“Donat-Cattin fu un sindacalista prestato alla politica, ma anche uomo di partito e di governo con una straordinaria sensibilità sociale”. Un testo di Francesco Malgeri

Cento anni fa nasceva Carlo Donat-Cattin. Ricordare Carlo Donat-Cattin significa ripercorrere la storia del cattolicesimo sociale che ha segnato la vita della Repubblica nella seconda metà del 900. Con questo spirito, la Fondazione “Carlo Donat-Cattin” di Torino, ha promosso le celebrazioni che partono domani pomeriggio dal Senato alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il saluto del presidente Maria Elisabetta Casellati. I relatori del Convegno celebrativo, che si aprirà domani, alle 16.30 presso la Sala Koch di Palazzo Madama, saranno lo storico Francesco Malgeri, il ministro Alberto Bonisoli, Pierferdinando Casini,  senatore e Annamaria Furlan, Segretario Generale della Cisl.
Quello che fu definito il “ministro dei lavoratori” nell’autunno caldo ha lasciato un segno profondo nelle vicende politiche dimostrando sempre un profondo senso dello Stato unito alla fedeltà alle sue radici cristiane.
Dalla Resistenza al sindacato, dalla Dc al governo, ha espresso sempre una coerenza ed un’onestà intellettuale che gli hanno conquistato il consenso delle classi più umili insieme al rispetto degli avversari.
Un percorso umano segnato da successi e da sconfitte che la Fondazione intende celebrare per costruire sulla memoria un futuro legato a quei valori che sono stati la forza di Carlo Donat-Cattin e di tanti cattolici che hanno speso la loro vita al servizio dell’Italia. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, l’intervento del professor Francesco Malgeri.

Ricordiamo oggi, a cento anni dalla nascita, una delle figure più rappresentative della storia dell’Italia repubblicana, espressione di una viva e intensa sensibilità sociale e politica. Questa sensibilità Carlo Donat-Cattin l’aveva maturata in seno alla sua famiglia, grazie all’esempio del padre, che aveva militato nel popolarismo sturziano; l’aveva consolidata alla scuola dell’Azione cattolica, durante gli anni del fascismo, entrando in contatto con ambienti culturali come il cenacolo domenicano torinese, animato da p. Marcolino Daffara e p. Enrico di Rovasenda. Non aveva mancato di dedicare la sua attenzione anche alla scuola economica dell’Università cattolica di Milano, che aveva in Francesco Vito e nel giovane Amintore Fanfani gli studiosi più accreditati. La Resistenza, che lo vide impegnato nella zona del Canavese, rappresentò per lui un ulteriore scuola di libertà e democrazia.

Nell’immediato secondo dopoguerra il suo impegno si orientò prevalentemente sul versante sindacale. Militò nelle Acli, fu dirigente a Torino della Libera CGIL e dal 1950 della Cisl. Mai abbandonando, però, l’attenzione alla politica, con l’obiettivo di trasferire in seno al partito della Democrazia cristiana, una cultura, un pensiero una scuola ispirata all’azione sociale e sindacale.

Fu espressione e leader di quella Sinistra sociale che attraverso “Forze sociali”, poi “Rinnovamento” ed infine dal 1964 “Forze Nuove”, rifletteva le istanze del pensiero sociale cristiano e l’esigenza di trasferire le attese del mondo del lavoro in seno ad un partito interclassista, assumendo la funzione di gruppo propulsore di nuovi equilibri politici.

Potremmo affermare che Donat-Cattin fu un sindacalista prestato alla politica, ma anche uomo di partito e di governo, che si distingueva per la sua straordinaria sensibilità sociale.

Il suo passaggio alla politica avviene all’inizio degli anni Cinquanta, quando la Democrazia cristiana conobbe il tramonto del  dossettismo, l’emergere di Iniziativa democratica e di un ricambio generazionale alla guida del partito con il progressivo declino della leadership degasperiana.

Sono anni carichi di attese e di speranze. Gli anni che segnano l’avvio del miracolo economico, destinato non solo a favorire un balzo in avanti dell’economia italiana ed una straordinaria accelerazione allo sviluppo industriale del paese, ma anche ad incidere sul costume, sulla mentalità e i comportamenti degli italiani. Una crescita che conobbe anche alti costi sociali segnati, tra l’altro, dalle grandi migrazioni che dalle regioni meridionali hanno trasferito nel triangolo industriale una massa eccezionale di forza lavoro.

Matura in questi anni anche una delle più significative svolte politiche conosciute dalla storia della democrazia repubblicana, con un processo che porta al superamento del tradizionale quadro politico, ancorato ai partiti del centro democratico, e all’inserimento nell’area di governo del partito socialista che, superando lo schema frontista, si proponeva come forza politica disponibile all’incontro e alla collaborazione con le forze di democrazia laica e cattolica.

Siamo negli anni che, sul piano internazionale registrano importanti novità: dalla destalinizzazione in Unione sovietica, alle rivoluzioni polacche e ungheresi, al processo di distensione avviato da Kruscev, all’avvento di Kennedy alla Casa Bianca. Un processo che suscitò grandi speranze, animate anche dalla dall’avvento di Giovanni XXIII al soglio pontificio e dal grande rinnovamento della Chiesa cattolica operato nella stagione del Concilio Vaticano II.

È in questo contesto storico e politico che Donat Cattin entra a pieno titolo nella vita politica nazionale. Consigliere nazionale della DC dal 1954, deputato dal 1958 e membro della direzione del partito dal 1959, dopo le elezioni del 1963, cominciò una lunga esperienza di governo, come Sottosegretario alle partecipazioni statali nei primi tre governi di centro sinistra, guidati da Moro, dal dicembre 1963 al giugno 1968.

