“Lo scontro nel PD è tra democrazia dell’alternanza e democrazia consociativa”. Intervista a Giorgio Tonini

Oggi il PD compie nove anni. Per l’anagrafe è un partito giovanissimo. Eppure è lontano “anni luce” l’ entusiasmo di quei giorni. Nacquero comitati civici composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, per sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che “finalmente avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità”: il Partito Democratico appunto. Oggi il PD, come gli avvenimenti dei giorni scorsi hanno mostrato, è un partito diviso, lacerato. Per parlare della situazione interna, della lacerazione politica e della sua possibile soluzione, abbiamo intervistato il Senatore Giorgio Tonini. Tonini è stato tra i fondatori del PD. Attualmente è Presidente della Commissione Bilancio del Senato, ed è esponente di spicco della maggioranza renziana all’interno del partito.

Senatore Tonini, diciamoci la verità: l’ultima direzione del suo partito è stata come il “canto del cigno” del PD (così l’ha definita Marcello Sorgi). Insomma, nonostante le aperture di Renzi sulla modifica dell’Italicum, la minoranza non si fida del Segretario-Premier. Bersani smentisce scissioni, e così altri della sinistra dem. Cuperlo entrerà nella Commissione proposta da Renzi per cambiare la legge elettorale. Però il clima è degenerato. Insomma Renzi dovrà pur fare mea culpa se non riesce a tenere unito il partito. Certo anche la minoranza ha le sue colpe: quella, in primis, di vivere in perenne stato congressuale. Non è un bel compleanno (il nono) per il PD. Non è così Senatore?

Non mi convince un’analisi della discussione interna al Pd che si esaurisce attorno a questioni psicologiche (il brutto carattere di questo o il risentimento di quello), o anche solo ad uno scontro di potere e per il potere. Certo, c’è anche tutto questo: la politica è fatta da esseri umani e non da creature angeliche. Ma il nocciolo della questione è un altro: lo ha detto bene Bersani in un’intervista di qualche settimana fa, parlando di “idee diverse della democrazia”. E in effetti, nella discussione sulla riforma costituzionale e sul cosiddetto “combinato disposto” con la legge elettorale, sta riemergendo, in modo via via più chiaro, la frattura tra chi crede in un modello competitivo della democrazia e dunque tende a sposare sistemi elettorali e istituzionali di tipo maggioritario, e chi invece propende per una visione consociativa e consensuale e preferisce quindi sistemi di tipo proporzionale. Con tutta la buona volontà del mondo, e anche mettendo da parte asprezze e spigolosità, non è facile mediare tra queste due visioni. Si può temperare un impianto maggioritario con correttivi garantisti per le minoranze. O, viceversa, si può correggere un sistema proporzionale con soglie d’accesso e altri meccanismi stabilizzatori. Ma al dunque, si deve scegliere quale strada prendere. La via intrapresa dalla riforma costituzionale e da quella elettorale è la prima: è la via della democrazia dell’alternanza, della competizione tra alternative politico-programmatiche, incarnate da leadership riconoscibili; è la via che affida al cittadino elettore il potere di investitura di chi deve governare. Il superamento del bicameralismo paritario, in favore di un sistema nel quale la Camera abbia l’esclusiva del rapporto fiduciario col Governo e per questo eserciti anche un ruolo preminente nel procedimento legislativo, è il primo pilastro di questa visione della democrazia, quello contenuto nella riforma costituzionale. Una regola di elezione della Camera politica, che selezioni uno schieramento e un leader vincitori nella competizione per il governo, è il secondo pilastro, affidato alla legge elettorale, nel nostro caso all’Italicum. La riforma costituzionale, approvata dal Parlamento, è ora affidata al giudizio popolare e su di essa non si può più intervenire. L’Italicum, invece, si può cambiare: la strada è aperta, sia sul piano tecnico, perché si tratta di una legge ordinaria, sia sul piano politico, dopo l’apertura di Renzi all’ultima Direzione nazionale del Pd. Il problema è come cambiarlo: se per correggere alcuni aspetti, anche importanti (ad esempio preferenze o collegi uninominali…), ma senza rimetterne in discussione l’impianto maggioritario, come in molti nel Pd pensiamo, o se invece si vuole dare al paese una legge elettorale che non consente ai cittadini di scegliere chi deve governare, ma vuole riaffidare questa decisione ai parlamentari e ai partiti ai quali essi appartengono. Nel primo caso, la Commissione costituita dalla Direzione su proposta di Renzi, potrà formulare alcune ipotesi sulle quali lavorare in Parlamento. Nel secondo caso, invece, sarà il referendum a sciogliere il nodo.

Dicevamo del nono compleanno , infatti il 14 ottobre 2007 nasceva il PD, di un partito che aveva suscitato grandi speranze. Che è riuscito a rompere un tabù della politica italiana: quello della Sinistra al governo. Pochi “anni dopo, quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta”. Questo è il duro giudizio di Ezio Mauro, in un editoriale di qualche giorno fa su Repubblica. Forse la “mistica” renziana della “rottamazione” non è riuscita a creare una nuova identità di sinistra democratica. Il punto è proprio questo: la radice dei dissensi politici interni al PD sta qui. Un partito che è scarsamente curato dal segretario. Troppo drastici questi giudizi?

L’identità di un partito, ama dire Alfredo Reichlin, è data dalla sua funzione. La funzione del Pd è stata in questi anni ed è oggi più che mai, quella di guidare l’Italia sulla base di una strategia riformista e democratica, unica alternativa di speranza alle suggestioni populiste e talvolta reazionarie che la più grave crisi economica e sociale del nostro tempo ha fatto sgorgare dal corpo provato e spossato del paese. Una strategia che si è segnalata in Europa come l’unico esempio di sinistra riformista al governo, mentre la socialdemocrazia in quasi tutti i paesi del vecchio continente sprofondava nella crisi più grave della sua storia. Altro che partito senza radici e senza orizzonte! La verità è che la storia di questi anni ha dato ragione alla intuizione culturale che sta alla base del progetto originario del Pd, concepito nell’esperienza dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, sbocciato con la leadership fondativa di Walter Veltroni e portato da Matteo Renzi al governo del paese in uno dei passaggi più drammatici della storia d’Italia: l’intuizione per cui solo dall’incontro tra le culture riformiste del Novecento si sarebbe potuto formare e strutturare quel pensiero nuovo, democratico senza aggettivi, che avrebbe potuto guidarci nell’affrontare le inedite questioni proposte dal mondo del Duemila. Certo, questa intuizione ha bisogno di essere coltivata e curata, tradotta in formazione culturale e in una innovativa forma di organizzazione politica. Su questo il Pd è in ritardo. Ma raramente i partiti al govern riescono a trovare energie sufficienti per occuparsi di se stessi: è normale che il nerbo dell forze disponibili sia usato nel e per il governo.

Ora infuria la battaglia sul Referendum. Lei è schierato per il SI. D’Alema ha accusato il vostro fronte di alimentare un “clima intimidatorio” e di essere espressione di un blocco di potere. Anche il vostro fronte non scherza in fatto di esasperazione e provocazione: sul sito “bastaunsi.it” è uscito un articolo che non lascia spazio a molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl 2013”. Con il clima che c’è nel vostro partito, una cosa così è un “capolavoro” all’incontrario di comunicazione politica. Il clima è davvero esasperato. Rischia di produrre, il giorno dopo il Referendum, macerie politiche, da qui il richiamo del Presidente Mattarella. Lei non è preoccupato?

