“Ci vuole un PD più di sinistra”. Intervista a Peppino Caldarola

Peppino Caldarola

Le ultime elezioni amministrative hanno provocato un vero terremoto politico. I risultati elettorali fanno segnare la crisi del partito guida della politica italiana: il PD. Venerdì ci sarà la direzione nazionale del partito. Lo scenario è molto complicato per il segretario-premier Matteo Renzi. La sinistra interna vuole un “cambio di passo”. Intanto nell’opinione pubblica ci si interroga sul futuro del PD. Lo facciamo in questa intervista con Peppino Caldarola, che è stato direttore dell’Unità ai tempi dell’Ulivo. Una voce storica della sinistra italiana.

Caldarola, questa tornata elettorale ha segnato una grave sconfitta del PD.  E’ il segnale , forse qualcosa di più di un segnale, che il “renzismo” sta perdendo attrattività.   Guardando i risultati il PD si trova in un cumulo di macerie (a parte Milano). Insomma siamo negli “ultimi giorni” del “renzismo”?

 

Non siamo agli ultimi giorni di Renzi ma una fase del renzismo è finita. E’ finita quella fase che vedeva il premier-segretario cavalcare l’onda della rottamazione, svolazzare da un tema a un altro annunciando riforme epocali, viaggiare per l’Europa per blandire e poi minacciare la Merkel, inseguire Putin irritando l’alleato americano, costruendo un castello di nomine in cui c’è stato posto solo per fedelissimi o per amici di fedelissimi. Il renzismo delle mance, della scelta pro-Marchionne e della porta chiusa ai sindacati, del segretario che considerava le minoranza gufi insopportabili. Quel renzismo ha avuto fortuna perché si è incrociato, come oggi accade al grillismo, col malessere di tantissimi italiani. Ma ormai gli elettori cominciano ad avere dubbi. Confrontano le parole ottimistiche con la vita concreta, gli annunci con i risultati e  vedono un partito di sinistra che non ha più un’anima, che è scosso da lotte interne feroci. Da qui la crisi del renzismo che può diventare la crisi finale di Renzi

 

I risultati di Torino e Roma sono un grande successo per il Movimento 5Stelle. Quello che è clamoroso è stato il risultato di Torino. Una amministrazione che ha fatto bene viene mandata via. E’ un PD senza radici?

 

Torino ha un significato semplice. C’era una buona amministrazione e c’è stata una opposizione vigorosa. Fassino è sulla prima scena da tanto tempo. Molti leader, anche onesti, bravi e generosi come lui, devono capire che arriva un momento in cui l’elettorato vuole il ricambio. Anche Torino non è più monarchica. La signora Appendino ha lavorato nel consiglio, è figlia della Torino bene, non è sembrata un salto nel buio. Fassino paga anche il prezzo del carattere nazionale del voto. Sicuramente paga il disancoramento del suo partito dalle radici popolari. Ma questa però è anche colpa sua, che di partiti ne ha diretti almeno un paio.

 

La strategia di Renzi è  stata quella dello sfondamento al centro. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Cosa rende il Movimento 5 stelle più attrattivo, per un elettore “moderato”, rispetto al PD?

 

Il Movimento 5 stelle rappresenta un voto di transito. Oggi ti voto domani no.  I grillini non chiedono chi sei e dove vai. Chiunque può arrivare dallo scontento piddino a quelli di casa Pound.  Il tema che si vince sfondando al centro, è tema utile di discussione se il partito che lo fa sa da che parte stare. Un partito ancorato a sinistra può porsi il problema di sfondare al centro. Un partito che  non è né carne né pesce non sfonda né a sinistra né al centro. Il centro non è come nel passato la zona elettorale della tranquillità, del “queta non movere”, è in atto un rivoluzionarismo dei moderati che si mette in moto contro la politica degli establishment. Se  insegui questi moderati arrabbiati, perdi. Se tieni il tuo territorio e da posizione di forza e radicamento apri discorsi verso aree nuove,  vinci.  Grillo lo fa più facilmente perché il suo movimento è un gigantesco taxi collettivo. Può sempre finire la corsa.