L’impegno di governo era una esperienza nuova per Donat Cattin. Una esperienza che gli offre l’occasione per cogliere le molte e significative realtà dell’economia italiana. Se scorriamo i suoi interventi parlamentari in quegli anni vediamo emergere i molti problemi dell’industria pubblica da lui affrontati: dall’Italsider, alla Rai, all’Ansaldo, all’Alfa Romeo, all’Eni, all’Agip, alle acciaierie di Bagnoli, alla Cogne, alla Tirrenia, all’Alitalia e così via.

Il suo impegno di governo gli consentì di affrontare, con una intensa partecipazione, piccoli e grandi problemi che attraversano la vita economica e industriale del nostro paese, spesso con ricadute che investono il mondo del lavoro.

Donat Cattin coltivava la speranza e l’ambizione di favorire la crescita di un sistema economico in grado di offrire all’uomo, al lavoratore uno sviluppo non alienante, ma costruito sulla base di equilibri che tengano conto soprattutto del rispetto dei valori più profondi che devono animare la convivenza civile. A suo avviso, il centro-sinistra avrebbe dovuto costruire uno “stadio più alto di civiltà”.

Prende corpo in questi anni la sua amicizia e collaborazione con Aldo Moro. Si trattò di un rapporto intenso e profondo. La formazione sociale e sindacale di Donat Cattin, forgiatasi nella durezza degli scontri e delle rivendicazioni del movimento operaio torinese, sorretta dalla chiara idea di un partito che doveva farsi carico delle esigenze e dei bisogni del mondo del lavoro, forse mal si conciliava con l’elaborazione culturale e politica di un intellettuale del Mezzogiorno, che aveva maturato le sue scelte politiche sulla base di una fede profondissima, di una profonda formazione filosofica e giuridica. Probabilmente lo affascinò di Moro la eccezionale capacità di lettura e interpretazione dei fenomeni sociali, a partire da quel discorso pronunciato nel novembre 1968, sui “tempi nuovi “, sul “moto irresistibile della storia” e su una “nuova umanità che vuol farsi”.

Attento osservatore della società italiana, a Donat Cattin non sfuggirono, alla fine degli anni Sessanta, i segnali che provenivano dai mutamenti generazionali e dalle agitazioni studentesche, oltre che operaie. Egli cercò di coglierne il carattere e gli obiettivi, vi rintracciò prospettive “ancora confuse” e “non omogenee”, ma anche la denuncia nei confronti degli aspetti autoritari dei sistemi politico-economici, che avevano “la disponibilità – affermò – dei mezzi di controllo e di manipolazione approntati dallo sviluppo tecnologico”.

Ebbe anche tentazioni scissionistiche, ben presto rientrate, nella convinzione che “senza radici storico-sociali l’avventura politica del cristiano si limita a testimonianza”.

Momento significativo nella biografia politica di Donat-Cattin, fu la nomina, nell’agosto del 1969, a Ministro del lavoro nel secondo governo Rumor, confermato nel 3° Rumor e nei successivi governi di Colombo e di Andreotti, sino al giugno 1972. Donat Cattin assumeva la carica che era stata del socialista Giacomo Brodolini, morto nel luglio 1969.

Toccò proprio al vecchio sindacalista, al “ministro dei lavoratori” Donat Cattin, gestire la drammatica situazione segnata dall’esplodere delle agitazioni sindacali del 1969, di quell’“autunno caldo” che fu soprattutto una risposta alla crisi determinatasi dalla conclusione del processo espansivo dell’economia italiana e dalla diminuzione degli investimenti industriali.

Il successo più significativo del ministro, grazie all’azione congiunta dei sindacati e della Dc, impegnati sul piano politico e sindacale, fu l’approvazione da parte del Parlamento nel 1970 dello Statuto dei lavoratori, che fissava precise norme a tutela del mondo del lavoro. Donat Cattin ebbe a definirlo “un fondamento dello Stato democratico” e “il completamento del sistema di libertà” nel nostro paese.

Alla fine degli anni Settanta, nel clima di emergenza economica, sociale e terroristica, Donat-Cattin, sia pure con qualche esitazione e riserve iniziali, aveva condiviso il progetto di Moro, tendente a coinvolgere il Pci nell’area di governo. Aveva giudicato un “capolavoro politico” il modo con cui Moro era riuscito a realizzare quel disegno, che doveva portare ad un governo di “tregua” e di “transizione.

Seguirono i giorni drammatici del sequestro e dell’assassinio di Moro, che Donat-Cattin visse con passione e sgomento. Lo confermano le lettere ad Andreotti e la disperata ricerca di una via d’uscita per salvare la vita del suo amico.

Anche le lettere di Moro dal carcere lasciarono un segno nell’animo di Donat Cattin. Quelle parole, a volte crude e pesanti, svelavano, a suo avviso, “pagine tristi di uno squallido mondo del potere”.  Quelle pagine, scriveva il vecchio sindacalista con la sua consueta franchezza, “scavano giudizi contro il sistema e contro di noi democratici cristiani. Sapremo costituire – si chiedeva – quel senso che lasciano con una immagine più vicina a quella di una Dc che ha saputo risollevare l’Italia col sacrificio, la dedizione, il disinteresse di tante guide e di tanti militanti?”.

Il leader di Forze nuove tornò più volte ad interrogarsi su quel difficile e drammatico momento, cercando di trovare nella propria coscienza le ragioni di una scelta difficile e penosa. “Se pure la scelta era difficile – scrisse nell’ottobre del ’90 – chi era amico di Moro la compì con libera e scrupolosa coscienza”, precisando che “la coscienza è sempre in qualche misura condizionata dal costume, dagli influssi dominanti della cultura”.

La tragica scomparsa di Moro, il venir meno della solidarietà nazionale con il progressivo disimpegno del Pci, e l’emergere della disponibilità socialista a far parte di un esecutivo basato sulla formula del pentapartito, convinse Donat-Cattin a escludere qualsiasi forma i collaborazione governativa con il Pci. Nel 1980 fu l’estensore del “preambolo” alla mozione della maggioranza al Congresso, che accoglieva una pregiudiziale contraria al coinvolgimento del Pci nell’area di governo.

