ADDIO A GIOVANNI AVENA, CRONISTA E CRISTIANO RIGOROSO. UN TESTO DI VALERIO GIGANTE

 

 

Nella giornata di ieri, presso la sua casa di Ciampino a Roma, si è svolta una breve cerimonia laica di commiato a Giovanni Avena. La morte di Giovanni Avena è avvenuta nella tarda serata di sabato scorso. Per chi si occupa di informazione religiosa Giovanni era un grande punto di riferimento. Infatti è stato il riformatore della prestigiosa agenzia di stampa ADISTA. Una combattiva testata di informazione religiosa, che ha fatto dell’indipendenza da ogni potere la sua cifra più alta. Giovanni era un giornalista rigoroso, e la sua conoscenza delle fonti lo rendeva prezioso a molti vaticanisti . Per me era anche un amico. Un amico generoso. Lo voglio ricordare con le belle parole di Valerio Gigante, dell’Agenzia Adista, scritte il giorno dopo la sua morte. Informo, inoltre, che Il 23 settembre, nel salone della Comunità di Base di San Paolo alle ore 17, ci sarà un incontro su di lui.

 

Nel momento in cui lo scriviamo ci pare impossibile. Eppure la lunga malattia che ne ha segnato gli ultimi anni di vita ci avrebbe dovuto preparare. Da ieri, 4 settembre, Giovanni Avena non c’è più. Si è spento serenamente, verso le 23.

Giovanni Avena non ha fondato Adista, ma è come se olo avesse fatto. Se non l’ha fondata, l’ha rifondata. È stato infatti tra i protagonisti della trasformazione della testata (1979) da agenzia della Sinistra Indipendente a cooperativa di soci impegnati nell’idea di una informazione libera dai condizionamenti del potere economico, ecclesiastico, partitico, profondamente incarnata in una prospettiva evangelica, di sinistra, laica e pluralista.

In questi casi si dicono spesso frasi tipo “senza Giovanni Adista perde una parte importante della sua storia”. Ma non è così. Adista è Giovanni, nel senso che il suo contributo ha profondamente cambiato il giornale e la vita di ciascuno di noi che lo ha incontrato, conosciuto, stimato. Ciascuno di noi del collettivo di Adista porta dentro qualcosa della sua testimonianza umana, politica ecclesiale. E ogni giorno nel lavoro che facciamo, nelle relazioni che abbiamo, qualcosa di Giovanni  vive attraverso di noi. Nulla di lui è perduto, se non la possibilità, che abbiamo avuto anche nel lungo periodo della sua malattia, di confrontarci con lui, di avere il suo punto di vista sulle vicende attuali, sulle questioni della gestione della cooperativa, sulle iniziative da prendere per rilanciare la nostra informazione.

Giovanni era nato nel 1938. È stato per molti anni prete e parroco. A Palermo, dove divenne parroco della parrocchia del Cuore eucaristico di Gesù in corso Calatafimi, (1971), poco dopo che il card. Pappalardo – che inizialmente lo teneva in grande considerazione – era diventato arcivescovo della diocesi, era un prete stimato e di grandi prospettive. Poi le sue posizioni (a livello politico ed ecclesiale, a partire dalla sua posizione a favore del divorzio) gli alienarono progressivamente il favore della Curia. A ciò si aggiungeva la sua posizione intransigente rispetto al malaffare della Democrazia Cristiana e al connubio tra Chiesa, politica, criminalità mafiosa.

Ma soprattutto, la vita di Giovanni cambiò il giorno in cui volle entrare nell’’ospedale psichiatrico che era collocato proprio al centro del territorio parrocchiale, tra via Pindemonte e via Giuseppe Pitrè, che erano esattamente i confini della parrocchia. Divenuto parroco, il suo primo pensiero fu di entrare in quella struttura, con lo stesso spirito con cui voleva entrare nelle case dei parrocchiani per far fare amicizia aprire un dialogo con loro.

Si accorse di una situazione ai limiti dell’immaginabile, oltre ogni concetto di dignità umana. Giovanni iniziò così una lunga battaglia per i diritti umani calpestati di quei malati che nemmeno venivano considerati esseri umani. Lì dentro, anche tanti bambini. Bambini dai 7-8 anni in su.

Attraverso il suo impegno e con molta fatica Giovanni riuscì a far uscire, almeno per qualche ora, alcuni dei malati reclusi, a fargli fare qualche attività, mettendoli in contatto con la parrocchia e il quartiere. Nel frattempo, saldando la sua iniziativa anche con le lotte di Basaglia e di altri psichiatri democratici per la chiusura dei manicomi, denunciava le terribili condizioni in cui versava l’ospedale.

Alla fine riuscì a liberare almeno i bambini da quella realtà. Ma pagò il prezzo dell’allontanamento dalla parrocchia e dalla diocesi. E molti dei malati che aveva liberato furono nuovamente internati nell’ospedale. Fino alla legge che finalmente chiuse i manicomi. Ma per alcuni di loro fu ormai troppo tardi.

Era il 1977 e Giovanni, che riesce a ottenere l’incardinazione nella diocesi di Frascati, trova casa a Roma. Si reca ad Adista, che aveva parlato di lui negli anni delle sue lotte come parroco di punta a Palermo, e inizia a collaborare. Da lì, rapidamente, diventa un punto di riferimento per la redazione e il braccio destro (e pure il sinistro) del presidente della cooperativa e direttore storico di Adista, Franco Leonori. Quando Franco Leonori va in pensione, assume direttamente un incarico – quello di presidente e amministratore – che già nei fatti esercitava da tempo, mentre Eletta Cucuzza prendeva la direzione della testata.

Di esercitare il ministero smise progressivamente, dalla metà degli anni ’90. Soprattutto dopo l’arrivo nella diocesi di Frascati di mons. Matarrese, succeduto a mons. Luigi Liverzani, che lo aveva accolto benevolmente. Alla Chiesa cattolica non chiese mai nulla. Non voleva la congrua e l’8 per mille. Non volle nemmeno chiedere la dispensa dal ministero, per non sentirsi nell’obbligo di giustificare le sue scelte e di farne giudicare la bontà a una gerarchia a cui non riconosceva questo diritto. Conobbe in quegli anni Ivana, che sarebbe diventata sua moglie nel 2006, con cui ha vissuto una splendida storia d’amore e che lo ha accudito con enorme dedizione fino alla fine.

Per oltre 40 anni Giovanni è stato il punto di riferimento di una galassia di realtà, personalità, intellettuali del variegato mondo della sinistra cristiana. Sono pochi quelli che non lo hanno chiamato per avere un commento, un parere, un consiglio. Rispondeva a tutti, giornalisti vaticanitsti compresi (che lo chiamavano ogni volta che accadeva qualcosa di rilevante per avere la sua puntuale e radicale lettura dei fatti) con generosità e senza mai pretendere nulla per sé, nemmeno che venisse citato. O che venisse ricordato il suo contributo alla stesura di centinaia di lettere, discorsi, comunicati, articoli, appelli che ha contribuito a promuovere o a far circolare.

Per raccogliere sottoscrizioni per il giornale ha letteralmente girato l’Italia. Spesso in un weekend partecipava a due tre eventi in città diverse. Viaggiava in treno, dormiva in cuccetta, parlava di Chiesa, attualità, politica. E poi chiedeva a tutti di abbonarsi a Adista, affinché le idee che sentiva circolare negli incontri a cui partecipava avessero in Adista lo strumento per diffondersi.

Per il collettivo di Adista è stato il punto di riferimento fondamentale sia dal punto di vista organizzativo, che da quello intellettuale. Non si chiudeva numero a Adista senza prima portare le bozze del giornale a Giovanni, affinché rivedesse la lunghezza dei pezzi, la loro disposizione, e la loro titolazione. Lui suggeriva, tagliava, trovava sempre titoli fulminanti (i titoli di Adista per moltissimi anni sono stati un suo marchio di fabbrica).

Quando, ormai malato, ha progressivamente lasciato le sue responsabilità, delegandole a altri, si è percepito tutto l’impegno, il peso, l’importanza di ciò che aveva fatto, con dedizione e nell’ombra. Solo facendo ciò che aveva fatto lui ne abbiamo percepito appieno l’importanza e la straordinarietà.

