Il Vocabolario di Papa Francesco, 50 voci per capire il suo pontificato

Vocabolario di Papa Francesco

Cosa ci sta dicendo Papa Francesco? A questa domanda, apparentemente presuntuosa e quasi blasfema per il Pontefice che tutti indicano come ‘mago della comunicazione’ e che punta molto sulla forza esplosiva del gesto e della testimonianza, prova a rispondere il secondo ‘Vocabolario di Papa Francesco’ pubblicato da Elledici e curato da Antonio Carriero. E’ un libro particolare per almeno due motivi: perché lo si può leggere come un vocabolario, scomponendo e ricomponendo un ordine di parole, e perché , un po’ come nelle opere enciclopediche degli illuministi, ognuna delle 50 voci è affidata ad un autore diverso, a scrittori e giornalisti che seguono il Santo Padre. Il Papa dei gesti, che sale in aereo con la valigia, che si muove su un’utilitaria, che vive a Santa Marta e festeggia gli 80 anni facendo colazione con 8 barboni di Roma, che vuole sacerdoti che ‘conoscono l’odore delle loro pecore’, cosa dice quando parla?
Per capire le sue parole, spiegano il rabbino Abraham Skorka e il pastore evangelico Marcelo Figueroa, bisogna entrare nella sua logica di dialogo, confronto, apertura, più che in un’ottica di indottrinamento ex cathedra. E’ il suo uno sforzo maieutico che non ha paura di sfidare le convenzioni e le tradizioni, che non guarda all’incasso immediato ma investe nel futuro e si spinge fino ai confini che può raggiungere l’erede di Pietro.
Confini che a qualcuno, anzi, sembrano già pericolosamente valicati, come dimostrano – per restare agli ultimi tempi – un altro libro molto interessante, quello di Aldo Maria Valli (266.Jorge Mario Bergoglio. Franciscus P.P Liberlibri, 2016) e la lettera dei cardinali Brandmueller, Burke, Caffarra e Meisner al Pontefice dopo la Amoris Laetitia e il sinodo sulla famiglia.
Dunque, il Papa al quale alcuni chiedono se è davvero cristiano, vuole, per dirla con l’arcivescovo di Manila Antonio Tegle “comunicare con tutti, senza esclusione”, “non spezzare mai la relazione e la comunicazione”, “generare una prossimità che si prenda cura” ( Il decalogo del buon comunicatore secondo Papa Francesco, Alessandro Gisotti, Elledici, 2016).

Sì, ma questo Papa che si concede ai selfie, che piace ai divorziati e ai gay, agli ambientalisti e perfino ai vegani, non riceve troppi applausi? Non è, da buon gesuita, troppo innamorato del mondo? Troppo poco rigoroso nel separare il Bene dal Male? Alla voce ‘Peccato’, Matteo Liut ci ricorda che per Francesco chi “ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità”. Per il Papa il peccato individuale introduce un elemento di degenerazione nella società. “Insomma – scrive Liut – la verità è un bene irrinunciabile che illumina e guida la realtà concreta”. Ma il punto è che per Papa Francesco una delle verità più importanti del Vangelo è che “Dio è più grande del peccato”. Questa è la bussola di Bergoglio anche nel governo della Chiesa che, spiega Andrea Tornelli alla voce ‘Chiesa’, “non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con la misericordia di Dio”. Un’altra parola del Vocabolario, ‘Carrierismo’, di Pierluigi Mele, svela come per Francesco l’egoismo e la degenerazione dell’ambizione nel conformismo e nell’opportunismo “camminano insieme alla malattia dell’indifferenza verso gli altri”. “I recenti scandali della Chiesa sono frutto di questa logica antievangelica”. Da qui la durezza di Francesco “contro i vescovi che vivono come faraoni” e che non testimoniano la diversità del Vangelo “in un mondo dove ciascuno si pensa come la misura del tutto” e “dove non c’è più spazio per il fratello”. Nell’era della comunicazione immediata globale, dei risultati a portata di click, dei capitali senza limiti d’azione e senza confini, Papa Francesco invita a diffidare delle scorciatoie. Anche nella Fede, con la trasformazione di Maria in “capoufficio delle Poste che invia messaggi tutti i giorni”. E’ la pazienza, spiega Enzo Romeo, “l’altra faccia della misericordia, anzi la base su cui poggia”.

Altre voci del Vocabolario aiutano nella comprensione della portata della svolta impressa dal Pontificato di Francesco. Che talvolta nei telegiornali, sui giornali, perfino su Twitter ormai, sembra flirtare con il mondo così secolarizzato, lontano dall’ideale evangelico, con il relativismo che abbraccia eutanasia, aborto, maternità surrogata. E’ Francesco il Papa di una Chiesa del ‘ma anche’ che rischia, sporcandosi con la storia quotidiana, di dimenticare la Storia, la missione senza tempo del suo messaggio evangelico necessariamente netto, deciso sui ‘valori irrinunciabili’ richiamati con maggior ortodossia teologica da Papa Benedetto secondo Giuliano Ferrara?
Non servirebbero, insomma, altre parole da un Papa?
Francesco, ricorda alla voce ‘Umanesimo’ Chiara Giaccardi, continua a guardare al volto di Gesù. “Perché quello che Gesù ci mostra è un Dio ‘svuotato’: ‘Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda…Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto”. (Paolo Cappelli)

IL VOCABOLARIO DI PAPA FRANCESCO – 2

Parole profetiche per il nostro tempo

A cura di Antonio Carriero

Presentazione di Greg Burke

Prefazione di Mons. Nunzio Galantino

Postfazione di Mons. Domenico Pompili

(Editrice Elledici – Pagine 350 – € 9,90)

La Cyber-war Usa-Russia è la nuova “guerra fredda”. Intervista ad Antonino Caffo

Se non è la prima cyber-guerra mondiale poco ci manca. Dopo l’espulsione di 35 diplomatici russi (e relativi famigliari) da parte di Obama, le tensioni tra USA e Russia aumentano vertiginosamente. Per la prima volta la partita tra le due superpotenze si sta giocando prettamente a livello digitale: nessuna città da conquistare, nemmeno un carro armato puntato sul nemico; il campo di battaglia è quello di server e infrastrutture connesse che, se violate, possono fare più male di quanto si pensi.

La storia è questa: Obama ha tutte le prove per ammettere come il Federal Security Service of the Russian Federation (FSB) alimenta le azioni di “Cozy Bear”, un gruppo di hacker conosciuto per diverse bravate e molto attivo nel cercare di violare i computer del comitato elettorale dei democratici USA nel 2015. Democratic National Committee (DNC) che è effettivamente caduto sotto i colpi di un altro team di smanettoni, i “Fancy Bear”, dietro i quali ci sarebbe un ulteriore organo di Mosca, il GRU, ovvero il “Main Intelligence Directorate”.

Insomma, il burattinaio Putin muoverebbe questi e altre squadre di cyber-militari, con lo scopo di pilotare e influenzare non solo la politica statunitense ma quella di tanti altri paesi esteri. Il motivo? Posizionare sulle poltrone della politica personaggi vicini all’idea di governo del Cremlino, per creare un filo conduttore globale. La prima mossa? Già compiuta: far eleggere Donald Trump. Ma come è stato possibile? Abbiamo posto qualche domanda ad Antonino Caffo, giornalista esperto di nuove tecnologie e sicurezza informatica.