Questa vicenda fece riemergere la sua figura in primo piano nel quadro politico nazionale. Molti interpretarono questo sua atteggiamento  se non un tradimento certo un radicale abbandono delle sue antiche battaglie.  In realtà, rileggendo oggi, a circa quarant’anni di distanza quella vicenda, va ricordato che la sua  posizione era riflesso di una diversa e contrapposta visione dello Stato. Donat-Cattin rifiutava l’idea dello Stato socialista inteso come “economia statizzata e burocratizzata”, “liquidazione della libertà di un paese. Giudicava fatale per la democrazia, “una maggioranza pressoché unanimistica, con tutti e due i piedi dentro la ‘democrazia consociativa’ senza controllo, slittante verso la strategia incontrollabile di piccoli gruppi dirigenti”.

Ma egli intendeva anche evitare che la Dc venisse sospinta a destra, ad interpretare un ruolo conservatore nel quadro politico nazionale. Aveva affermato, un anno prima, il 12 agosto 1979 alla Camera, per definire la fisionomia del suo partito: “Noi non siamo marxisti né siamo liberali. Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana […] E siamo i continuatori della tradizione politica del popolarismo”.

Negli ultimi anni della sua vita matura la crisi del sistema politico italiano. Donat-Cattin non crede che la soluzione si dovesse trovare nel cambiamento del vecchio sistema, imperniato sul ruolo centrale dei partiti e sul sistema proporzionale. Temeva fortemente un cambiamento poco ponderato, che rischiava di incidere negativamente sulla vita democratica nazionale. Temeva soprattutto le avventure plebiscitarie, i partiti personali, il peso eccessivo e l’ingresso sempre più invadente del potere economico e finanziario nella vita politica italiana.

La sua morte, avvenuta il 17 marzo 1991, precede di poco le grandi trasformazioni destinate a modificare radicalmente quel sistema politico nel quale Donat-Cattin si era formato e aveva operato. Precedeva di poco anche la conclusione della lunga esperienza politica della Democrazia cristiana, di cui era stato una delle espressioni più vivaci e coerenti, avendone animato i dibattiti con l’obiettivo di rivendicare il “primato del sociale” e di riaffermare la natura popolare del partito.

 

“Il DDL Pillon non ha nulla di cattolico”. Un documento dell’Associazione “Donne per la Chiesa”.

Di seguito pubblichiamo, in occasione della Festa della Donna, un documento di riflessione sul controverso ddl Pillon. Il ddl vuole introdurre delle modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori. Il disegno di legge prende il nome dal senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day. Come si sa Pillon è uno dei massimi esponente dei gruppi integralisti cattolici italiani.

Con questo documento vogliamo espressamente occuparci del DDL 735 (Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità) presentato dal Sen. Pillon al Senato il 1 agosto 2018, che   sta sollevando molte discussioni e generalizzate critiche da parte del mondo psicologico-giuridico e del diritto.

Il DDL si compone di 24 articoli e, nell’ottica di chi lo ha elaborato, dovrebbe garantire al figlio minorenne di coppie separate una più corretta applicazione della legge 54/06 sul cd affidamento condiviso, attraverso una serie di passaggi di una certa rilevanza, sulla scorta di un rigido principio di bigenitorialità.

Lasciamo a operatori più esperti e competenti i profili di critica agli aspetti psicologici, processuali, del diritto e della tutela effettiva delle parti più deboli del rapporto familiare.

In quanto donne e credenti ci interessa sottolineare un altro aspetto che attiene alle premesse culturali della riforma, più che alla regolamentazione che essa propone.

I proponenti (a partire dal senatore Pillon, eletto nelle file della Lega Nord) hanno in più occasioni ribadito le proprie radici culturali come cristiane ed in particolare cattoliche ed hanno di conseguenza proposto e reclamizzato la propria azione politica, con ciò esprimendo una visione integralista, sia della religione sia del rapporto della politica con la religione.

Questo fatto ci trova profondamente contrarie e ci induce a intervenire nel dibattito, per contrastare con forza un atteggiamento che piega e riduce un pensiero ed una tradizione secolari e complessi alle idee di pochi, a poche idee, a idee che in gran parte appaiono in contrasto con il messaggio rivoluzionario e di misericordia che ci ha fatto innamorare ed iniziare un cammino che chiamiamo fede cristiana.

Prendiamo parola convinte che la nostra autorevolezza e il rispetto che pretendiamo derivino innanzitutto dall’essere donne.

Donne  che vivono  nel mondo, donne con figli e con mariti, donne senza figli e senza mariti, religiose, donne che hanno generato non fisicamente ma  nell’amore e nella dedizione agli altri o al proprio lavoro, donne che sono state sposate e non lo sono più, donne che hanno sposato  uomini che venivano da altri matrimoni o altre storie, donne che si sono a loro volta risposate;  pensiamo che la nostra credibilità  venga non solo da quello che diciamo, ma dal fatto che siamo donne reali, donne che hanno vissuto  sul proprio corpo cosa significa generare un figlio o scegliere di non generarlo,  stare accanto ad un uomo che ti ama e stare accanto ad un uomo che non ti ama più, siamo o abbiamo amiche sposate, single,  divorziate, separate.

Abbiamo l’urgenza e la forza, poi, dell’assertività che viene dall’essere donne di fede.

Fede vissuta, cammini iniziati, interrotti, ripresi, cadute e nuovi inizi, dubbi, domande, critiche, preghiera, ascolto, nessuna certezza ma anche impegno in piccole e grandi realtà parrocchiali e comunitarie, in mille forme di volontariato, nella carità delle piccole cose e delle grandi fatiche silenziose, fede che ci accompagna nella educazione dei nostri figli e nelle Chiese sempre più vuote e nelle Messe in cui vediamo, a dire il vero, molti pochi di quegli uomini che  invece si fanno forti sbandierando “valori cristiani” sulle pubbliche piazze.

