare e far circolare nella discussione anche teologica dell’umanità di oggi. Non è facile dire tutto quello che significa il concetto di “ecologia integrale” perché in ogni specifica situazione di discussione e analisi è necessario considerare variabili eco-logiche che in un’altra situazione non sarebbero contemplate.Ma l'”integrale” ha, oltre a quel senso di complessità, un altro senso ancora più carico della propria forza e che il Papa esprime quando dice: “Tutto è collegato a tutto”, tutto è interconnesso. L’enfasi non è più posta sugli elementi integrabili e sulla loro complessità, ma nel complesso che gli elementi costituiscono, il che, credo, è ciò che rende peculiare la discussione che propone il papa. È un paradigma di particolare conoscenza, molto diverso da quello che il genericamente chiamato “mondo occidentale” ha prodotto, coltivato e diffuso, e che ha dimostrato il suo fallimento nei risultati che dice che desidera: uguaglianza, fraternità, libertà. Un paradigma diverso molto più vicino a quello dei popoli originali e alla visione spirituale (mistica religiosa) della realtà nel suo insieme e dell’essere umano in essa. 

 

Pensa che il Sinodo avrà conseguenze politiche favorevoli per il popolo dell’Amazzonia?
Le conseguenze politiche che il Sinodo avrà sicuramente hanno a che fare principalmente con l’ascolto dei popoli amazzonici e quindi con “far sentire la loro voce” a livelli sempre più ampi e decisivi; e, in secondo luogo, con le dinamiche della partecipazione popolare (ecclesiale) che erano già state generate in questo periodo di preparazione dall’annuncio del sinodo a Puerto Maldonado (2018), nonché con quelle che possono essere generate e promosse grazie alla conversione delle chiese amazzoniche (che dipendono in gran parte dai vescovi sinodali) nelle chiese locali di vera comunione.Si tratta di recuperare, valorizzare e promuovere comunità aperte e inclusive, dove la povertà personale e sociale è bandita e la responsabilità e la condivisione reciproca sono reali, dove il vangelo di Gesù è una fonte di ispirazione non solo per celebrare la Messa in modo autoctono (fonte e culmine della vita ecclesiale), ma rendere la vita ordinaria un’Eucaristia permanente dove ognuno ha cibo, terra, educazione, salute, “voce e tempo”, come di solito cantano in Brasile; e un clero che è veramente al servizio del popolo di Dio (più simile al figlio molto piccolo della mangiatoia, che all’Altissimo della Gloria).Niente di più politico che vedere sempre più chiese più evangeliche. Il sinodo promette di alimentare questo processo; sebbene ci siano ostacoli e nemici. 

 

Nuovi percorsi pastorali sono proposti per la Chiesa in Amazzonia. Ad esempio, una parte del documento può portare a una nuova visione dei ministeri. In particolare, il ministero ordinato. I conservatori stanno attaccando su questo punto. Pensa che il Sinodo sarà in grado di resistere?
Una cosa importante è sapere, comprendere e accettare che si tratta di un “sinodo speciale” per l’Amazzonia (terza modalità di un sinodo, che non è la stessa di un “terzo sinodo” come alcuni vorranno vederlo a seconda delle loro conclusioni). Personalmente, mi sembra che sia una tentazione e che faccia del male al sinodo far finta che parli “come ex catedra”, cioè: che i padri sinodali convocati per discernere i nuovi percorsi che le chiese amazzoniche pretendono (o aspettano loro) danno lezioni a tutta la chiesa (speriamo di non essere contaminati da questa “ideologia”, i mass media certamente la forzeranno).Nello specifico, quel punto sui ministeri necessari per la vita delle chiese amazzoniche deve essere messo in quella prospettiva. Non credo che il Sinodo dirà o chiederà di attuare tutto ciò che non è già stato detto e rivendicato dal Concilio Vaticano II, che ha affermato con tutta l’autorità della Chiesa (in lettere maiuscole TUTTI) la ministerialità propria del popolo di Dio, la centralità e l’urgenza della comunione eucaristica nella costruzione e realizzazione della comunità ecclesiale e la funzione clericale come uno tra molti altri servizi possibili e necessari per la missione di tutto il corpo ecclesiale. Molti cattolici non hanno letto né conosciuto l’ultimo concilio.