 

Renzi ha riconosciuto che questo voto non è stato un voto di protesta ma di cambiamento.  Volendo, sinteticamente, trovare una ragione profonda della crisi politica di Renzi e del PD qual è secondo lei? 

 

Non è un voto solo di protesta ma lo è ancora. La protesta riguarda un establishment che non dice all’Italia che cosa vuole fare di lei, dove la vuole portare. Nel dopoguerra una classe dirigente ,ancorchè divisa da fratture ideologiche,  disse al paese che lo voleva industriale e accettò  ferite sociali come l’immigrazione interna, ma riempì le fabbriche e le città del Nord, si costruirono autostrade, si inventarono la Cinquecento, la vespa e la lambretta, nelle case degli italiani entrarono frigoriferi italiani. L’Italia voleva essere una potenza economica nel mondo e lo diventò. Queste classi dirigenti di oggi, non solo Renzi, non sanno dove portare il paese. Si occupano solo di diritto del lavoro e di ingegneria istituzionale. Troppo poco.

 

Adesso ci sarà la campagna referendaria di Ottobre sulle riforme costituzionali. Questo per Renzi è l’armageddon. Il rischio di una “Waterloo” è altissimo. Che dovrebbe fare per evitare il fallimento?

 

Il referendum va sdrammatizzato. Hanno ragione entrambi gli schieramenti. Il SI dice che c’è bisogno di una riforma e che se anche questa viene bocciata l’argomento è chiuso per sempre. Il NO paventa soluzioni pasticciate, presidenzialismo mascherato e altri errori. Sarebbe ragionevole se le parti si incontrassero per concordare quali cambiamenti introdurre.  Il referendum poi non va più personalizzato. Se è un plebiscito per Renzi, il premier farà la fine di Giachetti. Il referendum non può diventare fatto interno al Pd. Se , come dice Renzi, i comitati del SI serviranno a creare il nuovo Pd, perché gli italiani dovrebbero andare a votare?

 

Una battuta finale sulla minoranza del PD. Certamente questo risultato accelera la ricerca di una alternativa credibile, in primis culturale, a Renzi. Quale potrebbe essere?

 

La minoranza sono “le” minoranze che devono unirsi. Niente più battaglia ideologica contro Renzi. Battaglia solo sulla visione e sui contenuti. Ci vuole un Pd più di sinistra,  più socialista. Ci vuole un congresso ravvicinato che separi segretario da premier. Serve  che Renzi licenzi la sua classe dirigente. E’ terribile dirlo, ma  è stato più lungimirante Grillo a scegliersi l’Appendino che Renzi a scegliersi alcune ministre o ministri. La  sinistra va riunificata e deve candidarsi a rottamare il renzismo, se poi Renzi resiste alla caduta del suo castello di sogni, tanto meglio per lui.

Matteo Renzi. Il prezzo del potere. Un libro di Chiarelettere

Matteo renzi il prezzo del potereIL LIBRO

Questa è la “storia” della carriera di un presidente, la fotografia di come funziona oggi il potere in Italia. Una storia in ombra. Dentro e dietro la cronaca, questo libro, appena uscito nelle librerie, supportato da documenti e testimonianze inediti, racconta tradimenti, retroscena, intrighi di palazzo che hanno segnato la scalata di Matteo Renzi. Dal gennaio del 2014 fino a oggi.

Le trame finora mai rivelate che hanno portato alle dimissioni di Enrico Letta. Incarichi, poltrone, appalti distribuiti come un conto da pagare. Le manovre per difendere gli indifendibili. I segreti e le carte più scottanti dello scandalo Banca Etruria, che ha visto coinvolti il padre dell’attuale ministro per le Riforme istituzionali Maria Elena Boschi e l’intero governo. I rapporti tra Boschi senior e l’onnipresente “buon amico” Flavio Carboni. La longa manus di lobbisti come Gianmario Ferramonti. Le strategie per coprire e ammorbidire la vicenda del padre, Tiziano Renzi, che ancora oggi resta misteriosa. La storia mai rivelata di Marco Carrai, il Richelieu del governo, con un ventaglio di società all’estero che a lui fanno riferimento e soci che risultano avere importanti interessi da difendere in Italia.