Giovanni era stato sul punto di morire molte volte. E tutte quante si era ripreso. Il suo testamento lo aveva già scritto nel 2015, durante una delle crisi che aveva attraversato. Non lo aveva mai voluto cambiare. Lo pubblichiamo qui di seguito:

 

LE MIE VOLONTA’ POST MORTEM

IL MIO GRAZIE A DIO, ALLA VITA E A QUANTI MI HANNO AMATO

Ho creduto ardentemente nel Dio di Gesù Cristo che ho sentito costantemente presente nella mia vita e nella vita di quelli che mi hanno accompagnato con affetto e stima; ma anche di quelli che non hanno avuto da me quanto era loro diritto avere o si aspettavano da me. Ciascuna e ciascuno di essi mi hanno beneficato con generosità, amicizia e sinceri rimproveri. Per questo li saluto e li ringrazio.

Ho creduto anche nella Chiesa come comunità di padri, madri, fratelli, sorelle, amici e avversari. Non ho piu creduto, invece, nella Chiesa dal volto e dalle azioni istituzionali: questa non mi è stata madre, ma neppure matrigna. Fin da ragazzo le avevo dedicato i miei ideali e il mio entusiasmo giovanile, ma quando, adulto, ho voluto realizzare con la pochezza delle mie capacità intellettuali ma con la generosità della mia esistenza, per e con le con le persone incontrate nel mio servizio umano e spirituale, sono stato “prudentemente demotivato e pesantemente angariato fino all’emarginazione e al ripudio. Penso ancora con dolore ai miei amici piccoli e adulti dell’Ospedale psichiatrico di Palermo, luogo di torture e sofferenze inaudite, dimenticati da tutti, Chiesa compresa, perché soggetti inutili alla società, e pericolosi per la convivenza civile. I miei superiori ecclesiastici mi impedirono, destituendomi dal servizio parrocchiale, di condividere con le donne e gli uomini del quartiere, la lotta per la dignità e i diritti umani, dei reclusi entro l’Ospedale psichiatrico. Il dolore di quella obbedienza mi ha trafitto e ha interrotto la mia comunione con i gestori istituzionali della Chiesa. Quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora sanguina. Per questo, alla mia morte, non voglio essere oggetto di alcuna pratica religiosa e funerale liturgico “somministrati e concessi” da una struttura di Chiesa ipocrita, povera di misericordia e ricca solo di potere e arroganza.

 Pertanto, non voglio alcun funerale ecclesiastico e sarò felice solo di un sobrio momento laico di memoria e preghiera, nell’ambito della Comunità cristiana di base di S. Paolo dove, negli anni ottanta, appena cacciato dalla Chiesa di Palermo e dalla Congregazione del Boccone del Povero, ho potuto ritrovare la pace e la dignità che mi erano state sottratte. Desidero anche che il mio corpo non venga “depositato” in un qualsiasi cimitero. Dispongo, invece, che venga cremato e che le ceneri siano disperse. Grazie di cuore a tutte e a tutti che comprenderanno queste mie volontà e mi perdoneranno se non le condividono.

Desidero salutare con grandissimo affetto i miei compagni e compagne di lavoro di Adista. Non mi bastano le parole per ringraziarli del bene che mi hanno voluto, della generosità con cui mi hanno sopportato quando non sono stato all’altezza delle loro attese: per questo chiedo scusa a tutte e a tutti, e confido, come sempre ho confidato nella benevolenza. Saluto e ringrazio tutte tutte, tutti tutti ho incontrato negli ambienti nei quali ho militato, lavorato e condiviso fatiche, speranze, sconfitte e risultati.

Abbraccio e bacio tutte e tutti. 

Roma, 13 gennaio 2015

Giovanni Avena

“Non dimenticare il tesoro di Bose”. Intervista a Riccardo Larini

Il 13 maggio 2020 il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin  ha emesso nei confronti della comunità di Bose un decreto singolare, approvato in forma specifica da papa Francesco, che ha lasciato esterrefatte moltissime persone. Torniamo, in occasione dell’uscita del libro di Riccardo Larini dedicato alla Comunità di Bose, dopo poco più di un anno sulla vicenda. In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro e diamo anche alcune notizie sullo stato di salute di Enzo Bianchi e sulla Situazione a Bose.

Il libro, Bose. La traccia del Vangelo, è stato scritto per consentire a chiunque lo voglia di conoscere più da vicino la realtà fondata nel lontano 1965 da Enzo Bianchi, attraverso un esame della sua storia e delle sue radici, caratterizzate da una profonda ricerca di fedeltà al vangelo e di laicità cristiana. Solo così sarà possibile non solo comprendere i recenti drammatici sviluppi occorsi a Bose, ma soprattutto riflettere sui tanti benefici che la comunità ha recato a un numero enorme di persone, nonché su tutto ciò che potrà continuare a donare se saprà riprendere le proprie intuizioni e corregge re i propri errori.

Per saperne di più sul libro si segua questo link: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/08/25/habemus-librum/

 L’autore: Riccardo Larini (Milano 1966), fisico, pedagogista, traduttore e teologo, dopo la laurea in fisica a Pavia si è dedicato agli studi di teologia ecumenica e di ermeneutica filosofica, prima presso la comunità di Bose (di cui è stato membro per undici anni) e quindi a Cambridge. Dopo avere diretto un collegio ecumenico in Inghilterra e una scuola europea in Estonia, ha deciso di dedicarsi prevalentemente all’attività professionale di esperto della formazione all’uso dell’intelligenza artificiale nell’apprendimento sia scolastico sia aziendale, e alla scrittura di articoli per il blog Riprendere altrimenti e per varie riviste italiane e straniere dedite alla divulgazione delle scienze religiose.

Larini, è passato poco più di un anno dalla nostra ultima intervista sulla crisi che ha investito la Comunità di Bose. Adesso è appena uscito il suo libro dedicato proprio alla storia di Bose, dalle sue origini, fino alle ultime tristi vicende. Però prima di inoltrarsi nella analisi del suo saggio, vorrei chiederle: cosa è cambiato un anno dopo?

Sarebbe bello poter dire che sono emersi spiragli di luce, di dialogo e di speranza, ma per ora, purtroppo, non è possibile. L’ipotesi di lasciare che Enzo Bianchi e chi continuava a riconoscersi in lui potesse trasferirsi nella fraternità di Cellole di San Gimignano, caldeggiata anche da diverse personalità ecclesiastiche sensibili e di valore, è stata affondata dal Delegato Pontificio e dalla componente comunitaria più ostile a qualsiasi dialogo. Di conseguenza, come peraltro aveva detto pubblicamente fin dal principio, il fondatore di Bose ha individuato dopo una faticosa ricerca un luogo idoneo alla sua vita e alla prosecuzione dei suoi impegni ecclesiali e civili, e il 30 maggio di quest’anno ha lasciato definitivamente i luoghi in cui era vissuto fin dal lontano 1965. Faccio notare, tristemente e per inciso, che quegli stessi organi di stampa cattolici che pure si erano scagliati contro la presunta e maliziosa indisponibilità di Bianchi a lasciare il proprio eremo, hanno passato totalmente sotto silenzio la sua partenza, e dunque la sua obbedienza al provvedimento pur ampiamente ingiusto della Segreteria di Stato. E anche la comunità, che pure non aveva esitato a emettere comunicati e veline talvolta spiacevoli sulla vicenda, non ha condiviso pubblicamente in alcun modo la partenza del suo fondatore.

So che ha incontrato Enzo Bianchi. Come sta?

Dal punto di vista spirituale e morale non ha perso la propria forza d’animo. Non l’ho trovato né rancoroso né incattivito, pur nella grande amarezza per tutto ciò che è accaduto. Fisicamente, invece, rispetto al nostro ultimo incontro avvenuto nel novembre del 2019, ho notato l’insorgere di evidenti difficoltà, soprattutto di deambulazione. Ormai non riesce più a camminare per più di qualche decina di metri senza provare dolore e affaticamento, e ha praticamente smesso di guidare l’automobile, per ragioni analoghe. Ha un evidente bisogno di sostegno nel quotidiano, ma per il momento vive da solo.