Il substrato culturale del decreto parte innanzitutto da una immagine del tutto stereotipata della donna e dalla volontà di confinarla nel ruolo di madre e di moglie.

Noi crediamo, invece, che ogni essere umano sia chiamato ad una sua personalissima realizzazione (che è la tensione verso il divino presente in ognuno di noi) che si compie nell’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle, ma che in ciascuno può trovare i modi e le manifestazioni più diverse: porre ostacoli alla vocazione di un essere umano, anche in nome del “valore della famiglia” significa frapporsi tra un’anima e il suo Creatore.

Invochiamo con forza la necessità di liberare il messaggio cristiano dai limiti culturali  del contesto in cui  avvenne la predicazione di Gesù e soprattutto denunciamo, con ancor più forza,  l’utilizzo  della religione come strumento di potere, nel nostro caso di  potere patriarcale che ha buon gioco nell’estrapolare e strumentalizzare alcuni  passi delle scritture per legittimare una condizione di inferiorità femminile che non può riferirsi al messaggio evangelico, ma che si ha estremo interesse a mantenere immutata.  

 Altro aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uomini e donne nel matrimonio. Troppo spesso il profondo e sacro legame che nelle Scritture si auspica esistere tra uomo e donna (Marco 10, 6-9) viene interpretato non come unità, ma come proprietà l’uno dell’altro.

La conseguenza è che valori come la fedeltà e l’indissolubilità vengono a valere a senso unico e lungi dall’essere, come dovrebbero, i segni esteriori dell’amore unitario, diventano unicamente mezzi per l’esercizio di un potere, in un legame matrimoniale che non vede la dignità di un rapporto fra pari, ma egoismo, umiliazione, e controllo.

Per quanto riguarda le proposte del decreto riguardo ai figli è evidente l’errore di prospettiva, adultocentrica, del prevedere obbligatori tempi di paritetica spartizione del figlio nel più totale oblio del suo vero interesse. Noi donne credenti sentiamo l’urgenza di manifestare la nostra contrarietà a questa visione che ferisce per la totale mancanza di rispetto per i figli, tramite la sottrazione della loro soggettività e riducendo la loro libertà di esseri che sono già persona in pienezza, ancorché bambini. Se perdiamo di vista questo valore, tradiamo la visione cristiana del rapporto di filiazione, e in generale dell’attenzione verso i più deboli oltre a valori etici che vengono ancora prima e attengono alla dignità e ai diritti della persona umana.

In conclusione se il pensiero cristiano, nella storia, si è reso colpevole di aver tramandato un ideale di femminilità fatto di docilità e passività, asseriamo con forza che non è questo il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna, per come Gesù Cristo lo ha proposto nel suo Vangelo. La Chiesa ha troppo spesso scelto di mantenere il silenzio sulla violenza domestica, sull’abuso e sulla sottomissione, per preservare lo status quo, ma oggi che sta uscendo finalmente allo scoperto con una importante azione di verità sulle proprie colpe, non possiamo accettare che la società civile -che si appella ai principi cristiani- vada nella direzione opposta, riproponendo un modello familiare fatto di predominio maschile e subordinazione femminile.

“L’inclusione è la chiave dell’alternativa per il PD”. Intervista a Marco Damilano

Il boom delle “Primarie” di domenica, un milione e ottocentomila di partecipanti, hanno rivitalizzato il partito principale del centrosinistra italiano. Nicola Zingaretti, il neo eletto segretario del PD, avrà da compiere un duro lavoro di ricostruzione. Come si muoverà il nuovo leader? Ne parliamo con Marco Damilano, Direttore del settimanale “L’Espresso”.

 Marco, in due mesi, tra Elezioni regionali, Manifestazione anti razzismo a Milano, e Primarie del Pd, sembra che il lungo letargo della sinistra sia terminato. Cosa ha determinato questo risveglio? È l’inizio di una rincorsa per giocare ad armi pari con la destra a trazione sovranista?

 Io penso che come dici tu siamo solo all’inizio di una strada lunga e difficile. Va bene per i leader del Pd esultare una sera ma poi bisogna cominciare a lavorare per ottenere quello che tu dici: una condizione di parità con la destra. La manifestazione di Milano mi sembra l’evento più sorprendente e di portata strategica. Credo che si stia formando un campo che non è solo anti-salviniano, ma ha una visione diversa della società. In minoranza, probabilmente, ma non più costretto a sentirsi irrilevante. C’è sempre stato, in realtà, ma in questi mesi è mancata una rappresentanza politica. Ora bisogna darla: sinistra, cattolici e lib-dem.

Focalizziamo meglio il risultato delle Primarie del PD. Straordinaria la partecipazione, Elezione di Nicola Zingaretti, il candidato più lontano da Matteo Renzi. Sono elementi che dovrebbero segnare una svolta, perché nel commentare le Primarie, hai scritto che è un voto “conservativo”? Forse ho interpretato male il tuo pensiero?

Ho usato quell’aggettivo per dire che il popolo delle primarie va a votare prima di tutto per dichiarare la sua esistenza. Più che un cambiamento chiede un riconoscimento, la difesa di valori che sente minacciati. Questi numeri disegnano lo zoccolo duro dell’elettorato delle primarie. Zingaretti ha saputo parlare a questi elettori, è legittimato da un voto importante, ora deve avere la forza di compiere la sua svolta. Sul piano organizzativo: via il pesante partito novecentesco, la Ditta di Bersani, ma anche il partito personale di Renzi, il Pd formato Leopolda. Sul piano culturale: come recuperare le parole e i temi e un’analisi della società alternativa ai populisti. Sul piano politico: le alleanze.

