Dopo il voto, come cambia il sindacato.

Intervista a Giuseppe Sabella

 

 

Non c’è che dire, queste elezioni politiche saranno ricordate come quelle che hanno stravolto un quadro di potere. Che poi, come dice qualcuno in maniera esagerata, sia l’inizio della Terza Repubblica – o il ritorno alla Prima – questo è da vedere. Quel che è certo è che anche il sindacato non può non considerare la prepotente espressione di un nuovo orientamento politico. E con questo è chiamato a misurarsi. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e esperto di industria e sindacato.

Direttore, quali sono secondo lei le riflessioni che si stanno consumando nel sindacato?

Il sindacato, in generale, in questi anni non ha brillato per capacità di comprensione del cambiamento. Quindi, non è per nulla scontato che tra i vertici delle organizzazioni sindacali fosse previsto questo risultato. Intendo dire che, forse, le idee del tutto chiare ancora non ci sono, perché – comunque la si voglia vedere – la pesante affermazione del M5S e della Lega rappresentano uno shock per il sistema. Ovvio che anche tra il sindacato emergeranno nuovi orientamenti, semplicemente per una questione di sopravvivenza.

Eppure negli ultimi due anni si sono registrate novità importanti: il rinnovo del CCNL metalmeccanico e le innovazioni introdotte, la detassazione strutturale del salario di produttività, il piano Calenda e le sue misure per il sostegno all’innovazione d’impresa… non siamo forse su una buona strada per l’economia e il lavoro?

Tutti gli interventi che lei ha citato sono ottimi e, in alcuni casi, sono cose di cui si è parlato per anni e alle quali solo nell’ultima legislatura si è stati capaci di dare concretezza. Ma credo che in questi anni si sia giocato molto in difesa. Il basso livello dei salari in Italia è un problema troppo grande per essere lasciato alla contrattazione di secondo livello. Nel senso: se cresce ricchezza ce la dividiamo, bene. E se non cresce? Lasciamo i lavoratori e le loro famiglie in crisi perenne?

E quindi? Come si fa a crescere il livello dei salari in presenza di poca crescita economica?

Sulla questione salariale credo sia necessario un cambio di rotta. È chiaro, tuttavia, che molte aziende rischiano di andare in seria difficoltà in presenza di aumenti salariali. Tuttavia, con misure opportune che possono essere messe in campo, questo risultato può essere perseguito. Per esempio, tagliando il cuneo fiscale.

Ok, ma servono le coperture…

Vero che servono le coperture. Ma se la Spagna è riuscita ad attuare una riforma fiscale nel 2014, proprio con la finalità di dare respiro a famiglie e imprese, perché non lo può fare l’Italia? È chiaro che tutto ciò non può non essere negoziato con Bruxelles – certamente si va nella direzione di aumentare il deficit – ma più liquidità per lavoratori e imprese significa più consumo e più lavoro. E così il circuito dell’economia può trarne vantaggio e gradualmente ridurre il deficit. I sindacati devono battersi insieme, anche alla Confindustria, e pretendere che il prossimo governo attui una riforma fiscale. Certo, l’Europa può concedere flessibilità in presenza non solo di buone riforme ma anche di un progetto di riduzione della spesa pubblica.

A livello di riforma fiscale, il Centrodestra spinge per la FlatTax. Cosa ne pensa?

A parte che la stessa proposta è stata presentata diversamente da Salvini e Berlusconi. Quindi difficile commentare una proposta di cui al momento non si conosce fino in fondo il contenuto. Detto questo, secondo me la FlatTax potrebbe funzionare solo in presenza di una No Tax Area molto più alta delle cifre che girano. Tuttavia, una riforma fiscale seria non vuol per forza dire FlatTax.

La Cgil quest’anno avrà il suo congresso. Si tratta di un evento importante, la Cgil resta il maggior sindacato italiano. Da un punto di vista del merito, e non solo, quale può esserne l’esito?

La speranza è che arrivi un segnale forte. Credo che in casa Cgil si stiano preparando nel modo migliore al Congresso, visto che lo hanno spostato a fine anno (era previsto a maggio). Stanno lavorando molto sul tema dell’industria e dell’innovazione di impresa, credo che si debba guardare a ciò che succederà con molta attenzione. Detto questo, dal Congresso uscirà un nuovo Segretario Generale. E, sulla base di chi sarà, capiremo molte cose e l’orientamento che la Cgil si darà.

Chi secondo lei sarà il nuovo Segretario della Cgil?

Mah… da ora a fine anno potrebbe cambiare tutto. Ci sono sindacalisti molto preparati di cui in questo momento si fa il nome, vedi Vincenzo Colla, Franco Martini, Serena Sorrentino… Tuttavia, stante il clima politico, credo che se la Cgil uscirà da questo congresso con una chiara proposta sindacale, Maurizio Landini sia l’uomo che può far bene non solo alla Cgil ma all’intero movimento.

IL PUZZLE MORO. Testimonianze e documenti inglesi e americani sull’assassinio del leader DC. Un nuovo libro di Giovanni Fasanella

Questo libro, di Giovanni Fasanella, giornalista d’Inchiesta, uscirà domani nelle librerie, a pochi giorni dal 40° anniversario del rapimento e dell’uccisione della sua scorta a Roma in Via Fani. In questi ultimi anni, attraverso il lavoro di giornalisti e dell’ultima Commissione Parlamentare sul Caso Moro, diverse verità sono state scoperte. Il libro di Fasanella arricchisce il “puzzle” di quella tragedia, che segnò per sempre la democrazia italiana. Il libro verrà presentato a Milano domenica 11 marzo, nell’ambito dell’Iniziativa “Tempo di Libri” presso la “Sala Volta” alle 11,30.

 

 

 

 

 

IL LIBRO

Le verità che mancavano sul più importante delitto politico del dopoguerra “Dobbiamo scoraggiare le iniziative indipendenti del governo italiano nel Mediterraneo e in Medio Oriente.”

