La “mia” Repubblica tradita. Intervista a Giovanni Valentini

 

9788899784089_0_190_0_80Giovanni Valentini, storico Direttore dell’ Espresso ed ex vice direttore di Repubblica, ha appena pubblicato per “Paper First” (la casa editrice del Fatto Quotidiano) un libro sulla mega fusione editoriale tra due grandi quotidiani italiani: Repubblica e La Stampa. Già dal titolo, La Repubblica tradita, si intende che il libro è una testimonianza personale e inedita degli avvenimenti che hanno portato alla fusione di questi giornali. Una mega-concentrazione che Valentini giudica una minaccia per il pluralismo dell’informazione del nostro Paese. In questa intervista approfondiamo le ragioni che l’hanno spinto a scrivere il libro.

Il tuo libro, davvero interessante e al tempo stesso inquietante, apre uno squarcio sul velo di ipocrisia che riguarda il più prestigioso quotidiano italiano: la Repubblica. Il titolo non lascia dubbio alcuno la Repubblica tradita. Diversi sono stati i protagonisti di questo tradimento, ne parleremo più avanti. Adesso fissiamo un punto. Perché scrivi che l’attuale Repubblica tradisce il progetto originale e i suoi valori? Dove si compie il tradimento? Sui valori di sinistra riformista?
Parlo di “tradimento”, all’indomani della mega-fusione con La Stampa e con Il Secolo XIX, perché quarant’anni fa Repubblica è stata fondata da un “editore puro”, come allora usava dire: nacque infatti dal matrimonio fra il gruppo L’Espresso e la Mondadori. Un soggetto cioè che non aveva altri interessi, estranei all’attività editoriale. A 27 anni, lasciai Il Giorno di Milano, che era il terzo quotidiano italiano ed era di proprietà dell’Eni, per andare a lavorare con Eugenio Scalfari. Ora la maxi-concentrazione di “Stampubblica” trasforma quel giornale in uno strumento di potere, in mano a un gruppo economico-finanziario, costituito da De Benedetti e dalla Fiat. Non è Repubblica che tradisce il progetto originario, è il nuovo soggetto editoriale che tradisce il progetto originario del giornale.

Repubblica nasce nel 1976. Siamo nel periodo tra i più difficili della storia repubblicana. Il fatto di chiamare un quotidiano “Repubblica” è già una scelta di campo. Eugenio Scalfari, anche recentemente, ne ha descritto la carta d’identità: siamo liberaldemocratici. Ti chiedo quale è stato il contributo maggiore dato dal quotidiano alla storia civile italiana?
Direi, per riassumere, il contributo alla modernizzazione del Paese: sul piano politico, innanzitutto, ma anche civile e culturale. Scalfari ha sempre usato la definizione di “liberali di sinistra”. Non mi risulta che la Fiat o gli Agnelli possano essere considerati tali. Né tantomeno Marchionne e John Elkann.

Nel tuo libro analizzi, sulla base della tua esperienza davvero straordinaria all’interno del gruppo “Espresso-Repubblica, le varie fasi del quotidiano. Parliamo, quindi, degli ultimi vent’anni. Che coincidono praticamente con la direzione di Ezio Mauro e con la gestione padronale di De Benedetti. Il “tradimento” incomincia con la direzione di Mauro. Francamente una cosa difficile da comprendere…. Se penso alle battaglie di Repubblica contro il berlusconismo imperante. Perché Mauro è diverso, qual è il suo “peccato” d’origine?
No, il “tradimento” non comincia con l’arrivo di Ezio Mauro alla direzione: quello, semmai, fu un primo “strappo”, una discontinuità accettata e condivisa da Caracciolo e da Scalfari. Carlo, finché ha vissuto, ne è stato il garante editoriale; Eugenio ne è stato il garante politico, la guida e il tutore. Se vogliamo parlare di “peccato originale”, quello di Ezio era la provenienza dalla direzione del giornale targato Fiat: basti pensare alla politica economica e sindacale, a quella dei trasporti o dell’ambiente, per farsene un’idea. Quanto all’anti-berlusconismo, per me è cominciato a metà degli anni Ottanta, quando andai a dirigere L’Espresso e lanciai una campagna contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi che consideravo una minaccia per il pluralismo e la libertà d’informazione. Poi, è diventato un orientamento politico, ideologico e antropologico. Ma è stato anche un alibi per non vedere, o fingere di non vedere, i ritardi e le responsabilità della sinistra.

Veniamo alla vera “anima nera” del tradimento, Carlo De Benedetti. Su sul suo conto usi parole dure, ne denunci il conflitto d’interessi su molteplici piani. Alla fine ne esce un quadro disperante sul personaggio: viene spontaneo domandarti qual è la differenza, se mai esiste, tra lui e Berlusconi?
Non confondiamo i personaggi e le rispettive estrazioni. La differenza sostanziale è che Berlusconi era un imprenditore, un concessionario pubblico ed è diventato un uomo politico, con un macroscopico conflitto d’interessi; mentre De Benedetti è sempre stato un finanziere, un uomo d’affari, ma non ha mai avuto cariche pubbliche. Fino a quando Caracciolo e Scalfari hanno garantito l’autonomia del gruppo e dei giornali, erano loro che incarnavano la figura dell’editore. Ma ora, con la complicità della crisi, gli interessi economici purtroppo hanno preso il sopravvento…