Caffo, come è possibile pilotare il voto di milioni di persone della nazione più potente al mondo?

Bisognerebbe chiarire un particolare: gli hacker russi, o chi per essi, non hanno cambiato le preferenze di voto espresse dagli americani. Le elezioni presidenziali USA non si fondano su un sistema connesso a internet (come ad esempio quello estone) e probabilmente rimarrà così ancora per molto, vista la paura di interferenze dall’esterno. L’influenza russa sull’elezione di Trump è dunque indiretta, cioè ha puntato sul rubare informazioni al partito avversario da sfruttare per infangare la corsa degli opponenti, fino a spingere i cittadini a votare il meno peggio. La stessa diffusione delle email scambiate dalla Clinton tramite un server privato, negli anni in cui ricopriva il ruolo di segretario di Stato, è avvenuta per mezzo di WikiLeaks ma, ed è oggetto di verifica attualmente, grazie all’operato di Fancy Bear e dunque di Mosca. Agire in questo modo può portare a risultati molto più stabili sul lungo periodo piuttosto che intervenire, se mai fosse stato possibile, esplicitamente sul voto.

Di cosa sono accusati i diplomatici espulsi da Obama?

La denuncia è quella di aver lavorato, dall’interno dei loro uffici statunitensi, come spie a supporto del paese di origine. In pratica, i 35 diplomatici sono accusati di essere insider del governo, per raccogliere informazioni sugli obiettivi, semplificare le procedure di violazione e coordinare le operazioni di addestramento degli hacker. Non a caso, a corredo della decisione di Obama, sono stati chiusi due centri di proprietà del governo russo a New York e nel Maryland, secondo Washington usati come basi di comando e monitoraggio e connesse all’ “Autonomous Non- Commercial Organization Professional Association of Designer of Data Processing Systems”, una sorta di palestra messa in piedi dai funzionari per tirar su novelli hacker.

Dunque l’attacco informatico è l’arma letale della nuova guerra fredda? Può colpire infrastrutture strategiche?

Si assolutamente. Gli ultimi anni hanno evidenziato una debolezza informatica imbarazzante di strutture e centrali che offrono servizi primari a migliaia di nuclei famigliari localmente. Pensiamo a quanto successo il 24 dicembre 2015 in Ucraina, dove il malware “Black Energy” ha messo al tappeto una centrale elettrica, oppure a qualche giorno fa, quando gli stessi hacker russi si sono intrufolati in una rete energetica del Vermont. Ma gli esempi sono tanti: dalla manomissione della rete metropolitana di San Francisco ai disagi avvenuti all’aeroporto di Varsavia. Di mezzo ci sono sempre gli hacker, spesso manipolati da interi governi che li sostengono economicamente. Gli USA non sono solo vittime: il primo virus governativo della storia, Stuxnet, è stato sviluppato proprio da esperti statunitensi in collaborazione con i colleghi di Israele, con lo scopo di spiare la centrale di arricchimento di uranio di Natanz, in Iran.

Quali sono stati, durante il 2016, i più clamorosi attacchi informatici? L’Italia ne ha subito qualcuno?

Ricordiamo il DDoS ai danni di DYN, azienda che gestisce gli indirizzi DNS di numerose piattaforme globali, come Twitter e PayPal. A seguito dell’attacco siti e applicazioni, tra cui anche Netflix, Airbnb, Reddit, SoundCloud, sono diventate irraggiungibili per diverse ore, con danni economici mica da ridere. Ma anche la scoperta delle violazioni subite nel 2013 e 2014 da Yahoo (diffuse solo nel 2016) e il furto di 81 milioni di dollari dalla banca centrale del Bangladesh. A fine novembre, il sito di Equitalia ha subito un attacco hacker che ha causato disservizi prolungati senza evidenti conseguenze per gli utenti registrati. La sensazione è che la politica italiana non sia depositaria di quei segreti in grado di sconvolgere gli equilibri internazionali ma questo non vuol dire essere la sicuro. La cyberwar dimostra che ogni cittadino della rete è un ipotetico bersaglio da colpire, utile per destabilizzare l’obiettivo di turno.

“L’Italia ha ancora bisogno del riformismo di Renzi”. Intervista a Giorgio Tonini

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Foto (Roberto Monaldo/LaPresse)

Sono giorni di grande fibrillazione per il PD. Dopo la sconfitta del 4 dicembre, la nascita del governo di “responsabilità” presieduto da Gentiloni , il Partito democratico si avvia verso una stagione congressuale assai complicata.  Oggi dal palco della convention “Italia prima di tutto” Roberto Speranza, uno dei leader della minoranza bersaniana, ha lanciato la sua candidatura, alternativa a quella di Renzi, alla segreteria del PD. Domani, sempre a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale del PD. In quell’occasione Matteo Renzi farà la sua proposta per lo svolgimento del Congresso. Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con il senatore Giorgio Tonini, Presidente della Commissione Bilancio del Senato ed esponente della maggioranza renziana.

Senatore Tonini, partiamo ancora dal Referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Qual è stato l’errore fatale, oltre alla personalizzazione, che ha commesso Matteo Renzi? 

A me pare che il risultato del Referendum abbia messo in evidenza due limiti della nostra strategia politica. Per un verso, l’isolamento: eravamo partiti, dopo la rielezione di Napolitano, con uno schieramento politico-parlamentare che superava il 70 per cento, al punto che, durante il governo Letta, ci si era posti il problema di come tenere comunque il Referendum confermativo, anche nell’ipotesi, data quasi per certa, di superare il quorum dei due terzi, previsto dall’articolo 138. Quell’ipotesi è tuttavia tramontata molto rapidamente. Già nel periodo lettiano, abbiamo assistito all’immediato formarsi di un fronte contro la riforma, costituito dalla sinistra a sinistra del Pd e dal Movimento Cinquestelle, con l’appoggio dell’area intellettuale guidata da Rodotà e Zagrebelsky e da quella sociale che si andava organizzando attorno alla Cgil e in particolare alla Fiom di Landini. Ma nel giro di pochi mesi, abbiamo dovuto assistere anche al rapido riposizionamento della Lega e poi dello stesso Berlusconi, uscito dalla maggioranza di governo dopo il voto del 27 novembre 2013 sulla sua decadenza da senatore, per effetto della condanna definitiva per frode fiscale. Con un’abile manovra parlamentare, Letta era riuscito ad evitare la crisi del suo governo, grazie alla scissione di Alfano e alla nascita di Ncd, ma non quella della larga maggioranza per le riforme, che di fatto, alla fine del 2013, erano tornate nell’affollato archivio dei progetti impossibili. Fu Matteo Renzi, che nel frattempo aveva conquistato la leadership del Pd con le primarie dell’8 dicembre, che provò e in effetti riuscì a ricomporre la frattura con Berlusconi, grazie al Patto del Nazareno, stipulato il 18 gennaio 2014. Ma anche quel patto venne disdettato da Berlusconi, dopo l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, il 3 febbraio 2015. Dico “dopo” e non “a causa” dell’elezione di Mattarella, perché ho sempre pensato che quello sia stato in larga misura un “casus belli”, utilizzato da Berlusconi per sottrarsi a un abbraccio, quello con Renzi, che stava diventando elettoralmente e politicamente soffocante. La morale di questa storia è a mio avviso chiara: in Italia è difficile, per non dire impossibile, fare riforme a larga maggioranza, perché le riforme richiedono tempi lunghi, mentre le larghe intese, nel nostro paese, a causa della debolezza dei partiti, hanno sempre e inevitabilmente vita breve. Francamente non saprei cosa rimproverare a Renzi su questo versante. Anche lui si è dimostrato abile nella tattica parlamentare e infatti la riforma è arrivata in porto con una larga maggioranza assoluta, anche se lontana dai due terzi. Ma poi, al referendum, ci siamo ritrovati soli, come la Francia di Napoleone contro la Santa Alleanza. Abbiamo aggregato attorno a noi più di 13 milioni di voti, gli stessi che aveva raccolto Veltroni nel 2008: tanti, tantissimi, ma del tutto insufficienti per vincere. 

