Cosa insegna il voto siciliano. Intervista ad Alfio Mastropaolo

La tornata elettorale siciliana di domenica scorsa, probabilmente, fa segnare una svolta nella politica italiana. Per alcuni osservatori, visti i risultati siciliani e quelli di Ostia, il prossimo confronto elettorale sarà il campo di battaglia tra due populismi: quello dei 5Stelle e quello del centrodestra. Un bipolarismo inedito per il nostro Paese. Continua a leggere

Storia di un “avvocato di strada” contro il caporalato. Intervista a Massimiliano Arena

Nel foggiano la piaga criminale del caporalato frutta, secondo alcune stime, circa 38 milioni di Euro all’anno. Una cifra da capogiro. I moderni schiavi sono immigrati, donne e uomini, anche italiani. In Capitanata esistono 6-7 ghetti, sono luoghi ad alta concentrazione di persone, generalmente si attestano ad una presenza minima di circa 2-300 persone in modo stanziale, che hanno un incremento costante di persone fino a raggiungere il momento di presenza massima, nei mesi estivi, verso luglio con presenze che arrivano anche a 5.000 persone. C’è l’impegno dello Stato, con un commissario ad hoc, dei sindacati e della società civile, il volontariato, per contrastare questo triste fenomeno. Tra queste esperienze c’è una storia che merita di essere raccontata: quella di Massimiliano Arena, fondatore della sezione foggiana degli “avvocati di strada”. In questa intervista ci parla del suo percorso di vita e della sua esperienza a difesa dei senza diritti.

Massimiliano, mi piace chiamarla per nome, se è d’accordo, lei è un avvocato, esperto in diritto di famiglia (e di questa sua specializzazione parleremo nel corso dell’intervista), ha studiato alla LUISS, prestigiosa università privata, per diventare un avvocato d’impresa (sognando magari di lavorare in qualche mega studio legale specializzato in questa attività). Però durante l’Università qualcosa stava cambiando. Cosa è successo? Una crisi di fede? Una messa in discussione di alcuni valori in cui credeva?

Ero andato alla LUISS e ci andrei tutta la vita perché credo sia una delle migliori università, allo stesso tempo ebbi una profondissima crisi perché l’ambiente era altamente competitivo e non ebbi in quel momento la capacità di reggere quello spirito, quel livello di ambizione. La crisi venne con il terremoto in Umbria nel ’97;  mi ritrovai a fare il volontario quasi per caso per cinque settimane dormendo  in una tenda della Caritas. Tornato a Roma, studiare diritto amministrativo o tributario mi sembrava abbastanza inutile  e così presi una decisione dentro di me: che ciò che studiavo doveva servire per aiutare altre persone.  Questa riflessione mi ha dato la spinta per terminare l’università.

Questa crisi ha prodotto in lei il desiderio di un impegno per l’altro (i poveri). Quali sono state le sue esperienze di volontariato?