 

 Ultima domanda: Papa Francesco sta dando alla Chiesa una svolta nel segno della “Chiesa uscente” e della sinodalità. Sappiamo che i nemici di Francesco, che non sono solo ecclesiastici, stanno facendo tutto il possibile per limitare la forza delle sue riforme. Pensa che il percorso intrapreso da Francisco sia irreversibile?
L’elezione del cardinale Bergoglio come papa è stata una sorpresa assoluta per lo Spirito e lo abbiamo vissuto in questi anni come un dono straordinario, non solo per la Chiesa ma per il mondo intero. Nonostante le paure che possono sorgere e persino giustificare una semplice analisi sociologica della Chiesa come istituzione mondiale, ho una profonda convinzione – non solo una credenza ma una fiducia basata sulla fede – che è lo Spirito Santo che ci guida, ora con Francesco in testa e che quando arriverà il momento continuerà a mostrarci la strada da percorrere.

 

(Ha collaborato Alberto Cuevas)

“Il futuro dell’Umanità, e della Terra, è legato al futuro dell’Amazzonia”. Intervista a Leonardo Boff

Leonardo Boff (LaPresse)

Leonardo Boff (LaPresse)

L’Amazzonia, il nostro “polmone”, sta vivendo mesi drammatici. Quali le cause? A difesa, tra i più decisi dei leader mondiali, dell’ ecosistema amazzonico si è schierato Papa Francesco. Il pontefice, come si sa, ha indetto, per il prossimo mese di ottobre a Roma, un Sinodo sull’Amazzonia. Quali gli obiettivi? Ne parliamo, in questa intervista, con Leonardo Boff. Boff, brasiliano e teologo della liberazione, è un grande pensatore dell’America Latina impegnato nell’elaborazione di una autentica ecologia integrale.

 

 

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Lectio degasperiana 2019: “L’autobiografia di una nazione nelle lettere di De Gasperi”

“L’autobiografia di una nazione nelle lettere di De Gasperi”: oggi pomeriggio alle 17, a Pieve Tesino, la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi propone una rilettura della storia italiana del Novecento attraverso importanti lettere inedite dello statista, finora sconosciute e riportate alla luce grazie all’Edizione nazionale dell’Epistolario di Alcide De Gasperi. Le lettere saranno interpretate dall’attore Andrea Castelli.

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ECCO COME NASCE L’ODIO ON LINE. INTERVISTA A STEFANO PASTA

Drammatici fatti di cronaca, anche di questi giorni, scatenano spesso, per non dire sempre, vere e proprie tempeste di odio razziale (nei confronti degli immigrati oppure dei rom), per non dire, poi, di quelle contro la comunità LGBT. Ma come nasce l’odio on line? Ne parliamo, in questa intervista, con Stefano Pasta. Pasta, giornalista professionista, è ricercatore al Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT – www.cremit.it) dell’Università Cattolica, diretto da Pier Cesare Rivoltella (che firma la prefazione) ed è autore del libro: Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, Scholé-Morcelliana, 2018. Prefazione di Pier Cesare Rivoltella – Postfazione di Milena Santerini

Stefano Pasta, il tuo libro è una documentatissima ricerca sui “nuovi” razzismi 2.0. L’ambiente digitale fa assumere al fenomeno caratteristiche specifiche. Quali sono?

Il titolo, Razzismi 2.0, è al plurale: le manifestazioni e le intenzionalità di chi agisce l’odio sono diverse. Durante la ricerca raccontata nel libro, ho chattato con ragazzi con un’adesione ideologica strutturata  e con altri – molti di più – che ripetevano “mi stai prendendo troppo sul serio”, “ho fatto solo una battuta”. Ma la posta in gioco è seria: sono giovani che inneggiano alla Shoah, invocano le bottiglie incendiarie contro il centro profughi vicino a casa, insultano il tifoso della squadra avversaria commentano usando “ebreo” come parolaccia, minacciano di stuprare una coetanea che non la pensa come loro. Nel testo propongo una classificazione delle diverse forme di razzismo: a ciascuna corrispondono risposte educative differenti.