Nota interna del Foreign Office, 1970

“Azione a sostegno di un colpo di Stato in Italia o di una diversa azione sovversiva. ”Titolo di un documento top secret del governo britannico contro la politica di Aldo Moro, 1976

“Le ingerenze sono, sempre e comunque, di parte.Tuttavia, nel caso dell’Italia, dobbiamo fare qualcosa di concreto e non limitarci a discutere.”
Reginald Hibbert, sottosegretario del Foreign Office con delega alle questioni europee, 1976

“L’influenza di Moro e Berlinguer sulla politica estera italiana è forte e potrebbe avere serie ripercussioni… Il governo italiano va mantenuto sulla giusta via.”
Rapporto dell’ambasciatore britannico a Roma Alan Hugh Campbell, 1977

La vicenda Moro costituisce un caso internazionale per eccellenza. Ancora da raccontare nei suoi risvolti più oscuri. Tra gli anni Sessanta e Settanta la politica estera morotea, soprattutto quella mediterranea, e il disgelo nella politica interna tra Dc e Pci rappresentarono un pericolo gravissimo per gli equilibri mondiali. L’Italia andava fermata. A tutti i costi.
Sulla base di documenti desecretati a Londra e a Washington (e delle recenti acquisizioni dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro), Giovanni Fasanella dimostra che una parte delle amministrazioni Usa, con gli inglesi e la complicità a vari livelli e in fasi successive di Francia, Germania e Unione Sovietica insieme con Cecoslovacchia e Bulgaria, avevano interessi convergenti a fermare Moro. Come confermano anche le testimonianze di ambasciatori e politici dell’epoca riportate in questo libro.
L’autore riesce a saldare in un racconto avvincente testimonianze e documenti inediti, offrendoci per la prima volta la ricostruzione completa del contesto internazionale e delle complicità interne in cui maturò il delitto Moro. Solo così possiamo capire davvero le cause che stanno alla radice di molti episodi terroristici e individuare chi aveva interesse a destabilizzare la nostra democrazia. 

L’AUTORE
Giovanni Fasanella, giornalista, sceneggiatore e documentarista, da molti anni impegnato a ricostruire il contesto geopolitico della storia italiana, per Chiarelettere già autore con Mario José Cereghino di “Colonia Italia” (2015, 2 edizioni) e “Il golpe inglese” (2011, 3 edizioni, 5 ristampe in edizione tascabile), e con Rosario Priore di “Intrigo internazionale” (2010, 3 edizioni, 2 ristampe in edizione tascabile), ha condotto una nuova, approfondita ricerca a Londra, scoprendo molti documenti inediti, che sono alla base di questo suo nuovo libro-inchiesta.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo l’introduzione dell’autore 

Fasaleaks
La mattina del 16 marzo 1978, Aldo Moro fu sequestrato da un commando delle Brigate rosse. Dopo aver sterminato la sua scorta in via Fani, a Roma, i terroristi lo prelevarono e lo portarono in una prigione del popolo. Lo sottoposero a un processo popolare che si concluse con una condanna a morte. E cinquantacinque giorni dopo il rapimento, nonostante le trattative per la sua liberazione fossero giunte a un passo dall’esito positivo, la mattina del 9 maggio lo assassinarono. Il suo cadavere fu lasciato nel bagagliaio di una Renault rossa abbandonata in via Caetani, in pieno centro storico. A un passo dalle sedi del Pci e della Dc. In una zona dove, dietro il paravento di società e associazioni di copertura, operavano i servizi segreti di mezzo mondo. Fu il delitto politico più grave della storia della Repubblica. Non solo per lo spessore della vittima: cambiò il corso della storia italiana proiettando i suoi effetti anche nei decenni successivi.

L’assassinio del leader democristiano costituì il picco di una lunga fase di violenza caratterizzata da opposte matrici politico-ideologiche. “Rossi” e “neri” fecero centinaia di morti e migliaia di feriti, senza tener conto degli immensi danni collaterali. Perché accadde? Perché in Italia? E perché Moro? Nonostante le innumerevoli indagini giudiziarie e parlamentari, e un’infinità di ricostruzioni storico-giornalistiche, queste domande hanno ricevuto soltanto risposte parziali e insoddisfacenti. L’ultima commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni (che ha concluso i suoi lavori nel dicembre del 2017 con l’approvazione della relazione finale con il voto unanime di Camera e Senato) ha accertato che ci fu una vera e propria operazione per stabilire i confini delle cose “dicibili al paese”. Una versione ufficiale, insomma, che tendeva a limitare le responsabilità alle sole Brigate rosse, le quali erano un fenomeno esclusivamente “italiano”, ideologicamente “genuino” e quindi privo di ogni contaminazione esterna. Una verità di comodo frutto di una “complessa trattativa” che coinvolse ex terroristi, magistrati, agenti segreti, istituzioni dello Stato. E molti, ovviamente, ne trassero dei benefici. Ci fu uno scambio: silenzio in cambio di impunità. Una completa verità, infatti, avrebbe mostrato all’opinione pubblica ciò che non doveva essere visto. E cioè che, dietro la facciata di un paese libero, si celavano vincoli esterni, imposti addirittura dai trattati internazionali post-bellici, che impedivano all’Italia di avere una propria politica estera e della sicurezza, e un regime interno pienamente democratico. Ciò che non si poteva dire, in altre parole, era che l’assassinio di Moro fu un vero e proprio atto di guerra contro l’Italia anche da parte di Stati amici e alleati, un attacco alla sovranità di una nazione e alle sue libertà politiche portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne. I ricercatori si sono dovuti scontrare contro quel granitico muro di silenzio eretto a protezione delle aree grigie in cui si erano strette alleanze “sporche” fra il terrorismo, il “partito armato” dell’Autonomia operaia, criminalità mafiosa, apparati interni infedeli e, soprattutto, interessi internazionali. Un quadro troppo imbarazzante per poter essere svelato. E così, sono fiorite per reazione ricostruzioni “dietrologiche” basate su risposte ipotetiche, in mancanza di verità documentabili. Si è radicata una mitologia del mistero che si è autoalimentata nel tempo, impedendo a sua volta la comprensione storica degli avvenimenti. Ci si è attardati su dettagli marginali, e spesso insignificanti perché letti al di fuori del loro contesto, perdendo di vista il quadro generale.

Oggi, per fortuna, molte cose sono cambiate. Sono sempre più numerose le fonti aperte. E i materiali a disposizione consentono ai ricercatori di ricostruire la complessità del caso Moro. Di individuare tutti i soggetti che ebbero un ruolo, diretto o indiretto. Di delineare con altrettanta precisione le dinamiche che si svilupparono tra i vari attori: protagonisti, comprimari e comparse. Di ricomporre il quadro del “grande gioco” che si dispiegò prima, durante e dopo i “cinquantacinque giorni”. E di dare, quindi, una risposta – perché una risposta c’è – a quelle domande fondamentali.