Ma il prezzo del potere non è pagato solo con favori e premi. Molti sono gli uomini eliminati. Amici diventati ingombranti o inutili e per questo fatti fuori. Storie che sembrano la trama di una fiction ma sono tutte documentate. Sono il ritratto della politica italiana.

L’Autore

Davide Vecchi, inviato de “il Fatto Quotidiano”, si occupa da anni di cronaca giudiziaria e politica e ha seguito tutte le principali inchieste che hanno riguardato il premier e l’attuale classe politica al potere. I suoi articoli sono stati ripresi dai principali media italiani. Per Chiarelettere ha scritto L’INTOCCABILE. MATTEO RENZI, LA VERA STORIA (2014), più volte ristampato, un libro di riferimento per chiunque voglia conoscere l’ascesa di Renzi fino all’arrivo alla presidenza del Consiglio. MATTEO RENZI. IL PREZZO DEL POTERE è il racconto più completo di come il premier ha gestito e sta gestendo il governo del paese. Un ritratto nitido e impietoso, un documento importante per scavare dentro il brusio della cronaca e ricavarne una fotografia indispensabile per capire la politica di oggi.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione di Marco Travaglio

Questa è la storia del prezzo che Matteo Renzi ha dovuto pagare per sedersi a Palazzo Chigi. Una storia in ombra che per la prima volta viene svelata grazie a intercettazioni, inchieste e documenti inediti, alcuni dei quali sono pubblicati in appendice. È la storia delle manovre di Palazzo ordite anche grazie alla complicità di imbarazzanti avversari politici poi lautamente ricompensati. È la storia degli intrighi, dei sotterfugi, delle strategie politiche attuate dal premier. La storia di incarichi, poltrone, appalti che ha distribuito in poco più di due anni di governo all’insegna di un incessante do ut des. È la storia di personaggi a lui fedeli e quindi premiati, a partire da Luca Lotti, passato da allenatore della squadra di calcio femminile di Montelupo Fiorentino a potente sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, il ruolo giusto per tenere a bada i giornali e tutta l’informazione. È la storia degli uomini eliminati perché d’intralcio, dall’aspirante sindaco di Firenze Graziano Cioni, costretto a ritirarsi dalle primarie del capoluogo toscano per uno stato di famiglia che avrebbe dovuto rimanere segreto ma che stranamente viene fatto pervenire alla moglie nelle ore cruciali della campagna elettorale, fino a Massimo Mattei, l’assessore nonché spin doctor di Renzi poi diventato «superfluo» ed escluso dall’entourage del premier in seguito a un’inchiesta della magistratura sulle escort a Palazzo Vecchio in cui non è mai stato indagato.

È la storia dei ricatti, del Renzi privato che smentisce sistematicamente il Renzi pubblico. Basti citare l’episodio in cui, all’inizio di gennaio del 2014, poche settimane prima di far cadere l’esecutivo di Enrico Letta, il «rottamatore» proclama a tutto il paese l’intenzione di ricandidarsi come primo cittadino a Firenze nascondendo la sua reale aspirazione: la presa del governo senza passare dalle urne. In un colloquio telefonico col generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, Renzi spiega le mosse in atto per dare lo sfratto all’allora inquilino di Palazzo Chigi coinvolgendo anche l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ma non sa di essere intercettato. Di quella conversazione privata pubblichiamo alcuni passaggi esclusivi e rivelatori. Questo libro mostra tutta la spregiudicatezza di un premier che lotta senza tregua per rimanere in sella al governo, e dei suoi più stretti e fidati collaboratori, come il ministro per le Riforme costituzionali e i Rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi, che cerca i voti perfino dei leghisti quando deve scalzare la mozione di sfiducia ricevuta a causa del padre, indagato per bancarotta fraudolenta dopo il fallimento della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Alla corte del «capo» sono ammessi tutti purché siano utili allo scopo: conservare il potere. Ciascuno ha un prezzo. Renzi lo conosce ed è sempre pronto a pagarlo.

