Francesco: il Papa della riconciliazione degli opposti. Intervista a Massimo Borghesi

Jorge Bergoglio, Una biografia intellettuale (Ed. Jaca book). Un libro denso, questo di Massimo Borghesi (Ordinario di Filosofia Morale all’Università di Perugia). La formazione intellettuale di papa Bergoglio viene analizzata e ripercorsa nella sua poliedrica ricchezza. Un libro che smentisce i pregiudizi dei denigratori di Papa Francesco.  Con Massimo Borghesi, in questa intervista, ripercorriamo, in sintesi, la riflessione originale di Papa Francesco.

 

 

 

 

Professor Borghesi, questa nostra intervista avviene in un contesto di forte polemica, inscenata dagli avversari integralisti, contro Papa Francesco accusandolo di essere debole “teologicamente e filosoficamente”. A lui , gli integralisti, contrappongono il Papa emerito (lui, per loro, vero teologo). Tutto questo è una manipolazione assurda e fatta in malafede. Il suo libro è la smentita a queste assurdità. Vuole dire una parola su questo pregiudizio.
La lettera di Benedetto indirizzata a Mons. Viganò era, per quanto possiamo capire, una lettera riservata. Essa contiene delle valutazioni che sono state poi messe in secondo piano grazie ad un vero e proprio polverone mediatico suscitato ad arte. Due i giudizi di rilievo. Nel primo Benedetto scrive che si tratta di uno <<stolto pregiudizio [quello] per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica>>.  <<Papa Francesco – afferma Benedetto –  è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica>>. Nel secondo parla di  <<continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento>>.  Si tratta di valutazioni di grande significato. In altre occasioni Benedetto aveva espresso pubblicamente la sua stima e la sua sintonia con Francesco. Nella sua intervista con il gesuita Jacques Servais, del marzo 2016, aveva messo in luce il filo rosso che legava gli ultimi pontificati, compreso quello di Giovanni Paolo II: la concezione di Dio inteso come Misericordia. <<Papa Francesco – affermava Benedetto –  si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto>>. Già allora la continuità manifesta mirava a sconfessare quanti, dentro la Chiesa, tentavano di mettere in contrapposizione papa Wojtyla, e lui stesso, con il nuovo Pontefice. Una linea che ha visto il tradizionalismo cattolico superare di gran lunga il Rubicone con accuse fuori da ogni misura ed intelligenza. Ora, con la sua lettera indirizzata a Viganò, Benedetto torna a confermare questa “continuità interiore”, che non vuol dire psicologica ma ideale.  Personalmente non posso che essere profondamente contento di questi giudizi del Papa emerito. Essi confermano le tesi del mio volume: quella sulla profonda formazione intellettuale di Bergoglio e l’altra, sulla continuità ideale dei pontificati pur nella differenza di stile e di temperamento.

Veniamo al suo libro. Il suo saggio è  molto ricco di spunti e di approfondimenti. Una vera miniera. Il titolo è indicativo: “Jorge Bergoglio. Una biografia intellettuale”. Lei scava alla ricerca dei filoni di pensiero presenti nelle parole e nell’opera pastorale di Papa Francesco. L’idea che ne traggo, con la Lettura del suo libro, è quello di un Papa “dialettico” (e qui c’è una radice moderna e antica al tempo stesso ), di un uomo che si fa “ponte” tra la modernità latinoamericana, o più specificamente argentina, e quella europea. E’ così?
La scoperta del pensiero “dialettico”, antinomico, di Jorge Mario Bergoglio è, certamente, il nucleo fondamentale del volume. Le radici provengono dalla lettura de La dialectique des “Execices spirituels” d’Ignace de Loyola, un’opera del 1956 di Gaston Fessard che il giovane studente Bergoglio conosce attraverso il suo professore di filosofia, Miguel Angel Fiorito. Nel suo commento agli “Esercizi” di Ignazio, Fessard mostrava l’intima tensione polare, dialettica, che sta al centro della spiritualità ignaziana: quella tra il grande e il piccolo, tra la grazia e la libertà. Il cattolicesimo, dirà de Lubac, costituisce una sintesi paradossale che unifica gli opposti che, sul piano della natura, risultano inesorabilmente divisi. E’ l’idea della Chiesa come coincidentia oppositorum che sta al centro del pensiero di Bergoglio. Da qui deriva un modello sociale, agonico, per cui il bene comune risiede nel perseguire una una conciliazione che non elimina i poli opposti ma ne impedisce la contraddizione e la guerra. Il pensiero di Bergoglio è un pensiero antinomico, proprio di una dialettica cattolica, non hegeliana, che ha i suoi autori di riferimento in Adam Möhler, Erich Przywara, Romano Guardini, Henri de Lubac, Gaston Fessard. Il pensiero antinomico spiega quello che lei chiede, e cioè la concezione integratrice che Francesco ha, nel rapporto tra Europa e America Latina. Tutta la sua formazione, sul modello dei gesuiti, si muove “tra” Argentina  ed Europa. Bergoglio non è semplicemente un Papa “argentino”, come vogliono i suoi detrattori. E’ un Papa che intende il vero come tensione tra globalizzazione universalizzante e particolarità. L’immagine che egli suggerisce è quella del poliedro, del tutto che valorizza le parti.