Sono molto preoccupato. Come è accaduto in altri passaggi della tormentata vicenda della nostra democrazia difficile, vedo aggregarsi forze che hanno in comune solo la volontà di opporsi, di contrastare, di impedire al faticoso lavoro del riformismo politico e istituzionale di procedere e di produrre risultati, per quanto limitati, parziali e perfino imperfetti. Questo grande fronte trasversale può far perdere il riformismo, ma non può vincere, se vincere significa non solo battere l’avversario, ma promuovere una visione alternativa. Se vincerà il Sì, il progetto politico riformista e democratico riceverà dal consenso popolare la forza necessaria ad andare avanti nell’opera, al tempo stesso determinata e paziente, di cambiamento del paese. Se invece prevarrà il fronte del No, ci troveremo in un vuoto, di visione e di proposta, malamente colmato da un rassegnato ritorno, un ripiegamento in un sistema politico istituzionale neo-proporzionale, nel quale nessuno vince, nessuno perde e nulla può cambiare. Come si possa pensare di affrontare i grandi nodi strutturali del paese con un sistema politico-istituzionale così debole e frammentato è per me un mistero. Quanto all’accostamento della riforma costituzionale sottoposta al referendum, al programma del Pdl del 2013, non so dire se sia un capolavoro o un infortunio sul piano della comunicazione politica. Dico però che i nostri avversari devono decidersi: vogliono contrastare la riforma perché “approvata a maggioranza spaccando il paese”, o invece perché “copiata dal programma di Berlusconi”? La verità storica è molto più semplice: il percorso riformatore di questa legislatura è nato da un patto tra Pd, Pdl e centristi, lo stesso che ha dato vita, sotto la guida del presidente Napolitano, al governo Letta. Un governo che aveva proprio nelle riforme istituzionali il primo punto programmatico. E le riforme individuate come possibili erano quelle sulle quali si poteva registrare il più alto livello di consenso: la riforma del bicameralismo, la revisione del titolo V nelle parti che non avevano funzionato e la riforma elettorale. Si erano invece accantonati temi più divisivi, come quello della forma di governo (premierato o presidenzialismo), per non dire della questione della giustizia. Dire dunque che la riforma approvata era ampiamente contenuta nei programmi del Pdl, come per altro verso del Pd, è ricordare una ovvietà, come è un’ovvietà ricordare che la rottura con Forza Italia non è si è determinata sul contenuto della riforma, ma su questioni di quadro politico esterne alla riforma stessa. Raccogliere il giusto invito del presidente della Repubblica dovrebbe significare innanzi tutto non nascondere o addirittura mistificare queste elementari verità storiche.

Parliamo di Economia. Lei è presidente della Commissione Bilancio del Senato. Organismo importante. Avete ascoltato il Ministro Padoan. Il governo punta ad una crescita dell’1%. Cifra che viene contestata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ma anche da altri organismi. A parte i dati di agosto, sicuramente importanti, non è che l’anno 2016 sia stato all’altezza delle aspettative del governo. Insomma l’ennesimo spot ottimistico?

Portare il tasso di crescita dell’economia italiana all’1% nel 2017 non è uno spot ottimistico, ma un obiettivo programmatico che il Governo intende perseguire con grande determinazione. L’ufficio parlamentare di Bilancio, autorità tecnica autonoma, istituita grazie al nuovo articolo 81 della Costituzione, riformato nel 2012, ha espresso dubbi sulla reale possibilità di raggiungere questo obiettivo di crescita, con un deficit pubblico che voglia mantenersi entro il limite del 2%. Al momento tuttavia la Commissione europea non ha ancora accolto la richiesta, da parte delle’ l’Italia, di superare quel limite, anche se il Governo ha già chiesto al Parlamento di essere autorizzato a discostarsene di uno 0,4% di PIL. Qualora questo scostamento venisse in tutto o in parte accettato dall’Unione europea, anche la divergenza tra il Governo e l’ufficio parlamentare del Bilancio sarebbe destinata a ricomporsi. Accanto alla dimensione quantitativa della manovra, decisiva ai fini del raggiungimento degli obiettivi di crescita sarà la sua composizione qualitativa: in particolare è decisivo che una parte significativa delle risorse impiegate nella manovra venga utilizzata per sostenere gli investimenti, sia pubblici che privati.

Lei è ottimista sulla flessibilità di bilancio? Non le pare che stiamo grattando il fondo del Barile?

Penso che dobbiamo creare le condizioni per spingere la crescita oltre l’1%, per portarla verso il 2, se vogliamo che se ne avvertano gli effetti positivi nella vita concreta delle famiglie e delle imprese. Arrivare a questo obbiettivo, che è poi il senso del nostro lavoro, comporta due condizioni, la prima delle quali è nelle nostre mani solo fino ad un certo punto ed è riuscire davvero a cambiare verso alla politica economica europea, ristabilendo il primato politico della crescita rispetto alla stabilità. Abbiamo infatti bisogno che, accanto al lavoro di risanamento, che è necessario venga fatto dagli Stati nazionali, e che quindi accanto al fiscal compact – che non rinneghiamo, perché costituisce un principio d’ordine necessario in una federazione di Stati, che mantengono ancora una forte sovranità sulle politiche economiche e nello stesso tempo vogliono avere in tasca la stessa moneta – accanto a questo elemento di disciplina ci sia un motore espansivo, che si accenda a livello federale. Quando il nostro Presidente del Consiglio invita a fare come in America, intende esattamente questo. Negli Stati Uniti d'America, gli Stati che compongono l’Unione hanno il dovere del pareggio di bilancio: se non hanno il bilancio in pareggio, vanno in default e nessuno li assiste. Allo stesso tempo, però, c’è il motore federale che si accende e c’è un’enorme spinta espansiva, dovuta al fatto che l’azione del Governo federale e il Tesoro americano favoriscono la crescita e l’occupazione. Questo è il compromesso su cui si reggono gli Stati Uniti, che certamente ha i suoi problemi e i suoi limiti, ma i dati ci dicono che, pur con tutti i problemi, sta funzionando molto meglio del compromesso europeo, che spinge gli Stati a rispettare il rigore di bilancio, ma poi non ha il motore federale che si accende e spinge la crescita. Dunque è stata inventata la flessibilità, che ci tiene in vita in questo momento. Se ci togliamo questo ossigeno, soffochiamo. Altro è dire che questo ossigeno, quel poco che c’è, va usato in maniera intelligente. Qui le parole chiave sono due: una è la parola “riforme”, l’altra è la parola “investimenti”. Le riforme sono necessarie, perché sono gli scarponi che usiamo per camminare su quel crinale così sottile e scivoloso che separa i due precipizi che abbiamo ai lati del nostro cammmino: da un lato lo spread, dall’altro la recessione. Se indossiamo scarpe con le suole lisce, è facile scivolare e precipitare. Se abbiamo i ramponi, è più facile camminare con passo sicuro e possiamo anche accelerare il ritmo del nostro passo. Fuor di metafora, ciò vuol dire che gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica devono essere riqualificati, posto che non possono crescere, ma semmai devono diminuire un po’. Per farli diminuire un po’ e produrre crescita e uguaglianza sociale li dobbiamo riqualificare, ristrutturando la spesa pubblica, attraverso le riforme, cominciando dall’alto, ovvero dal Parlamento. Se infatti il Parlamento non funziona, non funziona lo Stato e, se non funziona lo Stato, l’economia va a farsi benedire. Questo è un concetto di normale buon senso: poi possiamo discutere sul merito di come si riorganizzano il Parlamento, il Governo di un Paese e lo Stato. Dire però che questo sarebbe un diversivo non ha senso, perché sarebbe come dire che non ci importa nulla della qualità delle nostre scarpe, mentre dobbiamo camminare su un tratto esposto e quindi pericoloso.

Renzi a Ventotene ha provato a rilanciare il sogno europeo. Ma qualche giorno dopo si è frantumato. Quanto pesa Renzi in Europa?

Renzi si trova a governare l’Italia nel pieno della crisi più grave del progetto europeo dal 1957 ad oggi. Ventotene e Bratislava sono due eventi che insieme ci descrivono perfettamente lo stato attuale della questione europea. Innanzi tutto ci dicono entrambi che i paesi che hanno sulle spalle la responsabilità più grande rispetto al futuro dell’Europa sono Germania, Francia e Italia: se i tre grandi fondatori agiscono in modo solidale e coeso, gli altri seguono. Se invece si fermano, la forza centrifuga prevale su quella centripeta e il progetto europeo entra in crisi. A Ventotene, dinanzi alle radici della più grande utopia storico-concreta che il Novecento ci abbia trasmesso in eredità e di fronte alla vista del Mediterraneo, con le sfide gigantesche che i suoi precari equilibri devono fronteggiare, sembravano prevalere la consapevolezza, la responsabilità e la solidarietà. Viceversa, a Bratislava, sono riemersi con prepotenza i conflitti fra interessi nazionali, secondo il copione tipico del procedimento intergovernativo. La prossima primavera l’Italia ospiterà il vertice programmato per celebrare il 60º anniversario dei Trattati di Roma: anche per questo abbiamo bisogno che il nostro paese arrivi alla prossima primavera, forte di una confermata stabilità di governo e di un riaffermato indirizzo politico riformatore.