E veniamo all’ultima fase quella della fusione con la Stampa di Torino, ironicamente definita da te “Stampubblica”, cui emblema diventa Mario Calabresi (il gigante nano). Eppure Calabresi nasce, giornalisticamente parlando, a Repubblica. Sul piano dello spessore, Calabresi sicuramente è inferiore a Ezio Mauro. Però, consentimi, Repubblica ha ancora fior di giornalisti (vedi Giannini) che reggono la deriva “minimalista” di Calabresi. Perché definisci la fusione con La Stampa un pericolo per la democrazia? E perché Scalfari continua a scrivere?
Calabresi, professionalmente parlando, non nasce a Repubblica ma all’Ansa. E con tutto il rispetto per il giornalismo d’agenzia, c’è una bella differenza con quello d’opinione e d’intervento. Lui è il testimonial di questa mega-concentrazione. Non sono stato io a definirlo “un gigante nano”, bensì la perfidia dei suoi redattori, in contrapposizione al “nano gigante” Ezio Mauro. Dico che la maxi-fusione è un pericolo per la democrazia perché è destinata fatalmente a ridurre il pluralismo e la concorrenza, oltre che gli organici dei giornali interessati. Anche per questo mi auguro che Scalfari continui a scrivere su Repubblica fino a quando ne avrà la forza e la voglia.

Ultima domanda: Sei pessimista sulla stampa italiana?
Qui bisognerebbe fare un discorso molto lungo sulla crisi dei giornali e della pubblicità, sull’avvento della televisione e di Internet, sul “giornalismo diffuso” alimentato dai social network. Non c’è dubbio che l’unica prospettiva per il futuro può essere quella della “multimedialità”, cioè dell’integrazione fra i vari mezzi e i vari codici della comunicazione. Ma, a parte Cairo e lo stesso Berlusconi, non vedo in Italia molti editori che abbiano le capacità e le possibilità di proseguire su questa strada. Mi conforta, però, registrare che – nonostante tutto – testate d’opinione come Il Fatto Quotidiano, Libero, Il Foglio o La Verità, riescano a trovare uno spazio per sopravvivere e magari per crescere. Nel campo editoriale, c’è sempre tempo per la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione.

L'immagine è tratta da Prima Comunicazione

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L’Ideologia “neo sovranista” di Donald Trump. Intervista a Marina Calculli

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La vittoria di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti d’America cambierà di molto il paradigma della politica estera Usa. Quali conseguenze per l’Europa e per il mondo? Ne parliamo in questa intervista con Marina Calculli, Fulbright research fellow all’ Institute for Middle Eastern Studies (IMES)Elliott School of International Affairs ,della George Washington University (USA).

Marina Calculli, partiamo da lontano:  il 9 novembre del 1989  Cadeva il muro di Berlino. Il sogno europeo sembrava realizzarsi…26 anni dopo un Tycoon, Donald Trump, viene eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Un personaggio assolutamente impreparato sul fronte della politica estera che vuole costruire un muro al confine con il Messico.  All’epoca della caduta del Muro di Berlino la politica i muri li voleva abbattere, oggi assistiamo ad una deriva, che possiamo definire con un termine un po’ involuto, sovranità della politica. E talvolta questa deriva ha preso forme di nazionalismo becero (vedi Ungheria). Come si spiega questa deriva? 
Credo che siamo di fronte ad una congiuntura storica che mette in crisi quanto abbiamo dato per assunto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad ora: ci siamo abituati per molto tempo ad un mondo organizzato sul principio della sovranità degli stati, esteso universalmente, ma  marcato dal mito di un’economia liberista che avrebbe prodotto crescita perenne, almeno in Occidente, rendendo gli stati infine obsoleti. Oggi, ci troviamo in una situazione in cui le forze del mercato in un’economia globale neoliberista hanno di fatto tolto agli stati alcune prerogative fondamentali per formulare politiche economiche eque, rendendo pervasivo e visibile ovunque il problema cruciale della diseguaglianza. Il problema è che non stiamo facendo sforzi per ripensare radicalmente le dinamiche e i meccanismi del sistema economico, cercando di renderlo più in linea con la produzione del bene comune. Puntiamo invece il dito contro i deboli, i messicani, musulmani, coloro che dal sud del Mediterraneo cercano di spostarsi verso il nord, alla ricerca legittima di migliori condizioni di vita. Risorge così il mito della sovranità – quello che in un libro che ho scritto con Shady Hamadi “Esilio Siriano” (Guerini 2016) ho definito “Ideologie neo-sovraniste”: ovvero ideologie che esaltano lo stato nella sua forma più primordiale: idealizzando, cioè, lo stato quale dispositivo istituzionale in grado di offrire sicurezza, proteggere da un esterno percepito come minaccioso e foriero di quelle disfunzionalità che ci rendono più diseguali, più ansiosi e più infelici. I muri che si innalzano solo la manifestazione simbolica più feticista ma anche più dirompente di queste ideologie. Ma possono i muri salvarci e riportarci al benessere? Si tratta in realtà di un’illusione, perché non si elaborano contemporaneamente politiche volte a ristabilire un equilibro tra le forze libere del mercato e la produzione del bene comune.