Approfondiremo, per quello che è possibile, più avanti alcuni passaggi chiave, richiamati nel suo libro, della crisi di Bose. Ora veniamo ad alcune linee paradigmatiche della esperienza bosina. Punti che costituiscono l’autentico tesoro evangelico di Bose. Sappiamo che Bose nasce da una intuizione evangelica, favorita dal clima conciliare, di Enzo Bianchi di costituire una comunità di semplici cristiani, quindi laici uomini e donne, che vogliono vivere l’evangelo, nel celibato profetico per il regno, nella compagnia degli uomini in una prospettiva ecumenica. Quello che ho richiamato si trova nelle “Tracce per una vita comune” del 1968. Quindi : Evangelo, laicità e Ecumenismo. Le chiedo come si è sviluppato questo tesoro?

Come sottolineo nel mio libro e più in generale nei miei scritti, le grandi creazioni comuni sorgono quando alcune persone colgono lo spirito che attraversa il loro tempo e la loro storia, e le fanno diventare realtà. In questo senso penso sia fondamentalmente sbagliato parlare di “carisma dei fondatori”, come si fa spesso nella vulgata cattolica, più ripetendo un cliché che non pensando veramente a fondo alle cose. Se lo stesso spirito colto da chi poi viene definito fondatore non viene riconosciuto in maniera unica e personalissima da ogni persona che si unisce al suo cammino, non si potrà mai costruire una casa comune solida, duratura e capace di svilupparsi.

Per contro, non vi è dubbio che senza la forza e la tenacia di grandi personalità, spesso di singoli leader, ben difficilmente un gruppo di persone può dar luogo a una creazione comune capace di non risultare effimera, in grado di non arrendersi e crollare di fronte alle prime difficoltà, sia esterne sia interne.

Nello specifico, Bianchi e coloro che hanno camminato con lui sia prima della nascita di Bose, sia durante la sua crescita e lo sviluppo della sua straordinaria parabola umana e cristiana, hanno colto ciò che da sempre costituisce la base più profonda del rinnovamento cristiano: il ritorno alle origini, a quel tempo che per certi versi precede la codifica di un’ortodossia ecclesiale, prima della divisione di cristiani in gruppi, categorie o addirittura “generi”. Alludo a un’epoca in cui già si erano manifestate divisioni dolorose e significative (il Nuovo Testamento è attraversato da palesi divergenze) ma in cui proprio per questo la ricerca della comunione tra diversi e tra comunità con parabole divergenti era sentita come un’esigenza fondamentale. Il concilio Vaticano II, sulla scia di altri grandi movimenti sorti al di fuori della chiesa cattolica fin dall’Ottocento (come ricostruisco nel mio studio su Bose), non aveva trovato tutte le soluzioni possibili, ma aveva identificato una traiettoria di aggiornamento, di ritorno alle origini, che Bose ha intercettato come pochissime altre realtà del cristianesimo, non solo italiano. L’unico tratto più peculiare rispetto a un puro ritorno alle origini, è stato rappresentato a Bose dalla scelta, non del tutto scontata, di dare vita a una comunità di “celibi per il regno”, senza tuttavia che con questo si intendesse contraddire la fondamentale laicità dell’esperienza che si era deciso di avviare.

Un tesoro cosi può reggere nella Chiesa cattolica?

La chiesa cattolica, per sua natura, tende sempre a inglobare e omologare, e non solo a categorizzare le esperienze religiose di qualsiasi genere e natura. Questo non è sempre e solo negativo: già la Prima Lettera di Giovanni invita a “mettere alla prova gli spiriti”, ovverosia a sottoporre ogni ispirazione a un cammino di verifica. E le autorità umane hanno probabilmente qualche ruolo anche in tale direzione. Bose, però, è nata, per sua stessa autodefinizione, come comunità non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, “non cattolica, protestante o ortodossa ma di cattolici, protestanti e ortodossi”, nel rispetto di ogni singola chiesa e delle rispettive autorità. Questa sana “marginalità” le ha consentito di essere luogo di incontro per tutti (e non solo per i cristiani o per i credenti in generale), di acquisire una credibilità senza pari nell’ecumene cristiano e nel mondo della cultura laica, e tutto ciò senza assumere traiettorie bizzarre o eccentriche. Tuttavia, per ragioni complesse, la comunità ha finito per entrare di fatto nell’alveo della chiesa cattolica, sia a motivo della propria crescente complessità e dimensione, sia per favorirne un consolidamento istituzionale in vista della successione di Enzo Bianchi, consolidamento che si è rivelato a mio avviso maldestro. Una volta immessa formalmente nell’alveo del cattolicesimo, Bose ha finito per perdere qualcosa di importante, ed è risultata inoltre drammaticamente esposta agli aspetti meno luminosi della tradizione cattolica. Non me la sento ovviamente di esprimere giudizi sommari su quest’ultima, ma sicuramente l’istituzionalizzazione in senso cattolico porta non di rado a soffocare le esperienze profetiche.

Lei nel suo bel libro porta alla luce, per quelli che non conoscono l’esperienza di Bose, i valori e il contributo davvero notevole sul piano teologico, liturgico, estetico, architettonico, editoriale che Bose ha offerto al cristianesimo contemporaneo (quindi a tutte le confessioni). Insomma quella di Bose è una esperienza di bellezza dell’Evangelo che tocca tutta la dimensione umana. Qual è stato il contributo più importante che la comunità ha dato alle Chiese?

Tra i molti ne sottolinerei almeno due. In primo luogo la capacità, decisamente inconsueta, di dare vita a liturgie di rara bellezza ed evangelicità, in grado di far vivere in profondità il mistero cristiano. Sono vissuto in molti paesi, ho sperimentato molti modi di fare comunità nel cristianesimo e di esprimerne l’identità e la forza trasformatrice nel culto, ma non ho mai incontrato da nessuna parte qualcosa di paragonabile alla creatività liturgica bosina. In Italia sicuramente c’è oggi molta povertà e manca quasi totalmente una sperimentazione liturgica intelligente. Accanto alla liturgia, direi che Bose ha saputo creare e vivere un “codice deontologico dell’ecumenismo” che è un vero e proprio paradigma dell’incontro tra visioni differenti, ben al di là del cristianesimo e della stessa religione. Ce n’è un bisogno enorme nel nostro mondo diviso e frammentato.

La compagnia degli uomini, anche da celibi, implica un “giudizio”,alla luce del Vangelo, sulla società contemporanea. C’è un giudizio politico di Bose sulla società?

Sicuramente. Ma non nel senso più comune del privilegiare una o l’altra delle parti che si contendono il potere sul terreno della “politics”, ma in quello più alto della ricerca dei valori e delle “policies” che li possono perseguire. Enzo Bianchi soprattutto (perché questo è stato più un suo dono che non un dono generale della comunità) ha saputo esprimere con franchezza perplessità e critiche importanti riguardo all’evoluzione della cultura e della società italiane e non solo. La comunità, per contro, ha sempre espresso un giudizio con il suo semplice stile di vita, con le sue scelte, i suoi valori. Non è mai possibile separare la fede dalla vita nella società, soprattutto se si decide di vivere una marginalità, come si dice a Bose, “nella compagnia degli uomini”. Come accadde a Thomas Merton, che cito nel mio libro, a un certo punto è necessario compiere una conversione da “cercatori della santità” a “testimoni colpevoli” delle storture del mondo.

Veniamo alle ultime vicende. La crisi di Bose parte da lontano. Attraversa molteplici aspetti. Qual è secondo lei l’elemento scatenante? Era così necessario il ricorso alla Santa Sede?

Come ogni comunità umana, anche Bose ha visto svilupparsi al proprio interno dei problemi, anche seri. È un fatto umano, umanissimo, che non rappresenta di per sé uno scandalo. Un intero capitolo del mio saggio è dedicato a questo. E umano è anche per certi versi che non si sia riusciti ad affrontare internamente il conflitto, soprattutto quando, come accade spesso nella chiesa, non si è abituati a riconoscere e accettare conflitti e differenze di sostanza. Lo snodo cruciale è tuttavia che ogni volta che degli esseri umani si legano vicendevolmente sorge la questione del potere. Certo, facendo i “santi da soli” la vita sarebbe più facile, ma cosa sarebbe il cristianesimo senza dimensione comunitaria? Ma il potere, nella chiesa, viene affrontato troppo spesso tramite il meccanismo del sacro, che porta inesorabilmente a sviluppare forme di violenza, come ha mostrato in maniera magistrale René Girard. Laddove si cerca in qualsiasi modo di anteporre alla coscienza individuale l’erezione a “vicari di Cristo” di singole persone (presbiteri, vescovi, abati) o anche del capitolo di una comunità monastica, si cozza inesorabilmente contro l’unica vera realtà totalmente sacra: ogni singola persona. Il cristianesimo deve oggi interrogarsi profondamente riguardo a queste dimensioni, se vorrà sopravvivere in una forma realmente evangelica e conforme allo sviluppo dello spirito umano. Il ricorso alla Santa Sede era una possibilità, accanto ad altre, ma non era né l’unica né certamente, alla luce di quanto accaduto, la più saggia.