“Giustizia, giustizia perseguirai…” (Devarìm XVI, 20). Intervista ad Haim Baharier

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Foto da www.businesspeople.it

E’ da pochi giorni finita la festa ebraica dello Yom Kippur, il giorno dell’Espiazione, è la festività più sacra del calendario ebraico. La giornata è dedicata all’espiazione spirituale, e al proposito di iniziare l’anno nuovo con una coscienza limpida. Ed è in questo spirito che abbiamo pensato di intervistare Haim Baharier, grande esegeta della Torah ed esponente della Comunità Ebraica di Milano, sulla crisi che sta vivendo l’Occidente. Ci offre l’opportunità di conoscere uno sguardo ebraico (spirituale e culturale) sul mondo contemporaneo. Baharier è nato a Parigi da genitori ebrei di origine polacca, entrambi passati attraverso l’orrore di Auschwitz, Haim Baharier è stato allievo di Emmanuel Lévinas, uno dei maggiori fi losofi del Novecento, e di Léon Askenazi, il padre della rinascita del pensiero ebraico in Francia. Matematico e psicoanalista, ma anche consulente aziendale, tiene da molti anni esclusive e memorabili lezioni di ermeneutica ed esegesi biblica. Ha pubblicato diversi volumi, tra cui La Genesi spiegata da mia figlia (Edizioni Garzanti, Milano 2015).

Dottor Baharier, lei è ermeneuta (o esegeta) della Torah. Prima di arrivare ad essere un interprete autorevole della Bibbia la sua vita ha conosciuto svolte importanti. Quali sono state, in sintesi, le tappe significative della sua vita. Come è arrivato all’Esegesi Biblica, lei che è un matematico e psicanalista?

Forse non sono stato io ad andare verso l’Esegesi Biblica e il pensiero d’Israel, sono arrivati da me a Parigi quando avevo 4 anni personificati da un precettore che mi pareva Matusalemme, sonnacchioso e tormentato dalla psoriasi. Il primo incontro ravvicinato non è stato d’innamoramento. Ma succede proprio così, non ci pensi, ci pensi un po’, ci pensi un po’ di più e non ne puoi più fare a meno. La svolta decisiva è poi avvenuta con l’incontro con Léon Askenazi e Emmanuel Lévinas, fautori del rinnovo degli studi ebraici in Francia. Per me la filosofia, la matematica e il pensiero d’Israel sono un tutto articolato.

Nel suo libro autobiografico, La Valigia quasi vuota, parla, tra l’altro, di due persone importanti per la sua vita: suo padre e Monsieur Chouchani. Quest’ultimo è una figura misteriosa, un clochard, un uomo di cultura immensa, che è stato il maestro di Emanuel Lévinas. Lei lo ha definito come un “grande enigma” della cultura del ‘900. Chi era quest’uomo che ha attraversato la sua giovinezza? Qual è stato l’insegnamento di questo maestro?


Peccherei nei confronti di Monsieur Chouchani anche se solo tentassi di imprigionarlo in quaranta o in quattrocento mila righe. Questa frase è per tranquillizzare i fabbricanti di miti e leggende.

Ora diventiamo seri. Monsieur Chouchani è stato il clown messianico dell’immediato dopo Shoa.

Suonava l’intelligenza, la cultura e il sapere, da virtuoso. Così era impossibile non notarlo, non guardarlo. E che cosa vedevi? Un vero e proprio clochard, dico un esemplare perfetto del claudicante, l’Occidente del dopo Shoa che deve interrogarsi, ebrei compresi, sul mostro partorito dall’Occidente stesso, per poter riavviarsi.

Lei è figlio di un sopravvissuto al campo di sterminio nazista di Auschwitz. La Shoah è il buco nero della storia del Novecento. Elie Wiesel, che lei ha conosciuto, parlava di Auschwitz come il tempo del “silenzio di Dio”. Anche un altro intellettuale di origine ebraica, il filosofo tedesco Hans Jonas, afferma che Auschwitz mette in discussione il concetto di Dio. L‘assenza, la non-onnipotenza, l’esilio, il dolore di Dio sono stati spesso richiamati dalla teologia post-Auschwitz, primo tra tutti da Jonas, che riprende quindi il concetto di Tzimtzùm accogliendone lo sforzo di spiegare in maniera non punitiva, non di onnipotenza il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente. Qual è la sua riflessione sulla Shoah?


Sono figlio di due sopravvissuti, non è una precisazione ma un dovere…

Elie Wiesel, un amico di famiglia, sapeva che l’espressione da lui coniata per Auschwitz, “il silenzio di Dio”, non mi convinceva. Il silenzio di Dio nella tradizione cabalista è un modo borghese di parlare dell’assenza di Dio. Secondo la loro lettura del testo della Genesi, il Creatore si è dato alla fuga, rifugiandosi nel suo Shàbbat, non avendo nemmeno ultimato il lavoro e lasciando sommarie istruzioni per l’uso e per il perfezionamento. Non dunque il silenzio di Dio, ma la sua assenza. La Shoa è stata resa possibile dal silenzio connivente e quindi dalla complicità di tutto l’Occidente.

Non se ne può più di sentire ancora oggi “non sapevamo”. A mio parere, ad Auschwitz il silenzio colpevole, assordante è stato quello degli uomini che ha soffocato la voce flebile del grande Assente.

Questo passaggio sulla Shoah ci porta dritti al tema della giustizia. Nella Torah è scritto: “giustizia, solo giustizia , perseguirai”. Questo imperativo biblico è uno
dei pilastri dell’ebraismo. Come si declina, dal punto di vista dell’ebraismo, oggi questa parola?


Incombe una precisazione, il testo dice “giustizia, giustizia perseguirai”. Questa ridondanza, secondo alcuni commentatori, inventa il coinvolgimento degli utenti della giustizia. E’doveroso assumere la responsabilità di ricercare ciò che è giusto nella giustizia. Un’altra lettura in questa ridondanza vede l’invito a fare uso di mezzi giusti nelle indagini di giustizia. Sono esigenze che la cronaca evidenzia quotidianamente.


L’Occidente del XXI secolo è attraversato da una profonda crisi antropologica. L’identità europea, in tempi di euroscetticismo, è diventata “liquida”. Quale può essere il contributo dell’Ebraismo alla crisi dell’uomo europeo?

Chiediamoci innanzitutto se l’ebraismo stesso è immune da questa crisi. Forse l’identità è come il progresso che si sviluppa principalmente nel conflitto. Si intende il conflitto con l’ambiente, il conflitto dell’individuo con la società, il conflitto tra le società, e non per ultimo il conflitto con se stessi. Forse l’identità si chiarisce ogni volta nella tregua che sancisce il cammino percorso. Il contributo dell’identità Israel, il nome che io darei all’identità ebraica che ha come paradigma il progresso, potrebbe essere esplicitato in questo modo.

C’è una parola, nei suoi libri, che mi ha
colpito: claudicanza (un concetto che lei accennava prima). Non va intesa come difetto fisico, diventa quasi una categoria filosofica per definire l’essere umano . Rimanda, cioè, ad un pensiero più profondo. E’ così? Quali implicazioni porta la “claudicanza”?

Sì è proprio così. La claudicanza è la presa di coscienza di un rimpicciolimento, ma non di una diminuzione. Rimpicciolito, piccolo, farò meno fatica a concepire il luogo dell’altro, la possibilità di un altro. Interessante il percorso biblico che origina il tutto nella relazione tra il primogenito e il secondogenito. Il primo deve imparare a accogliere il secondo senza traumi, il secondo dovrebbe fare da formatore al primo rassicurandolo: ti giuro non ti rubo nulla!

Gli Ebrei si autodefiniscono come “Popolo del Libro”. In tempi di fondamentalismo, l’ermeneutica può essere l’antidoto ad ogni tipo di radicalismo. Per l’ebreo la Bibbia è essenzialmente Mikra, ciò che scaturisce dalla lettura. Come va letta la Torah?

In realtà, il Libro non è ancora uscito dalla stampa!

La lettura della Bibbia è l’illustrazione di un divenire,

giorno dopo giorno, anno dopo anno bisogna leggere o meglio, studiare il testo e i commenti che si sono succeduti nei secoli e che fanno parte del libro. Siccome i commenti sono spesso contradditori, questa lettura costituisce il miglior apprendimento della pluralità.

Mi sia concesso di aggiungere la spiegazione di un apparente paradosso. La tradizione ribadisce spesso l’univocità del testo biblico. Sciogliamo la contraddizione spiegando che per la tradizione ermeneutica l’univocità è la possibilità di ricondurre ogni interpretazione ad un Maestro. Nel nome della dignità di ciascuna lettura non vi deve essere una comunicazione anonima.