Sul soglio degli imputati c’è la globalizzazione. Fenomeno straordinario, ma che ha mostrato il suo volto cupo con la finanziarizzazione dell’economia. Un risvolto della globalizzazione sono stati gli accordi economici di libero scambio in diverse aree del mondo. Trump vuole mettere in discussione, tra l’altro, diversi trattati economici. Fine della globalizzazione?
Anche qui si guarda al dito e non alla luna: non vi è dubbio che la globalizzazione abbia prodotto perdenti e vincenti – per essere più precisi, moltissimi che hanno perso molto e pochissimi che hanno vinto molto. Ma bisogna inquadrare il problema nella sua misura. Trump punta il dito contro gli accordi di libero scambio, stigmatizzandoli – come era successo d’altra parte nel Regno Unito per Brexit – come un’interferenza esterna con le decisioni sovrane dello stato, suggerendo che i problemi interni al paese avessero responsabilità esterne.  Ma il problema centrale non è il commercio internazionale e l’alleggerimento delle barriere tariffarie in sé, quanto piuttosto lo svuotamento della classe lavoratrice, non in solo negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente ma ovunque. Per esempio, ha un bel dire Trump a prendersela con la delocalizzazione della produzione dagli USA verso i paesi dell’America Latina o dell’Asia. Attraverso questo meccanismo, la classe imprenditoriale americana, di cui lui è un esponente di spicco, si è arricchita enormemente, sfruttando lavoro a basso costo, senza protezione per i lavoratori, altrove. E’ questo che ha accelerato la de-industrializzazione dell’Occidente, mantenendo – e anzi facendo lievitare – i capitali privati in Occidente. Il problema dunque è nella ridistribuzione ed è questo che dobbiamo correggere, per esempio cominciando ad applicare quello che già l’Organizzazione Internazionale del Lavoro prevede a tutela dei diritti sociali dei lavoratori, nello spirito di un globalizzazione equa. Bisogna che vengano applicate misure di tutela del lavoro universali, accompagnate anche da una tassazione delle transazioni finanziarie – perché queste generano profitti altissimi, attraverso la speculazione. Ma bisogna prima di tutto bloccare la caccia al lavoratore meno protetto e meno costoso. Non è un problema legato agli accordi di libero scambio, ma al fatto che la globalizzazione non ha spostato capitali e ricchezza dalle economie avanzate verso quelle meno avanzate, ma ha sottratto complessivamente ricchezza ad una classe media globale concentrandola nelle mani di un élite globale.

L’isolazionismo Usa ha radici storiche lontane (anni 20 del secolo scorso). Trump nella sua campagna elettorale si è fatto fautore di questa ideologia, che ha il suo risvolto economico nel protezionismo. Vedi differenze tra l’isolazionismo “storico” americano e quello di Trump? 
L’isolazionismo degli Stati Uniti ha rappresentato, al momento dell’indipendenza, una strategia pragmatica per proteggere la giovane repubblica dalle interferenze delle potenze europee. Ma mentre l’America diventava più forte e metteva in sicurezza i suoi confini, l’isolazionismo mutava la sua funzione. E stato usato come una dottrina, la “dottrina Monroe”, o più propriamente un discorso ideologico, per mascherare la debolezza o anche per esaltare l’eccezionalismo americano, a seconda delle esigenze storiche. Ma si è sempre trattato quantomeno di isolazionismo selettivo, permettendo agli USA di intervenire quando faceva loro comodo. Nel diciannovesimo secolo, per esempio, gli USA erano isolazionisti ma hanno invaso o sono intervenuti in diversi paesi: il Messico, il Nicaragua, Panama, Cuba, l’Honduras, la Repubblica Domenicana, la Costa Rica e molti altri. D’altra parte anche l’intervenzionismo americano è stato sempre inteso dall’opinione pubblica come primariamente funzionale a proteggere la nazione e gli interessi americani. Da una parte vi è dunque la dottrina e dall’altra il discorso retorico. L’isolazionismo di Trump riflette perfettamente le due dimensioni: il neopresidente ha parlato al popolo che lo ha eletto sull’onda del “Make America great again”, suggerendo che l’America si sarebbe occupata più della sua dimensione domestica. Nello stesso tempo, Trump dice che l’America rimarrà il paese con l’esercito più potente nel mondo. Sono due discorsi contraddittori nei quali si possono cercare di leggere le linee della politica estera di Trump: una strategia che rifletterà probabilmente un’America più introspettiva ma sempre molto desiderosa di essere in prima linea sugli scacchieri internazionali.

Se dovesse confermarsi l’isolazionismo sicuramente avrà delle conseguenze per lo scacchiere mondiale. Quali conseguenze In particolare per l’area mediorientale?
Trump piace molto ai dittatori mediorientali. al-Sisi in Egtto, Asad in Siria,si sono espressi favorevolmente nei confronti del neo-presidente. Questo perchè Trump – come il parterre conservatore che gli si sta coagulando attorno – sono interessati alla sicurezza ad ogni costo, anche se questa si realizza attraverso la coercizione. Per questo, dobbiamo attenderci che Trump possa preferire la linea di preservazione piuttosto che cambio di regime in diversi paesi, per paura di gestire transizioni difficili e complesse. In linea con un mondo che si sta avviando verso una fase post-liberale, dobbiamo attenderci probabilmente un’America ancora meno attenta di prima agli aspetti liberali della politica estera e molto più a suo agio nel tollerare involuzioni autoritarie in nome della sicurezza. L’involuzione drammatica della Turchia in così pochi anni è per esempio perfettamente compatibile con l’elezione di Trump: in un certo senso, si tratta di due prodotti della stessa matrice, che caratterizza questa fase storica.