Parlava di due limiti della strategia riformista di Renzi e del Pd. Qual è stato il secondo?

L’ennesima riproposizione del “riformismo dall’alto”, del riformismo “senza popolo”. Mi spiego meglio. Il risultato del Referendum, letto in chiave solo politica, ci consegna un’immagine apparentemente semplice, quasi scontata: un Pd rimasto solo coi suoi piccoli alleati di governo, che si ferma ad un perfino lusinghiero 40 per cento, contro tutti gli altri, che alla fine  mettono insieme “solo” il 60. Ma se guardiamo la composizione sociale, demografica e geografica del voto, quell’immagine si complica e di molto, perché il Sì prevale nelle aree forti del paese, quelle che guardano al futuro con un certo grado di fiducia e di speranza, mentre il No dilaga in quelle più deboli e sofferenti, tra le quali dominano la paura e la rabbia. Non credo che in questa frattura il contenuto della riforma abbia pesato, se non in minima parte: difficile credere che la differenza tra l’affermazione del Sì a Milano e il trionfo del No in Sicilia e Sardegna sia stata prodotta da come era scritto il nuovo articolo 70, dalla composizione del nuovo Senato, o dal “combinato disposto” con l’Italicum. La spiegazione di tale divario non può che essere molto più radicale e per noi ancor più dolorosa: se la parte più debole e dolente del paese ha votato No, è perché ha voluto bocciare il governo e la sua politica di riforme, istituzionali ma anche economiche e sociali. Ciò significa che il nostro riformismo non è riuscito a conquistare la fiducia del popolo e in particolare della parte di esso che, dal nostro punto di vista, più avrebbe dovuto beneficiare delle riforme: i giovani precari, i disoccupati, i meno garantiti in generale. E invece, abbiamo dovuto assistere al paradosso dei mandarini del Senato o del Cnel, “salvati” dai disoccupati del Sulcis. Come i Borboni difesi dai contadini di Sapri, che massacrarono i trecento, giovani e forti, reclutati da Carlo Pisacane. L’alleanza tra le plebi disperate e i conservatori, contro i riformisti, è un classico della storia d’Italia. Renzi ha sempre detto, giustamente, che la comunicazione è l’essenza della politica, che una buona politica non comunicata bene, semplicemente non è politica. E che contrapporre riforme e consenso è un non senso. Eravamo dunque consapevoli e avvertiti del rischio che correvamo, del riproporsi della frattura manzoniana tra buon senso e senso comune. Ma non siamo riusciti ad evitarlo. Da qui dobbiamo ripartire: dalla ricostruzione di un’alleanza riformista tra merito e bisogni, tra la maggioranza dei milanesi che ha condiviso la riforma, insieme ai nostri “cervelli in fuga” all’estero, e quella dei siciliani che, insieme alla generazione perduta dei 25-40enni condannati a una vita da precari, ha usato il No per esprimere la sua protesta e la sua rabbia. 

Giuseppe De Rita, tempo fa, parlava della visione morotea e andreottiana della politica. quella morotea era la politica come visione, quella andreottiana era la politica della somiglianza agli elettori. Su quale delle due si è mosso Renzi?

In effetti De Rita, in un’intervista molto interessante rilasciata qualche mese fa alla rivista “Pandora”, ha ricordato il dibattito che si aprì negli anni ’70, all’interno della Democrazia Cristiana, tra la visione “riformista” di Moro, secondo la quale la politica deve orientare i processi sociali, accompagnarli verso un fine, dare loro un orientamento, una direzione, e quella “realista” di Andreotti, per il quale compito della politica non è quello di orientare la società, ma solo di rassomigliarle, perché solo rassomigliandole si prendono i voti. Renzi, per carattere e per modo di fare politica, non è un “moroteo”, semmai un “fanfaniano”, non privo di tratti “andreottiani”, a cominciare dalla netta preferenza per il governo rispetto al partito. Ma se vogliamo utilizzare lo schema di De Rita, la battaglia di Renzi e del Pd per le riforme si è certamente ispirata alla ambiziosa e impegnativa visione di Moro ed è andata ad impattare contro l’eterno muro di gomma della cultura dell’adattamento, per decenni impersonata in Italia da Giulio Andreotti.

La valanga di No che ha sommerso la Riforma Boschi, come si sa, è stata, per molteplici fattori, un No a Matteo Renzi. La sensazione, che si percepisce nel Paese, è che Renzi e il “renzismo” siano da archiviare.  E’ sbagliata, secondo lei, questa affermazione?

Matteo Renzi è un grande combattente. La sconfitta lo ha certamente indebolito, ma la notizia della sua morte politica, avrebbe detto Mark Twain, “è fortemente esagerata”. Quanto al “renzismo”, non saprei dire esattamente cosa sia, se non la (ennesima) declinazione originale, proposta da un leader riformista, del riformismo stesso. L’Italia non ha mai conosciuto, in 70 anni di storia repubblicana, un ciclo riformista degno di questo nome. Ha conosciuto solo brevi stagioni riformiste: gli anni di De Gasperi e Vanoni, il primo centro-sinistra, alcuni aspetti della stagione della solidarietà nazionale o del governo Craxi, il primo governo Prodi e certamente il governo Renzi. Tutti tentativi bruscamente e talvolta brutalmente interrotti. Di solito dal comparire sulla scena della Santa Alleanza tra massimalisti e conservatori. Le conseguenze di questa triste anomalia italiana sono sotto gli occhi di tutti: siamo il paese col più alto debito pubblico, la crescita più bassa e la diseguaglianza più accentuata. Ma i nemici del riformismo non hanno una proposta per il paese, hanno solo il peso della loro forza, di solito messa al servizio della pura conservazione dell’esistente. Quando nei prossimi mesi questo vuoto di proposta emergerà in tutta la sua chiarezza, per le ragioni dei riformisti si aprirà una nuova finestra di opportunità. E Renzi ha ottime possibilità di essere ancora lui il leader riformista del quale il paese ha bisogno. A condizione, naturalmente, che sappia imparare e maturare dalla sconfitta.