Ma per vederci più chiaramente è necessario cambiare approccio mentale e metodologico. Il caso Moro non è un cold case da protrarre all’infinito, in cui scoprire un assassino sempre più misterioso e inafferrabile. E non può neppure essere circoscritto ai cinquantacinque giorni.  E’ una vicenda che coincide con la parabola politica del suo protagonista e affonda le proprie radici nelle anomalie della storia italiana del dopoguerra. Una storia molto complessa di cui non si tiene quasi mai conto. E che sfugge innanzitutto ai brigatisti rossi, convinti di essere stati il motore esclusivo di avvenimenti che sono invece più grandi di loro. D’altra parte, di fronte all’immane tragedia provocata, alle tante vite bruciate (degli altri, ma anche le proprie) non è facile ammettere di essere stati, alla fine, soltanto degli utili idioti.

La mia scommessa è proprio questa: restituire alla vicenda Moro tutta la sua complessità. Provare a ricomporre l’intero puzzle inserendo al loro posto le tessere mancanti. E vorrei farlo interfacciando contesti interni e internazionali, intersecando fonti archivistiche (particolarmente ricchi e illuminanti sono i tanti documenti inediti trovati negli archivi di Stato britannici di Kew Gardens) con fonti storiografiche e giudiziarie, memorialistica, testimonianze e confidenze raccolte nel corso di un’indagine giornalistica iniziata sin dai tempi in cui, durante gli anni di piombo, ero cronista della redazione de “l’Unità” a Torino; e proseguita senza pausa durante la mia esperienza romana, di nuovo a “l’Unità”, poi a “Panorama” e infine attraverso tanti libri. Più di quattro decenni, a pensarci bene. Quanti ne sono trascorsi dall’assassinio di Moro all’uscita di questo libro con Chiarelettere. Un periodo lungo, durante il quale ho avuto occasione di frequentare archivi italiani e stranieri. E di conoscere molti dei protagonisti, a vario titolo, di quella tragica esperienza: vittime e carnefici, investigatori e agenti segreti, storici e uomini di Stato, da ognuno dei quali ho ricevuto un prezioso tassello da inserire nel puzzle.

Mi è capitato spesso di ricevere lettere da giovani lettori che mi chiedevano perché ho coltivato una passione così forte da apparire quasi ossessiva, se non addirittura morbosa, per il caso Moro e per gli anni di piombo. In fondo è una storia vecchia di decenni, perché mai dovrebbe ancora interessare? Che senso ha continuare ad agitare i fantasmi del passato? Non rischiamo di rimanerne prigionieri? Domande sensate. Con cui fare i conti. Ma come? L’unica risposta che sono in grado di dare è attraverso le parole di Giovanni Moro, il figlio di Aldo: «I fantasmi sono morti che non riposano in pace e che non lasciano in pace nemmeno i vivi, perché continuano a manifestarsi chiedendo loro di onorare un debito o di liberarli dalla maledizione che consiste proprio nel dover tornare». Quel debito, personalmente, vorrei cercare di onorarlo mettendo tutte le mie conoscenze a disposizione del lettore.

GIOVANNI FASANELLA IL PUZZLE MORO. Da testimonianze e documenti inglesi e americani desecretati, la verità sull’assassinio del leader DC, Ed.Chiarelettere, Milano 2018, pp. 368, 17,60 €

 

 

 

Un futuro di galleggiamento per l’Italia? Intervista ad Alan Friedman

(Marilla Sicilia/LaPresse)

Siamo agli sgoccioli della campagna elettorale. Per molti osservatori politici è stata una delle peggiori. In questi giorni le forze politiche stanno puntando tutto il loro sforzo propagandistico verso gli “indecisi”. Tutto si giocherà in quel campo. Quali saranno le possibili prospettive politiche ed economiche per l’Italia dopo il voto di domenica prossima?

Ne parliamo, in questa intervista, con Alan Friedman, prestigioso giornalista statunitense esperto di economia, politica ed editorialista del “Wall Street Journal”. Friedman è autore di numerosi saggi. L’ultimo suo saggio, edito dalla casa editrice Newton Compton, “Dieci cose da sapere sull’Economia italiana prima che sia troppo tardi” è appena uscito nelle librerie. Dal libro partiamo per alcune riflessioni. 

Friedman, lei nel suo libro, che ho trovato stimolante non solo sul piano dell’economia ma anche su quello della politica, ha un titolo molto indicativo: “Dieci cose da sapere sull’economia italiana prima che sia troppo tardi”, alla fine del libro prevede, nell’immediato, un “rischio di galleggiamento”. Le chiedo, proprio alla vigilia del voto, alla fine ormai della campagna elettorale, perché vede questo rischio? 

Questo libro spiega che anche dopo il voto del 4 marzo il vero rischio per l’Italia è l’instabilità politica un governo di transizione e il “rischio di galleggiare”, nel senso che un governo, che si chiami governo del presidente o governo delle larghe intese non importa come si definisce, non è un governo che può fare importanti riforme dell’economia, ma è un governo che può fare il minimo indispensabile, che vuol dire la legge finanziaria e una nuova legge elettorale. Per me il rischio è che, se non c’è un risultato chiaro dopo il 4 marzo, l’Italia rischia che l’economia galleggi finché la politica non si risolve.

Nel libro vengono analizzate alcune proposte programmatiche delle forze politiche in competizione. E il bilancio che lei fa, dati alla mano, è desolante: sono proposte da libri dei sogni. Irrealizzabili per i costi eccessivi per un paese indebitato come l’Italia. Le chiedo: qual è la più “incredibile” delle proposte, secondo lei, e quella che forse può essere definita “realistica”?

La proposta più assurda è sicuramente quella di Salvini che dice di abolire la riforma Fornero. Bisogna parlarci chiaro, non nasconderci dietro un dito, la riforma Fornero fu necessaria per l’invecchiamento del paese, il meccanismo di innalzamento dell’età pensionabile è necessario. Chi parla di abolire la riforma Fornero rischia di portare il sistema di previdenza in bancarotta, e quindi è demagogia, populismo. Un’altra proposta assurda è la flat tax, perché porta benefici soprattutto a chi guadagna più di 75.000 euro, ai benestanti e ai ricchi e non sarebbe equità sociale. La proposta più ragionevole è invece difficile da individuare, perché sono poche ragionevoli, al momento se dovessi giudicare non avrei valutazioni positive. Questa è una delle peggiori campagne elettorali. 

Cosa pensa della proposta, fatta da “Liberi e Uguali”, di abolire le tasse universitarie?

Io credo che quella delle tasse universitarie sia l’ennesima proposta che manca di una copertura; sarebbe bello, ma non è la soluzione. l’Italia deve portare avanti la crescita, creando lavoro, migliorando la produttività. 

Allora torniamo al “Sistema Italia”. Quando parla del lavoro, delle strade possibili  per aumentare la crescita, lei giustamente afferma che il problema più importante, che ci rende meno competitivi come Paese, è la bassa produttività. E questo è un punto nevralgico. La sua “ricetta” qual è?