Guadagnare bene è un grandissimo rischio, la più grande malattia di cui ci si possa ammalare è l’egoismo, abbiamo il dovere di restituire tutto il bene che ci viene dato, alle volte anche immeritatamente, dalla vita. Ho il piacere di fare un lavoro che mi piace e mi appassiona, grazie al quale guadagno dignitosamente e quindi è giusto che questo mio lavoro sia rivolto come fanno tanti altri miei colleghi a persone che, per il solo fatto che puzzano o che non sono vestite bene o che non sanno parlare bene, non entrerebbero mai in uno studio legale. E’ dunque l’avvocato che deve scendere in strada e mettersi a disposizione. E’ anche una grandissima forma di educazione del proprio io; non significa che sono una persona buona, perfetta, molte volte mi viene abbastanza facile perdere le staffe e non avere pazienza. Tutto ciò serve per abbassare il mio il mio ego e ricordarmi  di quanto sono fortunato e di quanto devo ancora dare. Il giorno della laurea ho comunicato ai miei genitori che da lì a poco sarei partito alla volta dell’Ecuador  con l’operazione Mato Grosso come volontario. Subito dopo l’Ecuador mi legai tantissimo ai miei amici dell’operazione Mato Grosso, organizzazione che ha tantissimi giovani in Italia che lavorano tutto l’anno per inviare fondi alle missioni in Ecuador, Bolivia, Perù e Brasile.  Nel ’99 in Brasile, nel 2000 in Perù e poi ci fu una pausa di sei anni in cui lavorai sostanzialmente come volontario in Italia, con un gruppo di ragazzi  nella mia città, Foggia, facendo lavori  tra i più umili, come sgombero cantine, traslochi, imbiancature, e il ricavato andava in missione. Dal 2006 ho ripreso i miei viaggi, sono stato in Bolivia, dove mi sono recato quasi ogni anno e dove nel 2010 sono stato per un anno chiudendo il mio studio legale. Nello stesso periodo cominciai a collaborare anche con un altra organizzazione e mi sono recato in Guinea Bissau e in Angola con progetti a favore dell’infanzia e dell’adolescenza. In contemporanea nel 2005 ci fu l’apertura nei pressi della stazione di Foggia dello sportello Avvocati di Strada, che ho il piacere di guidare da allora, e spero di passare presto il testimone perché non credo in quel tipo di volontariato che si identifica in una persona sola,è sempre necessario un ricambio generazionale.

Ed è grazie a quell’esperienza, Operazione Mato Grosso, che scatta la “scintilla” di diventare avvocato per aiutare chi ha bisogno, Qual è stato il percorso di maturazione che ha portato lei a diventare “Avvocato di Strada”? Perché proprio questo impegno?

 Per restituire dignità o identità a chi non le ha. Spesso si pensa che la professione più nobile sia quella medica. Ma se a un senza fissa dimora, che sia italiano o straniero, non viene restituita la dignità della residenza anagrafica, non può accedere alle cure sanitarie e quindi da qui si evince l’importanza della professione di avvocato.

Così nel 2005 fonda a Foggia, nella sua città, lo sportello Avvocato di Strada. Sappiamo il contesto drammatico della provincia di Foggia: capolarato e mafia. Lo sfruttamento disumano degli “invisibili” (le persone sfruttate dai caporali) frutta al caporalato foggiano 38 milioni di euro all’anno. Una cifra impressionante. Ci sono iniziative, oltre all’opera di repressione delle forze dell’ordine, di contrasto del fenomeno per opera, ad esempio, del sindacato.La sua opera come si svolge in questo contesto? Quanti avvocati siete?

Da anni combattiamo contro i mulini a vento del caporalato, il problema è uno soltanto. Per denunciare il caporalato ci vuole chi  sporge querela, chi fa la denuncia; spesso noi raccogliamo frustranti storie di caporalato però poi nessuno di questi braccianti ha il coraggio, la voglia, la forza di denunciare. Tutto si ferma lì. Il sindacato ha fatto tanto o meglio alcuni sindacalisti e ci hanno anche affiancato in un periodo in cui con la regione Puglia tentammo di far emergere situazioni di sfruttamento a fronte di incentivi, i braccianti  però avevano paura di uscire dal circuito lavorativo. Questo fenomeno esiste e non ce ne possiamo lamentare perché se entriamo in un discount e pretendiamo di comprare un barattolo di pomodori pelati a 60 centesimi va da sé  che qualcuno alla fonte è stato sfruttato e quel qualcuno quasi sempre è il bracciante, che sia italiano o straniero, bianco o di colore, non ha importanza, lo sfruttamento non ha etnia, nazionalità colore di pelle. Siamo circa 12 avvocati e offriamo consulenza legale gratuita a chi ne ha bisogno.

Può raccontarci qualche episodio positivo?