Cosa può dire all’uomo secolarizzato La Torah?

Staremo a vedere, staremo ad ascoltare ciò che dirà la Torah all’uomo secolarizzato che la prenderà in mano per leggerla senza pregiudizi e senza rivendicazioni.

Tirando le somme: cosa vuol dire, in profondità, essere ebrei oggi?

Potremmo dire molto. Mi accontento di un sentire nuovo, sentirmi Israel, e cioè nello stesso tempo diasporico, cittadino del Paese dove risiedo, e pienamente Israeliano.Al di là di ogni considerazione meramente politica, ritengo che lo Stato di Israele è dov’è, dove deve essere, in rappresentanza di tutto l’Occidente. Va aiutato, sicuramente non sanzionato. Siamo tutti lì.

SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata ai cittadini

COPSilenzi.inddVogliamo assumerci la piena responsabilità dei nostri errori e auspichiamo che voi li indichiate quando manchiamo noi di farlo. Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna repubblica può sopravvivere.”

John Fitzgerald Kennedy

In caso di dubbio, la trasparenza deve sempre prevalere. L’amministrazione non dovrebbe mantenere informazioni riservate solo perché i funzionari pubblici potrebbero essere messi in imbarazzo dalla loro pubblicazione.”

Barack Obama

IL LIBRO

Dieci casi esemplari di trasparenza negata. Uno più stupefacente e vergognoso dell’altro… Un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…” (Dalla prefazione di Gian Antonio Stella)

Quanto ha speso il sindaco in viaggi e con chi è andato a cena? Quanto è sicura la mia scuola? Quanto è inquinata l’aria del mio quartiere? Come sono fatte le graduatorie dei concorsi pubblici? L’amianto uccide ancora, ma dove? Quanti sono i “derivati” acquistati dal ministero e dalle amministrazioni?

Tutte informazioni non coperte dal segreto di Stato, ma il cui accesso, fino a oggi, è stato negato a cittadini, associazioni e giornalisti. A dispetto delle sbandierate riforme sulla trasparenza e delle promesse elettorali. Un atteggiamento che, oltre a essere ingiusto, è dannoso perché il prezzo che gli italiani pagano in vite umane e in reddito pro capite è altissimo.

Finalmente ora la situazione dovrebbe cambiare perché è stato varato anche da noi, dopo anni di pressioni e di lotte, il Freedom of Information Act (Foia), cioè una legge che consente libero accesso ai documenti pubblici. Un ritardo grave rispetto agli altri paesi europei, che ha alimentato la sfiducia nelle istituzioni ed è stato causa di inefficienze e corruzione. Certamente l’applicazione della legge non sarà facile anche perché, come dimostra questo libro, i cassetti dello Stato sono sempre stati tenuti rigorosamente chiusi.

Le battaglie qui raccontate non hanno tutte un lieto fine ma rappresentano il segnale che la democrazia può essere praticata a partire dal basso e che la palude burocratica può essere combattuta.

GLI AUTORI

Ernesto Belisario, avvocato, si occupa di diritto amministrativo, accesso all’informazione e diritto delle tecnologie, ed è autore dei libri “La nuova Pubblica Amministrazione digitale” e “Diritto tra le nuvole: profili giuridici del cloud computing”. È docente in numerosi corsi e master sui temi della digitalizzazione e della trasparenza e collabora con CheFuturo, IlFattoQuotidiano.it e Agendadigitale.eu.

Su Twitter è @diritto2punto0

Guido Romeo, giornalista, scrive di innovazione per “Il Sole 24 Ore” e “Vogue”, ed è stato caposervizio per il data-journalism e l’economia a “Wired”. È cofondatore di Diritto Di Sapere, la prima ong italiana dedicata all’espansione e alla difesa del diritto di accesso all’informazione.

Su Twitter è @guidoromeo

Entrambi gli autori hanno promosso la campagna Foia4Italy (www.foia4italy.it) per l’approvazione della legge sulla trasparenza e l’accesso all’informazione.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la Prefazione di Gian Antonio Stella

Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico. (Max Weber)