Antonio Polito, sul “Corriere della Sera”, ha scritto che il Referendum ha segnato la fine della II Repubblica (quella basata sul maggioritario, sul leaderismo, sulla ipercomunicazione televisiva) e qualcuno palesa il ritorno alla I repubblica, ovviamente senza i giganti che l’hanno fondata. Come se ne esce Senatore?

La tesi di Polito è suggestiva, ma non del tutto convincente. Peraltro contraddice la previsione, da lui e da altri formulata durante la campagna referendaria, che poco o nulla sarebbe cambiato con la vittoria del No. La democrazia è in affanno in tutto il mondo, ma resta, oggi come ai tempi di Churchill, “il peggiore dei regimi, esclusi tutti gli altri”. E la democrazia, per funzionare, ha bisogno di alcune, semplici condizioni: stabilità di governo, pochi e grandi partiti, competizione per la leadership, contropoteri indipendenti, società pluralista. Si può dire, certamente, che la cosiddetta II Repubblica abbia fallito l’obiettivo di darci una “democrazia compiuta”. Ma non si può dire che non ci resta che rassegnarci a quella che, sempre Moro, chiamava la “democrazia difficile”. Certo, il fallimento della II Repubblica e quello del tentativo di uscirne in avanti, con la creazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria, e una riforma che rimodellasse il sistema politico in questa direzione, ripropongono una stagione di governi deboli, di frammentazione della rappresentanza e di complessiva instabilità e precarietà. Ma questa prospettiva è l’esatto contrario di quel ciclo riformista che l’Italia non ha mai conosciuto e del quale avrebbe un disperato bisogno. Proprio per questo il No è una non risposta, che lascia intatti i problemi storici del paese. E la necessità di affrontarli.

Riuscirà il PD a tenere fermo il principio maggioritario? E se dovesse prevalere in Parlamento una legge proporzionale le ragioni profonde e organizzative del PD cambierebbero?

Per completare la transizione dalla democrazia proporzionale a quella maggioritaria era indispensabile la riforma del bicameralismo. Con due Camere entrambe dotate del potere di fiducia e un sistema politico multipolare, tenere fermo il principio maggioritario è molto difficile. Bisognerà cercare almeno di limitare il danno. Una via potrebbe essere il ripristino del Mattarellum: una via che la Corte costituzionale non ha voluto seguire, quando ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge Calderoli, preferendo correggerla in senso proporzionale. Vedremo se la sentenza sull’Italicum andrà nella stessa direzione. Certo è che se il “combinato disposto” tra bocciatura della riforma costituzionale e controriforma elettorale ci riconsegnerà nelle mani della politica proporzionalistica, sarà difficile fermare un movimento dal basso di segno presidenzialista. Non sottovaluterei il movimento in atto di protesta contro “l’ennesimo governo non deciso dagli elettori”. È vero che si tratta di una sgrammaticatura costituzionale, tanto più grottesca in quanto alimentata da forze che si sono opposte ad una riforma che aveva come principale obiettivo proprio la legittimazione popolare dei governi, attraverso la elezione, con un sistema maggioritario, di una sola Camera politica. Ma quando milioni di italiani si renderanno conto del paradosso e dell’inganno, la spinta popolare contro il parlamento e verso il presidenzialismo potrebbe farsi inarrestabile. La destra politica potrebbe in tal modo ritrovare una sua bandiera e un’occasione di riscossa. Questa è la vera “mucca nel corridoio” che Bersani farebbe bene a vedere. Altro che deriva autoritaria del “combinato disposto” tra riforma Boschi e Italicum…

Parliamo del governo. Governo di responsabilità per fare fronte alle emergenze (Europa, economia, terremoto. ecc). Non era il caso di cambiare la compagine governativa? La gente avrebbe compreso di più…

Inutile nascondersi dietro un dito: con la sconfitta della riforma, la legislatura è politicamente finita. Come ha giustamente affermato il presidente Mattarella, si tratta di portarla a conclusione in modo ordinato, salvando dalle macerie della riforma abbattuta dal Referendum, almeno una legge elettorale condivisa, possibilmente funzionale a garantire il massimo di stabilità possibile. Per fare questo lavoro c’è bisogno di qualche mese e dunque di un governo nella pienezza delle sue funzioni. Il Pd aveva proposto un governo istituzionale sostenuto da tutti i gruppi parlamentari. Le opposizioni hanno bocciato questa ipotesi dischiarandosi non disponibili. Non è restata dunque altra via possibile, che quella di un governo che garantisse al tempo stesso la discontinuità politica, espressa al massimo livello dal passo indietro di Renzi, e la continuità amministrativa, con la conferma della maggior parte dei ministri, tanto più opportuna nella prospettiva di una durata circoscritta a qualche mese. Il Pd si è fatto carico di questa responsabilità, assai probabilmente impopolare. Chiedere di andare subito al voto e al contempo lamentare la mancata svolta nella compagine governativa, come hanno fatto molte forze di opposizione, è talmente contraddittorio da risultare ridicolo.

Come si concilia la “responsabilità”  governativa con l’esigenza della rivincita di Renzi?

Il problema non è la rivincita di Renzi, ma la delegittimazione di questo Parlamento. Non possiamo barricarci nel bunker. Se non vogliamo essere travolti, non dobbiamo avere né mostrare paura del voto. Lo spazio della “responsabilità” sta nell’aver accolto l’invito del Presidente della Repubblica a formare un nuovo governo, nella pienezza delle sue funzioni, per il tempo necessario ad approvare una riforma elettorale coerente con i dettami della Consulta. Se si pensasse di andare oltre, almeno in questo contesto politico, significherebbe capovolgere la responsabilità nel suo contrario.

Intanto all’orizzonte si profila un referendum abrogativo proposto dalla  Cgil sul Jobs Act. L’infelice battuta del ministro Poletti non aiuta certo il PD. Quali iniziative pensate di mettere in campo per superare l’ostacolo? Sarà possibile trovare una soluzione ragionevole?

Se dopo la riforma costituzionale dovesse essere abbattuto a furor di popolo anche il Jobs Act, vorrebbe dire che l’Italia non solo è la grande malata d’Europa, ma a differenza della Germania dei primi anni duemila, è un malato che rifiuta di curarsi. Riforma previdenziale, riforma costituzionale e riforma del mercato del lavoro hanno rappresentato in questi anni le credenziali con le quali l’Italia si è ripresentata sulla scena europea e internazionale ed ha conquistato una rinnovata credibilità. Senza quelle riforme e quella credibilità, Mario Draghi non avrebbe potuto varare il programma di politica monetaria espansiva che ha sostenuto quel po’ di crescita e di ripresa occupazionale che abbiamo avuto in questi ultimi anni e la crisi dell’Euro sarebbe diventata ingovernabile. Senza quelle riforme e quella credibilità, l’Italia non avrebbe potuto presentarsi come alfiere di una possibile “terza via”, tra la versione più radicale dell’austerità, propugnata dai falchi della Bundesbank, e la sterilità autolesionistica della protesta populista, inutilmente applaudita ad Atene come a Madrid. La credibilità dell’Italia e della sua terza via è stata già pesantemente indebolita dall’esito del Referendum e dalle conseguenti dimissioni di Renzi. Manca solo la bocciatura popolare del Jobs Act per completare il capolavoro. Questo non significa che il Jobs Act vada considerato immodificabile. Un tagliando per verificare cosa abbia funzionato e cosa invece vada messo a punto, è non solo possibile, ma anche opportuno. Soprattutto, andrebbe attuata la parte, in gran parte finora rimasta sulla carta, che riguarda le politiche attive del lavoro, a cominciare dai centri per l’impiego e dai contratti di ricollocamento. Ma il Referendum proposto dalla Cgil sembra ignorare tutto questo e ispirarsi alla linea massimalista di Bertinotti di estensione generalizzata dell’articolo 18, culminata nel Referendum malamente perduto nel 2003. La Cgil deve decidere se seguire questa strada, contraddittoria con la sua grande storia, o se invece dare seguito alle positive pagine scritte con l’accordo sulle pensioni, recepito dalla legge di Bilancio, e con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, che è parso annunciare una nuova stagione, unitaria sul piano sindacale e innovativa nelle relazioni industriali italiane.