 

Davide Vecchi, Matteo Renzi. Il prezzo del potere. Prefazione di Marco Travaglio, Ed.Chiarelettere, Principio Attivo, pagine 192, € 13,00

 

Yes Web Can: come candidarsi alla Casa Bianca dall’Italia. Intervista ad Antonino Caffo

foto autoriUn libro sul clamoroso caso di “Alex Anderson” , la mega bufala che ha fatto discutere il web.

Alex Anderson ha preso in giro migliaia di americani fingendosi un repubblicano in corsa alle presidenziali. In realtà è un ragazzo di Como che da qualche giorno è anche in libreria Social network e politica, un binomio apparentemente poco funzionale ma che negli ultimi tempi si sta dimostrando più fruttuoso del previsto. Anche in Italia i politici, con qualche eccezione, hanno imparato a sfruttare l’onda lunga di post e tweet per esprimere il loro pensiero e divulgarlo alla massa di fan e sostenitori. Persino Hillary Clinton ha perentoriamente invitato l’opponente Donald Trump a “chiudere l’account Twitter” dopo che questi si era scagliato contro la decisione di Obama di appoggiare la corsa a Washington della donna.

Proprio la Clinton e Trump sono due degli avversari che uno sconosciuto cittadino della rete ha incontrato sul suo cammino. Si tratta di Alex Anderson, account da oltre 26 mila follower che da 8 mesi twitta i contenuti di un presunto vero programma politico e di una campagna sul microblog dai 140 caratteri. Cosa c’è di strano? Nulla se si trattasse di un vero americano aspirante congressman e non di un ragazzo italiano, nella fattispecie di Como.

Dietro Anderson c’è infatti Alessandro Nardone, romanziere e creativo che ha passato tante notti a dibattere sui temi cari agli americani, fingendosi appunto un candidato. Un gioco, uno scherzo che sarebbe potuto finire dopo qualche settimana, magari con un paio di retweet e che invece è andato avanti creando su un bel po’ di consensi e qualche dubbio agli elettori, tanto che del suo caso se ne è occupata addirittura la BBC, le testate internazionali DeMorgen e Globo e in Italia la trasmissione di Magalli “I fatti vostri”.

Lo strano caso del concorrente “fake” italiano alla Casa Bianca è oggi un libro dal titolo “Yes Web Can” (YouCanPrint, 2016) , scritto dallo stesso Nardone e dai giornalisti Carlo Cattaneo e Antonino Caffo, con prefazione di Luca Rigoni di TGCom 24. È curioso dunque capire, proprio da uno di loro, il giornalista di Panorama Antonino Caffo, come è riuscito Nardone/Anderson ad ottenere tutto questo successo in rete.

“Sembrerà ovvio, ma alcuni meccanismi che governano il web, e nello specifico i social network, possono risultare ancora dirompenti per molti. Attraverso l’impegno, la costanza e la determinazione, Anderson è riuscito ad ottenere non solo l’attenzione di una parte dell’elettorato statunitense ma anche la loro fiducia. Non si spiega altrimenti il perché sia stato invitato, realmente, a sedersi in talk show e tribune politiche televisive negli States, a partecipare in diretta a trasmissioni radio americane o a rilasciare interviste in giro per il mondo, proprio come i candidati reali. Quello specchio magico che è rappresentato dallo schermo del computer o del cellulare rappresenta l’evoluzione di un certo intrattenimento televisivo, con la differenza che qui si può andare ben oltre i 15 minuti di popolarità profetizzati da Andy Warhol” – dice Caffo.

Esistono delle regole o delle strategie ben precise usate per costruire il personaggio online?

“Nel libro ne ho individuate almeno cinque che sottendono, più in generale, le logiche del web 2.0. Si tratta dell’aumento, portato da piattaforme come Facebook e Twitter, al flusso delle informazioni, che rende spesso difficoltoso verificare la fonte. Ciò può permettere quel passaparola mediatico che da vita a vere e proprie star, come succede per i blogger e gli youtuber.