Tryckfrihetsförordningen è impronunciabile? Provate con «l’art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito…». Qual è la differenza? Chi parla lo svedese la parola Tryckfrihetsförordningen la capisce benissimo: è il diritto alla libertà di stampa e alla trasparenza. Chi parla l’italiano davanti ai nostri codicilli stramazza: quel linguaggio iniziatico è una barriera che impedisce l’accesso. Come diceva tre secoli fa Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». È passato un quarto di millennio da quando la Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini l’accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica. Mancavano tre anni alla nascita di Napoleone, dieci alla Dichiarazione d’indipendenza americana, ventitré alla presa della Bastiglia e alla Rivoluzione francese. Eppure duecentocinquant’anni dopo, come dimostrano Ernesto Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato, l’Italia fatica a adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni in tutti quei paesi che credono nelle ragioni di John F. Kennedy. E cioè che «come disse un saggio: “un errore non diventa madornale finché non rifiuti di correggerlo”» e che proprio la denuncia degli errori può aiutare chi comanda a governare meglio. «Senza dibattito, senza critica, nessuna amministrazione e nessun paese può avere successo come nessuna Repubblica può sopravvivere.» Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi anni. Perfino dopo il decreto legislativo 33 del 2013 (il «decreto trasparenza» voluto da Mario Monti) che ordina alle amministrazioni di mettere a disposizione dei cittadini (salvo rare eccezioni) una quantità senza precedenti di documenti e informazioni in loro possesso nell’intento di favorire «un controllo diffuso da parte del cittadino sull’operato delle istituzioni e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Se «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo», l’occhio del cittadino può sgrassare il bilancio più obeso. E scorgere storture, clientelismi, sprechi, privilegi, reati e malversazioni altrimenti invisibili. Abbiamo visto la Calabria negli anni del governatore Giuseppe Scopelliti pubblicare sul Bollettino ufficiale della Regione decine e decine di delibere di spesa con i nomi degli oscuri destinatari dei soldi per questo o quell’incarico coperti da ancora più oscuri omissis. Come nel caso della concessione del vitalizio, che solo successivamente sarebbe stato revocato, a Mimmo Crea, per anni consigliere e assessore regionale, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per l’«onorata sanità». «Il dirigente delle risorse umane – diceva l’incredibile delibera – determina, per quanto in premessa evidenziato, che qui si intende integralmente riportato e accolto: di liquidare all’on. omissis l’assegno mensile dell’importo di euro 6647,67 al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio maturato per il mandato di consigliere regionale.» Abbiamo letto, a dimostrazione di come il problema riguardi tutto il paese da Lampedusa a Vipiteno, interviste come quella del capogruppo regionale dell’unione per il trentino, Giorgio Lunelli, che per giustificare il rifiuto di rendere pubbliche le ricevute per le quali chiedeva i rimborsi disse: «Io sono per la massima trasparenza ma dobbiamo stare attenti all’eccesso di trasparenza, che può mettere in difficoltà chi svolge attività politica. Se io ho un incontro riservato e vado a pranzo con una persona può rappresentare un problema dover pubblicare la spesa con il nome della persona con cui sono andato a pranzo». Stupefacente. È l’esatto motivo per cui nei paesi seri è obbligatorio denunciare tutto ma proprio tutto. Scrive divertita Caterina Soffici in Italia yes Italia no, dove ci mette a confronto con l’Inghilterra: «Perfino Buckingham Palace è trasparente. La regina pubblica ogni anno un rapporto di oltre cento pagine con il rendiconto di tutte le spese della monarchia, comprese le più piccole, come la sostituzione di un vetro o di un water nella tenuta di Balmoral. Ci sono gli stipendi dello staff, i costi e i consumi volumetrici di gas, elettricità, combustibile per scaldare le residenze reali. Anche ogni volo o treno preso dalla regina, dal suo staff e dai membri della famiglia reale per viaggi dentro e fuori dall’isola è rendicontato nel dettaglio».i In certi casi, aggiunge, si rasenta il ridicolo come in «quello di tal Sir Campbell: ha registrato un pagamento di 15 sterline per un discorso tenuto il 18 agosto 2010 al Probus Club di Auchtermuchty. L’importo del gettone di presenza, si specifica, è stato donato in beneficenza». tutti candidi come angioletti? Il conto a Panama di David Cameron, per fare un esempio, dice che non è così. I furbi fanno i furbi anche là. Sanno però di rischiare molto di più. La trasparenza ha imposto allo stesso Cameron, infatti, di scrivere nella sua scheda di aver ricevuto in dono dal personal trainer Matt Roberts venticinque sedute di ginnastica che sarebbero costate 130 sterline l’una. Somma girata in beneficenza alla onlus suggerita dall’allenatore. Al di là dell’Atlantico funziona allo stesso modo. Dice tutto il caso dell’ex segretario al tesoro americano Henry Paulson, costretto nel 2009 a dimettersi per aver fatto delle telefonate (vietatissime perché lì il conflitto di interessi è una cosa seria) alla Goldman Sachs, l’azienda della quale in precedenza era stato il numero uno. Vi chiederete: e come fu scoperto? Sulla base del Freedom of Information Act, la legge sulla libertà d’informazione, il «New York times» aveva chiesto l’elenco di tutte le chiamate fatte dall’ufficio dell’allora potentissimo segretario. Le aveva esaminate una a una et voilà: smascherato. E qualcosa di simile era già successo ad Al Gore, beccato e messo alla gogna dagli avversari per aver negato di aver fatto dal suo ufficio un po’ di telefonate elettorali quando correva contro George W. Bush: non si fa. Questa è la trasparenza. Che non può essere concessa a capriccio, un po’ sì e un po’ no, in dosi omeopatiche. o c’è o non c’è. Da noi, invece, i trinariciuti guardiani della riservatezza sono andati avanti per anni a invocare la privacy. L’hanno invocata in Sicilia, quando opposizioni e giornali diedero battaglia per avere la lista dei 397 giovani assunti senza concorso in certe municipalizzate e società miste palermitane: «C’è la privacy, quei nomi non li possiamo dare» spiegava il vicesindaco Giampiero Cannella, braccio destro di Diego Cammarata. «Io li renderei pubblici, ma si rischia la gogna mediatica, un clima da unione Sovietica, mi sembra una violenza ingiusta verso chi era disoccupato e ora ha finalmente un posto di lavoro.» Il difensore civico Antonino tito, invitato a dire la sua, sospirò: «Non ho il potere di fare questa richiesta». Finché saltò fuori che tra i fortunati assunti, per pura coincidenza, c’erano anche i suoi figli Giuseppe e tania. Hanno invocato la privacy a tolentino, nelle Marche, dove i dirigenti della municipalizzata Assm Spa si sono sì rassegnati a mettere on line, come dice la legge, le loro retribuzioni, ma erano convinti che nessuno se ne sarebbe accorto. Così, quando una rivista locale distribuita ogni mese in ottomila famiglie, «Mpn» («Multiradio Press News»), ha osato pubblicare le cifre «per permettere anche a chi non ha tempo o dimestichezza coi mezzi informatici di leggere i dettagli delle varie spese», hanno fatto il finimondo. «La condotta da voi tenuta con la pubblicazione del periodico “Press News” – si leggeva in una lettera alla rivista che minacciava sfracelli – è assolutamente contraria alla normativa vigente in materia di protezione e riutilizzo dei dati personali e, più in generale, ai principi di diligenza e buona fede. La censura si basa sulla totale assenza di una preventiva richiesta scritta per il riutilizzo dei dati personali pubblicati nel sito web di Assm Spa e dell’estratto della delibera del consiglio di amministrazione.» Infatti, proseguivano gli avvocati, «l’obbligo previsto dalla normativa in materia di trasparenza on line della Pa di pubblicare dati in “formato aperto” non comporta che tali dati siano anche “dati aperti”, cioè liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque scopo». Hanno invocato la privacy nel maggio del 2014 in Sardegna per non consegnare ad Anthony Muroni, il direttore de «L’unione Sarda» che lo chiedeva da settimane, l’elenco dei consiglieri regionali appena decaduti ma già in pensione. Elenco indispensabile dopo la scoperta che la presidente del consiglio uscente Claudia Lombardo, perso il seggio, era già in pensione a quarantun anni con 5100 euro netti al mese pur essendo più giovane di Nicole Kidman o Cameron Diaz. E l’hanno invocata nelle regioni autonome del Nord. Come in Friuli-Venezia Giulia dove la governatrice Debora Serracchiani sbalordì i partecipanti a un convegno raccontando di avere un «problemino» coi dirigenti dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari: «Ho chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’aeroporto, posso sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la privacy!». E anche dopo essersi rassegnati a mettere on line le buste dei sergenti, dei caporali e dei soldati semplici, i vertici aeroportuali si sono rifiutati di rivelare lo stipendio del più pagato di tutti, il direttore generale. Nota nella casella: «Compenso deliberato: dati non trasmessi». Perché? Perché trattandosi comunque di una Spa, pur avendo un unico azionista… l’Avvocatura dello Stato dice che anche gli stipendi più alti devono essere pubblici? Loro, i vertici, dissentono. Quanto al trentino-Alto Adige, le autorità locali hanno avuto per la trasparenza (non è mai stata data la lista neppure di chi ha la tessera gratis dell’autostrada del Brennero, totalmente pubblica) una vera allergia. ogni volta che scoppiava uno scandalo per le retribuzioni stratosferiche (si pensi che l’assessore provinciale alla Sanità sudtirolese, Richard theiner, nel 2008 prendeva 22.900 euro e cioè 6600 più di ursula Schmidt, ministro della Sanità in Germania) o per i trattamenti pensionistici, si alzavano barricate. Privacy! Privacy! un alibi penoso: il garante per la privacy ha infatti chiarito da anni che la legge 675/96 sulla tutela dei dati sensibili e in seguito il «codice privacy» non hanno «inciso in modo restrittivo sulla normativa posta a salvaguardia della trasparenza amministrativa». Pertanto «la disciplina sulla tutela dei dati personali non può essere in quanto tale invocata strumentalmente per negare l’accesso ai documenti». In testa ai guardiani della privacy sempre lui: Franz Pahl, un «duro e puro» autonomista, prima presidente del consiglio provinciale e poi dell’Associazione ex consiglieri del trentino-Alto Adige. Così roccioso nella difesa dei segreti e dei privilegi che quando i neopensionati che avevano esagerato furono chiamati a rendere, nel 2014, una parte dei mega anticipi sui vitalizi (calcolati come se tutti dovessero vivere ottantacinque anni!) rispose: «Non restituisco neanche un euro!». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Napoletan-tirolese. Per farla corta, a duecentocinquant’anni dalla prima legge mondiale sulla trasparenza, migliaia di burocrati italiani, arroccati nei palazzi del potere centrale e in quelli del potere periferico, sembrano in trincea con l’elmetto e la baionetta a difendere l’indifendibile: la segretezza dei dati. Scriveva Max Weber: «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico». È passato un secolo. Siamo sempre inchiodati lì. Ernesto Belisario e Guido Romeo, in questo libro, raccontano dieci casi esemplari di trasparenza negata. uno più stupefacente e vergognoso dell’altro. Dalle cortine fumogene sollevate sui soldi della politica a quelle che impediscono ai cittadini di saperne di più sugli edifici scolastici a rischio, sui centri di accoglienza per i profughi troppo spesso in mano a furbetti e delinquenti, sui siti che ancora traboccano di amianto assassino… un reportage che aiuta a capire quanto la battaglia per una trasparenza vera e non solo formale non sia stata ancora vinta. Anzi…

i Caterina Soffici, Italia yes Italia no: che cosa capisci del nostro paese quando vai a vivere a Londra, Feltrinelli, Milano 2014.

Ernesto Belisario e Guido Romeo, SILENZI DI STATO. Storie di trasparenza negata e di cittadini che non si arrendono, (Prefazione di Gian Antonio Stella), Ed.Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 192, 14 euro

Gli Eurosprechi che alimentano il populismo. Un libro di Roberto Ippolito

“Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di ospedale. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare.” Vanessa Stevenson, cittadina di Hillingdon, ovest di Londra, dopo il referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

“Chi immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi.”
Roberto Ippolito

Come sempre documentatissimo, Roberto Ippolito, nel suo ultimo libro, fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi dell’Unione Europea: autostrade con poche auto nonostante immani investimenti, aeroporti nuovi eppure deserti, tonno pagato sei volte di più, dipendenti gratificati da un’indennità extra anche se malati, la proliferazione di enti perfino con nomi simili, la media di un immobile su cinque al mondo non adoperato. E poi errori che inficiano il 4,4 per cento di tutti i pagamenti. Eurosprechi mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Fa rabbia che la casa comune, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dagli innumerevoli episodi raccontati dettagliatamente emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. Con un paradosso: il deficit di bilancio balza al 4,8 per cento, molto oltre il tetto di Maastricht. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Gli europeisti sono davvero impegnati per togliere pretesti all’azione disgregatrice? L’Unione può superare le resistenze e crescere se, oltre a ritrovare la forza dello slancio ideale e una visione solidale, affronta adeguatamente la questione dei soldi. Gli eurosprechi sono un macigno sulla strada di chi vuole gridare ancora: “Viva l’Europa”.