Ricordo quella di un ragazzo rumeno  che non aveva documenti  e che fu investito dal trattore del suo padrone come lo chiamava lui, datore di lavoro come andrebbe chiamato. Il suo datore di lavoro non voleva nemmeno portarlo in ospedale, fu soccorso sul posto e solo il giorno dopo, grazie ad alcuni amici, fu accompagnato in ospedale dove venne riscontrata la frattura di tibia e perone. Grazie agli avvocati di strada ha avuto un  risarcimento  e poi  è tornato in Romania dove con quei soldi ha aperto un bar  – ristorante e dove conduce una vita dignitosa.

In questa sua opera hai mai ricevuto minacce dalla mafia o dai caporali?

Non abbiamo mai avuto nessun tipo di intimidazione, allo stesso tempo però quando abbiamo tentato l’ingresso in alcuni ghetti intorno a Foggia non c’era una bella aria, c’era tensione, qualcuno ha urlato perché sapeva bene che stavamo entrando nel ghetto per scardinare alcune sacche di illegalità. Ma tutto si è fermato lì.

Torniamo a parlare di Lei, Massimiliano. Quanto ha contato la sua fede nella scelta per gli ultimi?Ha affermato, in una intervista, che per lei la “misericordia” è un mistero più grande della risurrezione. E’ una affermazione assai forte. Eppure con lua testimonianza, per usare un termine antico, è un “operatore” di misericordia….

Mi viene da rispondere in questo modo: la bellezza della professione dell’avvocato sta nel non giudicare  nessuno e  nel difendere tutti quelli che hanno sbagliato e non quelli che intendono sbagliare. Secondo me è quanto di più misericordioso ci sia.

Quali saranno i suoi impegni futuri? So che ha aperto una start up…

Il mio impegno futuro è percorrere sempre più la strada dell’innovazione nella mia professione di avvocato e far crescere la mia ultima creatura, la start up Sliding Life, ideata per fornire risposte legali, psicologiche, pedagogiche e fiscali a chi sta affrontando una separazione o un divorzio.  Il mondo del lavoro sta cambiando, quindi dobbiamo essere pronti ad ogni forma di innovazione, ciò significa inventarci nuovi lavori o nuove forme di produzione del  nostro lavoro. Credo ad esempio che quello dell’avvocato sia un lavoro che non finirà mai, allo stesso tempo, però, ci viene richiesto  di farlo in maniera diversa. L’impatto delle tecnologie non può essere sottaciuto, l’avvocato non può essere più quello nascosto dietro una montagna di carte ad aspettare un cliente ipotetico e potenziale nello studio, l’avvocato deve viaggiare, deve essere sui social, deve essere smart, in tempo reale o anche on demand così come le altre libere professioni. Il bello dell’innovazione è che non ha bisogno di essere localizzata in alcune parti geografiche per cui in questo il Sud può vincere il proprio gap, sfruttando le menti brillanti che ha. Il mio desiderio è che  il mio nuovo progetto Sliding Life diventi opportunità di lavoro per tanti. Sliding Life fa dell’innovazione il suo leitmotiv perché per la prima volta persone che non si conoscono possono scambiare informazioni in tempo reale in qualsiasi momento della giornata, possono trovare il miglior professionista, fissare una conference su skype o direttamente un appuntamento con il libero professionista, che sia avvocato, psicologo, consulente pedagogista, o fiscale che faccia al proprio caso, dare un voto ad ognuno di questi.  Quindi i liberi professionisti potranno ricevere un voto dalla propria clientela; questa prospettiva certamente farà cambiare il mercato del lavoro, che avrà un volto più giovane e al passo con i tempi. La clientela potrà scegliere il meglio e noi professionisti dobbiamo essere pronti al cambiamento. Tale cambiamento sarà ancora più significativo se centralizzato al Sud, è necessario mettere da parte l’atteggiamento di passività e diventare ‘eroi della restanza’, puntando su creatività e innovazione

La politica è la fabbrica della “verità”. La propaganda da Mussolini a Grillo. Intervista a Fabio Martini