Nell’ultimo capitolo parla dei protagonisti di questi tempi difficili. Sono rimasto colpito dalla figura del delegato pontificio: il canossiano Cencini. Da quello che emerge, leggendo le sue pagine, è una figura assai dura e molto chiusa al dialogo. Non proprio un mediatore ma un intransigente. Una domanda sorge spontanea : perché la Santa Sede si è messa nelle mani di una persona così dura? Che cosa voleva ottenere?

Come già le ho detto un anno fa in un’altra intervista, non mi occupo di politica ecclesiastica o di dietrologie vaticaniste: non ho né l’interesse né le competenze per farlo. E neppure sono nella testa del Delegato Pontificio. Posso dunque solo, basandomi su quanto ha scritto, detto e fatto in tanti anni, ribadire che si tratta di una persona che opera in modi sbagliati e, nella fattispecie del caso Bose, antiumani e antievangelici. Tutti lo dicono da tempo, compresi molti vescovi, nei “corridoi della chiesa”, ma nessuno ha il coraggio di denunciarlo ad alta voce. Di fatto Cencini è vittima delle proprie rigide teorizzazioni che lo portano a intervenire con soluzioni predeterminate, senza mai promuovere dialoghi reali. Infine, con molta onestà e franchezza, devo dirle che non è a me che dovrebbe chiedere spiegazioni sulle scelte della Santa Sede. Ognuno si deve assumere le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie iniziative e dei propri fallimenti. Nessuno ne può essere esentato, neppure un vescovo di Roma, soprattutto in un sistema che gli conferisce poteri (e dunque responsabilità) che nessuno possiede sulla terra.

Lei vede la figura di Enzo Bianchi come un “capro espiatorio”. È servito a qualcosa il sacrificio?

Preciso innanzitutto che nel mio libro non limito al solo fondatore di Bose l’attribuzione del titolo di “capro espiatorio”. Vorrei che non ci dimenticassimo mai degli altri tre membri della comunità che sono stati banditi dalla medesima, Antonella, Goffredo e Lino, e dei molti che sono stati, in un modo o nell’altro, costretti ad andarsene, con pressioni psicologiche anche gravi. Le sofferenze susseguitesi all’intervento vaticano sono state ancora più pesanti di quelle che lo avevano suscitato, da una parte come dall’altra del conflitto di potere in atto. Ho scelto volutamente questa metafora biblico-ebraica e girardiana per indicare un problema fondamentale: a Bose sono sorti dei problemi che coinvolgevano tutti, ma si è scelto di “risolverli” eliminando una parte, senza tuttavia affrontare in realtà in alcun modo il nodo cruciale di come migliorare il dialogo interno e accettare e gestire gli inevitabili conflitti che sorgono in una comunità così complessa e numerosa. Tanto è vero che il successore di Bianchi compie oggi gesti mai visti a Bose in passato e totalmente estranei sia allo spirito sia alla lettera della stessa Regola di Bose, come l’esclusione dal capitolo e dai pasti comunitari per lunghi periodi di chiunque ne contraddica la voce nello stesso capitolo.

In questa vicenda quali sono stati i limiti del fondatore?

Penso di poter dire che da un lato non è riuscito a discernere come aveva fatto in passato l’insorgere di difficoltà e problemi non dovuti certamente solo o a lui, ma comunque avvertiti come seri da un certo numero di fratelli e di sorelle della comunità. E dall’altro, non ha saputo cogliere il momento giusto per andarsene a condizioni ben diverse, che egli stesso avrebbe potuto dettare, con un paio d’anni almeno di anticipo. Ma onestamente, quando sei stato il protagonista principale di una creazione così eccezionale, lungo un arco di tempo superiore ai cinquant’anni, è difficilissimo, se non sei aiutato a farlo a chi ti sta intorno, compiere un passo di tal genere. Per quanto mi è dato di sapere, non conosco “fondatori” che lo abbiano mai fatto…

Lei parla di non rispetto dei diritti umani in tutta questa vicenda. Perché?

Nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate. A prescindere da come la si pensi sul conflitto esploso a Bose, non si può accettare una modalità di giudizio e di intervento che non ha tenuto in alcun conto i diritti degli “imputati” (che non sono stati neppure tali, in quanto sono passati direttamente allo status di “condannati”).

Inoltre il provvedimento vaticano, come hanno mostrato diversi giuristi, non potrebbe mai essere applicato nel territorio italiano senza essere recepito da un tribunale ordinario (che mai lo farebbe), in quanto priva delle persone molto concrete di diritti fondamentali, a partire da quello di usufruire e di godere dei beni materiali e spirituali che hanno contribuito (alcuni in maniera massiccia e determinante) a realizzare. L’allontanamento dalla propria dimora e la proibizione di intessere relazioni con altre persone è un fatto gravissimo nell’ordinamento giuridico italiano, e nei confronti di alcuni allontanati, proprio nelle ultime settimane, è stata aggiunta anche la cancellazione unilaterale del contributo di sussistenza che pure era stato concordato per iscritto.

Credo sia tristissimo che in molti – anzi, decisamente in troppi – nel mondo cattolico si siano interessati molto di più ai presunti abusi compiuti dal fondatore di Bose (di cui non vi è traccia nel Decreto singolare né, ad oggi, è emerso alcun esempio concreto) che non ai palesi abusi compiuti dalla Santa Sede nei confronti di cittadini italiani. Un conto è non volersi schierare nel conflitto (decisione legittima e rispettabilissima), tutt’altra cosa è chiudere gli occhi di fronte a queste cose. Nessuna chiesa può essere veramente evangelica se non persegue fino in fondo la verità e non rispetta radicalmente la dignità di ogni persona, che ha diritti inalienabili.

Siamo alla fine di questa nostra lunga conversazione. Come riprendere un cammino riconciliato?

 Nel mio libro avanzo qualche timida proposta, basata soprattutto sul fatto che Bose possiede diverse case in giro per l’Italia. La riscoperta di dimensioni più piccole e umane aiuterebbe molto, e permetterebbe a gruppi di persone che ormai hanno visioni parzialmente divergenti della storia di Bose di continuare a vivere la vita a cui si sono votate senza una costante atmosfera di conflitto e senza cercare di risolvere i problemi eliminando del tutto l’altra parte dal proprio orizzonte. Ancora più importante, però, sarebbe la scelta (o l’invio?) di un nuovo, vero mediatore (o gruppo di mediatori), che avvii un autentico processo di confronto tra le parti in conflitto, e che guidi la comunità a (re-)imparare l’arte del dialogo fraterno. Perché c’è ancora un enorme bisogno di Bose nella chiesa e nelle chiese.

 

Il caos della pandemia nasconde un nuovo ordine sulla Terra.Un testo di Leonardo Boff

 

 

Leonardo Boff (LaPresse)

Pubblichiamo, per gentile concessione, questo testo profondo, alla luce degli avvenimenti che stanno accadendo, del teologo brasiliano Leonardo BOFF. “La nostra missione è garantire la vita, la Madre Terra e noi stessi. Creare la Casa Comune dentro la quale tutti possano vivere in giustizia, pace e allegria. Questo modello dovrà uscire dalle viscere del caos attuale e fondare un nuovo inizio per l’umanità”. Un appello esigente quello di Boff. A questo riguardo ricordiamo che di Leonardo BOFF è stato appena pubblicato , dall’Editore Castelvecchi di Roma, il suo libro “Abitare la Terra. Quale via per la fraternità universale?”. Il saggio è una intensa riflessione, alla luce della Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco e dell’ ecologia integrale ,su una possibile via per realizzare la fraternità universale. Il libro ha ricevuto, nel giro di pochi giorni, diverse recensioni molto qualificate di importanti testate italiane.