Come hanno reagito i governi mediorientali alla sua elezione?
Il primo capo di stato mondiale a congratularsi con Trump è stato il Presidente egiziano al-Sisi. Asad ha detto che Trump potrebbe essere un alleato naturale nella lotta al “terrorismo” – che il presidente damasceno pero’ intende come una categoria che include tutti coloro che si oppongono al suo potere. Anche le monarchie del Golfo, nonostante sostenessero la Clinton in campagna elettorale, non sono dispiaciuti dell’ingresso del tycoon alla Casa Bianca: parlano entrambi il linguaggio degli affari e si possono intendere anche su altre questioni care alle case regnanti della penisola arabica. Israele esulta: Trump ha promesso di riconoscere Gerusalemme come capitale di quello che già definisce “stato ebraico” (definizione differente dall’idea di Israele come stato per gli ebrei, all’origine della creazione stessa dello Stato). Tutto questo si traduce – per lo stato di asimmetria pressoché assoluta a favore di Israele nei confronti dei Palestinesi – in un colpo di grazia al progetto legittimo di uno stato palestinese. L’Iran è comprensibilmente preoccupato per l’accordo sul nucleare, il più grande successo della politica estera di Obama, anche se in realtà il patto con Teheran potrebbe essere protetto dal quadro multilaterale in cui e’ inserito: oltre agli europei, poi, c’è anche la Russia, verso cui Trump non pare ostile.

Parliamo proprio dei possibili sviluppi dei rapporti con la Russia di Putin. Fin dove si spingerà la non ostilità con Putin?
Credo che questa affinità elettiva tra Trump e Putin in campagna elettorale sia stata più folcloristica e basata su uno scambio di complimenti e convenevoli, piuttosto che simbolica di un evidente mutamento strutturale nella relazione tra le due ex-superpotenze del sistema internazionale. La competizione tra la Russia e gli USA è inevitabile, su un piano strutturale. Inoltre non per Putin la competizione con gli USA è funzionale al livello retorico per esaltare il nazionalismo e la potenza russa. Tuttavia, la storica competizione con la Russia continuerà a giocare un ruolo cruciale nella strategia americana. E’ anche vero pero’ che c’è un segno dei tempi rispetto al fatto che, per esempio, Trump non mostri disappunto sul pugno forte di Putin su Aleppo est, dove – ricordiamolo – Putin e Asad stanno disintegrando il tessuto sociale della città, bombardando sui civili e distruggendo tutti gli ospedali. Non voglio dire che l’America prima di Trump non si sia macchiata di crimini dettati dal cinismo, più che dalla realpolitik, in politica estera. Ma siamo di fronte ad uno svuotamento totale del liberalismo in politica internazionale, inedito almeno negli ultimi 70 anni di storia. Su questo piano l’America e la Russia si ritrovano più vicine.

Trump appena eletto ha cercato subito il contatto con il premier britannico May, Juncker è stato duro con Trump. Insomma quali pericoli corre l’Europa? Oppure pensa che la freddezza sulla Nato possa essere una occasione per costruire una difesa comune europea?
L’Europa è di fronte ad un bivio. Il principale pericolo è che l’Europa si trova oggi priva di alleati nel proteggere i valori liberali, verso cui Trump ha espressamente mostrato disinteresse. Inoltre, allo stadio attuale, in cui l’Europa è comunque minacciata dall’interno da parte di correnti reazionarie e anti-liberali, ci sono pochi attori che potrebbero eventualmente raccogliere l’asticella degli USA. La Germania è un potenziale candidato, ma Berlino non ha la cultura politica per esercitare una leadership e soprattutto non ha seguaci.
Rispetto alla NATO, il frangente è più serio di quanto non si pensi. Il principio su cui si fonda la sicurezza collettiva è “tutti per uno, uno per tutti”. Se si mette in discussione questo principio, si innesca una spirale di diffidenza tra gli alleati che può dunque indebolire, se non proprio distruggere, l’alleanza. Quando Trump dice che l’America non interverrebbe in difesa dei paesi baltici contro la Russia, lo dice perché non capisce fondamentalmente il principio dell’alleanza e ha un pregiudizio rispetto a tutto ciò che è troppo a est. Il problema è che, se venisse messa realmente in discussione la presenza americana rispetto a qualsiasi paese della NATO, ogni altro paese legittimamente si chiederebbe “chi è il prossimo?” – ovvero quali sono i confini su cui gli Stati Uniti hanno posto la soglia dei loro interessi nazionali? La diffidenza reciproca tra gli alleati potrebbe distruggere il Patto atlantico. Il problema della difesa comune europea è ancora più complesso. Esistono alcuni framework di azione, come la “Permanent Structure of Cooperation”, ma l’idea di una difesa comune è ancora nel suo stato embrionale. Dal punto di vista storico e culturale, tuttavia, i segnali sono scoraggianti. Gli Stati europei sono culturalmente contro una difesa comune. Il Regno Unito è stato storicamente il principale oppositore di quest’idea. Con Londra fuori dall’Unione Europea, forse ci potrebbero essere nuove finestre di opportunità ma è tutto fuorché chiara la direzione verso cui va la volontà politica collettiva e le prossime elezioni in diversi paesi – penso soprattutto le presidenziali francesi – ci daranno maggiori elementi per chiarire questo aspetto.