Io credo che è molto importante dare alle piccole imprese più flessibilità di contratti, premi salari, più meritocrazia, così i lavoratori che sono più bravi sono premiati.

Sul lavoro lei dà un giudizio positivo al “Job act”, anzi si augura che sia completato da ulteriori passaggi. Quali potrebbero essere questi “completamenti”?

Allargare lo sgravio fiscale e gli incentivi che permettono più detassazione, più riduzione dei costi del lavoro per chi assume. 

Lei sostiene il superamento del contratto nazionale di lavoro. Non è pericoloso questo?

Per le grandi aziende, come i metalmeccanici, vanno bene i contratti collettivi; io parlo delle piccole imprese, con meno di 15 dipendenti.

Una parola sulla questione dell’articolo 18. Ma davvero questo articolo è un problema per il buon andamento aziendale? 

Non ho mai visto la questione dell’articolo 18 come una questione di grande importanza, ma sicuramente è un simbolo emotivo e politico dei lavoratori che è stato contestato, anche se secondo me riguarda poche persone e non è decisivo nell’economia italiana. 

Il suo libro tratta di molte altre questioni: dalle tasse alle pensioni, fino all’Europa. Allora le chiedo qual è la risorsa migliore che possiede l’Italia sulla quale fare affidamento per una possibile rinascita?

Le risorse naturali dell’Italia sono la fantasia e l’energia degli italiani. La grande energia degli imprenditori italiani che vanno nel mondo, che hanno coraggio, che lavorano sodo, ci sono tanti bravi imprenditori in Italia e dovrebbero fare più squadra. 

Ultima domanda: Chi Salverà l’Italia?

Gli stessi italiani. Io credo che gli italiani meritino una classe politica migliore, io ho fiducia nel popolo italiano, se gli italiani non decidono di votare un governo forte allora la politica sarà lo specchio degli italiani.

GIURAMENTO E VANGELO. Un breve testo di Pierluigi Castagnetti

Pubblichiamo, per gentile concessione, questa breve, ma efficace riflessione di Pierluigi Castagnetti sul discusso “giuramento” fatto da Matteo Salvini ieri a Milano durante il suo comizio elettorale.

Penso che Salvini sia credente: l’ho incrociato a Messa lontano dalle telecamere e dall’Italia. Non ho titoli per giudicare la sua coerenza, terreno scivoloso per tutti e, in ogni caso, chi sono io per giudicare. Però.
Però, quando uno è uomo pubblico e i suoi gesti prevalenti sono pubblici, questi gesti sono giudicabili. E, senza iattanza, dico che i gesti e le parole della Lega perlopiù non sono cristiani.
È vero che anche Trump ha giurato sulla Bibbia, ma questo semmai conferma l’esigenza di finire una tale tradizione per sottrarsi ai rischi di blasfemia. Cosa significa giurare sulla Bibbia per un politico? Che le sue azioni saranno sempre coerenti con le parole del Testo? Suvvia, siano le chiese cristiane fedeli al Libro a chiedere di cessare un rito divenuto come minimo semplicemente pagano.
E, volendo essere buono, mi rivolgo ai tanti “salvini” che popolano la politica e che semmai sono tentati di imitare l’originale: soprattutto se siete credenti, resistete alla tentazione.

 

Romano Guardini: un ethos per l’Europa. Un testo di Silvano Zucal

 

In occasione dei 50 anni dalla morte di Romano Guardini, il grande teologo italo-tedesco , uno dei “Padri della Chiesa del XX secolo”, avvenuta a Monaco di Baviera il 1 ottobre 1968 , Lo Studio Teologico san Zeno in collaborazione con Vicariato per la Cultura-Diocesi di Verona, Vicariato Verona centro e la “Fondazione Giorgio Zanotto”, hanno realizzato un convegno, lunedì scorso, per ricordare la sua figura. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento del professor Silvano Zucal, docente di Filosofia Teoretica all’Università di Trento.
(I titoli dei paragrafi sono a cura del redattore)

Le due identità
(1) (2) (3) (4) Romano Guardini nasce a Verona nel 1885 e già l’anno successivo si trasferisce a Magonza con la famiglia. In quella città conseguirà la maturità ginnasiale. Si iscriverà poi alla facoltà di chimica a Tubinga per passare, successivamente, a quella di economia politica (1904) presso le Università di Monaco e di Berlino. Ma la sua vocazione lo conduce altrove e nel 1905 studierà alla facoltà teologica di Tubinga e poi di Friburgo fino a ricevere nel 1910 l’ordinazione sacerdotale. Una formazione culturale che avviene dunque interamente in àmbito tedesco. Ben diversa era la situazione in famiglia dove si parlava in italiano e si veicolava in modo convinto la tradizione culturale italiana. Il padre Romano Tullo, nato a Verona (1857), importatore di pollame(per la grande azienda italiana “Import Grigolon-Guardini &Bernardinelli GmbH”) è politicamente un appassionato sostenitore di Cavour e un cultore di Dante e nel 1910 diventerà console onorario italiano. La madre Paola Maria Bernardinelli è invece trentina, nativa di Pieve di Bono (1862) nelle valli Giudicarie (anche se la famiglia proveniva da Javrè in Val Rendena),viene da una famiglia che possedeva un’osteria e poi una macelleria, studierà nell’istituto delle Dame inglesi a Merano e nella famiglia rappresenta, ancor più profondamente e fortemente del marito, lo spirito italiano unito ad una posizione anti-asburgica e più in generale a un rifiuto non privo di risentimento per tutto ciò che è tedesco. Non potrà quindi che generare perplessità e sconcerto nella famiglia il fatto che il figlio primogenito Romano decidesse, nonostante l’opposizione esplicita dei genitori, di assumere nel 1911 la cittadinanza tedesca compiendo una sorta di “esodo” volontario dalla patria originaria italiana. Lui solo oltretutto di tutta la famiglia (rientrata poi in Italia dopo l’improvvisa morte del padre avvenuta nel 1919) aveva optato per il Nord.
(5) (6) Con la scelta della cittadinanza, Guardini divenne a pieno titolo e con una sorta di sigillo formale un pensatore espressivo della cultura tedesca, che egli aveva ormai assorbito in modo irreversibile. Se nella casa paterna di Magonza, nel Gonsenheimer Hohl, egli aveva respirato la cultura italiana oltre ad averne appreso la lingua, al di fuori di essa, a scuola, tra gli amici, nella formazione spirituale, all’Università, lingua e cultura furono infatti indelebilmente segnate dal mondo tedesco. Certo frequenti furono ancora i viaggi in Italia in visita alla madre (vivrà fino 95 anni, morendo nel 1957 quando Guardini aveva già 72 anni), ai tre fratelli Gino Ferdinando, Mario e Aleardo e ai nipoti, con soste prolungate nella residenza materna inizialmente sul lago di Como e poi, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’20, a Villa Guardini a Isola Vicentina presso Vicenza dove egli amava preparare le sue lezioni camminando tra gli amati alberi che contemplava senza stancarsi. Una sorta di addio all’Italia sarà l’ultimo viaggio nell’agosto del 1968 (dal 28.8 al 15.9), avvenuto poco prima di morire (morirà il 1 ottobre) con tappe deliberate prima di attraversare il confine a Trento e a Bressanone. Oltrepassato il Brennero egli comunque osservò: «Ho sempre l’impressione che qua nel Nord vi sia una dimensione in più…».
(7) Questa relazione seppur intensa con l’Italia non cambierà mai la sua prospettiva culturale complessiva. Quando, durante la prima guerra mondiale, dovrà addirittura svolgere il servizio militare come infermiere in un ospedale militare indossando l’uniforme tedesca mentre due fratelli prestavano servizio nell’esercito italiano il conflitto latente tra le sue due identità diverrà ancor più lacerante ed esplosivo. Alcuni anni più tardi cercherà di mostrare come aveva vissuto questa singolare conflittualità e come aveva cercato di uscirne ovvero con il suo auto-identificarsi come “cittadino europeo”. Di qui l’assoluto rilievo dei suoi scritti sull’Europa.