 

Raramente nella lunga storia della vita, si è verificata una situazione di caos planetario come nei giorni attuali. Eravamo abituati a un sistema regolare e ordinato, nonostante negli ultimi decenni avessimo sperimentato irregolarità con una frequenza crescente, come tsunami, tifoni, terremoti ed eventi estremi di caldo torrido e freddo polare. Tali fenomeni hanno portato gli scienziati a pensare e tentare di comprendere come all’interno dell’ordine dato potevano verificarsi situazioni caotiche.

Da qui nacque una scienza, quella del caos, tanto importante come le altre, al punto che alcuni arrivarono a dire che il secolo XX sarà ricordato per la teoria della relatività di Einstein, per la meccanica quantistica di Heisenberg/Bohr e per la teoria del caos di Lorenz/Prigogine.

L’essenza della teoria del caos risiede nel fatto che un cambiamento molto piccolo nelle condizioni iniziali di una situazione porta a effetti imprevedibili. È il famoso esempio dell’«effetto farfalla». Piccoli cambiamenti iniziali, casuali, come il battere di ali di una farfalla in Brasile, possono provocare cambiamenti atmosferici fino a culminare in una tempesta a New York. Il presupposto teorico è che tutte le cose sono interconnesse e vanno assumendo nuovi elementi, creando complessità nel corso della propria esistenza (in questo caso: calore, umidità, venti, energie terrestri e cosmiche) in un modo che la situazione finale è totalmente diversa da quella iniziale.

Il caos sta da tutte le parti, nell’universo, nella società e in ciascuna persona. Significa che l’ordine delle cose non è lineare e statico. È dinamico e sempre alla ricerca di un equilibrio che lo fa andare avanti.

L’universo si è originato da un immenso caos iniziale (big bang). L’evoluzione è stata ed è la modalità per mettere ordine in questo caos millenario. Ma qui nasce una novità: il caos non è solo caotico, contiene dentro di se – in gestazione – un nuovo ordine. Logicamente possiede il suo momento distruttivo, caotico, senza il quale il nuovo ordine non potrebbe irrompere. Il caos è generativo di questo nuovo ordine.

Chi analizzò nel dettaglio questo fenomeno fu il grande scienziato russo/belga Ilya Prigogine (1917-2003), premio Nobel per la Chimica nel 1977. Studiò particolarmente le condizioni che permettono l’emergenza della vita. Secondo questo grande scienziato, sempre che esista un sistema aperto (pertanto, in permanente dialogo e scambio con l’esterno) e sempre che ci sia una situazione di caos (pertanto, fuori dall’ordine e lontano dall’equilibrio) in cui prevale una non linearità, è la connettività tra le parti che genera un nuovo ordine, che sarebbe la vita.  (cf. Order out of Chaos,1984).

Questo processo conosce biforcazioni e fluttuazioni. L’ordine, pertanto, mai è dato a priori. Dipende da vari fattori che lo portano in una direzione o in altra, da ciò un’immensa biodiversità.

Abbiamo fatto tutta questa riflessione sommaria per aiutarci a capire meglio l’attuale caos pandemico. Innegabilmente viviamo in una situazione di completo caos, un caos distruttivo di milioni di vite umane. Nessuno può dire quando termina né in che direzione andiamo. Il virus si manifesta con molteplici varianti, avendo successo sulle nostre cellule. È innegabilmente caotico e sta terrorizzando l’intera umanità. Ci pone questioni fondamentali: cosa abbiamo fatto con la natura per essere castigati con un virus cosi letale? Dove abbiamo sbagliato? Che cambiamenti dobbiamo intraprendere in relazione con la natura per impedire che ci invii una gamma di altri virus?

Sappiamo che nascosto al suo interno esiste un ordine migliore e più alto. La cosa peggiore che potrebbe accaderci sarebbe la continuità o il ritorno al passato che ha creato il caos. Dobbiamo usare la nostra fantasia creatrice e, soprattutto, forgiare – dall’esperienza storica – un ordine più amico della vita, affettuoso, fraterno e giusto. Sarebbe il caos generativo.

Dobbiamo capire il contesto da cui è venuto il coronavirus. È un’espressione dell’antropocene, cioè della sistematica aggressione, da parte dell’essere umano, della natura, di Gaia, della Madre Terra. È la conseguenza di aver trattato il pianeta come una riserva inerte di risorse a nostra disposizione e non come una realtà viva che merita attenzione e rispetto.

A partire dalla rivoluzione industriale l’abbiamo sfruttata al punto che non riesce più ad auto-rigenerarsi e offrirci tutti i beni e servizi vitali. Dobbiamo inaugurare una relazione di sinergia e sostenibilità per e con la natura, sentendoci parte di Lei, responsabili per la sua continuità e non i suoi padroni e signori. Se non operiamo questa conversione ecologica potremmo conoscere catastrofi inimmaginabili.

Nel caso brasiliano, la prima cosa che dobbiamo fare è preservare l’immensa ricchezza ecologica ereditata dalla natura, in termini di foresta pluviale, abbondanza di acqua, di suoli fertili e di vastissima biodiversità.

Di seguito dobbiamo superare la marginalizzazione, l’odio vigliacco che rivolgiamo ai poveri. Il disprezzo e le umiliazioni commesse crudelmente contro le persone schiavizzate si sono trasferite nei confronti dei poveri. Tale disumanità ha lasciato cicatrici profonde nella popolazione.

Infine dobbiamo liquidare l’eredità perversa del “latifondismo in epoca coloniale” trasferito nella rendita e nel potere di pochi miliardari che controllano gran parte della finanza. Fanno fortune con la pandemia, senza alcuna empatia con i familiari che hanno perso i loro cari (in Brasile i morti per Covid superano il mezzo milione). Loro sono i sostenitori dell’attuale Governo necrofilo, il cui presidente è alleato del virus. Costituiscono il maggiore ostacolo per il superamento del caos installato a Brasilia.

Abbiamo bisogno di costruire un fronte ampio di forze progressiste e nemiche della neo-colonizzazione del paese per portare alla luce un nuovo ordine, sommerso nel caos attuale ma che vuole nascere. Dobbiamo fare questo parto anche se doloroso. In caso contrario continueremo a essere ostaggi e vittime di coloro che sempre hanno pensato “corporativamente” solo per sé, voltando le spalle al popolo e devastando la natura con il loro agro-business. Finendo per rafforzare l’impatto tra noi del coronavirus.

Dobbiamo ispirarci nell’universo, nato dal caos primordiale, ma che evolvendo ha creato nuovi ordini sempre più complessi, fino a generare la specie umana. La nostra missione è garantire la vita, la Madre Terra e noi stessi. Creare la Casa Comune dentro la quale tutti possano vivere in giustizia, pace e allegria. Questo modello dovrà uscire dalle viscere del caos attuale e fondare un nuovo inizio per l’umanità.

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

https://leonardoboff.org/2021/08/04/o-caos-da-pandemia-esconde-uma-nova-ordem-na-terra/

Leonardo Boff, filosofo e teologo.

 

“Occorre contrapporre al sovranismo un europeismo riformato”. Intervista a Guido Formigoni

Quali sono le radici del “manifesto” dei sovranisti? Quale idea di Europa è alla base del “manifesto”? La presa di posizione della estrema destra europea ha fatto e continua a  far discuttere l’opinione pubblica europea. In questa intervista, con lo storico Guido Formigoni, approfondiamo alcuni punti del documento. Guido Formigoni è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano, dove è prorettore. Coordina il Comitato scientifico per la pubblicazione delle «Opere del card. Carlo Maria Martini». Partecipa alle direzioni delle riviste «Ricerche di storia politica» (di cui è stato condirettore tra 2013 e 2018), «Modernism» e «Il Mulino». Fa parte del Comitato scientifico internazionale di Civitas – Forum of Archives and Research on Christian Democracy (Roma-Berlin-Leuven). Tra i suoi libri recenti: Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (Il Mulino, 2016); Storia d’Italia nella guerra fredda 1943-1978 (Il Mulino, 2016); Storia della politica internazionale nell’età contemporanea (Il Mulino, 20183); I cattolici italiani nella prima guerra mondiale. Nazione, religione, violenza e politica (Morcelliana 2021).