L’Autore
Roberto Ippolito, scrittore e giornalista, ha pubblicato con Chiarelettere i libri di successo “Ignoranti” (2013) e “Abusivi” (2014). In precedenza ha firmato “Evasori” (Bompiani 2008) e “Il Bel Paese maltrattato” (Bompiani 2010). Ha diretto a Roma “Libri al centro” a Cinecittà, “conPasolini”, “Nel baule” al Maxxi; a Ragusa, il festival letterario “A tutto volume”. È stato editor del “Festival dell’economia” di Trento e ha ideato il “Tour del Brutto dell’Appia Antica”. Dopo aver curato a lungo l’economia per il quotidiano “La Stampa”, è stato direttore comunicazione di Confindustria e direttore relazioni esterne dell’Università Luiss, dove ha anche insegnato “Imprese e concorrenza” alla Scuola superiore di giornalismo.

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro.

L’Unione Europea non va di moda. Va di moda attaccarla, denigrarla, ritenerla la causa di tutti i mali. Fonte di sventure, di impoverimento, di ingiustizie. Per quello che fa e anche per quello che non fa. Eppure l’Europa è qualcosa di unico al mondo. Ma quale Europa? Questo libro fa venire alla luce e rende di dominio pubblico sprechi miliardari spaventosi. Mette nero su bianco che, così com’è, l’Unione non funziona, è un sogno rovinato. Già prima della Brexit, l’addio della Gran Bretagna alle istituzioni comuni deciso con il referendum del 23 giugno 2016, l’Unione era malata. Dopo quel giorno incredibile tutto è diventato più incerto. Il domani per l’Europa ci può essere, se l’Europa cambia. Sapere è più prezioso che mai. Fa rabbia che l’Unione, creata per assicurare una vita migliore ai suoi cittadini, butti via con i soldi se stessa. Dov’è la politica che costruisce? Dove sono i progetti che fanno progredire? Dov’è l’attenta valutazione del beneficio di ogni euro impiegato? Episodio per episodio emerge un’Europa che annaspa nelle piccole convenienze quotidiane con grandi costi. Ci sono sperperi senza fine che nessuno potrebbe mai neanche immaginare. E pensare che il tema dei costi dell’Unione ha già un grande impatto sulla gente, ha pesato nella vittoria del leave, l’abbandono dell’Unione da parte del Regno Unito, e fornisce legna agli incendiari leader populisti e anti-immigrati che infiammano l’Europa. Per rendersene conto potrebbero bastare le opinioni degli abitanti di Hillingdon, il quartiere a ovest di Londra dove il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, l’Ukip di Nigel Farage, ha pilotato il grosso successo della Brexit respinta invece praticamente in tutta la capitale inglese. 1 Con lo scrutinio alle ultime battute, lasciando l’ospedale di Hillingdon all’alba, una votante, Vanessa Stevenson, ha sfoderato in chiave personale tutto il suo rancore anti-Ue: «Il mio mondo è mia sorella ricoverata in questo schifo di posto. Sporco, senza infermieri, tenuto come un garage. Cosa dovevo votare? Leave! Così invece di versare 350 milioni di sterline alla settimana a Bruxelles, daremo letti e coperte decenti a chi deve farsi curare qui». Vanessa Stevenson ha semplificato troppo? Ha mischiato le conseguenze delle politiche locali con quelle europee? Si è sentita appagata dall’aver individuato e messo ko chi ha identificato come il nemico? La sua irritazione sembra la sintesi privata della diffusa avversione per l’Europa. Nove giorni prima del voto, il vendutissimo quotidiano conservatore inglese «The Sun», impegnato a tirare la volata alla Brexit e alle sue motivazioni, ha scritto che, nei «nostri 43 anni nell’Unione Europea», Bruxelles «si è dimostrata sempre più avida, sprecona, tirannica e incredibilmente incompetente in una crisi». 2 I giudizi all’origine della Brexit sul cattivo governo dell’Unione, fondati e non, si ritrovano diffusi nei paesi membri, da est a ovest, da nord a sud, tra paure, arroccamenti e propaganda. Travolgono le istituzioni comuni a prescindere, sovrapponendole alle politiche adottate, anche se le politiche possono essere differenti in rapporto ai risultati delle elezioni per il Parlamento Europeo, agli orientamenti e alla composizione della Commissione europea, al colore e agli atteggiamenti dei governi nazionali. Nei singoli stati c’è chi strilla, chi esagera, chi sbatte la porta e chi vorrebbe sbatterla. Ma i problemi esistono. Gli eurosprechi esistono. E neanche pochi. Infatti nelle pagine che seguono il lettore troverà vicende e importi scaturiti da ricerche, davvero infinite, cioè qualcosa di estremamente concreto ed estremamente negativo. Questo libro rivela quanto e come si sperpera, offendendo perfino il comune senso del pudore (economico). Dilapidare i soldi dell’Unione, facendola funzionare male, mette in pericolo addirittura la sua sopravvivenza. E dunque guardare in faccia lo stato delle cose, passare al setaccio i comportamenti significa essere consapevoli della svolta necessaria, nella lunga stagione di stallo del processo di integrazione. Sono innumerevoli e gravi i casi trovati di sperpero di soldi dei cittadini, soldi spesso buttati via senza logica, senza progetti, senza controlli, senza badare ai risultati ma con gli eccessi della burocrazia. Sciupare montagne di euro mina la fiducia nei confronti delle attuali istituzioni. Riduce la passione e l’interesse della gente anche per il loro rafforzamento. L’uso distorto delle risorse a Bruxelles e nei posti più disparati del continente è uno sgambetto sul cammino dell’unificazione, ostacola le azioni comuni su fronti caldi come la sicurezza o le difficoltà dell’economia e offre argomenti, facili ma forti, agli avversari dell’Unione. I costi dell’Europa sono il carburante dell’avanzata antieuropeista. L’operazione trasparenza dei conti, al contrario, può costituire una carta decisiva da giocare per chi vuole rilanciare la costruzione europea, oggi ferma e con il futuro appannato da pesanti incertezze. Questo libro è stato concepito in seguito a una constatazione elementare: finora nessuno si è preso la briga di studiare i conti dell’Unione e di descrivere che fine fanno veramente piccole e grandi somme. Sempre pronta a rimproverare, bocciare e mettere in castigo, anche giustamente, i governi dei paesi membri (ventisette senza la Gran Bretagna), la Commissione europea, presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker dall’1 novembre 2014 e nei dieci anni precedenti dal portoghese José Barroso, 3 non sembra guardare con uguale severità in casa propria. E pensare che il rigore, il tanto discusso rigore, è la sua bandiera, quella del Partito popolare europeo maggioritario nel Parlamento Europeo e della cancelliera tedesca Angela Merkel. L’esigenza di serietà nelle politiche economiche di ogni stato, per soddisfare l’interesse generale, è stata sostenuta in modo anche oltranzistico. È storia. Nonostante questo, ben altra cosa sono i fatti che avvengono nella casa comune. Nell’orbita dei ventotto commissari, tra direzioni, agenzie e segrete stanze, ne accadono di tutti i colori. Per tutte le scoperte raccontate, ci sono le pezze d’appoggio e sono indicate le fonti. Non si tratta di opinioni. Un grosso lavoro di accertamento e verifica viene compiuto dalla Corte dei conti europea, che ha sede a Lussemburgo. La Corte punta ripetutamente il dito sull’uso anomalo o sbagliato del denaro dei contribuenti. I suoi giudizi sono importanti anche se non vincolanti e dovrebbero pesare visto il compito, affidato dal Trattato di Bruxelles del 1975, di controllare la regolarità delle entrate e delle spese dell’Unione Europea e la correttezza della gestione finanziaria. 4 Invece per le sue relazioni e per i suoi ammonimenti il disinteresse sembra sistematico. Queste pagine sono state realizzate guardando in tutte le direzioni, ma più di cento documenti della Corte spulciati e studiati rappresentano la base fondamentale essendo ufficiali e il frutto dell’analisi delle spese effettuate e delle decisioni prese, dei contratti stipulati e delle pratiche svolte nonché dei sopralluoghi e dei colloqui con valore formale. All’ombra del presidente francese François Hollande o del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi o della Merkel e dei governanti di tutti i paesi membri, miliardi e miliardi di euro vengono dissipati ogni anno. Sì, miliardi. Un bel po’ di miliardi. Se si continua così, il disfacimento di tutta l’Unione è inevitabile. Altro che Brexit. Chi crede nell’Unione Europea non può chiudere gli occhi sulla questione quattrini, non deve: gli eurosprechi sono troppi e troppo abbondanti. Chi impiega il denaro dei cittadini ha il dovere di preoccuparsi. Direzione per direzione, ente per ente, ufficio per ufficio, il portafoglio può essere aperto con maggiore oculatezza e maggiori benefici. E il sogno dell’Unione può essere coltivato, per un grande disegno solidale ancora più forte e per il benessere dei suoi abitanti, 450 milioni una volta salutati quelli al di là della Manica. Chi non vuole veder scendere ancora questo numero e immagina un’Europa guarita e in piena salute non può far finta di niente nei confronti degli eurosprechi. Il viaggio negli sperperi del Vecchio Continente, dunque, ora può cominciare.