Poi la rimozione delle barriere sociali, grazie ad un contatto semplice e stimolante con i VIP che si trovano dall’altra parte e che, spesso, rispondono ai loro fan. Si tratta di una modalità impossibile ed estremamente limitata quando in giro c’erano solo televisione e radio. La creazione di nuovi leader è la dinamica che permette ai social di porre alcuni utenti come portatori di interesse di certi argomenti mentre il rinforzo degli altri media e la semplificazione delle conversazioni sono la diretta conseguenza della trasformazione dei processi comunicativi e sociali verso tipologie di linguaggio più vicine alle persone comuni”.

Possiamo dire che Anderson ha avuto successo perché incarna le ambizioni e le aspettative di ognuno di noi?

“Proprio così; solo riconoscendosi in una delle persone da votare si mettono in moto dinamiche di attrazione da parte degli elettori. Il cambiamento di paradigma introdotto anni fa da Twitter non è banale: nel mondo reale esistono ancora classi e gerarchie ben definite, mentre in rete vige una sorta di democratizzazione delle apparenze, grazie alla quale siamo tutti sullo stesso livello”.

UNA SBERLA AL PD? INTERVISTA A GIORGIO TONINI

Giorgio Tonini, responsabile Federalismo, Territorio, Europa nella nuova segreteria del Partito democratico. ANSA/US SENATO - - NO SALES EDITORIAL USE ONLY - NO ARCHIVE.

Giorgio Tonini

Archiviato il primo turno delle amministrative, con alcuni risultati clamorosi, è già partito il secondo round. Un secondo round che si annuncia apertissimo (a Milano in particolare). Facciamo un’analisi, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio del Senato, sul risultato deludente del Partito Democratico.

Senatore Tonini, ieri il premier Matteo Renzi si è detto “non soddisfatto” dell’esito del primo turno elettorale amministrativo, ma continua a non riconoscere una rilevanza nazionale alla competizione. Mi scusi la provocazione, non è presuntuosa come posizione? Tutti hanno capito che il voto è stata una sberla per il PD e per Renzi. Per Lei?

Due anni fa, il 25 maggio del 2014, alle elezioni europee, il Pd guidato da Matteo Renzi conquistava il 40,8 per cento dei voti e 31 seggi al parlamento di Strasburgo, affermandosi come il primo partito d’Europa. Lo stesso giorno, il Pd perdeva comuni importanti, da decenni amministrati da sindaci di sinistra, come Livorno, Perugia, Potenza. Quel giorno dunque, migliaia di cittadini si sono recati ai seggi elettorali, hanno preso due schede, sono entrati nella cabina e in una scheda, quella per il parlamento europeo, hanno messo una bella croce sul simbolo tricolore del Pd, mentre l’altra, quella per le comunali, l’hanno usata per mandare a casa un sindaco del Pd. Non c’è nulla di provocatorio o di presuntuoso nel ricordare a tutti noi che una parte significativa e crescente degli elettori non vota più sulla base di un sentimento di appartenenza a questa o quella comunità politica, ma effettua le sue scelte sulla base di un giudizio politico circostanziato: che riguarda il governo nazionale, alle elezioni politiche generali, e invece il sindaco quando si deve eleggere il primo cittadino del proprio comune. Questa capacità di distinguere sì è vista in modo clamorosamente evidente quel 25 maggio di due anni fa. Ma si è vista anche domenica scorsa, con la vistosa multiformità del voto alle amministrative, nel quale ognuna delle grandi città che andavano al voto ha fatto storia a sé. Basti pensare a Napoli e Salerno: il peggiore e il migliore risultato per il Pd si sono realizzati a pochi chilometri di distanza. A Napoli siamo fuori dal ballottaggio, a Salerno vinciamo al primo turno col 70 per cento. Ho l’impressione che il governo c’entri poco sia col primo che col secondo risultato. Il Pd indubbiamente ha preso qualche sberla, peraltro annunciata, ma ha anche messo a segno qualche buon risultato. Tutte le forze politiche maggiori possono dire di aver vinto da qualche parte, ma nessuna può dire di aver vinto queste elezioni come tali. Tra le forze maggiori, il Pd è il partito che esce con più risultati utili da questa tornata elettorale: più eletti al primo turno, più candidati piazzati al ballottaggio.