Torniamo su Zingaretti. L’uomo ha una lunga storia dentro la sinistra romana, quella della FGCI, ne è il distillato ultimo di quella tradizione. Un uomo prudente,Certamente. Eppure nel suo intervento dopo le elezioni ha indicato una visione inclusiva del partito e della società. Pensi che questo sia il valore aggiunto del PD di Zingaretti? Sarà sufficiente nella competizione con i 5 Stelle?

L’inclusione è la chiave dell’alternativa, accanto ad altri temi. Libertà e giustizia, qui ti cito tra gli altri Antonio Funiciello che ne ha scritto sull’Espresso. La lotta per l’uguaglianza, su questo rimando al lavoro che sta facendo il forum di Fabrizio Barca, e per lo sviluppo sostenibile, su cui è impegnato Enrico Giovannini. Il nuovo welfare che è la vera emergenza nazionale. Bisogna trovare l’agenda della sinistra, così come Salvini trovò la sua sulla sicurezza in anni di renzismo trionfante.

Ma il nemico numero uno del PD di Zingaretti è La Lega sovranista di Salvini. Una lega spregiudicata, capace di mobilitare le insicurezze degli italiani. Il salvinismo è un mix di xenofobia, con tratti anche peggiori, individualismo economico, tradizionalismo ipocrita e tanto altro. Tutto questo è riuscito a prendere il senso comune della maggioranza degli italiani. Zingaretti che risposta potrà dare a questa ideologia della Paura?

Il lavoro più duro da fare è il recupero del popolo che non è un tutto indistinto, ma sono cittadini in carne e ossa. Poi c’è un tema più immediato: pressare M5S mettendolo di fronte alla scelta di visione della società. Tornare a uno scontro tra destra contro sinistra servirebbe a far capire quali sono i valori in campo, alternativi. E costringere M5S a dire da che parte sta.

Veniamo a Matteo Renzi. Francamente è il vero sconfitto della Primarie (i puri e duri del renzismo, Giachetti e Ascani, non hanno brillato). Sappiamo che era più interessato alla promozione del suo libro, che sta avendo successo in libreria. Insomma ha giocato delle “Primarie” parallele. Promette collaborazione. Durerà questo spirito?

Credo che sia una fase tattica. Renzi è spiazzato dal voto, inatteso in queste dimensioni. Per la prima volta non è più lui a interpretare il nuovo nel Pd e potrebbe ritrovarsi nella scomoda posizione di gufo e rosicone, come diceva una volta.

 La proposta di Calenda, con la vittoria di Zingaretti, è uscita rafforzata?

Si. E in ogni caso si è indebolita la tentazione di andarsene.

 Ultima domanda : La vittoria di Zingaretti che conseguenze può avere nei confronti di Bersani, D’Alema, Speranza?

Uno spazio di manovra ancora più ridotto. Anche perché non credo che Zingaretti vorrà riammettere gli ex capi del Pd nel nuovo partito.

 

“La legislatura cambierà verso dopo le europee”. Intervista a Fabio Martini

 I due ultimi turni elettorali ci consegnano una situazione politica in movimento. Con Fabio Martini, cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa, in questa intervista, ne analizziamo i possibili scenari.

Fabio Martini, queste mese di elezioni regionali ci hanno consegnato, per l’analisi politica, alcune “novità” e delle conferme. Partiamo dalle “novità“: il PD esiste. O per meglio dire il Centrosinistra esiste. Un centrosinistra “largo”, più inclusivo, meno borioso. Sarà, sicuramente, merito dei due candidati alla Presidenza della Regione, Zedda e Legnini, ma questo è stato il dato che è uscito dalle due consultazioni. Pensi che sia un dato acquisito?

In politica, ovviamente, non c’è mai nulla di acquisito. La “ripresina” del centrosinistra è stata favorita dal sistema maggioritario, che polarizza su due schieramenti ed è stata incoraggiata dalla qualità dei candidati-Presidenti. In Abruzzo e in Sardegna sono state scelte le due personalità di gran lunga migliori disponibili in quelle regioni e questa opzione non era scontata. Se il Pd nazionale, con umiltà, avesse fatto lo stesso alle Politiche di un anno fa, il risultato sarebbe stato così umiliante? Ora il Pd sta per affidarsi ad un leader – Nicola Zingaretti – che nella sua storia politica, ha dimostrato di aver una qualità: compositore di alleanze. Pochi, a sinistra, sanno preparare le campagne elettorali come il Governatore del Lazio. Ma non basterà. Serve una piattaforma riformista per la  ripresa del Paese, che sappia intrigare il “popolo” di sinistra ma anche i tanti moderati contrari alla cultura assistenzialista della maggioranza. Moderati anche di centrodestra che, continuando a votare Forza Italia, sanno che prima i poi finiranno nelle mani di Salvini. Ma servono duttilità, intelligenza. visione e soprattutto sapienza politica, doti di cui al momento  sembra disporre soprattutto Paolo Gentiloni, che sarà il presidente del “nuovo” Pd.

Domenica ci saranno le Primarie del Pd. Arrivano con grande ritardo. E questo è un handicap pesante, ma, comunque, restano sempre un fatto importante di partecipazione. Zingaretti resta il favorito. Qual è la carta vincente?

Il ritardo è clamoroso. Le Primarie si celebrano un anno dopo la batosta del 4 marzo 2018: dodici mesi senza leader e senza gruppo dirigente equivalgono ad un autolesionismo con pochi esempi nella storia dei partiti politici dei Paesi occidentali. Senza guida e senza essersi chiesti il perché di quella batosta. La carta vincente di Zingaretti? Essersi presentato – ed essere creduto – come l’unica vera alternativa alla stagione renziana, ma senza spiegare molto bene perché: come se la boria dell’ex leader potesse spiegare tutto. Il messaggio è: il nuovo sono io. Ha funzionato. Ora dovrà far capire quale è il suo progetto politico.
Avere un segretario è importante, ovviamente per ragioni identitarie, ma il disegno politico ancora di più. E qui c’è una carenza. Tutti a dire mai con i 5 Stelle. Cacciari e D’Alema consigliano al PD di incunearsi tra Lega e 5 stelle per evitare una pericolosa deriva a destra. Pensi che sia un buon consiglio?