Tra i cosiddetti opinionisti,”liberali” del nostro Paese, penso a Pera, Panebianco, e a storici come Zanatta, il difetto maggiore del Papa, tra gli altri, è quello di essere, secondo loro, un populista. E per questo di esprimere un anticapitalismo peronista. Non mi sembra che siffatti personaggi abbiano colto la radice,  mi scuso per il gioco di parole, del radicalismo di Bergoglio. Quali radici profonde ha la critica al capitalismo di Papa Francesco?
Coloro che vogliono colpire Francesco lo dipingono come un pericoloso sostenitore della teologia della liberazione latinoamericana degli anni ’70. un filo-marxista. In realtà il futuro Pontefice non ha mai appoggiato questa corrente. La sua Teologia del popolo è la riformulazione argentina, operata dalla Scuola del Rio de la Plata, della teologia della liberazione. L’opzione per i poveri implica il rifiuto del marxismo e della violenza. Il suo non è un populismo ideologico. Lo stesso rapporto con il peronismo è un rapporto critico. Queste distinzioni, vengono sistematicamente ignorate, non bastano agli avversari del Papa.  Così Panebianco, Zanatta, Pera, esprimono, con toni perentori, la distanza con cui l’area laica, liberal, guarda a Bergoglio. L’ideologia occidentalista, capitalista, liberista, vede nel Papa “argentino” un freno al pensiero unico che ha dominato nell’era della globalizzazione. Il Pontefice è un avversario e come tale va trattato. Zanatta ha scritto un articolo per “Il Mulino” in cui afferma che Bergoglio «è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina». È la critica che troviamo nel filosofo liberal Marcello Pera, il quale, da parte sua, afferma che  <<il Papa riflette tutti i pregiudizi del sudamericano verso l’America del Nord, verso il mercato, le libertà, il capitalismo». Secondo Pera «la sua visione è quella sudamericana del giustizialismo peronista, che non ha nulla a che vedere con la tradizione occidentale delle libertà politiche e con la sua matrice cristiana».  A questi critici vanno sommati i cattolici  conservatori di orientamento teocon, analoghi, nella mentalità a tanta parte del cattolicesimo USA. Torna, in essi, l’opposizione Occidente – America del Sud tipica della destra liberale laica. Questi cattolici, che pensano di combattere per l’intransigenza della dottrina morale,  sono, in realtà, gli strumenti inconsapevoli  di poteri che, a livello mondiale, non amano questo Pontefice.

Torniamo alla “dialettica” bergogliana. Un aspetto fondamentale è quella dialettica tra “centro” e “periferia”. Nella pubblicistica si è semplificato così: Bergoglio è il Papa delle periferie. E’ questo è vero però c’è una riflessione più profonda che sfugge alla semplificazione. Il Papa argentino non fa una operazione sociologica, nemmeno economica, ma compie un salto filosofico, sulla scia della filosofa argentina Amelia Podetti, quello dell’affermare la centralità dell’America Latina nella storia del mondo. Perché è importante questa centralità?
La reazione agli effetti negativi della globalizzazione sorge non da una ideologia ma dalla difesa del pueblo fiel, dalla lotta per conservare quei valori di solidarietà, di sacrificio, di dedizione che il relativismo individualistico e l’ateismo libertino irridono e dissolvono. Per questo il mondo va visto dalla “periferia”. Visto dal “centro” si è come dentro una bolla che non permette di vedere “fuori”, si è parte di una “sfera” in cui tutto è uniforme, senza smagliature. Solo dalla periferia appare il “poliedro”, la diversità dei valori e dei disvalori. Il cardinal Bergoglio ne parlerà nella messa celebrata nel santuario di Aparecida, nel maggio 2007 in Brasile,  durante la Conferenza della Chiesa latinoamericana. Qui ricorse a una straordinaria metafora quando parlò per la prima volta (almeno in un’importante arena pubblica) delle periferias existenciales, le periferie esistenziali. Quasi tutti i vescovi che parteciparono ad Aparecida vivevano in una città nelle cui periferie arrivavano costantemente masse di migranti, e la frase toccò molte corde: evocava non solo le bidonville, ma anche un mondo di vulnerabilità e fragilità, un luogo di sofferenza, brama e povertà, ma anche di gioia e speranza, il luogo dove Cristo aveva scelto di rivelarsi nell’America latina contemporanea. Bergoglio aveva imparato da Amelia Podetti la categoria delle “periferie”. Da lei aveva intuito che il mondo, visto dai suoi luoghi di “fragilità”, assumeva una prospettiva diversa. Era questa la direzione di Aparecida fatta propria da Bergoglio il quale, da vescovo di Buenos Aires, evangelizzò la città a partire dalle periferie. Da qui l’idea di un Vicariato, nato nell’agosto 2009 e coordinato dal P. José Maria Di Paola, padre Pepe, addetto all’impegno pastorale e sociale nelle baraccopoli. L’idea non sorgeva da un’ideologia pauperistica, che Bergoglio non ha mai avuto, ma dalla percezione di un’umanità intrisa di religiosità che costituiva una lezione anche per i quartieri alti della città. E questo anche se nelle villas miseria si rischiava la vita, come accadrà a P. Pepe per la sua opposizione ai trafficanti di droga.