Rispetto alla novità introdotta dal Web 2.0, quello segnato dai social network, direi che alcune manifestazioni sono nuove, ma i meccanismi dell’odio e dell’elezione a bersaglio sono spesso quelli classici. Nel primo capitolo provo ad accostare ai casi di razzismo online (reperite su pagine calcistiche, in conversazioni sui social, come commenti a notizie sulla società multiculturale) alle interpretazioni storiche del razzismo. Nel secondo e terzo capitolo, invece, ragiono sulla novità, ossia su quelle caratteristiche del digitale che facilitano la propagazione dell’odio.

Ne accenno alcune: i meme, vignette o immagini stereotipate che vengono riprodotte con leggere variazioni e divengono facilmente virali; la velocità 2.0, specialmente nei social network, dove, anche per rispondere al sovraccarico di informazioni (lo scorrere delle condivisioni su Facebook o Instagram), la nostra mente aumenta le decisioni prese seguendo il sistema 1 (veloce e intuitivo) rispetto al sistema 2 (lento e riflessivo). Tutti noi ci pensiamo più razionali di quello che siamo anche offline, ma online diversi esperimenti ci dicono che aumenta l’influenza del sistema 1. Poi la banalizzazione (talvolta con l’ironia) di ideologie e fatti storici, come il nazifascismo; l’emergere di nuovi canoni di autorialità culturali (non più la casa editrice, la rete televisiva, o il quotidiano cartaceo, ma la visibilità in Rete e le condivisioni sui social), che chiamano in causa la necessità di educare all’informazione di fronte alle fake-news e alla post-verità; l’anonimato, una retorica che serve a giustificare un atteggiamento disimpegnato, seppur sia in realtà difficilissimo agire veramente da anonimi nel Web e soprattutto sia l’idea opposta al “tracciare ed essere tracciati” su cui si basano i social network. Ancora: l’effetto alone e la spirale del silenzio: fenomeni già noti nell’offline ma che in Rete aumentano di importanza e che sottolineano come, di fronte a opinioni che percepiamo minoritarie (per esempio quando i commenti per la morte di un bambino si trasformano in cori di gioia perché rom), è difficile uscire dai ranghi ed esprimere opinioni ritenute impopolari; l’analfabetismo emotivo e il flaming: nel momento in cui l’interazione mediata sostituisce la fisicità del corpo, attiviamo meno meccanismi di simulazione corporea (neuroni specchio), perdendo così la capacità di riconoscere ciò che provano gli altri, vivendo emozioni forti ma disincarnate.

L’odio e il razzismo on line sono più pericolosi rispetto a quelli del passato?

Siamo di fronte a una svolta particolarmente allarmante: il razzismo e il linguaggio di odio non sono mai scomparsi, ma ora li abbiamo normalizzati, resi accettabili socialmente. Una tesi che sostengo nel libro è “il ritorno della razza”. Un’immagine simbolo della mia ricerca è una donna africana paragonata alla scimmia, magari facendo una battuta. Si tratta dell’emblema del razzismo classico, che forse pensavamo scomparso, seppur oggi appare svuotato di credibilità e su basi diverse dal suo significato storico. È un grande cambiamento: la prima parte del Novecento era segnata dall’istanza biologica, la superiorità dei bianchi sui neri; 80 anni fa, le Leggi Razziste fasciste furono accompagnate da testi accademici che sostenevano il razzismo su basi (pseudo)scientifiche. Nel Secondo Novecento, acquista importanza la logica culturalista o differenzialista (i valori di quell’etnia, o di quella religione, sono troppo diversi dai nostri per vivere insieme) e i razzismi impliciti o latenti.

Oggi emerge una novità: online diventa molto più labile la separazione tra razzismi espliciti e latenti, superata tra link, “mi piace”, meme e immagini, evocazioni e condivisioni. Con il linguaggio violento sono caduti alcuni tabù (parole e pensieri che, insieme, avevamo deciso che fossero “indicibili”). La banalizzazione e la deresponsabilizzazione nel Web hanno reso possibile quel processo di accettazione sociale che, ad esempio, ci porta a non essere più scandalizzati dell’associazione tra uomo nero e banana, magari richiamandosi a quella pretesa di “non essere preso sul serio” che i ragazzi mi hanno ripetuto nelle conversazioni sui social.