IL LEGALISMO NON FERMA LA RIFORMA DI PAPA FRANCESCO. INTERVISTA AD ANDREA GRILLO

Andrea Grillo, teologo

La clamorosa iniziativa di quattro cardinali, tutti appartenenti all’area iper conservatrice della Chiesa cattolica, di scrivere una lettera, che doveva essere privata, in cui si esprimono forti dubbi teologici di correttezza magisteriale sull’Esortazione pontificia “Amoris Laetitia”, pubblicata dopo il Sinodo sulla Famiglia dell’anno scorso. Un vero e proprio atto di ribellione al magistero pontificio, tanto da minacciare, da parte di uno dei cardinali, una correzione pubblica dei contenuti dell’esortazione se il Papa non avesse risposto a i dubbi esposti nella loro lettera. Oggi il Papa, con un’intervista al quotidiano cattolico Avvenire, ha riaffermato la validità della sua linea pastorale. Ne parliamo, in questa intervista, con il teologo Andrea Grillo, professore di Teologia alla pontificia università Sant’Anselmo di Roma.

Professore, qualche giorno fa il giornalista Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, ha diffuso una lettera di 4 cardinali  (i tedeschi Walter Brandmüller e Joachim Meisner, l’italiano Carlo Caffarra, lo statunitense Raymond L. Burke )tutti dell’area conservatrice.  Lettera indirizzata al Papa Francesco, e tale doveva rimanere, lettera in cui si chiede chiarimenti sui paragrafi secondo loro controversi (sulla comunione ai divorziati risposati) della esortazione pontificia “Amoris laetitia” . Come giudica il contenuto della lettera dei cardinali? 
Sollevare domande, di per sé, è sempre positivo. La cultura del dubbio può essere anche una scoperta recente dei 4 cardinali. Ma di fronte a questa lettera io ho subito pensato una cosa diversa. Se quattro cardinali scrivono in questo modo così poco autorevole e così imbarazzato, occorre rivolgersi a qualche autorità superiore. Nel cristianesimo l’abbiamo: sono le prostitute e i pubblicani. E’ proprio una prostituta, Sonia, che nel capolavoro di Dostojewski “Delitto e castigo” risponde al peccatore: “Perché fai domande che non debbono essere poste”. Sonia dice ai cardinali: “Perché fate domande che non si devono porre?”. D’altra parte, a veder bene, dobbiamo riconoscere che non scopriamo nulla di nuovo. Se andiamo a leggere quello che questi 4 cardinali hanno scritto subito prima del Sinodo, durante il Sinodo, nell’aula del Sinodo e dopo il Sinodo, troviamo che tutto questo era già stato detto: prima come timore, poi come eventualità da evitare e poi come “errore da correggere”. Non è un bello spettacolo.

Hanno un fondamento le critiche mosse al documento pontificio?
Le dico solo questo: in una classe di studenti di Diritto canonico, un mio caro collega ha esaminato i 5 “dubia” sollevati dai cardinali e degli studenti universitari senza particolari qualifiche hanno risolto i 5 dubbi senza alcuna esitazione, sulla base del testo di Amoris Laetitia. Per smascherare la provocazione e le domande false bastano una ventina di ragazzi ben disposti a studiare e a non farsi prendere per il naso. Le critiche hanno fondamento, ma non nel documento, bensì in una cultura arretrata, vecchia, presuntuosa e arrogante.
Ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI questi personaggi erano nelle cordate di potere della curia romana. Secondo lei questa resistenza quanta è diffusa nella curia?
Questo è un fatto strutturale. La Curia, ogni curia, resiste comunque nella inerzia di quello che faceva prima. Inerzia burocratica e inerzia di pensiero. La questione, tuttavia, non è semplicemente di “potere”, ma di “pensiero”. La inerzia si colloca anche a questo livello, che è meno evidente, ma molto più grave. E’ come se i 4 firmatari non concepissero altro modo di vedere il matrimonio che quello elaborato nella Chiesa in mezzo al conflitto con lo Stato moderno alla fine del XIX secolo. Quella stagione è finita. Per sempre. E con essa anche quella teologia.

Appare evidente che si muovono come un gruppo organizzato. L’obiettivo è screditare un atto di Magistero di Papa Francesco. Addirittura il cardinale Burke ha “minacciato” una correzione pubblica delle parti controverse, se il Papa non darà risposte alle loro richieste . E’ una minaccia alla comunione ecclesiale? Uno scisma ? 
Non farei le cose più grosse di quelle che sono. Ognuno dei 4 firmatari rappresenta una “istanza” dell’assetto che con Giovanni Paolo II si era collocato al centro del pensiero e della amministrazione ecclesiale. Ma, obiettivamente, gli argomenti che usano sono talmente deboli e argomentati in modo talmente vecchio che non costituiscono affatto un problema per Francesco, che ha una freschezza di approccio e di pensiero che vola ad un altro livello. Semmai io credo che si debba usare verso di loro una ferma misericordia. Non c’è nessuno scisma, anche se la minaccia alla comunione ecclesiale è rappresentata dalla arroganza di chi si mette, intenzionalmente, a fingere di non aver capito. Questo è grave. Ma è finto. Perché sono tutti e 4 uomini troppo intelligenti per non aver capito che la loro impostazione è definitivamente superata.