Professore, lo scorso 2 luglio Matteo Salvini, Giorgia Meloni hanno firmato, insieme ad altri leader dell’estrema destra europea (tra cui Orban e Marine Le Pen) un manifesto sovranista. In questo manifesto si prende di mira, tra l’altro, la creazione di un superstato europeo (il termine usato è da autentici complottisti) che vorrebbe imporre, attraverso un “iperattivismo moralista”, un “monopolio ideologico”. Le chiedo: quali sono, secondo lei, le radicali politiche “culturali” di queste posizioni? 

 

Il manifesto è un prodotto di Marine Le Pen, da lei è stato firmato e presentato, e poi ha raccolto le firme di altri partiti. Lo sfondo culturale è chiaramente legato a una volontà di contrapporre l’esistenza di libere nazioni (intese a quanto sembra un po’ illusoriamente come corpi organici coesi e compatti) a un presunto cosmopolitismo europeo che appiattisce le diversità e crea difficoltà ai piccoli Stati. Lo spetto del «superstato» è quanto di più ideologico si possa mettere in campo: la comunità e poi l’Unione non sono mai state qualcosa di questo tipo. Si è sempre trattato di uno strumento gestito in un negoziato continuo dalle classi politiche nazionali, per ottenere alcuni risultati di vantaggi comuni. Lo sperimentalismo del modello integrazionista non ha mai messo in discussione l’aspetto inter-statuale dell’Ue (una sovranità messa in comune), ottenendo bensì livelli crescenti di interdipendenza (e costruendo anche istituzioni che esprimono una sovranità condivisa) senza (per fortuna) coercizioni di sorta. Lamentarsi per qualcosa di inesistente è tipico di uno schema ideologico nazionalista abbastanza tradizionale, non molto originale.

Nel loro mettersi di traverso alla evoluzione della UE come Stati Uniti d’Europa, il sogno federalista di Spinelli, propugnano, addirittura qualcuno di loro cita De Gaulle, la Confederazione tra stati. Le chiedo è corretto, da parte degli estremisti sovranisti, “arruolare” il Generale De Gaulle (antifascista e combattente contro il collaborazionismo di Vichy)? 

 

Mah, certo, de Gaulle avrebbe sempre conservato una barriera a destra in senso antifascista. E qui c’è un rassemblement di forze di varia ispirazione, con più di una punta fascisteggiante, anche se mascherata e nascosta. Attualmente, tra l’altro, i 14 firmatari – tra cui Fidesz di Orban, gli spagnoli di Vox, il Vlaams Belang, il partito Diritto e giustizia polacco – sono divisi in diversi gruppi politici europei. La novità che traspare dall’uso di una retorica «confederale» anti-federalista è però chiara: non c’è più un attacco frontale all’Unione, né all’euro, né una rivendicazione di uscita di qualche paese. Insomma, sembra quasi che il sovranismo si sia fatta una ragione sulla necessità di combattere una battaglia dentro un’Unione che probabilmente si percepisce abbia superato la sua crisi più radicale. E questa in fondo non è una notizia banale.

Nel manifesto si propone una “lettura” dell’Europa contemporanea sconcertante: “La turbolenta storia della Europa, in particolare nell’ultimo secolo, ha prodotto molte sventure. Nazioni che difendevano la loro integrità territoriale hanno sofferto al di là di ogni immaginazione. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei hanno dovuto combattere per decenni il dominio del totalitarismo sovietico prima di riottenere la loro indipendenza”. E il fascismo e il nazismo dove sono? A cosai mira questa manipolazione della Storia?

Beh, è indubbiamente molto ambiguo il riferimento al totalitarismo sovietico senza ricordare che l’Urss ha potuto dilagare nell’Europa centro-orientale solo a seguito della vittoriosa controffensiva contro l’espansionismo nazifascista. Alla radici c’è il fallimento del sovranismo di allora. Un mondo imperniato su imperi militari chiusi e contrapposti costruiti dagli Stati nazionali, a seguito della crisi degli anni ’30, è stato proprio il tentativo fallito dei regimi autoritari di destra. Su quel fallimento si è costituito il duopolio sovietico-americano. Si tratta ancora una volta di una lettura della storia strumentale, mirata a sollecitare un certo senso nazionale contro la memoria del comunismo, che paradossalmente dimentica proprio il sovranismo fallimentare del passato. E poi si traduce a volte in buoni rapporti con l’autocratico governo di Putin, che in quanto a logica soggettivamente imperiale (peraltro limitata dagli scarsi mezzi) non è secondo a nessuno.

 

Anche il Cristianesimo viene tirato in ballo come fattore unificante di questa “nuova” Europa. Ma che cristianesimo è? 

 

La retorica delle radici giudaico-cristiane dell’Europa serve a dare un tocco tradizionalista. Ci siamo abituati anche in Italia all’uso disinvolto dei simboli religiosi da parte di partiti di destra laica, estranei allo spirito evangelico. Del resto, qui non possiamo dimenticarci che abbiamo alle spalle un dibattito nato malissimo, ai tempi del trattato costituzionale del 2003: il laicismo europeo rifiutò la semplice menzione delle radici cristiane dell’Europa rischiando un controsenso storico (è del tutto evidente che l’Europa è stata unificata dal cristianesimo, che ha permesso l’incontro di diverse matrici fondanti, dal diritto romano alle potenzialità dei nuovi arrivati germanici). Ma questa chiusura era speculare a un uso, da parte dello stesso Giovanni Paolo II ma soprattutto di alcuni suoi seguaci, di questa rivendicazione in un modo rischiosamente esposto all’accusa di voler fissare un principio che si estendesse a motivare una sorta di primato nell’attualità. Primato che non ha senso rivendicare da parte della fede cristiana: oggi la sua influenza è ridotta a una minoranza tra le altre, ma la sua vivacità può e deve esprimersi ancora nel dialogo aperto con tutte le altre componenti religiose e culturali del continente.

 

Un’altra cosa che colpisce è che si parla di famiglia, ” unità fondamentale delle nostre nazioni”,non dei diritti umani della persona. La “famiglia” strumento di crescita demografica per contrastare l’immigrazione di massa. Sono affermazioni che ricordano pagine cupe dell’Europa. È così professore? 

 

Anche in questo caso niente di nuovo: la retorica sulla famiglia di tipo tradizionale serve a collocarsi di fronte a una tendenza della sinistra presunta moderna che ha fatto del pluralismo di modelli, dei diritti individuali e del rispetto delle differenze il suo nuovo ubi consistam. E poi viene utilizzato, ancora una volta piuttosto rozzamente, nella polemica contro l’immigrazione straniera, che resta invece una risorsa e non solo un problema. Vorrei però completare questo ragionamento con un’altra osservazione. Può non piacerci un richiamo al «Dio, patria e famiglia». Ma mi parrebbe un gioco suicida cedere a questa destra una considerazione seria della questione dell’invecchiamento e del declino demografico del nostro continente. Se l’Europa si chiude al futuro rinunciando a fare figli, perché non c’è fiducia basilare nella convivenza umana e nelle sue possibilità, questo è un problema di tutti, non certo dei sovranisti.

 

Il manifesto ha una sua pesante valenza politica. Basti pensare alla Polonia e all’Ungheria. Sono regimi illiberali. Non è preoccupante che l’abbiano firmato due forze politiche italiane?  

 

L’illiberalismo del manifesto è più nel non detto che nell’esplicito: ad esempio, nel parlare appunto dei diritti delle nazioni e non di quelli delle persone e del pluralismo interno alle società. Una concezione omogeneizzante e chiusa delle nazioni è senz’altro un rischio. D’altro canto, che i partiti di Salvini e Meloni si ispirassero a queste retoriche non è una novità. Se vogliamo, pur su questo sfondo preoccupante, emergono però nel manifesto alcuni accenti nuovi, favorevoli al progetto europeo e all’amicizia tra i popoli, pur ridimensionati dall’attacco ideologico al modello federalista.

 

Il futuro conflitto politico europeo, ormai è chiaro, sarà sempre più tra europeisti e sovranisti. Quale potrebbe essere una risposta efficace al manifesto sovranista? 