Nella rete, quindi, quale tipo razzismo è più diffuso: quello tribale o quello di “circostanza”, oppure ideologico? Che caratteristiche hanno?

Nel testo propongo una categorizzazione per analizzare le forme di odio, ma qui vorrei evidenziare un elemento che è abbastanza trasversale. Lo dico citando un giovanissimo, uno dei ragazzi con cui ho chattato per mesi, chiedendo come mai avessero partecipato a performances di razzismo 2.0: «Mi stai prendendo troppo sul serio: era solo una battuta». È questa la risposta più comune che ho ricevuto. La pretesa di non essere presi sul serio, perché il fatto è avvenuto online. Intanto invocavano “zio Adolf” o lo sterminio dei musulmani, partecipando a quel processo di normalizzazione dell’odio o di banalizzazione della Storia di cui abbiamo parlato. Da un punto di vista educativo va contrastata dunque l’idea che nel Web ci si possa comportare in modo deresponsabilizzato, meno attento e più superficiale. In questo clima di odio normalizzato, si inseriscono – in modo studiato – persone che propongono l’adesione a gruppi razzisti. Come il caso dei Banglatour a Roma ha mostrato (spedizioni punitive con botte fisiche contro i bengalesi di alcuni quartieri organizzate inizialmente nei social e poi sostenute dall’estrema destra), dall’online si passa all’offline e i gruppi “spontanei” vengono infiltrati da agitatori organizzati.

In questi ultimi tempi la politica è diventata un agente moltiplicatore di diffusione del razzismo. Quanto è grande la responsabilità della politica in questo? 

Settimana scorsa sono stato a Auschwitz, l’apice del Male della nostra storia. Quando studiamo i fatti storici del passato, dobbiamo leggere i meccanismi e i processi: i camini dei forni crematori divengono possibili perché le ideologie di odio riescono a toccare tasti a cui la gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi. La cosa che più impressiona è come siano riusciti a trovare consenso anche sui comportamenti più atroci e disumani dei regimi nazifascisti. Mentre l’odio penetra nel discorso pubblico, ci si inibisce e si perde capacità di reagire. Vince quella parola – indifferenza – che Liliana Segre ha voluto a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah. Auschwitz è un monito a dove possono arrivare razzismo e odio.

E anche di come, nella storia, quando la politica diviene agente di diffusione del razzismo e di odio, l’esito è drammatico. Dovremmo ricordarcelo quando vediamo l’odio sessista aizzato da chi governa contro Carola “colpevole” di aver salvato vite umane, quando le mamme adottive dicono di aver paura se i figli adottivi di pelle nera salgono sull’autobus da soli, quando episodi di razzismo e antisemitismo sono cronaca quotidiana.

Come nasce un hater?

È vero che decisori politici e operatori dei media hanno una responsabilità particolare, poiché possono orientare e aizzare l’odio, ma l’hater che agisce nel Web è anche ciascuno di noi che, poiché si agisce online, si sente autorizzato a rompere quei tabù che regolano il vivere civile. Gli studi sull’odio online ci dicono che gli hater sono estremamente trasversali rispetto a grado di istruzione, età, provenienza sociale etc: erano le varianti classiche che, negli studi sui razzismi, facevano aumentare le tendenze di odio. Nel Web è tutto più trasversale. Se invece pensiamo agli hater più strutturati, sempre più emerge come alcuni gruppi – con legami con partiti politici, con reti e soldi transnazionali – si organizzino per promuovere l’odio online ai fini del consenso.