Nel libro viene affrontato, in parte, il rapporto di Bergoglio con la teologia della liberazione, o meglio, con un parte di essa. Che tipo di rapporto è? E’ chiaro che Bergoglio non è un intellettuale astratto . E’ un mistico nell’azione. In questo ambito gioca un ruolo importante il “pueblo fiel”. E’ così?
Come accennavo prima, La “Teologia del pueblo” argentina accoglie, al pari di tutta la Chiesa latinoamericana, l’opzione preferenziale per i poveri. Rifiuta però, in modo categorico, il primato della prassi che la teologia della liberazione mutua dal marxismo. L’unione che il gesuita Bergoglio richiede tra contemplazione e azione è una unione antinomica. E’ la sintesi tra evangelizzazione e promozione umana che sta al centro della dottrina sociale di Paolo VI.  In Bergoglio il “pueblo” è, innanzitutto, il “pueblo fiel”, il popolo credente. In esso la lotta per la giustizia non è separabile dalla sua religiosità, dalla sua fede cristiana. Questo non è un residuo arcaico che deve essere, illuministicamente, spazzato via. E’ il terreno dove germoglia la giustizia, l’impegno comune, il senso di solidarietà. Lo stesso Gustavo Gutierrez, che è il padre della teologia della liberazione latinoamericana, riconoscerà, nel 1988, la verità della Teologia del pueblo. Questo lo porterà ad una autocritica della primitiva versione della teologia della liberazione, dipendente dal marxismo. Bergoglio, da parte sua, dipende dalla Teologia del pueblo, dai suoi maestri: Lucio Gera, Rafael Tello, Juan Carlos Scannone.

Un ruolo fondamentale nel pensiero e nell’azione di Bergoglio, ovviamente, c’è il suo ordine, quello dei gesuiti. Al di là del lato intellettuale, importantissimo, c’è anche la dialettica che l’ordine sviluppa con la modernità E in questo il Papa incoraggia la Compagnia ad essere al largo, in navigazione aperta. Ovvero ad avere un pensiero mai compiuto…Una bella sfida davvero…E questo fa paura alle cittadelle del pensiero unico….E’ così?
Alla conferenza di Aparecida, nel 2007, l’idea di fondo era data da una formula che Bergoglio trovava esemplarmente descritta nella Deus caritas est di Benedetto XVI: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». E’ la formula riportata  nella lntroduzione del documento conclusivo di Aparecida. Essa verrà ripresa da Francesco nella Evangelii gaudium, al & 7.  Indica il punto d’inizio della fede, ieri come oggi, e, insieme, un giudizio storico sulla deriva “eticistica” che caratterizza il cattolicesimo nell’era della globalizzazione.  Terminata la stagione calda dell’impegno storico di sinistra, tipico degli anni ’70 caratterizzato dalle teologie politiche, della rivoluzione, della speranza, ecc., si assiste, a partire dagli anni ’80, ad una sorta di riflusso, di ripiegamento in un recinto protetto. L’impegno nel mondo è affidato alla difesa di un insieme, definito e selezionato, di valori discendenti dall’etica e dall’antropologia cristiana minacciati dall’onda relativistica che caratterizza il tempo nuovo. In parallelo viene meno l’attenzione per la questione sociale e si attenua fortemente la percezione di una Chiesa missionaria, proiettata, oltre i propri confini, nella dimensione dell’ “incontro”. Il processo di secolarizzazione determina, nel mondo cristiano, una reazione etica, la chiusura nella cittadella ecclesiale, l’indurirsi di un pensiero centrato sulle regole e timoroso di ogni confronto.  Con ciò l’idea di Alberto Methol Ferré, condivisa da Bergoglio,  sulla testimonianza cristiana vissuta come risposta adeguata all’ateismo libertino veniva a perdersi. La Chiesa si oppone ma non è in grado, positivamente, di porsi, di affermare una tipologia umana nella quale l ‘ “attrattiva Gesù” sia più forte dell’attrattiva estetica della società opulenta.  La deriva etica della Chiesa indica una strategia di resistenza, non un’era di rinascita. Questo sbilanciamento etico, per cui l’incontro cristiano cade in secondo piano, permette di chiarire la correzione che ne apporta Francesco nella Evangelii gaudium. Si tratta di rimettere in evidenza ciò che primerea: la grazia di un annuncio trasmessa da una testimonianza umanamente credibile.

Siamo alla fine, Professore, dell’intervista. Concludiamo con un autore caro a Papa Bergoglio: Romano Guardini. L’autore caro a Paolo VI, Benedetto XVI. Guardini è il filosofo dell’opposizione polare.  E la Chiesa è una complexio oppositorun. Se è così, nel tempo del fallimento della globalizzazione, la Chiesa si pone come luogo di riconciliazione. Papa Francesco allora si può definire come il pontefice della riconciliazione della famiglia umana. In fondo questa è la “dialettica” del Verbo…
La sua osservazione è assolutamente pertinente. La predilezione di Bergoglio per Romano Guardini, come dimostro nel mio libro, sorge dal fatto che la dialettica polare guardiniana è il modello che trova la sua manifestazione nella Chiesa come complexio oppositorum. Qui risiede il fulcro del pensiero di Bergoglio. Il Papa  è “strutturalmente” uomo di pace. Lo ha dimostrato in molteplici occasioni anche per il ruolo svolto a livello internazionale. La sua geopolitica della Misericordia è dettata da una concezione che vede nel dialogo, nel confronto, il metodo affinché le polarità odierne non degenerino in contraddizione. Il Papa non è irenico, ha una visione drammatica del tempo odierno segnato da una terza guerra mondiale a pezzi. Noi assistiamo al frantumarsi del disegno della globalizzazione. Il suo universalismo astratto, egemonico, portato avanti da una economia sacrificale, sta suscitando  reazioni di difesa che si chiudono nella particolarità. Per Francesco la vera universalità valorizza la particolarità e la vera particolarità non può  non aprirsi all’universale. Questa è la formula di Guardini, la formula della Chiesa, il modello di pace. Francesco è il testimone instancabile di questo modello in un mondo che torna alle grandi divisioni del passato.