Il bel libro di Fabio Martini, “La Fabbrica della verità. L’Italia immaginaria della propaganda da Mussolini a Grillo” (Ed. Marsilio, pagg.208), è la storia della “macchina” della persuasione e della propaganda politica in Italia. L’arco di tempo che analizza è ampio: dal fascismo a Renzi. Ed è una storia affascinante. Come si sviluppa la propaganda politica nella storia italiana? Quali sono le costanti? Nell’epoca della Rete come si sviluppa? Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore. Fabio Martini è cronista politico per il quotidiano “La Stampa” di Torino.
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“Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”. Intervista a Padre Francesco Occhetta

Domani a Cagliari si aprirà la Settimana Sociale dei Cattolici italiani. Tema di quest’anno il lavoro: “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”.
Siamo alla 48ª “Settimana Sociale”. Come si sa, è un’iniziativa nata in Francia nei primissimi anni del ’900, che in Italia prende le mosse, su suggerimento di Giuseppe Toniolo, nel 1907, a Pistoia. Sono passati ben 110 anni. È incredibile quanto tempo sia trascorso! Le Settimane Sociali delle origini servirono a far maturare i cattolici nell’impegno sociale (anche se nel 1905 – con l’Enciclica “Il fermo proposito” – la Sede Apostolica consentiva, in casi particolari, l’impegno politico). Saranno presenti alla Settimana, oltre ai delegati provenienti dalle Diocesi, anche principali protagonisti dell’impegno sociale italiano. Come si svilupperà la Settimana? Quali saranno le attese? Ne parliamo con Padre Francesco Occhetta, gesuita esperto di questioni sociali e padre scrittore della rivista “La Civiltà Cattolica”.

Padre Occhetta, Lei fa parte del Comitato Organizzatore delle “Settimane Sociali dei Cattolici italiani”, oggi nella contemporaneità “liquida”, nel tempo della Quarta Rivoluzione Industriale, perché la Chiesa italiana ritiene ancora valido, dopo 110 anni dalla prima, lo strumento delle Settimane Sociali?

Certamente, per la Chiesa in Italia non si tratta di un evento autocelebrativo, ma di un aiuto per tutti, per il Paese, che serve per capire come sta cambiando il mondo del lavoro, quali lavori muoiono e quali nascono, e come formarsi e dove cercare il lavoro, ma anche come accompagnare le persone che lo hanno perso e sono disperate.

Il 27 maggio scorso, sotto il grande capannone dell’ILVA di Genova, il Papa ha manifestato la sua commozione nel vedere il porto da cui suo padre e i suoi nonni emigrarono nel 1929. L’atto di partire per raggiungere altri lidi è l’immagine che evoca anche il senso del lavoro ai giorni nostri.

 Il punto storico è servito come introduzione per il tema della 48ª Settimana Sociale. Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”. Un tema affascinante, ricco di complessità. Nel leggere l’Instrumentum laboris ci si trova di fronte ad un’analisi realistica del lavoro in Italia, ma anche alla denuncia di situazioni critiche pur senza dare spazio al fatalismo. È così, Padre?

 Sì, è così. Anzitutto, è una denuncia di tutto ciò che umilia il lavoro, lo rende dis-umano o lo nega. Si legge nel documento preparatorio che ispira la Settimana Sociale: “Papa Francesco parla di ‘cultura dello scarto’. Purtroppo, non è difficile constatare che una tale cultura di morte è ancora oggi ben presente nel mondo del lavoro italiano, dove ci sono ancora troppe zone di sfruttamento e di disagio, dai problemi del caporalato a forme di precarietà e di discriminazione, in particolare verso le donne, non accettabili. Per questo, il primo registro che viene suggerito è quello della denuncia: mettere al centro l’uomo e dare centralità alla vita significa prendere la misura del più povero come termine di riferimento irrinunciabile della vita buona” (1). Partiremo da qui perché non tutto il lavoro è umano. Nel 2016 i lavoratori precari hanno raggiunto il 14% e per quasi due milioni di lavoratori a termine il contratto ha avuto una durata inferiore ad un anno, per non parlare dei lavori pericolosi e malsani, che nel 2016 hanno causato 935 morti sul lavoro. Lo ha scritto Mons. Nunzio Galantino, segretario della CEI: “Ripartire insieme significa anzitutto denunciare i lavori che mortificano e offendono il lavoratore. Ma non può finire qui: la Chiesa in Italia ha deciso di ‘ascoltare’ per capire la realtà che cambia. A Cagliari presenteremo volti e storie del lavoro che cambia in fabbrica e fuori. Sono i volti a restituire umanità al lavoro, contrastando ogni possibile deriva tecnocratica”.