Il Papa, nell’intervista ad Avvenire, ha affermato: “la Chiesa esiste solo – ha detto Francesco ad Avvenire – come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio. Al Concilio la Chiesa ha sentito la responsabilità di essere nel mondo come segno vivo dell’amore del Padre. Con la Lumen Gentium è risalita alle sorgenti della sua natura, al Vangelo. Questo sposta l’asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell’incarnazione del Figlio. Alcuni – pensa a certe repliche ad Amoris Laetitia – continuano a non comprendere, o bianco o nero, anche se è nel flusso della vita che si deve discernere” . Basterà questa risposta del Papa ai cardinali  super legalisti?

Queste parole sono non casualmente tratte quasi integralmente dal linguaggio del Concilio Vaticano II. Ed è il Concilio ad aver già risposto ai 4 cardinali. Lo ha fatto da più di 50 anni. Loro hanno fatto finta di niente, aiutati da tante condizioni favorevoli, che improvvisamente sono cessate già con l’arrivo a Roma di un papa “figlio del Concilio” e poi soprattutto con Amoris Laetitia. Che opera, 50 anni dopo, ciò che fece Sacrosanctum Concilium 50 anni fa. Cambia il volto della Chiesa nel rapporto con l’amore, la famiglia e il matrimonio. Su cui le pretese del legalismo sono almeno altrettanto forti di quanto fossero, 50 anni fa, quelle sulla liturgia.

Come sta procedendo la recensione  dell’ “amoris laetitia”?
Direi che nel mondo reale, sia pure con le inevitabili difficoltà di ogni riforma, Amoris Laetitia sta procedendo molto bene. In Italia, ad es., ci sono Vescovi che hanno già scritto lunghe lettere di attuazione nelle loro diocesi del dettato della Esortazione. E nessuno di loro ha avuto dubbi, anche se deve camminare allo stesso tempo davanti, dentro e dietro il proprio popolo. La lettera dei 4 cardinali è anche il documento di chi non vuol camminare, di una Chiesa che si isola, che non esce, che ha paura di tutto, che preferisce non guardare…mentre la Chiesa autentica cammina e si lascia stupire dallo Spirito, che soffia con una libertà che sembra così difficile da capire da parte dei 4 cardinali.

“La vittoria di Trump è la sconfitta della sinistra blairiana”.
Intervista ad Alessandro De Angelis

 

Alessandro de Angelis (LaPresse)

La vittoria clamorosa di Donald Trump, alle presidenziali USA, contro Hillary Clinton sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale. Anche il nostro Paese, i partiti e gli analisti politici, si sta interrogando sulle conseguenze che la vittoria del “Cigno Nero” avrà sulla politica italiana. Ne parliamo con Alessandro De Angelis, cronista politico dell’Huffington Post.

Alessandro De Angelis, la vittoria di Donald Trump segna una svolta drammatica per gli Usa. L’onda populista investe l’America. Quale riflesso avrà per la politica italiana? Un aumento del furore anti-elites?

Drammatica? Non lo so. Perché, secondo me, è ancora presto per prevedere quale forma prenderà la presidenza di Trump. Farà davvero un muro con il Messico? Porterà Trump l’America a un nuovo accordo con la Russia di Putin? Allenterà il suo rapporto con gli europei? Difficile dire ora. Una cosa infatti è un candidato un’altra un presidente. Hai sentito il primo discorso, con toni più concilianti?

Però il tema della rivolta contro le elites c’è…

Siamo di fronte a un voto che porta al punto più alto un leader anti-establishment e con esso ci porta il rifiuto del sistema. È un fatto epocale che trascina tutti in una dimensione nuova. E questo è il punto che legittima e influenza le istanze in movimento negli altri paesi, compresa l’Italia.

Renzi proverà a cavalcarla questa onda?

Direi che la passarella alla Casa Bianca con Benigni lo colloca, simbolicamente, non dalla parte del surfista ma da quella di chi dall’onda viene travolto. Andiamo al dunque: ci vogliamo dire che Trump rappresenta la sconfitta della sinistra mondiale che cerca ancora di riprodurre lo schema della Terza via, in stile anni Novanta, quella della sbornia liberista?

Parliamo appunto di Italia. Tu sei stato alla Leopolda. Forse Renzi, indossando di nuovo i panni del rottamatore, ha provato a intercettare il vento anti-establishment?

Non la vedo così. A me sembra che il premier sia immerso in quella cultura della Terza via che rischia di essere travolta. Prima di Trump c’è stata la Brexit e prima ancora il voto in Austria. La crisi, drammatica e prolungata, ha cambiato il mondo facendo emergere un bisogno di protezione e di sicurezza, che la destra interpreta con i muri e la sinistra dovrebbe interpretare con un nuovo welfare. Ora tu mi chiedi della Leopolda. La Leopolda, in questo quadro, è apparsa come un “bunker del sì”, più un fortino dell’establishment più che la trincea avanzata del cambiamento.