Vediamo al dato politico: sul ballottaggio oltre a Roma e Milano anche Torino è a rischio, se dovesse esserci la confluenza del voto leghista sul candidato 5 stelle. Insomma a parte Roma, dove le cause del risultato del PD sappiamo quali sono, come mai invece a Milano e Torino, dove il centrosinistra ha governato bene, il PD rischia così tanto?

Sia a Milano che a Torino il candidato sindaco del Pd è al ballottaggio con più del 40 per cento dei voti. Ma non è affatto scontato l’esito finale di entrambi i confronti. A Torino, come per altri versi a Bologna, il centrosinistra governa da sempre e deve quindi fare i conti con la fisiologica voglia di cambiamento, tanto più forte in un contesto di disagio sociale, come ha giustamente ricordato Fassino. Non basta avere governato bene, bisogna anche riuscire ad essere e apparire “alternativi a se stessi”, come raccomandava Moro alla Dc. A Milano, la candidatura di Sala, che poteva dilagare in un centrodestra ridotto ad un disordinato campo di forze, ha invece provocato una riorganizzazione di quello schieramento, riproponendo un confronto bipolare classico centrodestra contro centrosinistra. Uno scenario virtuoso, che rende i milanesi giustamente orgogliosi. Grazie a Pisapia, grazie a Sala e grazie anche alla intelligente risposta del centrodestra. La differenza rispetto al passato è che stavolta è il centrodestra a inseguire. Ma il confronto è apertissimo.

Milano è strategica per il PD, Sala che carta può giocare per riuscire a vincere il “derby” con Parisi?

La candidatura di Parisi è espressione di un centrodestra che si è ricompattato sotto la guida di Berlusconi e su una linea di governo. Tanto di cappello, ma si tratta di un accordo tattico, dietro il quale permangono radicali divergenze strategiche, tra il lepenismo di Salvini e i moderati di Lupi e Albertini. Parisi, qualora diventasse sindaco, potrebbe trovarsi dinanzi a contraddizioni insanabili. Dietro Sala c’è invece uno schieramento molto più coeso e armonico, sotto il profilo politico e programmatico.

L’astensione ha pesato tanto per il PD, molti elettori di sinistra non sono andati a votare (sinistra italiana è stata una delusione). Insomma qualcosa dovra’ pur cambiare nel pd e nel governo per riconquistare quell’elettorato: è ora di ripensare il doppio incarico di Renzi?

Dalle prime analisi sui flussi emerge una perdita, da parte del Pd, di elettori tradizionalmente di sinistra, solo parzialmente compensata (e non dappertutto) dall’arrivo di elettori moderati. In parte questo è il prezzo inevitabile di politiche innovative, sia nazionali che locali, che non si possono fare a costo zero in termini di consenso, almeno nell’immediato. Il fatto peraltro che questi elettori non premino le piccole formazioni di sinistra a sinistra del Pd, ma si dirigano o verso il non-voto o verso il M5s, ci dice che il rimedio a questo problema non sta nel ritorno al passato, ma in un di più di innovazione, sia sul piano dei contenuti programmatici, sia su quello delle forme della politica. Una innovazione, beninteso, che non può vivere solo nei laboratori di ricerca, ma deve vivere nel rapporto quotidiano con il popolo. Non servirebbe a nulla quindi né tornare ai vecchi linguaggi della sinistra né farsi prendere dalla nostalgia per un vecchio modello di partito da lunga pezza superato dai fatti. È fuor di dubbio che serva un salto di qualità nel governo del partito, ma sarebbe una pia illusione cercarlo nella riproposizione di un vecchio dualismo “democristiano” tra segretario e premier: un dualismo che già nel 1970 un allora giovane Leopoldo Elia giudicava incompatibile con una politica riformista.