C’è un paradigma che attraversa tutto il documento: quello del “lavoro creativo”. Un tema ricorrente negli studi di sociologia contemporanea. Il termine “lavoro creativo” viene usato, in quell’àmbito, per sottolineare lo spartiacque tra il lavoro del XX secolo e quello del XXI. Mi sembra di cogliere nel vostro documento una profondità concettuale che evita una simile banalizzazione. Qui, nel documento, entra in gioco la questione dell’antropologia del lavoro. Di che cosa si tratta?

Occorre rinnovarsi ed essere flessibili per poter lavorare. I lavoratori devono però essere protetti. Il lavoro inteso in senso stretto non deve crearlo lo Stato, ma le imprese. Alle istituzioni spetta tuttavia il compito di rimuovere gli ostacoli alla creazione e alla garanzia dei posti di lavoro: ad esempio, l’eccessiva burocrazia, le lungaggini della giustizia civile, l’enorme tassazione, la corruzione e il clientelismo, il costo eccessivo dell’energia rispetto alla media europea, i problemi dell’accesso al credito o a forme alternative di finanziamento, come quella del capitale a rischio, o dell’accesso alla banda larga per tutte le imprese del Paese. La nuova antropologia del lavoro si basa sulla disintermediazione del rapporto di lavoro e sulla qualità della prestazione, non più sugli orari e il luogo di lavoro fissi. Lo smart-working ne è un esempio. C’è poi un altro tema che tocca l’antropologia: il lavoro di cura. La nostra proposta chiede di diminuire le ore di lavoro per investirle nella cura – intesa come assistenza – di bambini, anziani, dei più deboli, in famiglia e nei quartieri di riferimento, e per la coltivazione delle relazioni e della propria umanità. Un orario di lavoro ridotto e una maggiore cura di chi ha bisogno permetterebbero allo Stato di risparmiare su alcune spese di assistenza.

Nell’Instrumentum laboris si parla di “lavoro degno”. Anche questo è un paradigma non banale. Che cosa s’intende?

Il futuro del lavoro degno dipende dalla capacità della comunità politica di affrontare e superare il tema delle diseguaglianze, della distribuzione e di un’equa tassazione, non ultima quella delle grandi imprese globali che competono ad armi non pari con le piccole e medie imprese non internazionalizzate, potendo sfuggire quasi sempre al prelievo fiscale degli Stati in cui producono, creano lavoro e vendono beni.

Si parla di precarizzazione del lavoro, dunque non si può non parlare del Jobs Act. Qual è il Suo giudizio su questo strumento?

La Chiesa non è contraria a priori, anzi, c’era molta attesa, ma sono state le cattive applicazioni e le eccessive strumentalizzazioni politiche che si sono scatenate su quella scelta, a renderlo uno strumento non condiviso.

Parliamo del movimento sindacale. Un protagonista importante nella difesa del lavoro. Date le sfide gigantesche che il mondo del lavoro deve affrontare, Lei pensa che dalla Settimana Sociale possa arrivare un appello per l’unità del sindacato italiano? Sarebbe un grande fatto storico…

Ci vorrebbe un miracolo, ma non lo escludo. La crisi in cui versa il sindacato è nota: la perdita d’identità tocca la natura, la funzione e il ruolo della sua missione sociale. Ai sindacati confederali sono iscritti circa 12 milioni di lavoratori (5,7 milioni alla Cgil, 4,4 milioni alla Cisl e 2,2 milioni alla Uil), ma solo il 10% sono giovani.