Spiegati meglio…

Io non vedo la rottamazione come la intendi tu, vedo uno spostamento a destra dell’asse del Pd. Vuoi rottamare Bersani e non Verdini, la Cgil e non Marchione. Questa la chiami rottamazione? Parliamoci chiaro, se vince il sì al referendum il Pd diventa il Pdr, il partito di Renzi. Un partito che, oltre ad essere il partito del Capo, è un partito centrista nelle politiche e nel ceto politico – non ha caso imbarca pezzi di destra in tutta Italia – e un partito del potere più che del cambiamento. L’establishment appunto. O mi vuoi dire che le manovre economiche varate sono manovre che rispondono più ai bisogni della parte più sofferente della società che al consenso elettorale?

Però c’è un pezzo di sinistra che, almeno sulla legge elettorale, ha scelto Renzi. Proprio nei giorni della Leopolda Cuperlo ha siglato un accordo per modificare l’Italicum.

Quella bozza non vale nulla. L’hai letta? Pare scritta da Mariano Rumor. Si parla di “verificare le condizioni”, “approfondire”. Non c’è una proposta di modifica né una scadenza temporale. Insomma, quando si voterà il 4 sarà vigente l’Italicum. Non è un caso che Renzi non ha detto una parola sulla legge elettorale.

Cuperlo però ha firmato. Che obiettivo ha?

Secondo me Cuperlo ha colto l’occasione per cambiare schema politico. La legge elettorale non c’entra nulla. Diciamola così: ha in mente il modello Milano, a livello nazionale, con Zedda e Pisapia. Per capirci: metti Renzi al posto di Sala e proiettalo su scala nazionale. Non parlerei di alternativa al renzismo nel Pd. Ecco, al fondo della rottura con la minoranza c’è questo.

Dopo il 4 dicembre come sarà il PD? 

Il Pd è già qualcosa di diverso rispetto alla sua vocazione originaria. Il sì sarà il battesimo del Partito di Renzi e a quel punto la minoranza sarà costretta a fare i conti con questa realtà. L’hai sentiti i cori alla Leopolda “fuori, fuori?”. Se vince il no, si aprirà il congresso più feroce della storia del pd.

Parliamo del Referendum. Nonostante il tentativo di spersonalizzazione di Renzi, un tentativo assolutamente fallito, ho l’impressione che agli italiani di questo Referendum non importa granché. Colpa di Renzi ma anche degli altri partiti che lo vivono come l’opportunità di mandato a casa, o no?

Renzi non ha mai tentato di spersonalizzare. Non dice più “se perdo, lascio la politica”, ma come la vogliamo chiamare questa impostazione se non personalizzazione? È tutti i giorni in tv, parla in continuazione, lo schema è ‘io contro tutti”, evoca il “derby”, cioè la partita dove le tifoserie si odiano di più assoluto. Diciamo le cose come stanno: ha trasformato un referendum sulla Costituzione in un plebiscito. È chiaro che gli altri, lo vivono come opportunità per mandarlo a casa. Poteva tenere il governo fuori e favorire una discussione, pacata e non da derby, sul merito.

Che succede: vince, va a casa o si fa un governo tecnico?

Non faccio previsioni. Tu hai mai fatto previsioni su un derby?

 

ORFANI BIANCHI. Un libro di Chiarelettere

Volevo misurarmi con un personaggio femminile. Una donna unica con una vita difficile che per trovare un angolo di serenità è pronta a sacrifici immensi. Mia nonna stava morendo, io guardavo Maria che le faceva compagnia e veniva da un paesino della Romania. E mi domandavo: quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?”

(Antonio Manzini)

Antonio Manzini Orfani bianchiIL LIBRO

Mirta è una giovane donna moldava trapiantata a Roma in cerca di lavoro. Alle spalle si è lasciata un mondo di miseria e sofferenza, e soprattutto Ilie, il suo bambino, tutto quello che ha di bello e le dà sostegno in questa vita di nuovi sacrifici e umiliazioni. Per primo Nunzio, poi la signora Mazzanti, “che si era spenta una notte di dicembre, sotto Natale, ma la famiglia non aveva rinunciato all’albero, ai regali e al panettone”, poi Olivia e adesso Eleonora. Tutte persone vinte dall’esistenza e dagli anni, spesso abbandonate dai loro stessi familiari. Ad accudirli c’è lei, Mirta, che non li conosce ma li accompagna alla morte condividendo con loro un’intimità fatta di cure e piccole attenzioni quotidiane.

Ecco quello che siamo, sembra dirci Manzini in questo romanzo, che verrà presentato oggi pomeriggio a Roma alla Libreria Feltrinelli nella Galleria Alberto Sordi, sorprendente e rivelatore con al centro un personaggio femminile di grande forza e bellezza, in lotta contro un destino spietato, il suo, che non le dà tregua, e quello delle persone che deve accudire, sole e votate alla fine. “Nella disperazione siamo uguali” dice Eleonora, ricca e con alle spalle una vita di bellezza, a Mirta, protesa con tutte le energie di cui dispone a costruirsi un futuro di serenità per sé e per il figlio, nell’ultimo, intenso e contraddittorio rapporto fra due donne che, sole e in fondo al barile, finiscono per somigliarsi.

Dagli occhi e dalle parole di Mirta il ritratto di una società che sembra non conoscere più la tenerezza. Una storia contemporanea, commovente e vera, comune a tante famiglie italiane raccontata da Manzini con sapienza narrativa non senza una vena di grottesco e di ironia, quella che già conosciamo, e che riesce a strapparci, anche questa volta, il sorriso.