Pagamenti bocciati
Alcuni hanno persino tratto vantaggio dallo scompaginamento dell’Europa. L’Ue però non figura tra i beneficiari. Jan Zielonka 20145

Anche lui è preoccupato. Il portoghese Vítor Manuel da Silva Caldeira cammina pensieroso. È per strada a Strasburgo, diretto al Parlamento Europeo. In qualità di presidente della Corte dei conti europea, la mattina di giovedì 26 novembre 2015, non può sottrarsi al suo compito, anche se sgradevole: certificare, numeri alla mano, che l’Unione Europea butta via i soldi con una facilità estrema. E così, nella seduta plenaria del Parlamento, illustrandomla relazione sul bilancio del 2014 dell’Unione 6 presentata al termine dell’analisi dei conti, pronuncia il verdetto che non potrebbe essere più severo: «Troppe spese non sono ancora conformi alle norme finanziarie dell’Ue» sono le sue parole che rimbalzano nell’aula. 7 L’intervento dura pochi minuti, in un clima gelido. Non ci sarebbe da aggiungere altro per descrivere l’inesorabile dissipazione di soldi e quindi di opportunità. Questa è l’Europa. Oggi. Il discorso di Caldeira ai deputati non può che essere una rapida sintesi dei giudizi e dei fatti contenuti nella relazione sul bilancio che occupa 320 pagine della «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea». 8 Più che sufficiente, però, per mostrare il panorama tutt’altro che limpido. Il presidente della Corte dei conti europea sente infatti il bisogno di lanciare un avvertimento: «La gestione finanziaria dell’Ue trarrebbe grande beneficio da una maggiore trasparenza. Ciò è fondamentale per ottenere la fiducia dei cittadini». Caldeira fa suonare l’allarme: «A giudizio della Corte, le risorse di bilancio dell’Ue potrebbero essere investite meglio e più rapidamente per affrontare le molte sfide cui l’Europa è confrontata». Troppe spese non conformi vuol dire troppi soldi spesi male. La Corte dei conti europea calcola errori nei pagamenti del 2014 pari al 4,4 per cento di tutte le uscite. I soli errori incidono per 6,3 miliardi di euro su un bilancio complessivo di 142,5 miliardi. La cifra è enorme dopo le cifre immense già registrate per i due anni precedenti. Il livello di errore stimato, che misura il livello di irregolarità, infatti, è praticamente lo stesso di quello del 2013 e del 2012, quando è stato del 4,5 per cento. Ancora una volta si colloca al di sopra della soglia di rilevanza del 2 per cento nonostante le azioni correttive disposte. Il 4,4 per cento deriva dalle verifiche che sono state compiute su un esteso campione, che copre tutti i settori di spesa. La realtà, però, è anche peggio. All’esito del grosso lavoro di accertamento svolto ad ampio raggio bisogna aggiungere i molti errori che la stessa Corte dichiara di non essere in grado di quantificare, «quali le violazioni minori di norme in materia di appalti, l’inosservanza di norme in materia di pubblicità o il recepimento non corretto di direttive dell’Ue nella legislazione nazionale». Questi altri errori «non sono inclusi nel tasso» stimato dalla Corte che, pertanto, dovrebbe essere più elevato.9

Roberto Ippolito, EUROSPRECHI. Tutti i soldi che l’Unione butta via a nostra insaputa, Chiarelettere, Milano 2016. Pagg. 160, 13 euro

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1Ettore Livini, Chi vince. Tra i «marziani» di Hillingdon. «La Ue era solo per i ricchi», «la Repubblica», 25 giugno 2016.
2BeLeave in Britain, «The Sun», 14 giugno 2016. Editoriale anticipato alle 22.58 del giorno prima sul sito «thesun.co.uk» con il titolo Sun Says. We urge our readers to beLeave in Britain and vote to quit the Eu on June 23.
3In carica dal 22 novembre 2004 al 31 ottobre 2014.
4Trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati che istituiscono le Comunità europee e del trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee, firmato a Bruxelles il 22 luglio 1975 e in vigore dall’1 giugno 1977, «Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. L359 20° anno, 31 dicembre 1977.
5Jan Zielonka, docente polacco di Politiche europee all’Università di Oxford, Is the Eu doomed?, Polity Press, Cambridge 2014 (edizione italiana Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 2015).
6Corte dei conti europea, «Relazione annuale della Corte dei conti sull’esecuzione del bilancio per l’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni relative a questo documento in tutto il libro sono ricavate anche da Corte dei conti europea, «2014 Sintesi dell’audit dell’Ue. Presentazione delle relazioni annuali della Corte dei conti europea sull’esercizio 2014», Lussemburgo, 10 novembre 2015. Le citazioni prive di note in tutte le pagine successive sono relative a questi due documenti.
7Corte dei conti europea, «Discorso di Vítor Caldeira, Presidente della Corte dei conti europea. Presentazione delle relazioni annuali sull’esercizio 2014. Seduta plenaria del Parlamento Europeo», Strasburgo, 26 novembre 2015.
8«Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea» n. C373 58° anno, 10 novembre 2015.
9Corte dei conti europea, «Relazione annuale sull’esercizio 2014 – Risposte alle domande più frequenti», Lussemburgo, 10 novembre 2015.

Aldo Moro, lo statista e il suo dramma. Intervista a Guido Formigoni

13bcbb6cover26474-jpegDOMANI al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle alte cariche dello Stato, si svolgerà la Cerimonia per il Centenario della nascita di Aldo Moro. Lo statista pugliese è stato l’uomo più importante, dopo De Gasperi, per la democrazia italiana. La sua tragica fine, ucciso barbaramente dalle BR, segnò per sempre la storia dell’Italia repubblicana e della Democrazia Cristiana. Quali sono le radici politiche di Aldo Moro? Cosa ha significato Moro per la democrazia italiana? Di questo, e altro, parliamo con lo storico Guido Formigoni, Ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano. Formigoni è un conoscitore profondo della vicenda politica morotea. E’ appena uscita, per la casa editrice Il Mulino, una biografia sul leader democristiano: Aldo Moro, Lo statista e il suo dramma. (pagg. 490).

Professor Formigoni, il 23 settembre sono cento anni dalla nascita Aldo Moro, lei ha appena pubblicato una corposa biografia, per la casa editrice Il Mulino, sullo statista pugliese. Il suo è stato un lavoro profondo di ricerca archivistica. Quali novità storiografiche sono presenti nel suo libro? 

Ho tentato di dare un’immagine di Moro che tenga assieme gli aspetti diversi della sua personalità, come uomo, credente, intellettuale, giurista, marito e padre di famiglia, oltre che politico. Non è cosa semplice, soprattutto per la riservatezza del suo carattere, che ha lasciato poche tracce. Ma egli, pur essendo profondamente dedito alla sua vocazione politica, non ha mai voluto essere un “politico di professione”. Poi, ho voluto inserire la sua biografia su uno sfondo internazionale complessivo (le carte americane sono a questo proposito molto utili) e in una comprensione più articolata del dibattito politico interno alla Dc (soprattutto in alcuni momenti cruciali). La documentazione inedita aiuta a fare qualche passo avanti in questa direzione.
Devo anche dire che ho tentato di fare un lavoro che sia simpatetico con il personaggio (condizione necessaria per capirlo), ma non agiografico. Ho anche individuato alcuni limiti e soprattutto una tensione interna alla sua politica, che mi ha fatto usare il sottotitolo “Lo statista e il suo dramma”. Non solo il dramma dell’assassinio, ma della crescente difficoltà che egli sperimentò a far convergere tutti gli elementi della sua proposta politica.