Il conflitto è nei fatti. Però, vorrei obiettare che c’è un modo sbagliato di intenderlo. A me pare – non da oggi – che non sia una buona strategia quella di contrapporre al sovranismo semplicemente un qualsiasi appello europeista. Infatti, il sovranismo degli ultimi anni è prosperato proprio sui limiti e i contraccolpi di un europeismo miope, tutto giocato sulla difesa del mercato, sull’austerità imposta dalla Germania e sulla mancanza di reale solidarietà. L’europeismo del Fiscal Compact, potremmo dire, che ha eroso il capitale di benevola convergenza tra i popoli costruito nei decenni. Occorre invece contrapporre al sovranismo un europeismo riformato, che tenga assieme l’idea di istituzioni democratiche favorevoli alla crescita, con la costruzione di legami sociali più forti tra i popoli. E questo per la banale ragione che nell’epoca dei giganti (Usa-Cina) nessun paese europeo, per quanto sia sovranista il suo governo, può far veramente da solo. Non a caso, i sovranisti riescono ad accrescere i consensi, ma faticano a esprimere a valle di questi consensi una linea di governo realistica ed efficace. L’Europa è una necessità: per farla amare, però, deve anche essere molto attenta al modo con cui la si presenta.

IL TRADIMENTO DEL VERTICE ONU SUI SISTEMI ALIMENTARI. INTERVISTA A NICOLETTA DENTICO

Cresce in tutto il mondo la critica contro il Vertice ONU sui Sistemi Alimentari indetto dal Segretario Generale Antonio Guterres e previsto a New York il prossimo settembre.  Vertice in cui il ruolo delle multinazionali dell’agroindustria risulta pericolosamente pervasivo e dominante.

Sono ormai circa 1000 le organizzazioni internazionali e regionali della società civile, le associazioni di piccoli produttori e allevatori, le comunità indigene, gli esperti internazionali, oltre ii rappresentanti del mondo scientifico ed accademico che si preparano a una Contro-Mobilitazione virtuale  e in presenza per formulare domande competenti sul futuro del cibo e per esprimere  il loro dissenso in occasione del pre-Vertice sui Sistemi Alimentari che si terrà a Roma presso la FAO, dal 26 al 28 luglio. Tra le numerose mobilitazioni globali – il  programma delle tre giornate di Contro-Mobilitazione  si trova online: Call to action | Peoples’ Counter-Mobilization to Transform Corporate Food Systems – CSM (csm4cfs.org)si inquadra la azione di Flash-Mob nella capitale internazionale del cibo, Roma, che sarà organizzata davanti alla sede della FAO , oggi, dalle ore 11.00 alle 13.00.  Per approfondire qual è la posta in gioco, nel “Pre-Summit” della prossima settimana, abbiamo intervistato Nicoletta Dentico. Nicoletta Dentico è giornalista professionista e responsabile del programma di salute globale di Society for International Development.

Nicoletta Dentico, tra pochi giorni si svolgerà a Roma (26-28 luglio) il Pre-Summit ONU sui “Sistemi Alimentari”. Prima di parlare di questo evento, vorrei chiederti: il Covid 19 quali vulnerabilità ha colpito nei “Sistemi Alimentari”?

Anche prima dell’arrivo di COVID-19, i sistemi alimentari presentavano tutti gli ingredienti di una tempesta perfetta. La ricetta di un fallimento sistemico che crea nello stesso tempo obesità e sottoalimentazione. Veniamo da decenni di “rivoluzione verde” a base di fertilizzanti e di nuove verità ibride in grado di incrementare considerevolmente la produzione, ma il problema della nutrizione nel mondo non è stato affatto risolto e anzi è in aumento, da qualche anno a questa parte. La rivoluzione verde ha aperto un vasto mercato per le operazioni delle grandi multinazionali, e intanto il cibo è diventato un prodotto di consumo soggetto a feroci speculazioni finanziarie.  La strategia della rivoluzione verde insomma è stata un disastro tanto ecologico quanto economico e oggi, a causa di questa specie di colonizzazione agricola su scala globale, un numero crescente di persone non ha accesso a una dieta sana, autodeterminata. Si registra ovunque un impoverimento delle risorse naturali (le varietà ibride consumano più acqua), una distruzione dei suoli a causa dell’uso crescente di fertilizzanti chimici e pesticidi, una perdita considerevole di  biodiversità. Nel contempo, nei paesi ricchi, lo spreco del cibo è la regola anche a causa di una iper-produzione scellerata e insostenibile. La pandemia ha fatto deflagrare queste disfunzioni strutturali. Ma ce ne sono altre, legate alle guerre, alle instabilità e violenze interne ai paesi (basti pensare al Tigray). Che dire? L’impennata statistica della fame documentata nell’ultimo rapporto SOFI 2021 sullo stato della sicurezza alimentare e nutrizione nel mondo, pubblicato il 12 luglio, definisce gli estremi di uno scandalo di proporzioni storiche. I numeri parlano chiaro: quasi una persona su tre non ha avuto accesso a un’alimentazione adeguata nel 2020 – un incremento di 320 milioni di persone affamate in un solo anno, da 2,05 a 2,37 miliardi.

Quali sono nell’agricoltura le vittime causate dalla pandemia?

Le prime vittime della pandemia in materia di accesso al cibo sono tutte quelle persone che vivono “hand-to-mouth”, cioè quanti dipendono dalla economia informale, quotidiana e di strada, di padri e madri che ogni giorno si giocano il tutto e per tutto per racimolare il poco che serve per nutrire la famiglia. Le misure di lockdown, spesso attuate a poche ore dal loro annuncio, hanno prodotto un trauma per centinaia di milioni di uomini e donne che nel mondo vivono, letteralmente, di questa economia del “pane quotidiano”. Nella agricoltura hanno pagato un prezzo enorme anche le frange più esposte della filiera agroindustriale del cibo, contadini e non solo, che hanno perso il lavoro nel momento in cui la globalizzazione si è fermata con l’arrivo di COVID-19. Ma COVID-19 ha d’altro canto permesso la germinazione di molte esperienze locali di beni comuni del cibo (food-commons), spesso con l’intento di rispondere ai bisogni immediati delle persone nelle diverse comunità, che oggi permettono di ri-immaginare i sistemi della agricoltura e di ricollocarli come elementi di una nuova socialità per il bene comune post-capitalista. Ci sono moltissime ombre, ma non mancano affatto le luci.

Parliamo del Pre-Summit. Perché è importante? Quali obiettivi si prefigge?

Il pre-summit sui sistemi alimentari dell’ONU previsto a Roma alla fine di luglio – di cui RAI parla incessantemente da qualche settimana come media-partner dell’evento –  è una anticipazione del summit vero e proprio che avrà luogo a New York a settembre, in concomitanza con la Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il summit è stato indetto dal Segretario Generale dell’ONU e mira a definire una governance globale sulla agricoltura e l’alimentazione per fronteggiare l’emergenza della malnutrizione mondiale, e in generale gli squilibri alimentari, puntando alla trasformazione dei sistemi alimentari con soluzioni innovative che potranno servire, così si dice, a raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile – zero fame entro il 2030. Ma il diavolo sta nei dettagli. 

Il Vertice sui Sistemi Alimentari a New York dovrebbe essere una vera buona notizia, visto che si occupa dei “sistemi del cibo” appunto. Dopo decenni di palese fallimento, potrebbe tracciare un appuntamento decisivo per discutere di politiche di contrasto alla fame e per promuove approcci agro-ecologici, in grado di rispettare i diritti dellambiente e della salute. Vale la pena di ricordare che il settore agroindustriale globalizzato produce un impatto immenso sulla distruzione delle foreste e l’accaparramento delle terre, fenomeni che mettono in pericolo il pianeta, e anche l’umanità. Purtroppo si tratta di un’occasione mancata, o peggio, di un treno che marcia in direzione del tutto sbagliata.

Cosa c’è di sbagliato nel “Food System Summit” dell’ONU?