Oggi la minoranza bersaniana ha lanciato la candidatura di Roberto Speranza alla segreteria, e domani, a Roma, si svolgerà l’Assemblea Nazionale deciderà sul prossimo Congresso. Un congresso che Renzi vuole che sia rapido. Non trova che sia un altro clamoroso errore questo di Renzi? Il partito è a pezzi Senatore…

Forse non è a pezzi, ma certamente il Pd, l’unico vero partito italiano, è in affanno. Un Congresso vero è dunque necessario e urgente. Per ridare al partito una linea politica, una leadership legittimata e anche una forma organizzativa pensata e strutturata in modo innovativo. In questo caso, fare bene e fare presto sono due facce della stessa medaglia. Prendere tempo non significherebbe infatti approfondire la riflessione, ma abbandonarsi al gioco suicida delle correnti. E far mancare al paese l’ultimo appiglio a cui aggrapparsi per non finire nella riedizione della I Repubblica. E come è noto quando una pagina grande e tragica si ripete, di solito assume le sembianze della farsa. Stavolta sarebbe anche una farsa con ben poco da ridere.

“La speranza è un sogno fatto da svegli”. Un testo di Pierre Carniti in occasione dei suoi 80 anni.


pierre-carnitiPubblichiamo il testo dell’intervento di Pierre Carniti all’Auditorium Antonianum, lo storico leader della Cisl negli anni ’70 e ’80 ed uno dei grandi padri del movimento sindacale italiano, , durante la Festa, a Roma, che la CISL ha voluto organizzare per festeggiare i suoi 80 anni.

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Ospiti, tra gli altri, sono stati il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ex premier Romano Prodi, Raffaele Morese, ex Segretario Generale aggiunto della Cisl e Annamaria Furlan, Segretaria Generale della Cisl. L’ incontro
è stato anche l’occasione per presentare il volume “Pensiero, azione, autonomia” (Edizioni Lavoro), una raccolta di saggi e testimonianze sull’azione sindacale di Pierre Carniti.

Consentitemi una brevissima premessa. Quando pochi giorni fa Raffaele Morese mi ha comunicato che gli serviva il testo scritto del mio intervento per oggi, richiesta del tutto inconsueta, per un momento mi è balenato il sospetto che la formula canonica utilizzata secoli fa dal censore ecclesiastico per le pubblicazioni a stampa ammesse “Nihil obstat quominus imprimatur” (nulla osta a che sia stampato) fosse stata fatta propria da un oscuro censore laico per gli interventi orali: “nulla osta che sia pronunciato”. Mi sono però subito reso conto che la spiegazione era assai più semplice. Persino banale. Poiché questa riunione ha una durata limitata, gli organizzatori volevano essere certi che non avrei sforato il tempo che mi è stato assegnato.

Venendo al dunque, voglio innanzi tutto ringraziare i tanti che, al di là dei miei indiscutibili limiti, hanno voluto benevolmente manifestarmi, in tutti gli ultimi anni ed anche in occasione di questo incontro, perduranti legami di simpatia ed amicizia. Tuttavia, come dice il proverbio latino: “amicus Plato, sed magis amica veritas”, non posso esimermi dal confermare i “dubbi”, le “perplessità” espresse a Raffaele Morese e Mario Colombo, quando mi hanno informato del loro progetto. Le ragioni delle mie obiezioni erano e restano semplici. Come sappiamo tutti nella pubblicistica dedicata esistono due tipi di scritti. Il primo “in memoria di” per celebrare personaggi defunti più o meno celebri, il secondo in “onore di”, di norma riservati a professori universitari che hanno concluso meritevolmente la loro attività accademica. A parte ogni altra considerazione, voglio sperare che sia prematuro inserirmi nella prima tipologia. Mentre per la seconda è del tutto evidente che non ne ho i requisiti.

Conoscendo le mie obiezioni il bravissimo Paolo Feltrin, con un espediente narrativo, ha trasformato il “suo” scritto in una “mia” auto-commemorazione. Per farla brave, voglio però dire che questo modesto contenzioso, non intacca certo i rapporti di forte amicizia. Del resto la vera amicizia non presuppone affatto la condivisione acritica di tutti i giudizi, di tutte le rispettive opinioni. Resta il fatto che pure questo piccolo diverbio costituisce una conferma della mia diffidenza verso la vulgata popolare, secondo la quale la vecchiaia porta saggezza. Personalmente, resto invece convinto che non è vero che quanto più si invecchia tanto più si diventa saggi. Semplicemente si è meno ascoltati. Del resto lo si osserva anche nel rapporto tra le generazioni. Non fosse altro perché assai spesso i vecchi si ripetono ed i giovani non ascoltano. Risultato: la noia è reciproca.

Venendo al tema che è stato proposto per questo nostro incontro cioè il “lavoro per tutti”, vale a dire l’obiettivo della piena occupazione, dico subito che malgrado al futuro si dovrebbe sempre guardare con ottimismo, per quanto riguarda il lavoro l’Italia sembra sfuggire a questa regola. Il “lavoro per tutti” non c’è ed, allo stato, non esistono realistiche prospettive che la situazione possa cambiare significativamente. Quanto meno nel breve, medio periodo. Intanto perché la crescita annua dello zero virgola (o anche dell’uno per cento) non può risolvere il problema. In quanto non è in grado nemmeno di compensare i posti di lavoro che si perdono per l’effetto del sempre maggiore impiego dell’informatica, della robotica, dell’automazione. Non solo nel settore manifatturiero, ma anche in quello dei servizi. A questa situazione non si riesce certo a porre rimedio con interventi, tanto enfatizzati quanto ininfluenti, della normativa relativa al mercato del lavoro. In quanto, per ben che vada, al massimo sono dei semplici placebo. Aggiungo che ci sono tre cose alle quali non ho mai creduto nella mia vita: gli oroscopi, i pronostici e le interpretazioni statistiche. A quest’ultimo proposito il leader conservatore inglese Benjamin Disraeli sosteneva che ci sono tre tipi di menzogne che non era disposto a sopportare: le bugie, le bugie gravi e le interpretazioni statistiche. Difficile dargli torto, se solo pensiamo al vociante dibattito mediatico che ha accompagnato la pubblicazione mensile e trimestrale dei dati Istat su occupazione e disoccupazione.