Le tensioni interne ai tre sindacati confederali rimangono il principale ostacolo per definire una riforma radicale. Nei tempi supplementari che rimangono sono urgenti la digitalizzazione, ripensare il diritto di sciopero, la protezione di chi lavora in proprio e il rilancio del ruolo sociale come fondamento della vita democratica.

Anche la cultura d’impresa deve fare i conti con la Rivoluzione 4.0. Anche qui c’è una parola forte sull’eccessivo ottimismo nei confronti della robotica. È così Padre?

No, c’è realismo. Uomo e robot agiranno insieme e questo rapporto va reso umano. Al centro della riflessione ecclesiale rimane da definire quali sono le caratteristiche che tutelano l’uomo in relazione alla macchina. Quale governance gestirà questo processo? Con quale trasparenza e intenzioni saranno programmate le macchine? Quale tipo di alleanza etica e antropologica sarà possibile stabilire tra chi programmerà e produrrà le macchine e chi le utilizzerà?

Nell’Instrumentum laboris c’è l’invito ad andare oltre Cagliari. E di un rinnovato impegno dei cattolici in politica e nel sociale c’è bisogno. Nel tempo di Papa Francesco, come si svilupperà questo impegno?

Già, l’Instrumentum laboris e i lavori di Cagliari saranno come una pista per decollare. Dipenderà da come le chiese locali e la società investiranno sulla semente che selezioneremo insieme. Certo a Cagliari presenteremo quattro proposte concrete che riguarderanno quattro àmbiti: la formazione; il nuovo lavoro, con riferimento alla cosiddetta “gig economy” e al pericolo del caporalato digitale; i nuovi modelli di vita, riconoscendo la distinzione tra lavoro tradizionale e lavoro di cura; l’Europa, “come nostra casa comune, unica modalità con cui possiamo realmente affrontare le sfide di un mondo sempre più globalizzato”. Poi la parola passerà alla società, che dovrà decidere se trasformare in cultura politica le nostre riflessioni, le risorse spese e i nostri studi.

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(1) Linee di preparazione per la 48° Settimana Sociale dei Cattolici italiani, in www.settimanesociali.it

 

Smartphone 2018: così l’Intelligenza Artificiale cambia i telefonini. Intervista ad Antonino Caffo

Huawei Mate 10 Pro è il primo dotato di una AI avanzata  (Intelligenza Artificiale), così come il prossimo iPhone X.

 A cosa serve e come migliorerà le nostre vite?

 Ci parleremo, dialogheremo con loro, forse ci faranno provare emozioni, magari piangeremo con un display davanti. Ma davanti ci sarà sempre e solo uno smartphone. La promessa della tecnologia è quella di rendere la mobilità dei dispositivi personali più umana, sicuramente più intelligente di quanto lo sia oggi, a tratti comprensiva.

 Del tipo? Se oggi ci divertiamo a far recitare una barzelletta a Siri o a telefonare un contatto con Google tramite i soli comandi vocali, domani le cose si faranno decisamente più serie, con telefonini capaci di scendere più a fondo nelle nostre vite, per renderle più semplici in quei momenti che più ci recano stress. Ad esempio la sveglia potrà cambiare in autonomia a seconda delle condizioni del traffico o del meteo, la posta elettronica sarà in grado di rispondere da sola a certe richieste (“sei libero domani alle 13 per pranzo?”) e il risparmio energetico si attiverà da solo, quando si ha meno del 15% di batteria.

 Non si tratta di rivoluzioni ma di contesti già in essere, a tratti concreti e realizzati e il cui sviluppo è solo questione di tempo. Di recente Huawei ha presentato il suo Mate 10 Pro, smartphone dotato di un processore classico al quale si affianca una Neural Processing Unit, ovvero un’area sotto il completo controllo di un cervello fatto di bulloni e silicio, tale Intelligenza Artificiale. Ad oggi il solo e unico scopo è quello di riconoscere cosa l’utente si trova dinanzi al sensore fotografico per impostare al meglio luci e colore e ottenere così uno scatto di qualità, il migliore possibile secondo certe condizioni.  Di tutto questo parliamo con Antonino Caffo, giornalista di Panorama.it , esperto di hi-tech e nuove tecnologie.