Molte cose non tornano nella organizzazione di questo vertice, sin dall’avvio dei lavori. Il summit nasce come abbiamo detto come evento convocato dal Segretario Generale dell’ONU, ma non sotto il controllo degli Stati. Il percorso organizzativo che ha dato forma al vertice è caratterizzato da una opacità senza precedenti. Una mancanza di trasparenza che ha destato molta sorpresa e anche vivaci preoccupazioni, man mano che si è fatto strada il folgorante protagonismo del Forum Economico Mondiale (World Economic Forum, WEF) di Davos – lelitario circolo privato che riunisce le 1000 più grandi corporations globali – come co-organizzare del vertice. I centri di interesse riuniti nel WEF, dal primo momento, hanno indirizzato i contenuti e strutturato l’agenda. La narrazione ufficiale parla di sostenibilità, di contadini e comunità indigene, persino di diritti. Ma la realtà è che il Vertice sui Sistemi Alimentari ha del tutto marginalizzato l’impianto istituzionale costituito in seno alla FAO dal 2009, nella fattispecie il Comitato per la Sicurezza Alimentare Mondiale (CFS) che prevede la partecipazione delle organizzazioni di produttori, dei popoli indigeni, dei lavoratori agricoli, dei pastori e pescatori. Per questo molte organizzazioni e associazioni internazionali storicamente impegnate sui questi temi  si sono dissociate da questo evento, in esplicito dissenso dalla cosiddetta “corporate capture”, l’incontrollata influenza da parte delle multinazionali dell’agroindustria. E’ la prima volta che succede, proprio perché il CFS è l’istituzione integovernativa più inclusiva che si occupa di politica globale del cibo.

Quanto conteranno i popoli in questo Summit?

Nella vulgata ufficiale, come ho già detto, prevale una narrazione molto rassicurante, l’idea del cibo come elemento che non rappresenta solo un alimento, ma le nostre tradizioni e relazioni sociali. La narrazione ufficiale parla di coinvolgimento e partecipazione, di mobilitazione delle cittadinanze e delle comunità. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che non è così. Dopo svariati tentativi di dialogo per correggere il tiro, per capire almeno la ratio della nuova impostazione, a dicembre 550 entità dei piccoli produttori e associazioni dei popoli indigeni e Organizzazioni non governative (ONG), hanno scritto una lettera al Segretario Generale per invocare il ricorso ad un multilateralismo degno di questo nome, ad un vero percorso democratico. A queste prese di posizioni ne hanno fatto seguito altre, provenienti dal mondo accademico internazionale (https://www.csm4cfs.org) . Queste iniziative si stanno moltiplicando, in uno scontro quasi insanabile tra chi considera il cibo come un diritto e un crinale di tutela dell’ecosistema, e chi lo considera come una merce da scambiare sul mercato. Posizioni critiche sono state espresse in forma scritta persino dai rappresentanti del mondo politico e scientifico direttamente coinvolti nel lavoro del Vertice, alcuni dei quali hanno denunciato il processo in itinere (ocs.google.com/document/d/1fGP9mMdu-_bqsEGfUc6EbRN8LWdN-l7jt8ih9iGGejc/edit https://agroecologyresearchaction.org/scientists-boycott-the-2021-un-food-systems-summit/). Per le 380 milioni di persone rappresentate dalle organizzazioni della società civile non esistono le condizioni perché il summit, così concepito, possa garantire inclusività, né tantomeno la trasformazione integrale dei sistemi alimentari necessaria ad arginare la crisi montante della fame nel mondo, l’emergenza climatica e ambientale.

Al Pre-Summit ci sarà anche Agnes Kalibata. Una personalità che sta facendo discutere, perché?

Sì, il segnale emblematico della profonda distorsione della governance del cibo che questo summit interpreta e promuove è la designazione di Agnes Kalibata, presidente della Alliance for a Green Revolution for Africa (AGRA)1 , come inviata speciale del Segretario Generale dell’ONU per questo vertice. Qual è il problema? Kalibata sta completamente fuori dal sistema ONU, e presiede un’iniziativa creata nel 2006 dalla Fondazione Rockefeller e dalla Fondazione Bill & Melinda Gates per risolvere i problemi della fame in Africa con la introduzione di monoculture, di produzione agricola per la esportazione e la immissione di nuove tecnologie e sistemi agricoli nel continente disegnati da multinazionali come Monsanto, Syngenta, Microsoft. La presenza di AGRA in Africa si associa ad una sostanziale ridefinizione della agenda scientifica in campo agricolo e la creazione di nuovi mercati, come ho cercato di raccontare nel mio libro sul filantrocapitalismo, con grave danno per le realtà contadine che hanno a cuore un sistema alimentare autoctono e sostenibile. A parte il fatto che AGRA in Africa è solo l’ultima fattispecie dello stesso fallimento, come racconta lo studioso Tim Wise (https://www.iatp.org/throwing-good-money-after-bad), la presenza di Kalibata come inviata speciale del Vertice crea seri problemi di governance del cibo. Vogliamo dire che Kalibata è la prima rappresentazione plastica della decisione del Segretario Generale dell’ONU di firmare un’alleanza con il Forum Economico Mondiale nel giugno 2019. Una decisione sconsiderata che potrebbe avere implicazioni di portata tragica, non ancora pienamente comprese, per il futuro della funzione pubblica a livello globale.

Abbiamo detto della Fondazione Gates, Che ruolo gioca il filantropocapitalismo in questo ambito?

Agnes Kalibata docet. Il filantrocapitalismo sta al cuore di tutta questa operazione intorno all’impegno di Davos sui sistemi alimentari del futuro. Il filantrocapitalismo è il tessitore primigenio della idea di introdurre le grandi imprese nel sistema della governance globale, il cavallo di Troia del capitalismo dentro le Nazioni Unite. Si tratta di una reazione del capitale alle mobilitazioni politiche altermondiste di Genova nel luglio 2001. Un fenomeno che sottrae legittimità democratica alle Nazioni Unite tout court, e oggi a questo vertice sui sistemi alimentari, venti anni esatti dopo il G8 di Genova. 

Quali sono i conflitti di interesse dei suoi organizzatori?

I conflitti di interessi sono cosi stipati in questo paradigma….che si fa finta che non esistano! Nellimpianto del summit non ci sono meccanismi di gestione del conflitto di interessi. Nella filosofia politica del summit non esiste la minima attenzione ai nodi geopolitici che determinano la fame, tipo le espropriazioni della terra ai piccoli produttori per la creazione di piantagioni e monocolture, le pratiche di accaparramento ai fini estrattivi, le violenze ed i conflitti che determinano un impoverimento diffuso, ora aggravato dalla pandemia. La depoliticizzazione dei nodi strutturali della fame è del resto l’obiettivo primario degli organizzatori-imprenditori del vertice.

Sappiamo che a Papa Francesco sta molto a cuore il dell’agricoltura, da declinare nel senso della ecologia integrale. Che ruolo sta giocando il Vaticano?

Il Vaticano sarà presente al pre-vertice – del resto non è possibile chiamarsi fuori da un evento delle Nazioni Unite che si tiene a Roma. Ma Papa Francesco non andrà al pre-vertice, anche se gli organizzatori ci contavano molto, da informazioni che ho ricevuto negli ultimi mesi. 

Ultima domanda : L’Italia come si sta comportando? 

L’Italia, presidente del G20, mostra anche nell’ambito del cibo – su cui pure declama una tradizione unica al mondo, giustamente – tutta la sua incapacità di visione, di lucidità, di comprensione strategica di quello che sta avvenendo. I governi di ogni colore hanno sempre sostenuto il modello di agricoltura industriale e di allevamente intensivo che ha devastato la Pianura Padana, tanto per fare un esempio, rendendola l’area più inquinata d’Europa. Il sistema agricolo e alimentare italiano ha molto da perdere da un approccio così incentrato sul valore nutrizionale delle diete, che privilegia i cibi fortificati alla varietà delle diete tradizionali, e delle filiere culturali del cibo. LItalia ha molto da perdere anche da una trasformazione dei sistemi alimentari orientata alla innovazione tecnologica e digitale. Infine, l’Italia ha da perdere geopoliticamente come stato membro del polo romano delle Nazioni Unite per le politiche del cibo. Se Davos prende il sopravvento, la tradizionale primazia di Roma sarà un ricordo del passato. Per questo abbiamo chiesto al Parlamento italiano di chieder conto di quanto sta accadendo, nella totale ignoranza da parte del mondo della politica.