Cinque anni di Francesco, il Papa del Kerigma. Intervista a Massimo Faggioli

 

Roma, Piazza San Pietro: Elezioni Papa Francesco (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Siamo nel quinto anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Jorge Bergoglio. Cinque anni intensi e rivoluzionari. Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Massimo Faggioli, Professor of Historical Theology alla Villanova University (USA).

 

Professor Faggioli, lei ha appena pubblicato un libro, Cattolicesimo, nazionalismo, cosmopolitismo (Armando Editore) che arriva nel quinto anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio. Quel cardinale, che veniva dalla “fine del mondo”, sorprese tutti. Non era dato tra i papabili, non in quel Conclave dove venne eletto. Proviamo ad offrire, in modo sintetico, alcune chiavi di lettura per comprendere il pontificato e vedere il suo sviluppo. Papa Francesco è un papa “kerigmatico”, cioè molto più legato all’annuncio del kerygma evangelico che alla dottrina. Questo gli ha creato non pochi problemi.

Certamente è così, anche perché Francesco viene eletto in un momento in cui in alcune zone del cattolicesimo mondiale, come gli Stati Uniti in cui vivo e lavoro dal 2008, c’erano segnali dell’inizio di un ritorno del tradizionalismo anti-conciliare, secondo il quale i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano la parola finale e definitiva sul cattolicesimo ed erano pontificati di “correzione” del Vaticano II e del post-concilio. Francesco è figlio del concilio come del post-concilio, ed è la prova che il cattolicesimo continua sulle traiettorie indicate dal concilio Vaticano II: la pastoralità della dottrina e la centralità dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo.

Il kerygma si annuncia con la misericordia. Ma la visione di Francesco non è solo spirituale è anche sociale. Come si sviluppa questo aspetto?

Francesco si oppone al rigetto della teologia della liberazione come rigetto dell’incarnazione dell’annuncio: la fede cristiana non è disincarnata e indifferente rispetto alle condizioni materiali ed esistenziali di chi riceve l’annuncio. Francesco riprende il magistero di Paolo VI sull’evangelizzazione nel senso di una evangelizzazione che non scarta l’importanza dell’umanizzazione dell’umano. Predicare il Vangelo agli uomini e donne del nostro tempo fingendo di non vedere i fenomeni sociali ed economici di disumanizzazione è blasfemo.

L’onda della misericordia di Francesco “investe” la Chiesa. Secondo lei questa logica è stata recepita nella struttura viva della Chiesa? Ovvero il “volto” della Chiesa è questo?

Non è ancora stata recepita in pieno dalla chiesa, ma questo non stupisce. Francesco non ha mai avuto un piano di riforma istituzionale della chiesa, ma ha una idea di riforma in senso congariano (da Yves Congar, il teologo più importante al Vaticano II) che prevede tempi lunghi, una conversione delle mentalità e della cultura. Dalla chiesa della misericordia non credo che si torni indietro: Francesco ha sviluppato un discorso che parte da Giovanni XXIII.

 

Questo è un Papa “politico”, e questo non è in contrasto con la sua figura kerigmatica che ha cercato di abbattere i muri per costruire “ponti”. Qual è   stato il risultato più bello di questa diplomazia della misericordia?

Direi il contributo dato alla fine dell’embargo americano contro Cuba. È stato il risultato di sforzi diplomatici durati molti anni, con un ruolo della chiesa cattolica molto delicato politicamente, non solo a Cuba ma anche negli Stati Uniti. Ma ci sono tante altre aree del mondo in cui la diplomazia vaticana gioca un ruolo importante e nascosto.

 

La prossima grande sfida per la diplomazia della misericordia sarà la Cina. È d’accordo su questo punto?

Credo di sì. La sfida più importante per la chiesa cattolica non è la dirigenza cinese o il partito comunista cinese, ma la Cina come paese e l’Asia come continente. Certamente le riforme costituzionali in corso in Cina (il presidente eletto a vita) potrebbe complicare i prossimi passi, ma la sfida è quella e credo che si faranno passi in avanti nel prossimo futuro.

Francesco è il Papa della critica al capitalismo. Oggi nemmeno nella Sinistra cosiddetta storica si sente parlare di critica al capitalismo. Invece è presente, come elemento antimoderno, nella destra populista. Tanto che tra i detrattori del Papa lo si accusa di pauperismo populistico. Qual è il   suo pensiero?

Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno criticato il capitalismo, ma la critica di Francesco è più radicale perché viene da un’area del mondo che vede il capitalismo globale in modo diverso e meno positivo da come lo si vede in Europa o negli Stati Uniti. In questo Francesco parla una lingua che è quella della maggioranza dei cattolici al mondo, che non vivono in Europa o negli Stati Uniti. L’enciclica Laudato Si’, nella sua analisi dei rapporti tra politica ed economia oggi, è una delle pagine più interessanti e coraggiose del pontificato.

In quale ambito l’azione di riforma del papa ha incontrato e manifestato limiti?

La chiesa deve dare qualche tipo di risposta alla questione del ruolo delle donne nella chiesa: il diaconato femminile è una questione ormai matura sul piano teologico e da questa dipende molto del futuro della chiesa. Non c’è un piano di riforma istituzionale della Curia romana, perché non risponde alla visione bergogliana di riforma spirituale, ma anche per la difficoltà di riformare il governo della chiesa. All’inizio del pontificato c’era il progetto per una nuova “costituzione apostolica” che sostituisse la Pastor Bonus di Giovanni Paolo II (1988), ma poi, qualche mese fa, questo progetto è stato abbandonato. La riforma dei media vaticani lascia a desiderare: che il papa non abbia più un vero portavoce (e non per colpa dei direttori della Sala Stampa vaticana) è una cosa grave e pericolosa, come si è visto durante il viaggio in Cile per esempio.