La genesi dell’ Europa
I numerosi saggi europeistici di Romano Guardini restituiscono non solo la potenza dell’argomentare del filosofo italo-tedesco ma anche un clima aurorale, una “genesi” del “fatto-Europa”. Elemento su cui merita ritornare soprattutto nel contesto odierno in cui l’Europa vive una particolare crisi d’identità. Parto sofferto quello europeo, drammatico, non scontato, esito di conflitti, di inquietudine e di tormenti sia biografici sia nazionali.
Guardini sente gravare su di sé un destino di primo acchito irriducibile e insieme incomponibile: l’appartenenza a due patrie, due mondi culturali e spirituali diversi e nella grande guerra civile del Novecento ora alleati ora in conflitto. Come uscirne? Le sue potenti meditazioni sull’Europa dicono che solo l’Europa poteva diventare non solo “un destino” di ricomposizione per la sua personale identità duale, ma anche un compito etico da consegnare al futuro dei popoli europei fuoriusciti dall’epoca tragica segnata dalle guerre, dai totalitarismi e dalla macchia indelebile della Shoà. I quattro testi più rilevanti sono composti in momenti diversi con una sorta di crescendo.
Il primo, in senso cronologico, è un intervento ripreso dagli appunti di Josef Außem. Siamo a Grüssau (Slesia), nella Pentecoste del ’23, a un convegno della Jugendbewegung e Guardini è già il leader riconosciuto del movimento giovanile tedesco. La descrizione di Außem ci restituisce in modo quasi palpitante (sorta d’affresco) il clima spirituale davvero ambiguo della Germania frustrata e occupata, foriero purtroppo di tragedie, e impressiona quell’accorrere di migliaia di giovani in attesa famelica di un obiettivo che dia senso al loro futuro. Guardini dovrebbe parlare solo d’altro, del “senso della Chiesa”, ma in una sorta di coup de théâtre il relatore ufficiale sul tema politico e sul rapporto tra dimensione nazionale ed Europa, il parroco Rohn, viene a mancare e toccherà proprio a Guardini, italiano naturalizzato tedesco, affrontare un tema per lui imprevisto e in parte problematico. Egli si schermisce, appare come titubante ad affrontare da oriundo italiano un tema “cosi tedesco”, ma poi coglie proprio una tale occasione per confessare in pubblico il suo tormento interiore relativo alla scelta del servizio militare con l’esercito tedesco: «Il suo essere spirituale si radica, egli sostenne, nella cultura tedesca. Ha militato nell’esercito come soldato e la guerra e la disfatta lo avevano posto di nuovo di fronte alla decisione di definire a quale popolo egli davvero appartenesse. Si è deciso per la Germania. […] È intimo dovere morale stare dalla parte del proprio popolo e contribuire a sostenere la sua opera. […] Questo dovere sussiste in periodi normali, più che mai in quelli straordinari, quando al popolo sopravviene una distretta; allora la fedeltà dev’essere doppiamente profonda e l’unita doppiamente grande. Al tempo della disfatta avemmo la sensazione di uno che affoga, per il quale ne va dell’onore e dell’essere. Per chiunque abiti in un territorio occupato si faceva buio nel giorno più luminosamente chiaro quando vedeva comparire le uniformi straniere».
Chiarito il significato di “fedeltà”, in specie nel momento della disfatta, emerge pero già in questo intervento di Guardini un primo spiraglio di carattere europeistico. La fedeltà al popolo e alla cultura tedesca non gli impediscono di guardare all’Europa come luogo deputato al superamento di ogni forma di sciovinismo che scatena i bellicismi e che divide addirittura i fratelli tra di loro (come era avvenuto proprio nella sua famiglia). Questa “novità di formulazione” colpì particolarmente gli ascoltatori, che sentirono Guardini articolare in modo raffinato una relazione dialettica tra fedeltà al proprio popolo e apertura a un contesto superiore: «Non intendiamo parlare degli arrabbiati, – e Guardini lo dice nell’anno della terribile inflazione tedesca post-bellica – che per un risentimento si scostano dal proprio popolo e deviano in quella direzione. Vi sono però persone che hanno un senso dei legami che superano quelli di un solo popolo. Non è lecito scambiare con questo piano spirituale l’internazionalismo socialista. Noi vediamo l’Europa vivente, che è emersa, vive ed esercita il suo influsso in un certo numero di persone». E al movimento giovanile consegnava proprio questo impegno peculiare di riconoscere il «fatto spirituale dell’Europa» come proprio destino: «Chi è nello spirito della Jugendbewegung? È colui che interiormente è lacerato, è inquietato da questi problemi, che diventano per lui destino. Suo compito è quello di vedere il fatto (Faktum) Europa. La soluzione non si può trovare traendola da qualche genere di risentimento. Noi dobbiamo deciderci se agire demagogicamente o se vedere le cose in un’ottica di carattere essenziale e pensare e agire sulla base della responsabilità di fronte a questo nuovo sviluppo», ormai, ineludibile in direzione europea. Monito che purtroppo rimarrà in larga parte inascoltato in quegli anni che porteranno di lì a poco ai totalitarismi e frantumeranno ogni ipotesi di costruzione europea. Guardini aveva dimostrato una singolare lucidità profetica. Profeta purtroppo inascoltato (con rare eccezioni come gli studenti della “Rosa Bianca”) poiché la Germania andrà incontro alla sua deriva totalitaria e sciovinista.
In questo contesto, Guardini scrive il suo secondo testo, di certo il più drammatico. Lo scrive da professore senza cattedra e senza più magistero perché l’unica cattedra e l’unico magistero è quello del “grande” Führer e insieme Verführer (seduttore). Nell’isolamento del suo pensionamento forzato impostogli dal regime egli cerca di analizzare come tutto ciò sia potuto accadere e quale possa essere in futuro il fattore immunizzante. I saggi (L’Europa e Gesù Cristo; L’Europa e il cristianesimo) redatti negli anni bui del nazismo e della seconda guerra mondiale (una prima redazione è del ’35) rileggono il tutto cercando di saldare il discorso europeistico alla cristologia. Solo una prospettiva cristologica ed europeistica insieme, meglio le due realtà in inseparabile connessione, può e potrà eradicare la follia del “Blut und Boden”, un fantasma che può sempre risorgere. Pennellate efficaci, anche se stringate, sul rapporto vitale tra il tessuto profondo dell’anima europea e la cristologia portano Guardini a concludere che «l’Europa, ciò che è, lo è attraverso Cristo – una verità, che Novalis ha proclamato nel 1799 nel Frammento, sostenuto da forza profetica, La cristianità o l’Europa. […] Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo avvenisse, cesserebbe di essere».
Se l’Europa ha una genesi essenzialmente cristologica, questo si può riconoscere anche quando è avvenuta in larga parte l’apostasia dall’origine cristiana e scienza, cultura, politica, economia, filosofia europee vogliono realizzarsi fuori da quello spirito o addirittura in esplicita contraddizione con esso. Anche nelle manifestazioni negative o contraddittorie continua in realtà a operare la figura di Cristo. L’età dei totalitarismi ha tentato di innalzare il nuovo mito soteriologico del “salvatore terreno”, che avrebbe dovuto eliminare Cristo e la sua redenzione e fissare l’uomo in questo mondo. Se essi avessero definitivamente trionfato, sarebbe stata la fine dell’Europa, non tanto sul piano economico-politico, ma su quello della “figura umano-politica” che porta il nome Europa. Che cos’è allora, in ultima analisi, l’Europa? Guardini risponde in modo suggestivo con una pagina anche letterariamente accattivante, che è bene riprendere integralmente: «L’ Europa non è un complesso puramente geografico, né soltanto un gruppo di popoli, ma un’entelechia vivente, una figura spirituale operante. Si è sviluppata in una storia, che passa per quattromila anni e a cui non si può finora paragonare nessun’altra in ricchezza di personalità e di forze, in audacia d’azioni come in profondi movimenti di destini sperimentati, in ricchezza di opere prodotte come in pienezza di significato immessa in ordini di vita creati. […] Una cosa è però sicura […]: l’Europa diverrà cristiana, o non esisterà mai più. Può essere ricca o diventare povera; può avere un’industria altamente sviluppata o dover ritornare a livello rurale; può assumere questa o quella forma politica – in tutto ciò rimane se stessa, finché vive la sua forma fondamentale». Cristo è stato attivo per quasi due millenni nella più intima profondità dei popoli europei e ne ha plasmato una particolare sensibilità e finezza. L’essere di Cristo ha liberato il cuore all’uomo europeo, gli ha dato la capacità di vivere la storia e di esperire il destino, lo ha tratto fuori dall’antico stato servile e prigioniero nella natura e nel mondo e l’ha posto dinanzi a Dio nella sovrana libertà del redento. Una libertà e una conseguente responsabilità che dovrebbero essere immunizzanti dinanzi alla possibile catastrofe generata dalle sue opere.
Contro l’uomo europeo “cristi-forme” si muoveva il mito e l’istinto nazionalsocialista, che mirava a distruggere la dimensione europea per ottenere una massa informe di cui avrebbe potuto disporre a piacimento. Di qui l’odio mortale contro Cristo e contro tutto ciò che viene da Lui. Il mito del sangue come nuovo Mito del XX secolo (come recita il titolo della celebre e inquietante opera di Alfred Rosenberg, ideologo del nazismo) e l’annullamento di ogni dimensione spirituale come contrappeso alla semplice biologicità, e con ciò la fine dell’essenza europea. Il futuro dell’Europa è nella fedeltà a se stessa, nel suo essere non solo determinata nel profondo dalla figura di Cristo, ma – e ben più – nel suo essere come strutturata da tale figura cristica, se vuol conseguire la propria forma per eccellenza ed unica: «Se […] l’Europa deve esistere ancora in avvenire, se il mondo deve ancora aver bisogno dell’Europa, essa dovrà rimanere quella entità storica determinata dalla figura di Cristo, anzi, deve diventare, con una nuova serietà, ciò che essa è secondo la propria essenza. Se abbandona questo nucleo — ciò che ancora di essa rimane, non ha molto più da significare».