Dobbiamo però evitare un rischio: considerare tutti hater “nati” e incalliti. Nel libro racconto che ho chattato con ragazzi che avevano partecipato a performances razziste in modo diverso, producendole in prima persona, condividendo una barzelletta antisemita o cliccando “like” a un post islamofobo. I ragazzi stavano tanto tempo a parlare – senza un motivo particolare – con uno sconosciuto che gli faceva domande strane sul loro comportamento nel Web. C’è dunque spazio educativo, non c’è il rifiuto dell’adulto e questo è un primo segnale di speranza. Ho provato a suscitare empatia, spingendo a mettersi nei panni degli altri: di fronte alla frase islamofoba, raccontavo che la mia compagna di studi avrebbe provato dolore e che il nonno del mio amico ebreo avrebbe sofferto di fronte alla barzelletta sulla Shoah. Gli esiti sono stati diversi: talvolta, senza che glielo chiedessi, i ragazzi hanno cancellato il post razzista, vecchio di molti mesi, un’operazione che nei social network è noiosa e richiede tempo. Anche chi non ha cancellato la performance, la prossima volta, si ricorderà di quella strana conversazione e rifletterà un secondo in più, agendo meno “preso dall’enfasi” (come mi hanno detto in diversi) anche se sta commentando il gol della sua squadra preferita.

Come giudichi il ruolo dei gestori delle piattaforme di comunicazione nel contrasto al razzismo 2.0?

Sicuramente dovrebbero essere chiamati a una maggior responsabilità, come ad esempio la recente legge italiana sul cyberbullismo e diverse indicazioni dell’Ue sull’hate speech hanno provato a indicare. Non è semplice poiché si scontrano due concezioni giuridiche molto diverse: quella statunitense, dove sono basati legalmente molti gestori, che ritiene (offline come online) improponibile alcuna restrizione alla presunta “libertà di espressione”, anche quando lede la dignità umana ed è di aperto incitamento all’odio, e quella europea che invece ritiene la dignità umana il limite da non superare.

Purtroppo anche questo dibattito – come questioni tecniche legate per esempio alla rimozione dei contenuti e all’incontrollabilità della vastità della Rete – mostra come l’approccio repressivo non possa bastare. Occorre investire sull’educazione alla cittadinanza digitale.

Tu sei un pedagogista. Quali possono essere i percorsi di contrasto al razzismo 2.0?

Provo a raccontarlo nella seconda parte del libro. Educare alla responsabilità nel Web, valutando la conseguenza delle nostre azioni. Anche dei nostri silenzi: gli studi sui genocidi ci dicono come, per l’affermazione del Male, sia funzionale la cosiddetta “zona grigia” e l’indifferenza di chi accetta senza agire. Occorre spingere gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato proprio dalla cultura partecipativa della Rete. Nella mia ricerca cercavo i razzismi ma ho incontrato, senza cercarli, tanti giovani disponibili ad attivarsi a favore di un Web dell’inclusione e non dell’esclusione: si tratta di un “capitale antirazzista” che non va sprecato, ma promosso e suscitato. Nel libro descrivo alcune proposte in questa direzione, oltre a censire una serie di campagne, app e progetti efficaci dall’Italia all’Australia.

Uno strumento utile, rivolto ai vari ordini di scuole, è il Curriculum di Educazione Civica Digitale, emanato dal Ministero dell’Istruzione nel gennaio 2018. Due sono le parole chiave, senso critico e responsabilità, che vengono declinate nelle diverse aree, dall’educazione ai media alla creatività digitale, dall’educazione all’informazione al calcolo computazionale. Occorre infatti sottolineare un punto: le caratteristiche del digitale possono essere sia positive, sia negative. Dipende dall’uso che gli utenti ne fanno, se sono solo nativi o anche cittadini digitali. In questo modo usciamo dalla strettoia del dividerci tra “apocalittici” e “integrati” di fronte al Web. È un rischio che sempre si corre quando si diffonde un nuovo media e, non a caso, ho citato un’espressione del 1964 di Umberto Eco riferita alla televisione. La risposta della media education, per una postura intelligente davanti allo schermo televisivo, fu l’educazione al senso critico. Nel digitale questo non è più sufficiente, perché rappresenta solo la metà dell’opera. Non basta più educare lo spettatore, occorre anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato grazie allo smartphone che si porta in tasca. Questo significa che insieme al pensiero critico occorre sviluppare anche la responsabilità.