Immaginare che dopo le Europee possa nascere un’alleanza di governo tra Pd e Cinque stelle, come vorrebbero Il Fatto quotidiano e personalità di varia natura è davvero uno scenario realistico? Sappiamo già la risposta: no. E’ impossibile. Salvini griderebbe al tradimento e al trasformismo, con qualche ragione. E poi nove mesi di governo hanno sfatato la suggestione che il Movimento Cinque stelle sia un movimento con un’anima progressista. La Lega è un partito di destra con un linguaggio populista, i Cinque stelle, come rivendica il loro presidente del Consiglio, è un movimento squisitamente populista. Per un centro-sinistra che vuole rimettersi in piedi, l’abbraccio con i Cinque stelle in declino, sarebbe mortale.

Veniamo all’altra novità: il tonfo dei 5stelle. Il 30% in meno in Sardegna è una botta non da poco. Di Maio pensa di risolvere la crisi con stratagemmi organizzativi. Invece il punto è identitario. Ovvero politico ideologico. È così?

Certamente è così. In pochi mesi sono arrivati al dunque sia l’ideologia “noi siamo diversi, gli altri tutti venduti” che ha portato tanti voti, sia la scelta politica di allearsi con la Lega. Questione ideologica: aprire ad alleanze con liste civiche nelle elezioni locali sarebbe la fine di un’epoca, quella della diversità e della purezza dei Cinque stelle. Un mito che è stato già messo in crisi dalla scelta – quella sì dirimente – di sostenere Salvini con lo scudo dell’immunità. Il nodo politico si scioglierà la notte del 26 maggio, quando si conoscerà l’esito delle elezioni Europee: continuare o no l’alleanza di governo con la Lega? Ma quel voto avrà un effetto di sistema per tutto il quadro politico. E’ del tutto evidente che in Italia le Europee sono destinate a trasformarsi in un fixing, che misurerà il peso reale delle forze in campo e dunque da quel momento in poi nulla sarà più come prima nella politica italiana. Il 26 maggio è destinato a diventare un evento-spartiacque per tutti. Salvini capirà dove si sarà fissato il livello della sua crescita: se sarà molto alto, potrebbe essere tentato di andare subito alle elezioni, ma in caso di risultato meno brillante, potrebbe ricontrattare l’appoggio al governo. I Cinque stelle, in caso di tracollo, potrebbero resettare a tornare a far quel che per ora hanno saputo far meglio: l’opposizione. E quanto al Pd, in caso di stallo, si prolungherà la crisi, ma in caso di ripresa, lavorerà a farsi trovare pronto quando il pendolo dell’opinione pubblica tornerà ad essere più disponibile ad oscillare verso sinistra. Un’oscillazione che potrebbe essere meno lontana di quel che pare.

Non pensi che la debolezza identitaria giocherà un brutto scherzo ai 5Stelle alle Europee?

Molto dipenderà dal reddito di cittadinanza. Se a metà maggio saranno erogati tutti i redditi potenzialmente possibili, al Sud il Movimento potrebbe correggere un piano che oggi pare inclinatissimo. Ma tre dubbi minano questo scenario. Primo: gli adempimenti per rendere operativo questo sussidio sono tali e tanti da far dubitare che si faccia a tempo a mettere a regime la misura. Secondo: quando dovessero arrivare i primi sussidi, rischia di montare l’irritazione di chi incassa la medesima cifra, ma faticando dalla mattina alla sera, con contraccolpi elettorali al nord e anche al centro Italia. Terzo: in questa fase storica gli italiani pensano che tutto gli sia dovuto. Non è detto che ci sia una riconoscenza elettorale.

L’altra “novità” è Silvio Berlusconi. Ha perso molto del seduttore di un tempo. Ma resiste. Sarà la prossima vittima di Salvini?

E’ vero resiste, ma diventando ogni volta più piccolo. Dopo il grande risultato del Pdl nel 2008, in tutte le occasioni nelle quali si è presentata, Forza Italia è andata sempre più indietro. Oramai è sotto il 10 per cento e non sembra trarre alcun beneficio dalla presenza di Berlusconi nelle campagne elettorali locali. Il Cavaliere ha ancora i “suoi” elettori, ma sono sempre meno. Ecco perché le elezioni Europee saranno decisive nel rapporto tra Lega e Forza Italia: se Salvini dovesse incamerare un bottino elettorale tre o persino quattro volte superiore (un rapporto 30-10, ovvero 32-8) e si dovesse scivolare verso elezioni anticipate, non è vero che non ci sarà un’alleanza di centrodestra – come si legge in questi giorni sui giornali – ma quella alleanza avrà modalità molto diverse e sorprendenti rispetto al passato.
Ed ora veniamo alla conferma: Matteo Salvini. Il leader leghista ha trovato lo schema vincente: governo con Di Maio (e intanto lo svuoto) e nelle regioni con Berlusconi. Tutto sembra funzionare. Non trovi troppo semplice lo schema?

E’ proprio così: uno schema semplice ed efficace. Potrebbe durare ancora un po’ ma non a lungo Gli “opposti svuotati” in qualche modo reagiranno. La reazione più interessante sarà quella dei Cinque stelle: conflittualità permanente ma senza rompere? E Salvini, per non perderli prima del decisivo test delle Europee, quanto sarà disponibile a concedere? Nei tre mesi che ci separano dalle elezioni il leader della Lega si misurerà la palla e dovrà dare uno sguardo anche al preannuncio di una novità: il voto sardo dimostra che i suoi margini di espansione si stanno riducendo.