Si tratta di un passo in avanti pragmatico verso una nuova era della telefonia mobile o solo di una trovata pubblicitaria?

“Di certo il Mate 10 apre a sviluppi interessanti circa le modalità di interazione tra l’uomo e la macchina. Oggi non possiamo parlare di rivoluzione, non ancora almeno, ma il concetto di AI poggia proprio su uno sviluppo quasi autonomo degli algoritmi che governano un cervello informatico, seppur in presenza di un input da parte dell’uomo”.

In che senso?

“Piattaforme digitali non possono auto-definirsi o auto-svilupparsi, cioè non vi è modo per cui un programma, pur avanzato che sia, passi dall’essere solo un software di calcolo matematico a gestire una centrale idroelettrica. Esiste il machine learning, ovvero l’opportunità che una rete neurale in silicio impari a perfezionarsi in un certo campo applicativo ma sempre all’interno di recinti posti dai ricercatori e dagli sviluppatori. In tal senso, sarà interessante capire come il Kirin 970 potrà automatizzare alcune operazioni oggi di carattere manuale sugli smartphone, come appunto l’attivazione del risparmio energetico o la creazione di un appuntamento in agenda, supportando le attività umane”.

Anche Apple si sta muovendo in tale direzione?

“Si è esatto, tramite la realizzazione di A11 Bionic, il processore a bordo di iPhone 8 che acquisterà un senso maggiore su iPhone X, in uscita tra qualche settimana. Anche in quel caso il focus è incentrato sulla fotografia ma gli orizzonti di applicazione sono diversi e attualmente inesplorati”.

Il mercato degli smartphone, stando a quanto affermano gli analisti, conoscerà una crescita nel 2018. Pare che il protagonista del boom sarà proprio iPhone X: siamo dinanzi a uno scontro ulteriore verso il miglior dotato di Intelligenze Artificiale?

“Di certo tutti i top di gamma da qui al 2020 beneficeranno di un processore dedicato all’AI. Il trend è quello e difficilmente chi vorrà concorrere ai vertici potrà negarlo. Apple e Huawei hanno seguito una strada simile mentre altri, come Samsung, sembrano essersi concentrate prima sullo sviluppo di un assistente digitale dedicato e poi sul miglioramento di questo tramite un aggiornamento hardware. Sul Galaxy S8 e Note8, ad esempio, c’è la voce di Bixby che, seppur in inglese, può già compiere delle operazioni anni luce avanti a quelle di un Siri o un Cortana. Il solo attivare o spegnere il Bluetooth o il Wi-Fi oggi si può fare con la voce sui terminali di alta fascia di Samsung, mentre i rivali nemmeno consentono opzioni del genere, molto basilari. Il motivo è che, non basandosi su sistemi centrali, gli assistenti odierni non hanno accesso alle parti più profonde del sistema operativo e dunque si fermano su un certo limite. Già Bixby è oltre e, con tutta probabilità, il Siri di iPhone X e l’AI di Mate 10 Pro seguiranno un medesimo percorso verso l’integrazione delle funzioni”.

 Parliamo di futuro: domani avremo uno smartphone dotato di AI indossabile?

“Più che altro aspettiamoci di avere dispositivi indossabili dotati di una AI avanzata. Il mercato degli smartwatch non è mai esploso se non in riferimento a gadget dedicati a certi utilizzi specifici, come l’attività fisica e il fitness. In questo campo potrebbero arrivare belle sorprese, come coach virtuali personalizzati che leggono le performance delle persone per adattare, in tempo reale, tipi di allenamenti e sessioni. Un conto poi à innovare, un altro riconoscere l’utilità di certi oggetti. Abbiamo davvero necessità di una tale digitalizzazione nelle nostre vite? Forse no, ma la tecnologia spesso ha dimostrato di poter creare bisogni che prima non sapevamo di avere”.