 

Sull’ecumenismo ho la sensazione che il Papa sia più avanti del popolo di Dio. Esagero?

Non saprei: sull’ecumenismo verso l’oriente cristiano certamente sì, ma questo era vero anche per i suoi predecessori. Francesco ha meno familiarità con le chiese della Riforma e lo si vede da alcuni suoi documenti, dal modo in cui cita documenti di fonte non cattolico romana. Quello che è nuovo in Francesco è che il papa vede e sperimenta che ci sono dei “confini” e delle divisioni interne alla chiesa cattolica non meno dolorose che tra chiese diverse.

Proprio nell’anniversario del quinto anno di pontificato arriva una lettera del papa emerito. Benedetto XVI giudica come “stolto pregiudizio” le critiche sulla preparazione di Francesco, affermando che c’è una “continuità interiore” tra i due pontificati. Come giudica questa mossa di Benedetto?

È una mossa molto importante, che dice molto dell’alto “senso della chiesa” di Joseph Ratzinger. Temo però che questa lettera non verrà ascoltata da coloro che si dicono ratzingeriani senza averne titolo.

Se dovesse scegliere una immagine emblematica di questi intensi anni, quale immagine sceglierebbe?

Il papa coi carcerati e le carcerate, che si chiede: “Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io”.

 

 

 

Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica. Intervista a Marco Damilano

 

“Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande”. Con queste parole Marco Damilano, giornalista parlamentare e Direttore del settimanale “L’Epresso”, inizia l’ intervista. Il suo libro ,pubblicato da Feltrinelli appena uscito nelle librerie, “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia” (pagg. 272, € 18,00) ci offre una memoria viva di quel giorno fulminato, come lo definisce Martinazzzoli, per la democrazia italiana. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro? Ecco le sue risposte.

Marco, il tuo libro è suggestivo, ricordi personali e la drammatica storia di quei giorni si incrociano. Ad un certo punto scrivi: “i ricordi dei bambini sono emotivi, non si muovono restano fissati lì, incastrati nella memoria. ” Ci offri appunto un libro in cui consegni al lettore una memoria viva di quella ferita indelebile nella storia Italiana. Via Fani sanguina ancora per la nostra democrazia, e forse non smetterà mai di sanguinare. E’ così?
Ti ringrazio per aver sottolineato quella frase perché è stato il punto di partenza della mia scrittura. Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino
e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande. Ho provato a rivivere l’emozione e lo sconvolgimento di quel giorno di guerra e i quarant’anni successivi, con la chiave del racconto. Credo così di aver dato voce agli italiani normali che non dimenticano quel giorno, quel momento. E anche, al tempo stesso, provare a uscire dalla
rimozione collettiva di quel periodo: i ragazzi di oggi non sanno niente degli anni di piombo, del terrorismo, delle vittime inermi come Moro o come – fammelo citare perché anche per lui è un anniversario, Roberto Ruffilli – e certo non è colpa loro. Noi siamo diventanti grandi come persone, ma la democrazia non è diventata più adulta, come immaginava Moro: al contrario,
ha camminato all’indietro.

Il tuo itinerario si sviluppa, lungo tutto libro, da via Fani a Torrita Tiberina, si conclude, infatti, nel piccolo cimitero di quel paesino sulla Tomba di Aldo Moro. Sembra un cammino per capire il nostro presente. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro?
Si, hai ragione, il viaggio comincia da via Mario Fani e si ferma di fronte a quella piccola tomba di Torrita Tiberina. Si è perso con Moro l’idea della politica come intelligenza degli avvenimenti e capacità di persuasione, la democrazia che è una tensione e non una conquista una volta per tutte. Dopo di lui, la politica è stata sempre di più affidata esclusivamente ai rapporti di
forza. Fammi dire: non voglio fare un santino, Moro è stato un uomo di potere, ha conosciuto il potere in tutti i suoi aspetti, anche il più crudo e il più oscuro. Nessuno come lui sapeva cosa si muove nel fondale occulto della politica e della società italiana. Ma proprio per questo immaginava la costruzione di percorsi complessi, di tempi lunghi, di non esaurire un progetto
politico nello spazio di un istante. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico e avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo. La sua morte ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata Pietro Scoppola, di auto-rinnovarsi. Dopo sono arrivati Mani Pulite, Tangentopoli, la fine di Dc, Pci, Psi, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte che spiega anche l’oggi. L’anniversario di Moro cade nel dopo 4 marzo, con gli elettori in rivolta e il buio pesto sulle prossime settimane. È un caso, “un’enigmatica correlazione”, avrebbe detto Sciascia.

Riecheggiano spesso nel libro le parole di Moro sull’Italia: “Un paese dalla passionalità intensa e dalla   struttura fragile”.  Dopo la morte di Moro è finita la prima repubblica, dopo  di lui è stato, come hai ricordato tu, il trionfo della visione corta della politica. E quelli che si autodefiniscono “eredi” oggi sono relegati all’opposizione. …  Eppure la voce di Moro ci parla ancora : “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”… Parole terribili alla DC, ma valide anche per l’oggi…

C’è una frase in un articolo giovanile di Moro che voglio citare: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». Aveva ventotto anni, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società». Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. Mi colpisce che lui usasse così spesso la parola cristallizzazione. Ora abbiamo una politica che si percepisce in movimento, vuole dare questa sensazione, e invece è immobile e paralizzata.