L’Europa è l’incontro fecondo di “opposti polari”
È invece più pacato il Guardini settantenne che, nel 1955, rivolgendosi ai colleghi dell’Università di Monaco che lo festeggiano, propone un intervento, sorta di bilancio, che salda insieme il tema dell’ Europa con quello della peculiarità del suo insegnamento di “visione cristiana del mondo» (Europa e Weltanschauung cristiana). In questo contributo il pensatore mette a tema la logica delle polarità: l’Europa per lui è nata nella polarità virtuosa delle sue due anime e tale dovrà essere anche l’Europa del futuro, incrocio fecondo di opposti polari. L’unità necessaria per ricomporre il proprio “io” frantumato dal duplice destino biografico, Guardini la trovò nell’essere europeo. In una sorta di bilancio, egli ricorda la feconda e liberante scoperta di quella “unita” e, insieme, mette in guardia sul rischio permanente di un’incomprensione tra Italia e Germania: «A questo punto mi è riuscita chiara per esserne personalmente impegnato quella realtà il cui nome è oggi sulla bocca di tutti, ma di cui allora quasi nessuno parlava: il fatto “Europa”. Lo riconobbi però, allora, come la base, unicamente sulla quale potessi esistere: familiarizzatomi intrinsecamente con la natura tedesca, ma attenendomi con fermezza fedele alla prima patria, ed entrambi gli atteggiamenti non come una mera giustapposizione, ma fusi come una cosa sola nella realtà “Europa”, che certo nasce da necessità storiche, ma anche dalla vita di coloro che ne fanno l’esperienza nella propria esistenza. Ancora qualcosa d’altro mi riuscì chiaro. Tra la Francia da un lato e la Germania dall’altro, nonostante tutte le sventurate difficoltà politiche, l’“Europa” era da lungo tempo in via di realizzazione, seppure più dall’Est all’Ovest che nella direzione opposta. Tra l’Italia e la Germania tuttavia sembrava che le cose stessero in modo diverso. Certo da sempre l’aspirazione dei Tedeschi verso il Sud era stata operante; tuttavia per lo più in un modo estetico-lirico, peculiarmente irreale, che si manteneva nell’àmbito dell’arte e del paesaggio, e invece non prendeva molta cognizione della realtà storico-politica. Alla relazione del Nord verso il Sud non ne corrispondeva nemmeno una analoga in senso contrario».
L’Europa vive dunque delle sue opposizioni polari, della sua dialettica Nord-Sud, Est-Ovest, della sua polarità geografica tra l’altezza delle Alpi e la pianura, del suo essere crocevia di diversità non incomponibili ma fecondamente intrecciabili: «Ancora sempre mi commuovo nel cuore […] quando sulla carta geografica vedo la sua immagine: la configurazione piccola e graziosa […] come fosse disposta dal cesello di un orafo tra i colossi Asia, America, Africa. La ricchezza delle sue forme, l’insinuarsi reciproco tra il mare e la terra, la molteplicità delle sue situazioni etniche dalle Alpi fino alla pianura più bassa – tutto questo appare come una preparazione al destarsi dello spirito più luminoso a opere grandi e audaci imprese».
L’ultimo apporto in ordine di tempo, il più ampio, raffinato e completo, è nato da una circostanza accidentale ma insieme dice il riconoscimento della grande originalità della sapienza europeistica di Guardini: il conferimento, nel 1962, del Premio Erasmo a Bruxelles. Il testo (Europa. Realtà e compito) pone una domanda urgente all’Europa, assegna ad essa una nuova missione. Se, forse, la stagione fanatica dell’autoaffermazione senza limiti dell’imperium nazionale è alle spalle e l’integrazione europea è ormai possibile, la nuova sfida è il dominio del nuovo imperium: quello della téchne. Se l’identità europea è nel suo radicamento cristiano, meglio ancora nel suo legarsi alla “figura Christi”, quale è dunque la missione dell’Europa, il suo compito (Aufgabe) specifico nel contesto mondiale? Sul piano numerico essa potrà non esser più competitiva né dal punto di vista demografico, né sul terreno economico o industriale o anche scientifico e artistico. C’è però una «prestazione assegnata in modo speciale all’Europa e che potrebbe essere certamente compiuta anche da altre parti del mondo, ma non con una tale, diciamo intrinseca, competenza?».