L’AUTORE

Antonio Manzini ha lavorato come attore in teatro, al cinema e in televisione, e ha curato la sceneggiatura dei film Il siero della vanità (regia di Alex Infascelli del 2004) e Come Dio comanda (regia di Gabriele Salvatores del 2008). Con Sellerio ha pubblicato racconti e romanzi gialli con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, poliziotto fuori dagli schemi, poco attento al potere e alle forme: Pista Nera (2013), La costola di Adamo (2014), Non è Stagione (2015), Era di maggio (2015) e il recente 7.7.2007 (2016), per settimane in testa alle classifiche dei libri più venduti. Sempre nel 2016 ha pubblicato l’antologia Cinque indagini romane per Rocco Schiavone e il racconto satirico Sull’orlo del precipizio (Sellerio). Suoi racconti sono presenti nelle antologie poliziesche Turisti in giallo, Il calcio in giallo, Capodanno in giallo, Ferragosto in gialloRegalo di Natale, Carnevale in giallo e la Crisi in giallo, tutte pubblicate da Sellerio.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

«Ciao Mirta…» le sorrise il prete. Poi si chinò a raccogliere un ceppo di legno che gettò nel fuoco. «Ti piacciono i fagioli nel minestrone?» Mirta annuì sapendo che Ilie li detestava. Si sedette sul letto. Guardò l’ora: le sei e mezza. Accese il cellulare ed entrò in chat.

Il nome di Nina Cassian era già verde, segno che l’amica era in linea.

Eccomi Nina… – Come ti senti Mirta? – Uno schifo. – Sei a casa? – Non c’è più la casa, Nina. Non c’è più nulla. È tutto bruciato. C’è rimasto qualche muro e una finestra. – Hai parlato con padre Boris? – Sono qui con lui e Ilie. Ilie non parla. Mi guarda e non dice niente. Ha gli occhi spenti e l’ho trovato magro, Nina. Magro come un gatto randagio. – Io ho chiesto in giro. Per Ilie. Dovresti fare come Marisha e come ha fatto Lyudmilla. – … – Mirta? Mirta ci sei? – … – Mirta? – L’internat? – Sì. Altra soluzione non c’è. – Come faccio a mettere Ilie in un internat? Ti rendi conto Nina? – Lyudmilla ha i suoi a Chi¸sina˘u, all’internat numero 1 da tre anni. Stanno bene. Studiano, mangiano, fanno i compiti, giocano e hanno un sacco di amici. – Non mangiano, Nina. Studiano poco. E stanno in otto in una stanza! – Hanno una casa. – È un orfanotrofio. – Li ospitano e gli vogliono bene. – Ti sei accorta che io sono ancora viva?

Per favore, stammi a sentire. Tu eri fortunata, avevi mamma. Ma ora devi pensare a come fare. Puoi portare Ilie in Italia? – No. – E allora? Sarà solo per poco tempo. Uno, al massimo due anni. Poi si aggiusta. Chiedi a Lyudmilla. Ce l’hai l’indirizzo? – L’internat no! – Chiedi a Lyudmilla. Non fare sciocchezze Mirta. Chiedi a Lyudmilla!

Mirta alzò gli occhi. La madre di padre Boris s’era addormentata con la bocca aperta. Il sacerdote girava il cucchiaio di legno nella pentola. «Che succede?» le chiese, ma Mirta non rispose. «Hai avuto una brutta notizia?» Mirta fece sì col capo. Poi guardò il cellulare che teneva fra le mani. «La vuoi condividere con me?» «No padre Boris. No…»

Passò la notte a guardare il soffitto basso della casetta. Da dietro la tenda si sentiva il russare del prete e di sua madre. Mirta teneva una mano di suo figlio che le dormiva accanto. Che faccio, pensava, che faccio? Fuori era ricominciato a piovere. L’acqua tamburellava il tetto sottile e i vetri della finestra, nel camino erano rimaste solo le braci. Mirta si tirò la coperta fin sotto il mento. Inutile girarci intorno. Nina aveva ragione, altre soluzioni non ce n’erano. L’internat. Solo la parola le faceva venire un brivido nella spina dorsale e le chiudeva la gola. Che razza di madre sei se sei costretta a mettere tuo figlio in un orfanotrofio? Che razza di madre sei?

Non lo sapeva. Era una madre sola, e il mondo era un masso, un enorme masso che rotolava per una discesa e lei poteva solo scappare e cercare un posto dove nascondersi. Perché quello acquistava velocità, giorno per giorno, e se non fosse riuscita a evitarlo, a farlo rotolare via, l’avrebbe schiacciata sotto il suo peso. L’alba la sorprese con gli occhi ancora aperti. Si alzò lentamente per preparare la colazione. Non voleva svegliare Ilie. In quei giorni la scuola poteva anche aspettare. Riempì il pentolino dal rubinetto che sputava un filo di acqua. Poi lo mise a bollire per il tè. La tenda di padre Boris si spalancò e apparve il sacerdote, già vestito con la tonaca. «Buongiorno Mirta.»

Antonio Manzini, ORFANI BIANCHI, Ed.ni Chiarelettere, Milano 2016, Collana Narrazioni _ euro 16,00, pp. 256