In ogni caso, il punto da tenere ben presente è che la disoccupazione dilagante con cui siamo alle prese è la somma di diversi fattori. In primo luogo, una globalizzazione finanziaria sregolata che, pur avendo consentito anche qualche risultato positivo, ad esempio per alcune centinaia di milioni di persone (soprattutto in India ed in Cina) di uscire da una condizione di povertà assoluta, ha tuttavia contemporaneamente prodotto ed assecondato un parallelo aumento di diseguaglianze intollerabili. Sia a livello mondiale, sia soprattutto nei paesi occidentali (in Italia in particolare). Il tutto caratterizzato da una contestuale svalutazione dei diritti e del costo del lavoro, assunti nella maggior parte dei casi, come il terreno fondamentale, se non esclusivo, della competizione commerciale. Inoltre, sul piano economico hanno pesato tanto le politiche deflazionistiche, quanto i limiti di investimenti pubblici e privati sempre più asfittici. Per fare buon peso, negli ultimi anni si è teorizzato e praticato la disintermediazione dei gruppi intermedi. Si è insomma sostenuto che, nella attuale fase economica e sociale, si poteva ormai fare a meno della mediazione delle grandi organizzazioni del lavoro e della contrattazione. il risultato è sotto i nostri occhi. Credo però sia giusto fare anche notare, sperando che non si tratti di fuochi di paglia, qualche positivo segnale di inversione di tendenza negli orientamenti culturali e pratici delle controparti, sia private che pubbliche. Considero un indizio di questo ravvedimento culturale la recente firma del contratto per un milione e seicentomila metalmeccanici e per tre milioni e trecentomila statali.

Tuttavia, per quelle che ho sommariamente richiamato e per tante altre ragioni che potrebbero essere aggiunte, il lavoro, la disoccupazione siano da assumere come il problema cruciale economico e sociale del nostro tempo. Non solo per i milioni di persone coinvolte, ma per quasi tutte le famiglie. Perché più o meno in ogni famiglia c’è uno o più componenti che temono di perdere il lavoro, o lo hanno perso e non riescono più a trovarlo. A cui si somma la condizione sempre più disperante per il futuro dei figli. Costantemente in balia di una dilagante disoccupazione giovanile, che ha superato ogni soglia di tollerabilità. Intendiamoci. Essere disoccupati oggi, malgrado la povertà assoluta tenda continuamente ad aumentare, non significa necessariamente non fare nulla, o morire di fame. Come capitava alla generazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Ma significa sempre essere esclusi. Perché. anche se molte cose relative al lavoro sono cambiate, basti pensare: all’organizzazione del lavoro, alla cultura del lavoro, al rapporto tra le persone ed il lavoro. Tuttavia, malgrado le continue trasformazioni, il lavoro resta un fattore decisivo di appartenenza, di identità individuale, familiare, sociale. Infatti in questa società sempre più individualista, disincantata ed indifferente, continuiamo ad essere anche in rapporto a ciò che facciamo. Al punto che la prima domanda che le persone si scambiano per riconoscersi è: “che fai?”. A conferma di quanto il lavoro continui ad essere un elemento imprescindibile di identificazione, di riconoscimento personale, familiare, sociale. Quindi non ci si può, e non ci si dovrebbe rassegnare al dramma di milioni di persone che ne sono deprivate.

Poiché, allo stato, ci troviamo alle prese con una situazione intollerabile cosa si può fare per eliminare, o quanto meno ridurre significativamente, questa grave tracimazione di sofferenza umana? A questo fine, ci sono compiti che spettano ovviamente alla politica. In primo luogo l’adozione di appropriaste misure economiche. A cominciare da investimenti pubblici destinati alla tutela della salute per tutti, alla scuola, ad un più efficiente funzionamento degli strumenti per l’avvio al lavoro, compresa la formazione continua, alla messa in sicurezza del territorio e delle persone. Tutte misure che, assieme ad altre, possono contribuire alla ripresa economica e dunque anche all’aumento dell’occupazione. Si tratta di interventi sicuramente importanti, ma che non bastano se si intende davvero assumere l’obiettivo del “lavoro per tutti”. Bisogna infatti fare i conti con il punto decisivo non offuscabile con discorsi blablatici. E il punto è che, allo stato, non c’e abbastanza lavoro per tutti. Per tutti coloro che vorrebbero lavorare. Perciò l’unico modo per affrontare concretamente il problema è quello di ridurre gli orari e ripartire diversamente il lavoro disponibile. I modi per conseguire questo risultato sono teoricamente innumerevoli. Ma essendo rispettoso dell’autonomia sindacale, non mi permetto di entrare nel merito. Nemmeno con semplici suggerimenti. Intendendo con questa condotta mantenermi fedele ad un comportamento al quale, negli ultimi trent’anni, ho sempre cercato di ispirarmi. Non a caso che, pur essendomi sempre interessato delle questioni generali relative al lavoro (“semel” sindacalista, “semper” sindacalista) mi sono contemporaneamente astenuto dall’esprimere qualsiasi giudizio tanto sulla appropriatezza, o sulla congruità delle piattaforme elaborate, come sugli accordi stipulati,

Non è un caso, del resto, che pur essendo stato proclamato dal congresso confederale dell’85 membro a vita del consiglio generale (come qualcuno tra i più anziani probabilmente ricorderà), non abbia mai partecipato ad alcuna riunione di questo importante organismo di indirizzo strategico. La ragione che mi ha condizionato è molto semplice. Non so se sia ancora in vigore, o se sia stata riformata, oppure se nel frattempo sia caduta in disuso, ma c’era una norma nel diritto canonico la quale prescriveva che quando un parroco lasciava una parrocchia non poteva più ritornare. Neanche per confessare. Norma che credo farebbe bene se fosse estesa anche alle grandi organizzazioni collettive, sociali e politiche. In ogni caso. Intanto, almeno per quel che mi riguarda, ho ritenuto comunque opportuno di uniformarmi.

Per concludere, consentitemi qualche rapida considerazione. Gli ultimi due decenni per i diritti ed il trattamento del lavoro e per le organizzazioni di rappresentanza del lavoro è stato un lunghissimo, interminabile periodo di nuvole basse. Per tornare a vedere il sole occorre innanzi tutto impegnarsi con efficacia e determinazione ad unificare il mondo del lavoro. Normativamente tra pubblico e privato e per includere i milioni di persone ricattate con l’imposizione di contratti atipici che sono, di fatto, esclusi dalla contrattazione e dal riconoscimento di diritti essenziali. Compreso il riconoscimento della dignità del lavoro. Naturalmente la prima condizione per ricomporre il mondo del lavoro è che, a sua volta, il sindacalismo confederale non si presenti frantumato. In sostanza si dimostri capace di combattere la tendenza a trasformare divergenze occasionali, per quanto forti, o supposte tali, in contrapposizioni permanenti. Che determinano solo impotenza e paralisi. Si può senz’altro convenire che nel compito che sta di fronte al sindacalismo confederale non c’è niente di facile, ma ci si deve tutti convincere che non c’è neanche niente di impossibile. Il segreto consiste nel non trasformare mai i motivi di preoccupazione in ragioni di pessimismo.