Il Boom dei 5 Stelle è stato sorprendente (roma e torino), anche se non tutti i candidati sono andati bene. Cosa ha reso competitivo questo movimento rispetto al PD? Non sarebbe ora di prenderli sul serio?

Ciò che rende competitivo il M5s è la sua natura esasperatamente post-ideologica, che gli consente di sommare elettori delusi sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Demonizzare non serve a niente. Semmai si tratta di sfidarli a maturare politicamente. In questi giorni, i leader del movimento stanno dicendo all’unisono che la “favoletta” che sarebbe un sentimento di mera protesta a gonfiare le loro vele, non regge più. È vero, ma solo fino ad un certo punto. Spetta a loro dimostrare di essere capaci di proposta e non solo di gridare un “vaffa” alla classe politica. Un banco di prova è proprio la riforma costituzionale ed elettorale.

Il Referendum è l’armageddon di Renzi. Non trova che è stato un CLAMOROSO errore politico far partire subito la campagna per il SI. O comunque non vede rischi, dopo questi risultati, per un esito positivo del Referendum?

I risultati delle amministrative, se letti con attenzione, dovrebbero rappresentare un potente incentivo a sostenere la riforma con un bel SÌ, forte e chiaro, al referendum. Dico questo per due ragioni. La prima è di sistema. In un contesto politico multipolare ad elevata frammentazione, che ne sarebbe dei comuni se non potessero avvalersi dei benefici della elezione diretta del sindaco col doppio turno? Immaginatevi cosa succederebbe a Roma se il sindaco dovesse eleggerlo un consiglio comunale espresso in modo proporzionale dal voto di domenica scorsa. Sarebbe, semplicemente, il caos. E invece, tra due settimane, i romani decideranno col loro voto se il sindaco sarà la Raggi o sarà Giachetti. E così in tutte le altre città. La riforma Boschi e l’Italicum, con i dovuti adattamenti, applicano al governo nazionale lo stesso schema: alla fine c’è uno che vince e governa per cinque anni, grazie ad una maggioranza certa, nell’unica Camera titolare del potere di fiducia. Senza minimamente intaccare il sistema di garanzie e contrappesi. Sento dire, anche nel mio partito, che bisognerebbe rivedere l’Italicum perché non siamo più in un contesto di bipolarismo politico, ma almeno di tripolarismo o forse di multipolarismo. E che il sistema previsto dalla riforma rischia di far vincere il M5s. A me queste sembrano due osservazioni che rafforzano le ragioni del SÌ alla riforma. Proprio perché siamo in un contesto multipolare c’è bisogno di un sistema che alla fine produca un vincitore, se non vogliamo condannare il paese all’ingovernabilità, che è anche, non dimentichiamolo, il vero pericolo per la democrazia. Il fatto poi che con la riforma tutti possano vincere, a cominciare proprio dall’ultimo arrivato, il M5s, è il più potente argomento contro la teoria di un Renzi uomo solo al comando che si disegna un abito costituzionale e una legge elettorale su misura.

Le radici della crisi del ceto medio. Intervista ad Arnaldo Bagnasco

 

 Arnaldo BagnascoVerso la fine del secolo scorso si è manifestata nei paesi avanzati una crisi del ceto medio. Un segno, tra i tanti, della crisi capitalismo industriale. Crisi che persiste ancora. Oggi il “ceto medio” appare come una “Classe inquieta” attraversata da un rischio di radicalizzazione. Ovvero che diventi “un luogo sociale del rischio”. Quali sono le radici della crisi del ceto medio? Quali dinamiche può scatenare questa crisi? Come ha risposto la politica? Ne parliamo, in questa intervista, con il Professor Arnaldo Bagnasco, emerito di Sociologia all’Università di Torino e accademico dei Lincei. Di Arnaldo Bagnasco la casa editrice Il Mulino ha pubblicato un saggio fondamentale sulla crisi del ceto medio: “La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale” (pag. 230, € 22,00).

 

Professore, incominciamo dando una definizione: ceto o classe media?