Un altro punto che tocchi è quello dell’indagini alla ricerca della verità, con il lavoro dell’ultima Commissione di Inchiesta siamo arrivati a buoni risultati. Perché definisci la verità su Via Fani “parziale e ambigua”?
Moro va strappato alla riduzione di questi quarant’anni, va liberato dal “caso Moro” in cui è stato sequestrato per la seconda volta. Per questo mi soffermo poco sui misteri dei 55 giorni. Faccio solo notare che alcune conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni sono importanti. E che, una volta di più, le presunte rivelazioni delle Br dei decenni scorsi appaiono una colossale montagna di omissioni e di manipolazioni. Per questo, e per principio, non ho voluto sentire nel mio lavoro neppure uno degli ex terroristi: non sopporto il loro narcisismo, le loro lamentazioni, le loro bugie. Non metto in dubbio che siano stati i brigatisti a rapire Moro e che la vicenda sia tutta italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra estremista che odiava il presidente della Dc e lo considerava il simbolo del regime democristiano. Ma c’era l’altra parte, la destra profonda, che voleva eliminarlo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di tradire la democrazia e di allearsi con la destra. Nel sequestro queste forze interne e internazionali hanno trovato un’occasione insperata. Questo si può dire, anche se certo in modo parziale.

“Datemi da una parte milioni di voti toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente”. E’ la frase di Moro che chiude il tuo libro … Ed è quello che manca oggi alla politica. E’ così?
Verità, in politica, è una parola perfino pericolosa. In nome della verità si sono compiuti i crimini orrendi dei totalitarismi novecenteschi. Tuttavia la politica non può prescindere da un rapporto con la verità: su se stessa e sul Paese cui si rivolge. La frase di Moro mi sembra straordinariamente attuale in questa settimana post-elettorale: puoi prendere milioni di voti e poi perdere lo stesso perché non hai verità, cioè una visione, un progetto. Questo vale per gli sconfitti del 4 marzo e ancora di più per i vincitori.

I nodi politici del dopo elezioni. Intervista a Fabio Martini

Fabio Martini

Il post elezioni ci consegna molti “nodi” che non saranno facili da sbrogliare. Quali sono? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare del quotidiano “La Stampa”.

Fabio Martini, queste elezioni fanno segnare un cambio radicale nella geografia politica italiana: il nord tutto, o quasi, blu (con sfondo verde, per il sorpasso leghista), il sud  quasi tutto giallo , colore dei 5stelle. Il rosso è rimasto confinato nell’area, sia pure ridotta. Su queste aree emblematiche dell’Italia il PD ha fallito. Dove è stata lacunosa l’offerta politica riformista?
Il Pd si è presentato con un consuntivo di governo oggettivamente importante. Sul piano dei diritti, ma anche sul piano macro-economico e del mercato del lavoro. Ma gli elettori quasi sempre sono irriconoscenti, come dimostrarono una volta per tutte le elezioni inglesi del 1945, quando Churchill, vincitore di una guerra terribile contro i nazisti, fu sconfitto dai Laburisti che proposero un piano di protezione sociale ad un Paese annientato dalla guerra. Oltretutto alcune misure controverse, come l’abolizione dell’articolo 18, hanno lasciato affiorare un volto “feroce” verso i lavoratori, che non ha giovato al Pd. E’ mancata una proposta ariosa per il Paese, un’idea dell’Italia e degli italiani. Altri si possono permettere di  vivere di “rendita”, per i progressisti di solito è più difficile.

Gli analisti elettorali hanno affermato, per rimanere sempre in ambito PD, che i 5stelle hanno intercettato i voti dei tanti delusi dal PD e che pochi sono andati a LeU. A me sembra la prova della inutilità della scissione. Per te?
La scissione dal Pd ha avuto una comprensibile motivazione legata alla sopravvivenza del gruppo dirigente della minoranza Pd: Renzi, facendo le liste, li avrebbe “sterminati” e dunque i vari Bersani, Speranza, D’Alema hanno preferito farsele da soli le liste. Da questo angusto ma comprensibile punto di vista hanno avuto quasi ragione. Quasi perché non sono tornati in Parlamento il personaggio più autorevole della compagnia, Massimo D’Alema, e il quarantenne più brillante, Pippo Civati. Dopodiché la vera operazione politica mancata è un’altra: dare vita ad una socialdemocrazia di sinistra, grintosa, credibile e innovativa nella difesa dei più deboli.

Visto il grande successo dei 5stelle al  Sud, qualche osservatore ha parlato  dei 5stelle come il nuovo partito della nazione (che era il sogno di Renzi). Insomma un partito di raccolta di ogni ribellismo contraccambiato da assistenzialismo (o per essere più eleganti da un Keynesismo un pò raffazzonato). Insomma la III Repubblica nasce con ricette vecchie…
Il partito della Nazione è il partito che parla – o prova a parlare – a tutti. Fino alla recente campagna elettorale i Cinque Stelle parlavano soltanto agli arrabbiati, al popolo del “vaffa”. Al quale hanno aggiunto, in extremis, il messaggio agli elettori interessati ad una forza capace anche di governare. Ed è vero che la presenza di questo Movimento è la più omogenea sul territorio. Ma  un certo eclettismo delle proposte programmatiche ci dice che quella del partito della Nazione una suggestione ancora molto lontana.