Finisco con due versi noti a molti, di John Donne (famoso poeta inglese del ‘500) il quale descrive con espressioni commosse, che non andrebbero ignorate, il valore dei rapporti tra individuo ed individuo. Sostenendo che ciascuno vale solo in quanto parte del tutto. Dice infatti Donne: “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto. …… E dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Suona per te.”

Ai versi di Donne voglio aggiungere due righe di commento contenute nel bel libro (“Il futuro è nel nostro passato”) in cui, proseguendo sulle orme degli “Adagia” di Erasmo, la nostra amica Fiorella Casucci Camerini interpreta frammenti di saggezza greca e latina per auspicare un nuovo umanesimo. Queste le sue parole: “E oggi in questi nuovi tempi di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà, di fraternità e di unione, pena la dissoluzione della comunità”.

Per scongiurare i rischi gravi del tempo che ci è dato di vivere è quindi necessario ricostruire con tenacia, determinazione, impegno costante la speranza in un possibile futuro migliore. Cominciando con il dare riposte concrete alla questione decisiva del “lavoro per tutti”. Senza farci intimorire, bloccare, fuorviare, dalle critiche, dalle obiezioni delle élite del potere economico finanziario. Che, negli ultimi anni. ha costretto la comunità a sopportare durissimi costi umani e sociali.

Credo che si possa finalmente invertire la tendenza. Ma occorre svegliarci. Sia perché non c’è più tempo da perdere. Ma soprattutto perché, come diceva Aristotile, “La speranza è un sogno fatto da svegli”

Intervento al Convegno CISL – ASTROLABIO SOCIALE su “Il lavoro che sarà, per tutti” del 06/12/2016

La “preda” del potere. Il “Corriere della Sera” nella storia italiana in un libro di “Chiarelettere”

“Il ‘Corriere’ è una delle pochissime istituzioni di garanzia di questo paese… La libertà d’informazione è vista con insofferenza crescente.” Ferruccio de Bortoli14 giugno 2003, in occasione delle sue dimissioni da direttore del “Corriere della Sera

IL LIBRO
Una storia e una testimonianza. Di chi si è battuto per quarant’anni in difesa dell’indipendenza del giornale più famoso d’Italia, il giornale della borghesia illuminata, il giornale di Luigi Albertini e Luigi Einaudi, un giornale che veramente libero non è mai stato perché sempre al centro di appetiti economici e politici. Raffaele Fiengo, giornalista del “Corriere” dagli anni Sessanta, di formazione liberal, ci offre la sua versione dei fatti attraverso le lotte che ha condotto con tenacia sempre dalla parte dei giornalisti per affermare i principi di una stampa libera. Una lotta dura, dai tempi eroici della direzione di Piero Ottone alla strisciante occupazione della P2 sotto Franco Di Bella fino ai disegni egemonici di Craxi e poi le indebite pressioni dei governi Berlusconi. Oggi gli attori sono cambiati ma con le interferenze del marketing e della nuova pubblicità, e l’invasione dei social network, il mestiere del giornalista è ancora più contrastato, anche al “Corriere”, da sempre “istituzione di garanzia” in un’Italia esposta a continue onde emotive e a tensioni di ogni tipo. Se cade il “Corriere” cade la democrazia. E questo libro lo dimostra. Come scrive Alexander Stille nell’introduzione, “considerate le varie lotte avvenute per il controllo del ‘Corriere’, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro”.
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Prossimamente approfondiremo meglio la vicenda “Corriere” con un’intervista all’autore.

L’AUTORE
Raffaele Fiengo è nato a Cambridge (Stati Uniti) nel 1940. Dal 1968 ha lavorato al “Corriere della Sera” trovandosi più volte in contrasto con la direzione. Per vent’anni è stato rappresentante sindacale. Nel 1973 fonda la società dei redattori del “Corriere della Sera” e nel 1974 è autore, con la direzione di Piero Ottone, dello “Statuto del giornalista”. Chiamato dai suoi antagonisti “il soviet di via Solferino”, in realtà non si è mai considerato comunista e si è sempre battuto per l’indipendenza del giornale e dei giornalisti. Nel 2004 è tra i fondatori di “Libertà di stampa, diritto di informazione” (Lsdi), centro di ricerca sulle trasformazioni del giornalismo. Nel 2012 promuove, presso la Federazione nazionale della stampa italiana, l’Iniziativa per l’adozione in Italia di un Freedom of Information Act. Dall’anno accademico 2000-2001 è docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Padova.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione di Alexander Stille.