Intanto il governo è alle prese con una crisi economica pesante…il barometro governativo segna tempesta?

Il governo giallo-verde ha deciso di investire tutte le risorse su due provvedimenti protettivi: per i lavoratori che non se la sentono più di lavorare e per i giovani disoccupati. Provvedimenti che hanno sottratto risorse da investimenti più duraturi ma inadatti a garantire un incasso elettorale immediato. Questo per il momento sembra incoraggiare la recessione e autorizza le voci su una manovra correttiva. La sostanza è che l’incertezza – economica, finanziaria e politica – è tornata ad aleggiare sull’Italia. Se ad un certo punto questo rinnovato sentimento dovesse precipitare sui fondamentali – dallo spread ai punti di Pil persi – allora effettivamente il barometro-Italia potrebbe volgere a “tempesta”. Ma al momento ci sono soltanto sintomi che non  fanno pensare ad una drammatizzazione del tipo di quella che si verificò nell’autunno del 2011.

Adriano Ossiccini e la Politica: una storia di libertà. Intervista a Carlo Felice Casula

 

Si sono svolti ieri, a Roma, nella Basilica di Santa Sabina, all’Aventino, i funerali di Adriano
Ossicini. Adriano Ossicini è stato a lungo parlamentare della Repubblica. Partigiano cattolico,
fu tra i fondatori del movimento dei “Cattolici comunisti”, docente universitario di Psicologia alla
Università “La Sapienza” di Roma. Con Franco Rodano fu tra i grandi ispiratori del dialogo tra
cattolici e comunisti. Una stagione intensa e drammatica. Per ricordare la figura di questo
protagonista della nostra storia politica, abbiamo intervistato il professor Carlo Felice Casula,
Ordinario di Storia Contemporanea alla Terza Università di Roma. Casula, inoltre, è stato il
curatore degli scritti politici di Adriano Ossicini.

Professore, la scomparsa di Adriano Ossicini, uno dei più autorevoli testimoni della Sinistra Cristiana, ci offre l’occasione per ricordare una grande storia di impegno politico. Partirei dal partito della “sinistra cristiana”. Come nasce?
Il Partito della Sinistra Cristiana nasce nel 1944, all’indomani della liberazione di Roma
dall’occupazione tedesca. Si trattò in realtà sostanzialmente del cambio del nome del Movimento dei Cattolici Comunisti, del quale Ossicini era stato uno dei fondatori assieme a Franco Rodano. Mutamento di nome finalizzato soprattutto per non incorrere in esplicite condanne della gerarchia. Ossicini ne fu un sostenitore convinto anche in vista di una maggiore presa nel mondo cattolico, come in parte avvenne con l’ingresso di esponenti del Partito cristiano sociale, come Gabriele De Rosa o di altre personalità cattoliche come Giuseppe Mira.

Ossicini svolse un ruolo importante nella resistenza romana al fascismo. Quale è stato il suo ruolo di resistente? 
Durante i lunghi mesi dell’occupazione tedesca della Capitale, Ossicini è il responsabile
dell’organizzazione militare del Movimento dei Cattolici Comunisti, seconda solo, per numero
di partigiani combattenti, a quella del Partito Comunista. Ossicini partecipa ai combattimenti
per fermare i Tedeschi,l’8 settembre, a Porta San Paolo, che vedono la presenza congiunta di
militari e civili e danno inizio alla Resistenza stessa. Vicino ai Cattolici Comunisti è Raffaele
Persichetti, uno dei caduti di Porta san Paolo e amico e collaboratore di Ossicini è anche
Romualdo Chiesa, arrestato, torturato e trucidato alle Fosse Ardeatine.

Perché Ossicini non aderisce, come altri giovani cattolici impegnati nella resistenza alla DC? Eppure nella Dc c’era una forte componente di sinistra?
La Democrazia Cristiana pur facendo parte del CLN di Roma e pur essendo su posizioni
rigorosamente antifasciste e anche solidali con il movimento partigiano, ha una presenza nella
resistenza molto ridotta. Per Ossicini, il cui padre, Cesare, era stato un dirigente del Partito
Popolare, perseguitato dal Regime, l’impegno antifascista, fin dal 1938, anche all’interno della
Fuci e poi la partecipazione attiva alla lotta armata contro l’occupazione tedesca, era stato il
vero punto di discrimine della sua identità politica.

Nel 1946 alcuni aderenti alla Sinistra Cristiana fanno il grande salto verso il PCI.
Pensiamo a Franco Rodano. Ossicini non aderì al PCI. Perché?
Nel dicembre del 1945 il Partito della Sinistra Cristiana, con un congresso straordinario, si
sciolse, dando questa indicazione, come titolo, Voce Operaia, il diffuso e autorevole
settimanale del partito: “sui fronti di lotta della classe operaia continuiamo la nostra azione di
cattolici e di democratici”. Concretamente questo voleva dire lavorare nelle organizzazioni di
massa come l’UDI, il Fronte della Gioventù, la CGIL, allora unitaria e anche aderire al Partito
Comunista che, con il suo quinto congresso del gennaio 1946, si configurava come partito
nuovo, al quale si aderiva con la condivisione del suo programma politico e non dell’ideologia
marxista. Ossicini, contrario allo scioglimento, pur non aderendo al Partito Comunista
collabora attivamente con esso, a partire dal suo iniziale impegno istituzionale nella Provincia
di Roma. Nel 1948, sia pure senza farsi grandi illusioni, è vicino al Movimento detto Cristiani
per la pace, animato da Guido Miglioli, il “bolscevico” bianco, mitico dirigente delle leghe
bianche del primo dopoguerra, che con Ada Alessandrini, entra a far parte del Fronte
democratico popolare. Ossicini, a differenza di Franco Rodano, era convinto della necessità
della copresenza di più partiti di ispirazione cristiana e condivideva con esponenti della stessa
Curia, come l’allora mons. Domenico Tardini, la preoccupazione dei rischi e dei costi, sul
terreno religioso, dell’appiattimento della chiesa e della fede con un partito.