A sentire Salvini, ormai leader incontrastato del centrodestra, è parso molto convinto delle sue ragioni. E’ nota una incompatibilità di cultura con  l’Europa. Pensi che davvero Berlusconi si faccia fagocitare?
Nel tentativo di formare un governo, si giocherà il secondo tempo della sfida tra Salvini e Berlusconi. Una sfida molto personale e personalistica :per ora non affiora una sincera, disinteressata e patriottica vocazione a dare un governo al Paese.

Secondo te Di Maio, stando agli ultimi comportamenti, è più compatibile di Salvini rispetto all’Europa ?
In questi giorni i due vincitori delle elezioni sono apparsi entrambi molto rassicuranti. Anche con Bruxelles. Chi dei due riuscisse a formare un governo (inevitabilmente coalizionale) finirebbe per avere un rapporto dialettico ma non distruttivo con l’Ue.

Torniamo a Renzi e al PD. Le sue dimissioni “a scadenza” accompagnate dall’attacco a Mattarella e Gentiloni sono state una brutta vicenda. L’impressione che ha fatto, almeno a me, è stata quella  di un “capriccio”. Certo vi sono ragioni   politiche non secondarie. Renzi non accetta autocritiche e nel partito c’è il rischio nell’ennesima faida. Pensi che sia reale?
Se Renzi si dimetterà formalmente e solennemente davanti alla Direzione del Pd, saremo (o saremmo) davanti ad una sequenza esemplare: un leader che ha perso, lascia il campo e non preannuncia ri-candidature. A quel punto si aprirà una dialettica fisiologica tra diverse opzioni di partito e di leadership, un processo molto democratico. Vedremo se si concluderà tra 40 giorni con la cooptazione di uno dei maggiorenti, oppure fra tre mesi, con l’elezione popolare di un leader dopo un confronto serrato. Se venissero sospese le Primarie, sarebbe oggettivamente un passo indietro, un ritorno alla democrazia delle elites: Renzi è stato l’artefice del Rosatellum, ma si è dimesso, gli altri affosserebbero le Primarie: un esito paradossale.

A leggere alcuni commenti di personaggi, culturalmente di area ex-democristiana, in cui si afferma che uno degli obiettivi politici da raggiungere è quello di “costituzionalizzare ” il movimento 5stelle. E questo favorirebbe un possibile accordo tra PD e 5stelle (ma su questo c’è da segnalare la posizione contraria del massimo esponente di area ex dc, nel PD Dario Franceschini). Tutto questo, si sa è cultura morotea, riveduta e corretta per i tempi. Sono cose troppo raffinate?
Difficile valutare se sia moroteo e dunque strategico, immaginare un accordo di governo con i Cinque Stelle. Per ora chi vi allude, lo fa in modo tattico. Senza respiro.

Intanto va segnalata la rottura tra Gentiloni e Renzi. Come si svilupperà? Tra i possibili scenari, di questa fase complicata, c’è chi addirittura pensa che Renzi, se non riuscisse a mantenere l’unità sulla linea politica, possa costituire il suo partito alla Macron. Fantapolitica?
Se sia fantapolitica lo vedremo. Ma se mai fosse, sarebbe piccolo cabotaggio: la terza forza europea, tra Ppe e Pse, che Macron vagheggiava con due personaggi che ambivano a governare (l’italiano Renzi e lo spagnolo Rivera, non c’è più.

Fine del “renzismo” o fine del PD? Intervista a Sofia Ventura

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

Matteo Renzi in conferenza stampa (Ansa)

 Mentre la cronaca della politica fa registrare quanto sia complicatissimo far partire la legislatura, Il clamoroso risultato di domenica scorsa continua far discutere l’opinione pubblica, e continuerà a farlo  ancora nei prossimi mesi.  Il PD intanto cerca di riorganizzarsi. Lunedì si svolgerà la direzione nazionale, la prima senza Matteo     Renzi. Ma da quel risultato sorge una domanda strategica: è la fine del “renzismo” o la fine del PD? Ne parliamo con Sofia Ventura, politologa, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna.

 

 

Sofia Ventura (Ansa)

Sofia Ventura (Ansa)

Professoressa Ventura, il risultato clamoroso di domenica, che ci consegna due vincitori Lega e Movimento 5stelle, che ha fatto segnare la disfatta del PD a guida renziana. Quindi si può dire che segna anche la fine di un progetto, di una idea di politica “creata” da Matteo Renzi (rottamazione. allargamento del consenso politico verso ceti moderati, iper decisionismo, ecc). È così?
Questa sconfitta clamorosa, 5 milioni di voti in meno rispetto alle europee del 2014, 2 milioni e mezzo rispetto al voto legislativo del 2013 e quasi sei milioni persi dalle legislative del 2008, segna probabilmente la fine del progetto del Pd nel suo insieme. Un progetto in realtà mai veramente decollato, segnato da un peccato originale, ovvero essere soprattutto lo strumento per due gruppi dirigenti in difficoltà (Ds e Margherita), per sopravvivere e continuare a svolgere un ruolo nelle istituzioni, usando le stesse istituzioni come risorsa di potere. Un peccato originale che spiega anche la scarsa capacità di sviluppare una visione culturale comune e convincente, forse anche a causa di un altro vizio di origine, ovvero la pretesa di trarre una visione riformista da due culture, quella comunista (e post-comunista) e quella dell’ultima Dc, che di riformista avevano davvero poco, ignorando la forza storica e intellettuale del riformismo socialista.