Il destino dell’Europa
La tesi di Guardini è riassumibile in questo: missione dell’Europa è il disciplinamento etico della potenza. Senza giungere ai toni apocalittici di Heidegger, qui Guardini vede la sfida etica e spirituale del futuro. Una sfida che compete proprio alla “vecchia Europa” e solo a essa, perché la sua “anzianità” può essere l’antidoto a ogni acritica ebbrezza e passiva fascinazione per il novum che può essere soltanto il veicolo di un inedito dominio. Utopia morale? Certo quest’Europa che può assumersi una tale impegnativa missione non è ancora all’orizzonte. Per essere tale non deve rimanere un semplice fatto economico o politico, ma deve diventare una “disposizione di spirito”, un comune sentire. Occorre fuoriuscire definitivamente dalla logica degli Stati nazionali chiusi su di sé. Il formarsi dell’Europa presuppone invece che tutte le nazioni che la compongono ripensino la loro storia e intendano il loro passato in relazione al costituirsi di questa grande ««forma vitale» che è appunto l’Europa. Occorre un’Europa compiutamente dialogica che superi l’egoismo nazionalistico degli Stati membri. Ciò potrà avvenire con l’esercizio fecondo dello «specchio», ovvero col vedere davvero se stessi nell’unico modo possibile, vale a dire nel vedersi con gli occhi dell’«altro»: «Chi vuole liberarsi dall’irretimento del proprio carattere etnico che si chiama “nazionalismo” deve imparare a conoscere persone di altra nazionalità e poi, in un momento adatto, domandarsi: come potrà apparire la nostra natura, il nostro comportamento reciproco, il nostro stile di vita agli occhi di un francese, di un inglese, di un italiano? Nel caso in cui tale sguardo gli riesca, ciò che appare è inquietante, ma anche questa inquietudine è salutare. In questo modo la persona impara a sentire come una parola pronunciata da un tedesco possa suonare agli orecchi di un francese, che effetto faccia a un inglese ciò che il tedesco definisce bravura, che sensazioni possano determinare in Italia il modo di vestire e il comportamento dei turisti tedeschi. Per il processo, di cui tanto si parla, di formazione di un’Europa veramente unita sarebbe utile che davvero molti eseguissero questo esercizio». Dalle nicchie autoreferenziali delle nazioni si esce solo costruendo «ponti», intessendo ovunque «relazioni trasversali non solo di carattere organizzativo, come accordi commerciali o forme di influenza politica, ma anche di natura umana. La storia di queste relazioni intermedie costituisce in realtà un importante capitolo della storia della nostra civiltà e cultura europee».

“Destino” dunque l’Europa, situazione destinale dell’immediato e del futuro per gli uomini che abitano il continente e che hanno finalmente trovato ragioni per unirsi e per non sbranarsi, ma insieme “compito” che fa sì che questo “stare-insieme” non sia solo mercantile e monetario ma abbia un obiettivo più alto. La lezione di Guardini è un prezioso viatico in tale direzione.

 

Note


(1) Per la ricostruzione biografica il testo di riferimento e di documentazione rimane quello di Hanna Barbara Gerl, Romano Guardini 1885-1968.Leben und Werk, Mainz, 1985, tr.it. di Benno Scharf, Romano Guardini: la vita e l’opera, Brescia, Morcelliana, 1988.

(2) Memore di questo fatto Guardini dedicherà al padre il primo volume dei suoi studi danteschi (Der Engel in Dantes Göttlicher Kömodie, Leipzig, Hegner, 1937) utilizzando eccezionalmente anche nell’edizione tedesca la lingua italiana: “Alla memoria di mio padre, dalle cui labbra fanciullo i primi versi di Dante colsi”.