Sicuramente dopo De Gasperi è l’uomo più importante nella storia della democrazia italiana. Qual era la sua visione della politica? Per alcuni, denigratori, rappresentava “gli arcani del potere”. Invece era l’uomo che guardava lontano, nel senso che capiva i movimenti profondi della società italiana. Perché questa dicotomia?

Il suo modo di far politica, e anche la sua peculiare leadership, erano in effetti complessi da capire. Non tanto per il luogo comune del linguaggio astruso (che gli fu cucito addosso: fu la stampa a confezionare addirittura alcune delle famose espressioni contraddittorie, come “convergenze parallele”). In realtà egli parlava con grande logicità e chiarezza, anche se non era certo un demagogo e forse era un po’ prolisso e qualche volta noioso. Ma il problema è più profondo. Da una parte egli capiva in anticipo molti problemi e sapeva dove voleva andare: aveva un progetto, un discorso sul ruolo dello Stato rispetto alla società e sul ruolo dell’Italia nel mondo, che erano indubbiamente lungimiranti. Ma aveva poi la convinzione che questo progetto andasse perseguito con grande prudenza e trainandosi per così dire un mondo che era lontano, distratto, problematico. Per non causare controreazioni pericolosissime (in un paese dalla democrazia fragile e incerta), non bisognava mai forzare. Costruire piuttosto lentamente il consenso. Qui stanno le origini sia di alcuni suoi grandi successi, sia di una possibile rilettura del suo ruolo come pigro insabbiatore delle novità, quando non riusciva a rendere palese che le sue lentezze erano mirate a non pregiudicare un obiettivo, e non semplicemente frutto di conservatorismo. Comunque, quando lo riteneva necessario, sapeva usare la battaglia e la durezza del confronto delle idee: si pensi alla lotta contro il ritorno indietro reazionario dei primi anni Settanta.

Moro è un “figlio” spirituale di Montini (che diventerà, poi, Papa Paolo VI). La sua era una spiritualità profonda, per certi versi, a mio modo di vedere, anche mistica. Quali sono le radici della spiritualità morotea?

Certo, abbiamo coscienza di un legame con la cultura montiniana e la sintesi tra fede e modernità che essa perseguiva. Però abbiamo poche tracce per indicare i tratti profondi e personali della sua spiritualità. Possiamo ricordare la frequentazione diretta del Vangelo fin da giovane, il piacere nell’incontrare il Concilio (anche se non ne parlò mai in pubblico), alcuni struggenti cenni di fede negli scritti dalla prigionia brigatista. Non so se si possa parlare di mistica, ma certo di una fede interiorizzata e vissuta, che ogni giorno guidava la vita.

Qual è stato il contributo più importante di Aldo Moro nella storia dei cattolici italiani?

Forse il suo impegno a costruire le premesse di una autonomia della Dc dalla Chiesa, costruita non su una laicizzazione qualunque, ma sulla coscienza di un’assunzione di responsabilità del laicato, nel dialogo onesto con la comunità cristiana tutta. La battaglia sul centro-sinistra (osteggiato dalla gerarchia) coincide con questo difficilissimo processo, che riesce a ottenere risultati importanti (anche se la generazione successiva alla sua non coltiverà molto tale assetto). La sua idea di ispirazione cristiana come “principio di non appagamento” e stimolo interiore verso la giustizia, espressa nel congresso della Dc del 1973, è il risvolto ulteriore di questa coscienza forte di una unità tra fede e vita non giocata sul richiamo confessionale, ma piuttosto sulla coerenza delle scelte quotidiane.

Quest’uomo mite aveva molti nemici (dagli Usa alla destra cattolica). Dove nasce quest’odio? Cosa faceva paura di Aldo Moro?

Non solo la destra cattolica, ma tutta la destra. Pensiamo alla P2. Pensiamo a una certa stampa ferocemente a lui avversa. Nel caso degli Stati Uniti bisogna distinguere: da una parte c’è la vera ostilità preconcetta di Kissinger, dall’altra invece ci sono ambienti politici e diplomatici che percepiscono la sua capacità politica e lo stimano e apprezzano (soprattutto nel mondo progressista kennediano). Nei suoi nemici c’era probabilmente proprio la consapevolezza che egli guardava altrove e che poteva riuscire a realizzare progetti di cambiamento, non era solo un innocuo utopista. In questo senso era percepito come più pericoloso di altri: era un vero statista, non un predicatore qualunque.

L’idea di Moro sulla DC era un’idea riformista e progressista, pur nei limiti della struttura del partito. E’ così?

Beh, lui si rende conto che la Dc è (degasperianamente) un partito composito che deve stare al centro del sistema e garantire in qualche modo il suo equilibrio complessivo. Cioè appunto la sua lenta trasformazione verso il modello dello Stato sociale previsto dalla Costituzione. In questo senso la Dc per lui va guidata dall’interno con abilità e prudenza, senza forzature, portandosi dietro possibilmente tutto il moderatismo. Per questo spesso interloquisce con le correnti della sinistra interna, ma solo tra il 1969 e il 1973 si fa mettere nell’angolo con le sinistre: lui voleva piuttosto gestire in modo progressista un partito ambivalente, non fare semplicemente testimonianza dall’opposizione.

La “terza fase”, il disegno politico-strategico moroteo, si interruppe con la sua tragica fine. Quale sarebbe stato lo sviluppo della democrazia  italiana?

Questo è difficile dirlo. C’è una controversia sul modo di intendere il progetto della terza fase. Recentemente molti hanno messo l’accento sulla sua volontà di fermare l’avanzata comunista, di logorare il Pci in mezzo al guado. Io non credo sia da leggere in questo modo. E’ chiarissimo da tutte le fonti che egli non pensi al governo insieme al Pci: non accetta la proposta berlingueriana del compromesso storico.
Pensa che non sarebbe accettabile né nel paese né a livello internazionale, e soprattutto vede ancora la lentezza del processo di ripensamento del partito comunista. Ma pensa necessaria una fase di avvicinamento e rilegittimazione reciproca per coinvolgere il Pci più radicalmente sul terreno della difesa delle istituzioni democratiche, in modo da favorire il suo processo di revisione ideologica e politica. Al fondo di questo percorso forse ci sarebbe stato il superamento della “democrazia diffiicile” segnata dall’impatto delle guerra fredda. Ma non è certo facile immaginare in che modi e in che tempi.

A quasi 40 anni dalla sua morte resta sempre la domanda: perché fu ucciso?

Sicuramente fu ucciso dalla follia brigatista che vedeva in lui ben più di un semplice simbolo del potere democristiano, ma propriamente colui che poteva stabilizzare la democrazia (con il suo dialogo con il Pci, ma anche con la sua attenzione ai movimenti sociali post-sessantottini). Poi, è evidente che i cinquantacinque giorni sono ancora un buco nero in cui non sappiamo tutta la verità, nemmeno su aspetti molto banali e concreti (la prigione, i tempi…). Per cui c’è la sensazione che sull’azione delle Br forse si sia innestata anche la volontà di altri ambienti che odiavano il suo ruolo politico. Si è spesso citato la Cia o il Kgb (senza nessun appiglio diretto in realtà). Forse sarebbe anche da guardare a centri di potere interni alla società italiana, che condizionavano ad esempio la passività degli apparati di sicurezza…

Cosa resta della sua lezione politica?

A tratti sembra di essere ormai troppo lontani dai suoi giorni per poter parlare di una lezione viva. Anche perché purtroppo la sua assenza non ha aiutato una continuità delle sue intuizioni, dei suoi metodi e della sua ispirazione. Ma credo senz’altro che anche la politica attuale potrebbe imparare dalla sua capacità di intuire i problemi storici senza farsi condizionare troppo dall’attualità, dalla sua volontà di usare in modo mite la parola e la ragione per ricondurre sempre le tensioni su un terreno di dialogo e di crescita della democrazia, della sua arte della mediazione non finalizzata alla propria sopravvivenza, ma all’evoluzione lenta e sicura di un sistema fragile come la democrazia italiana.