Il «Corriere» e la lotta politica in Italia
Il primo quotidiano nazionale, il grande giornale della cosiddetta «borghesia illuminata», il «Corriere della Sera», è stato il teatro centrale della lotta per il potere in Italia per quasi tutta la storia del paese. Il suo appoggio alla causa dell’intervento nella Prima guerra mondiale – ospitando tra l’altro le arringhe di Gabriele D’Annunzio («Viva Trento e Trieste, viva la guerra!») – è stato un fattore importante nella decisione di prendere parte al conflitto. L’opposizione del giornale e del suo leggendario direttore Luigi Albertini al fascismo rappresentò uno degli ultimi seri ostacoli al consolidamento del potere di Benito Mussolini. Così i proprietari – i membri della famiglia Crespi – nel 1925, per non rischiare rappresaglie pericolose da parte del regime, dovettero rimuovere Albertini.
È stato così anche durante i quarant’anni della carriera di Raffaele Fiengo che va dalla fine degli anni Sessanta fino a poco tempo fa, negli anni Duemila. Redattore e soprattutto capo, per molti anni, del sindacato dei giornalisti del «Corriere», Fiengo è stato un osservatore privilegiato e un protagonista di molte lotte.
I proprietari amano fare dichiarazioni circa la loro fedeltà ai principi della libera stampa, come questa del 1972: «Gli editori […], consapevoli che il giornale è un servizio pubblico, riaffermano il loro assoluto rispetto dei principi di libertà e indipendenza dei giornalisti dell’azienda». Ma la realtà è parecchio più complessa. L’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, proprietario de «Il Messaggero» di Roma e de «Il Mattino» di Napoli, ha detto: «Caro mio, se vuoi fare il grande imprenditore in Italia devi avere per forza un piede nei media, meglio due piedi». Per aiutare l’imprenditore, il giornale dev’essere usato come strumento di potere attraverso gli articoli che pubblica, quelli che non pubblica e per il modo in cui essi vengono impaginati. Al momento della bomba a piazza Fontana – l’inizio del periodo del terrorismo in Italia e della «strategia della tensione» – il «Corriere» avallò la tesi della strage degli anarchici. Ecco il mostro fu il titolo del «Corriere d’Informazione», confratello della sera del «Corriere», che riportava una foto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito arrestato ma successivamente scagionato. Allo stesso tempo il «Corriere» non pubblica la notizia su un negoziante di Padova che aveva identificato le borse usate per l’attentato in cui erano morte diciassette persone, una prova che conduceva l’indagine verso la «pista nera», che si sarebbe rivelata quella giusta.
Nel luglio del 1970 il treno da Palermo a Torino uscì violentemente dal suo binario nella zona di Gioia Tauro, in Calabria, uccidendo sei persone e ferendone un centinaio. La versione ufficiale in un primo momento fu che si trattava di un incidente. Ma il cronista che seguiva la storia per il «Corriere», Mario Righetti, aveva saputo da una sua fonte che c’erano segni evidenti di un atto di sabotaggio. E lo scrisse nell’articolo che fu pubblicato nella prima edizione del giornale ma che scomparve nell’edizione definitiva, che titolava: A Reggio Calabria fonti ufficiali escludono l’ipotesi di un atto doloso.
«La mattina [dopo] – scrive Fiengo – Righetti è chiamato dal caporedattore, che allora era Franco Di Bella, e messo in ferie.» Di Bella è una delle bestie nere di Fiengo. Fu il direttore del giornale durante il periodo della P2, la loggia massonica di cui era membro, insieme ai proprietari del gruppo Rizzoli e ad alcuni giornalisti. Nel caso del treno di Gioia Tauro e di piazza Fontana, però, le censure del «Corriere» non furono conseguenza di un intervento della P2, ma di pressioni governative. Secondo Fiengo, il ministro dell’Interno intervenne personalmente per bloccare l’articolo sull’attentato di Gioia Tauro e un magistrato minacciò Righetti di denunciarlo per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’opinione pubblica» qualora avesse ancora scritto sull’argomento. La lotta di potere non era però sempre a senso unico. Dopo la «rivoluzione dei garofani» in Portogallo nel 1975, durante la quale i tipografi comunisti occuparono il giornale socialista «Republica», un gruppo di redattori comunisti del «Corriere» cambiò il titolo dell’articolo sull’argomento da I comunisti occupano il giornale socialista in Tensione a Lisbona tra Pc e socialisti. Fiengo fu comunque considerato il leader della sinistra all’interno del giornale per almeno vent’anni. Con autoironia Fiengo racconta come veniva visto in via Solferino durante la direzione di Giovanni Spadolini, futuro leader del Partito repubblicano e di un governo di centrodestra. «Spadolini guardava con qualche apprensione il mio berretto nero alla Lenin sul quale per scherzo un giorno il mio compagno di stanza, Guido Azzolini, aveva cucito una stella rossa di stoffa. “Vedi, Fiengo – mi diceva dolcemente Spadolini, – tu sei l’ultimo rivolo della contestazione, una miscela rara, ma assai esplosiva perché contemporaneamente sei liberal, anzi radicale, e comunista.” Certamente su suo suggerimento il condirettore Michele Mottola, che di rado pronunciava una parola, limitandosi di solito a gesti e farfugliamenti, mi consigliava di tagliarmi i capelli lunghi.» Poi nel 1972 Giulia Maria Crespi assunse un ruolo più attivo come azionista principale del giornale, licenziò Spadolini e al suo posto mise Piero Ottone che, pur non essendo comunista, era decisamente più aperto alla sinistra. La «sterzata» di Ottone portò all’uscita da via Solferino di Indro Montanelli insieme a una sessantina di giornalisti – una vera e propria secessione di una parte del «Corriere» che avrebbe fondato «il Giornale». Il «Corriere» di Ottone pubblicò, per esempio, le famose Lettere luterane e Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, testi chiave della sinistra italiana degli anni Settanta. Ma, come rivela Fiengo, il loro non fu un rapporto facile. Anche se Ottone veniva etichettato come direttore di sinistra, Pasolini, in una lettera privata, lo coprì di insulti. E in un’altra lettera scrisse:

Caro ineffabile Ottone,
sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere.

Il famoso scritto di Pasolini Io so sui presunti crimini impuniti del governo italiano rimase per quaranta giorni nel cassetto di Ottone, impegnato nella ricerca di un pezzo di uguale peso da contrapporgli.
Ma già durante il periodo dei Crespi e di Ottone le debolezze economiche della proprietà aprirono le porte all’influenza esterna. Per far fronte ai bisogni economici del quotidiano, i proprietari stipularono un accordo con la Montedison (vicino alla Democrazia cristiana e quindi al governo). Solo anni dopo Fiengo scoprì l’esistenza di un accordo segreto che permetteva a Montedison di approvare la scelta del caporedattore per l’economia.

La crisi più acuta
La battaglia principale sostenuta da Fiengo fu durante la crisi della P2. Nel 1974 il gruppo Rizzoli acquistò il «Corriere della Sera» e fece una serie di investimenti pesanti nel giornale e nell’editoria, aumentando pericolosamente i suoi debiti. All’insaputa dei lettori e della redazione, le difficoltà del gruppo lo spinsero sempre di più tra le braccia di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano, che diventò il vero proprietario del quotidiano. Anche Calvi, il cosiddetto «banchiere di Dio», vicino al Vaticano ma anche alla mafia, aveva grossi problemi finanziari e dipendeva sempre di più dall’appoggio occulto della loggia massonica Propaganda 2 e dal suo Maestro Venerabile, Licio Gelli, un ex fascista fervente. Mentre molti dei circa mille membri entrarono a far parte della loggia semplicemente per interesse di carriera, il Maestro Venerabile aveva un chiaro piano politico (il Piano di rinascita democratica) per creare in Italia un regime presidenziale orientato a destra. Riuscì a tirare dentro la sua loggia segreta centinaia di uomini tra i più potenti del paese, compresi 195 membri delle forze armate (12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di finanza, 22 dell’esercito, 4 dell’aeronautica e 8 ammiragli della marina), 44 membri del parlamento, giudici, banchieri, e tra gli editori: Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, direttore generale del gruppo Rizzoli, e Franco Di Bella, direttore del «Corriere della Sera». Così l’influenza della P2 sul giornale crebbe gradualmente, come dimostrano la sostituzione del corrispondente in Argentina (dove Gelli aveva forti legami con il regime militare), quella di Ottone con Franco Di Bella, l’uscita di vari giornalisti (come Giampaolo Pansa) considerati di sinistra, e la pubblicazione di diversi articoli strani, chiaramente confezionati ad arte per piacere alla P2: l’intervista allo stesso Licio Gelli, fatta da un giornalista, Maurizio Costanzo, anch’esso membro della loggia. E la collaborazione regolare con il «Corriere» di Silvio Berlusconi, altro membro della P2.Fiengo in quegli anni portò avanti una battaglia feroce per preservare l’indipendenza dei giornalisti e della testata, e, successivamente, incaricato dall’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare sulla P2, si adoperò per far luce su quel losco periodo della storia italiana.
Considerate le varie lotte di potere avvenute per il controllo di via Solferino, è un miracolo che da lì sia uscito tanto buon giornalismo, tanta informazione corretta, e ciò grazie agli sforzi di tanti giornalisti interessati soprattutto a fare bene il proprio lavoro.

Raffaele Fiengo, Il cuore del potere. Il “Corriere della Sera” nel racconto di un suo storico giornalista (Introduzione di Alexander Stille), Ed. Chiarelettere, Milano 2016, pagg. 416 , € 19