(3) Cfr. Romano Guardini, Berichte über mein Leben. Autobiographische Aufzeichnungen, Aus dem Nachlass hrsg. von F. Messerschmid, Paderborn, Ferdinand Schöningh Verlag, Paderborn 1980, p. 58, tr.it. Diario. Appunti e testi dal 1942 al 1964, Brescia, Morcelliana, Brescia 1983, p.72: «Mio padre, che aveva trapiantato a Magonza l’attività di mio nonno, stimava molto la Germania , ma si sentiva tuttavia sempre ospite. Mia madre era ancora più radicale. Era nata nel Sud Tirolo [Guardini qui confonde Sud Tirolo con Trentino, anche se i Trentini all’epoca venivano effettivamente chiamati tirolesi] e aveva, sin da bambina, sviluppato in sé l’amore appassionato dell’ “irredenta” Italia. Era stata, certo, educata a Merano in un istituto tedesco; ma colà appunto si intensificò ancora di più questa disposizione d’animo. Quando tre anni dopo il suo matrimonio si trasferì con mio padre in Germania, non lo fece volentieri e perciò il suo rifiuto di tutto quanto era tedesco si fece sempre più netto. A Magonza essa, fatta eccezione per alcuni rapporti di cortesia inevitabili, non trattenne relazioni con nessuno”.

(4) Come afferma lo stesso Guardini a suo padre “sembrava molto difficile concepire il fatto che suo figlio primogenito potesse rinunciare alla cittadinanza del proprio Paese» (in Romano Gaurdini, Stationen und Rückblike, Würzburg, Werkbund, 1965, p.13).

(5) Cfr. Romano Guardini, Europa.Wirklichkeit und Aufgabe in Sorge um den Menschen, Bd.I, Würzburg, Werkbund, 1962, tr.it. di M. Paronetto Valier e di Albino Babolin, Europa-Realtà e Compito in Ansia per l’uomo, vol. I, Brescia, Morcelliana, 1970, pp.275-292, il riferimento a pp. 275-276:«Quando venimmo in Germania, io ero nella prima infanzia. In casa si parlava italiano; ma la lingua della scuola e della formazione spirituale fu il tedesco. Questo ebbe il sopravvento, e non poteva essere diversamente, come lingua, con la quale mi pervennero il sapere e la conoscenza della vita. Più tardi fu anche la lingua delle Università che frequentai e nelle quali cominciò la mia personale attività creativa spirituale.Da tutta questa situazione sorse un conflitto profondamente sentito, quando alla semplice bramosia di sapere sopravvenne il problema della professione.[…] Dal punto di vista intellettuale, io dovevo esercitare questa professione in Germania, poiché la mia formazione e la mia idea della vita erano tedesche; io pensavo in tedesco, giacché si pensa pure in una lingua. D’altra parte, però, era sempre viva la mia unione con l’Italia, che per i miei genitori era la patria e perciò la terra in cui, secondo il loro pensiero, doveva vivere e lavorare il loro figlio. […Oltretutto] i miei genitori erano italiani e patrioti appassionati».

(6) Dal resoconto del viaggio del medico personale che l’aveva accompagnato Franz Riedweg redatto nell’estate del 1983 e consegnato alla biografa Hanna Barbara Gerl. Cfr. Hanna Barbara Gerl, Romano Guardini: la vita e l’opera, cit., p. 424.

(7) Su questa vicenda cfr. Alfred Schüler, Romano Guardini. Eine Denkergestalt an der Zeitenwende, in “Archiv für mittelrheinische Kirchengeschichte” 21 (1969), p.134.

(8) In ordine cronologico: l’intervento riportato da J. Außem, Grüssau, in «Die Schildgenossen» 3, 5-6 (1922-1923), pp. 188-194, tr. it. in Europa. Compito e destino, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 63-74; i due paragrafi, il quinto, Europa und Jesus Christus, e il settimo, Europa und das Christentum, di Der Heilbringer in Mythos, Offenbarung und Politik. Eine theologisch-politische Besinnung, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart 1946 (prima edizione ridotta con il titolo Der Heiland sulla rivista «Die Schildgenossen» 14, (1934-1935), pp. 97-116), tr. it, L’Europa e Gesù Cristo; L’Europa e il cristianesimo, in Il Salvatore nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione politico-teologica, in Scritti politici, Opera Omnia a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2005, vol. VI, pp. 293-345, i due paragrafi alle pp. 329-332 e 341-345; «Europa» und “Christliche Weltanschauung”. Aus der Dankrede bei der Feier meines siebzigsten Geburstags in der Philosophischen Fakultät der Universität München am 17. Febr. 1955, in Stationen und Rückblicke, Werkbund, Würzburg, 1965, pp. 11-22, tr. it., «Europa» e “Weltanschauung” cristiana. Dal discorso di ringraziamento in occasione della celebrazione del mio settantesimo compleanno presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Monaco il 17 febbraio 1955, in Scritti politici, cit., pp. 487-494; Europa. Wirklichkeit und Aufgabe (discorso per il conferimento del Praemium Erasmianum a Bruxelles il 28 aprile 1962), Werkbund, Würzburg 1962, tr . it., Europa. Realtà e compito in Scritti politici, cit., pp. 549-563; Wann ich Europäer bin, Bayerisch Rundkunf, München 1962 (Archiv. n. 62-10-196) in cui Guardini legge alla radio alcuni passaggi dei suoi testi europeistici; Europa kann keine Aufgabe versäumen, in «Europa» (Bad Reichenhall) 18(1967), pp. 52-53.

(9) J. Außem, Grüssau, cit., pp. 70-71.
(10) Ivi, p. 71.
(11) ivi, p. 72.
(12) Cfr. la tr. it. a cura di A. Reale, La cristianità o l’Europa, Bompiani, Milano 2002.
(13) Romano Guardini, L’Europa e Gesù Cristo, cit., p. 332.
(14) Ivi, pp. 342, 344.
(15)Der Mythus des XX. Jahrhunderts, Hoheneichen, München 1933.
(16) Romano Guardini, L’Europa e Gesù Cristo, cit., p. 345.
(17) Romano Guardini, “Europa” e “Weltanschauung” cristiana, cit., pp. 489-490.
(18) Ivi, p. 490.
(19) Romano Guardini, Europa. Realtà e compito, cit., p. 553.
(20) Romano Guardini, Ethik. Vorlesungen an der Universität München (1950-1962), Grünewald-Schöningh, Mainz Paderborn 1993, ed. it. a cura di M. Nicoletti e S. Zucal, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 261.
(21) Ivi, p. 529.