Eppure questo “sovversivo”, così era stato schedato dalla polizia fascista, dopo la scomunica del 49 continua a mantenere il suo legame con la Chiesa. Importante il suo legame con don Giuseppe De Luca….
Ossicini mi ha confidato che quando ebbe l’interdetto personale, si recò in Vaticano, interloquì
con Ottaviani chiedendo le ragioni del provvedimento. Le ragioni non furono spiegate, ma
l’interdetto gli fu immediatamente tolto. Per il vero il termine scomunica è improprio. Monsignor
Domenico Tardini, come ha ricordato Federico Alessandrini, al riguardo fece una battuta
fulminante: “Bella trovata questa di Ottaviani. Se la scomunica attacca. Avremo in Italia milioni
di scomunicati. Se non attacca, mi dici tu a che serve?”. Don Giuseppe De Luca, personalità
ecclesiastica di vastissima cultura e di grande fascino intellettuale, amico e collaboratore di
lunga data sia di Tardini, che di Montini, era molto legato anche a Rodano e per il tramite di
questi anche a Palmiro Togliatti. Ossicini in un bel libro pubblicato dalle prestigiose Edizioni di
Storia e letteratura, fondate proprio da De Luca, ha ricostruito il suo lungo e intenso rapporto
con lui: Il colloquio con don Giuseppe De Luca. Dalla Resistenza al Concilio Vaticano II.

Arriviamo agli  anni del Concilio e del post-Concilio. In questo periodo si svilupperà, fortemente, il dialogo tra comunisti e cattolici fonda l’agenzia di stampa ADISTA che divenne uno strumento di informazione ecclesiale e politico per sviluppare questo dialogo. Non bisogna dimenticare il suo impegno di parlamentare della Sinistra Indipendente…
E’ propriamente negli anni della ricezione e dell’applicazione delle novità del Concilio che
Ossicini riprende l’impegno politico attivo e pubblico, dopo un periodo non breve, durante il
quale, anche se la sua passione per la politica non si era mai spenta, si era dedicato
prioritariamente alla sua professione di medico-psicologo e di studioso e docente universitario.
Nel 1967, siamo ormai alla vigilia dell’entusiasmante stagione dei movimenti, dei giovani, degli
operai, delle donne, ma anche dei cattolici postconciliari, Ossicini raccoglie l’invito di Ferruccio
Parri a dare vita a una nuova e originale iniziativa che in collaborazione con il PCI, anche in
riconosciuta autonomia, interpretasse queste spinte. E’ la Sinistra indipendente che vede il
coinvolgimento sia alla Camera che al Senato di tante prestigiose figure, laiche e cattoliche,
del mondo della cultura, delle professioni e della ricerca. Adriano Ossicini, senatore per molte legislature, vicepresidente del Senato, persino ministro per un breve periodo, è da subito uno
degli esponenti più noti e autorevoli. Per decenni è stato, fuori e dentro il Palazzo, uno dei
punti di riferimento per generazioni di giovani cristiani di sinistra prima e dopo il Concilio.

Che rapporto c’era tra Ossicini e Moro? E in questo rapporto il suo  giudizio sulla DC era cambiato? 
Ossicini, come d’altronde anche Franco Rodano, avevano per Moro grande stima e
attenzione, così come per la Base nel suo complesso, vista come la corrente della DC che con più rigore difendeva la laicità della politica. Certo che il giudizio sulla DC cambia nell’intensa, ma, purtroppo,breve stagione del berlingueriano-rodaniano compromesso storico e della Terza fase morotea, che sembrano riproporre i valori e i sogni della Resistenza e dei governi di unità nazionale. Per vanità personale ricordo che il mio libro “Cattolici Comunisti e Sinistra Cristiana (1938-1945)”, pubblicato nel 1976 da Il Mulino, per diverse settimane fu in cima alla classifica dei libri di saggistica più venduti. Ossicini visse come un vero e proprio dramma personale la prigionia di Moro, la sua barbara uccisione da parte dei sicari delle Brigate Rosse, ma anche l’incapacità della politica tutta a ottenere la sua salvezza.

Alla fine della “Prima Repubblica” , o per meglio dire alla vigilia della “seconda
repubblica”, Ossicini  diventa Ministro della famiglia e solidarietà sociale con Dini.
Successivamente si impegna nell’Ulivo e poi nel PD. Per finire Professore, in sintesi, cosa ha significato la politica per Ossicini?
Credo che Ossicini sia un politico, nel senso pieno del termine e nell’accezione montiniana
della politica come la forma più elevata della carità, dell’Italia repubblicana. Ossicini non
amava, e io con lui, la categoria della Prima Repubblica. Indubbiamente nonostante la sua
breve esperienza di ministro con il Governo Dini, dopo la morte di Moro e, successivamente,
la fine del Partito Comunista, nonostante le nuove speranze suscitate dall’Ulivo di Romano
Prodi, credo non abbia più vissuto gli entusiasmi dei molti decenni precedenti. Quando alcuni
anni orsono curai un’ampia antologia di suoi scritti per le Edizioni Studium, scegliemmo
insieme questo titolo: Il cristiano e la politica. Documenti e tesi di una lunga stagione (1937-
1985). Nella sua lunga vita ben vissuta e ben spesa, ha, tuttavia, sempre conservato
speranza e ottimismo. Per un cristiano anche di fronte al più forte pessimismo della ragione,
rimane pur sempre oltre all’ottimismo della volontà, anche quello della Provvidenza.