Renzi si è inserito nella lacerante crisi della breve esperienza del Pd, utilizzando innanzitutto quelle forme di democrazia diretta, le primarie, che all’inizio avevano avuto solo un ruolo legittimante di scelte compiute altrove e che con lui si trasformano in un vero e proprio oggetto contundente, in uno strumento di sfida e cambiamento. Purtroppo la sua spinta propulsiva non è andata molto oltre. Dopo l’ondata legittimante di elezioni dirette (la sconfitta più che onorevole del 2012, la vittoria del 2013), ha proseguito con l’onda rottamatrice e delle promesse mirabolanti, in un gioco di sfide continue, senza fermarsi a pensare e a mettere in campo un vero progetto politico e di partito. La speranza di allargamento verso nuovi elettori centristi, dopo l’illusione del 2014, è così naufragata di fronte alla pochezza del progetto e della leadership, mentre i ceti popolari e, più in generale, l’universo dei non garantiti, ai quali non è stato rivolto alcun messaggio, hanno continuato a spostarsi verso altri lidi.

 Sappiamo quanto sia facile per questo Paese innamorarsi del leader carismatico di turno, ed è un limite questo d cultura politica, eppure fino a poco tempo fa il renzismo aveva segnato, per molti italiani, un segno di speranza. Quali sono state, secondo lei, le cause della sua crisi profonda?
Innanzitutto la debolezza intellettuale e culturale, l’assenza di una visione, dello sforzo di costruire una visione andando oltre alcuni slogan e luoghi comuni. E qui forse il riformismo socialista (pensiamo solo ai “meriti e ai bisogni” di Claudio Martelli) avrebbe aiutato. Invece ci si è accontentati della eco di un blairismo orecchiato in un mondo profondamento cambiato. Peraltro senza interrogarsi su quali settori di una società profondamente mutata dovessero essere individuati come principale target, dimenticando i più svantaggiati e illudendosi che il modo fosse fatto di start up. Quindi l’ossessione per il consenso a qualunque costo, che ha prodotto un atteggiamento ambiguo, oscillante tra la pretesa di essere forza responsabile e l’inseguimento delle parole d’ordine della nostra anti-politica, dalla propaganda anti-casta al ritmo intermittente di europeismo/anti-europeismo. Una ossessione, tra l’altro, legata anche ad una ambizione smodata, un inseguimento del potere e del successo a prescindere attraverso un procedere meramente tattico, a detrimento di una visione strategica. E l’incapacità di auto-critica, di apprendere dagli errori, come si nota anche dalla sconcertante reazione di Renzi di fronte alla sconfitta del 4 marzo (“ah sì, avete vinto? e allora adesso voglio proprio vedere!” “Noi? Noi abbiamo fatto cose meravigliose, voi non avete capito, forse non abbiamo comunicato abbastanza bene, ma ora ricominciamo e vedrete. Il passato? Quale passato?”). Infine l’incapacità di costruire, forse la non volontà di costruire, un serio gruppo dirigente, fatto non solo di yes men e yes women, ma di persone capaci e con pensiero critico (e il coraggio di esprimerlo), oltre che il totale disinteresse per un partito, già ereditato in pessime condizioni (si pensi al potere del micronotabilato e dei potentati locali) e lasciato in quelle condizioni.

Eppure una qualche idea positiva l’aveva, per esempio la non ideologizzazione della politica. O forse è anche questo un limite?
Liberarsi dai lacci di una visione arcaica, fuori tempo, della politica e della sinistra è stato certamente un merito del renzismo. Purtroppo, però, a quella visione è stata sostituita solo una debole e nebulosa ‘mentalità’. Anche destrutturare e sconfiggere l’oligarchia che aveva soffocato lo sviluppo del Pd è stato un merito, ma, anche qui, vediamo che a ciò si è sostituito un personalismo altrettanto inefficace in relazione alla possibilità di costruire qualcosa di nuovo, dal punto di vista organizzativo e del pensiero.

In prospettiva, conoscendo il personaggio, Renzi potrebbe essere tentato di fare un partito tutto suo?
Non lo escluderei. Sarebbe in linea con il suo esasperato narcisismo. Ma credo che gli manchino le risorse materiali e intellettuali, le capacità organizzative e anche comunicative (al contrario di quanto alcuni ritengono Renzi non è affatto uno straordinario comunicatore) per realizzare un tale obiettivo e avere successo. Certo, avrebbe comunque un certo seguito, poiché in questi anni si è formato un gruppo di elettori-seguaci (e qui richiamo la forza del narcisismo, non solo dei leader, ma anche dei seguaci, quando questi sono alla ricerca di una identità che trovano nella fedeltà al loro amato leader), un po’ come nel caso di Berlusconi. Ma in generale mi pare che l’immagine di Renzi si sia ormai logorata.

Adesso per la Sinistra italiana si apre una fase di “rigenerazione”. Da dove ripartire secondo lei?
Da zero. Anzi, da meno uno, rimettendo in discussione tanti suoi totem e guardando a come funziona il mondo reale. Ma ci vorrà tanto tempo e forse una nuova generazione.

Ultima domanda: quale strada per far partire la legislatura?
Non ne ho la minima idea. Vedo una destra cannibalizzata dalla Lega, e forse anche il drastico rimpicciolimento di una domanda di destra liberale e popolare (che già non è mai stata molto ampia), un partito che ha scarsa dimestichezza con le regole del gioco liberal-democratico e possiede un ceto politico e una leadership al di sotto della soglia della decenza, nonché modalità di funzionamento opache (il M5S), una sinistra al capolinea. Osservo e spero vi possano essere tempi migliori.