Come diceva il sociologo americano Wright Mills, la classe media è un’insalata mista di occupazioni; è una nebulosa che comprende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e privati). In realtà, una classe media non è mai esistita, esistono più classi medie professionali, che anche cambiano nel tempo e nello spazio. Eppure, specie in certi momenti, ci si riferisce, nel linguaggio corrente e politico, a un insieme che supera e comprende quelle diversità. Entra allora in gioco il termine ceto, che per i sociologi indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, possibilità di consumo, effetto anche di misure politiche. Il termine americano middle-class, corrisponde grosso modo all’italiano ceto medio.

Nel suo libro affronta la questione del ceto medio nel più ampio quadro della trasformazione del capitalismo, oggi di stampo neo liberista. Un tempo si definiva il “ceto medio “, tra l’altro, come il ceto, negli anni dell’ascesa, della “Piena cittadinanza sociale” (per reddito, grado d’istruzione , relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, ecc). Oggi quel ceto fa fatica a riconoscersi in quella definizione. Cosa è avvenuto?

Sì, è appunto in quel modo che definisco nel mio libro il ceto medio che si è formato negli anni di forte crescita del dopoguerra. Indipendentemente dall’essere autonomo o dipendente, nel settore pubblico o in quello privato, in posizioni professionali diverse, essere ceto medio significava posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, oltre ad aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, protezione dai rischi della vita. E si può dire che questa era percepita come una condizione di acquisita piena cittadinanza sociale: la maggioranza arriverà a dichiararsi di ceto medio nei sondaggi. Era l’età dei grandi “contratti sociali”, orientati a controllare con politiche di regolazione tensioni e disuguaglianze sociali, per coniugare insieme sviluppo economico e coesione sociale, in un quadro di democrazia politica. I vantaggi della crescita erano diffusi nell’insieme sociale, ma il ceto medio cresciuto nel tempo, era diventato il perno dell’equilibrio sociale.

Per più ragioni quel modello è entrato in crisi nel corso degli anni settanta, e nel decennio successivo l’orientamento neoliberista non è stato in grado di ritrovare solidi equilibri economici e sociali. Crisi economiche si sono succedute, e la disuguaglianza sociale è diminuita sino ai primi anni Ottanta, poi è tornata ad aumentare.

In questi anni di crisi abbiamo assistito a fenomeni di “correnti di polarizzazione” verso il basso, e, in misura minore, verso l’alto. Quanto è polarizzata la società italiana? Ovvero quanto è grande la diseguaglianza? 

Abbiamo molti dati concordanti che mostrano come siano presenti forti correnti di polarizzazione sociale. Come dicono gli inglesi, le figure nel mezzo sono state “strizzate”. Su molti pesa la condizione di essere più lasciati a se stessi, e di vivere senza lavoro o con lavori aleatori in condizioni in cui è difficile progettare un futuro. Guardando più da vicino, si vede però dove più ha colpito la crisi. Ovunque la contrazione di reddito e ricchezza è stata maggiore per le classi più povere che per quelle medie. Più precisamente, in Italia la diminuzione del reddito diventa più consistente a partire dal quarto decile e aumenta gradatamente scendendo ai primi decili.

Anche a questo riguardo bisogna comunque fare attenzione. Il fatto che siano in corso correnti di polarizzazione non significa necessariamente che al momento le nostre siano società polarizzate Una società polarizzata sarebbe quella dove due consistenti insiemi sociali, relativamente omogenei, si confrontano con valori e interessi distinti e contrapposti da far valere. In realtà le disuguaglianze sono più distribuite lungo una scala, e gli insiemi che si formano sono molto eterogenei. Lo riconosce uno dei più importanti studiosi e critici del precariato, Ian Standing. Quanto al ceto medio, è certamente dimagrito ovunque, non è più la maggioranza, ma non è affatto scomparso: in Italia conta per il 40% degli attivi.

Nel suo libro, un vero e proprio “racconto del cambiamento sociale, sostiene che, se i fenomeni di “polarizzazione” verso il basso dovessero ancora peggiorare, vede il rischio che il “ceto medio” diventi un “luogo sociale del rischio” con l’eventualità di una radicalizzazione con esiti negativi per tutto il sistema. Quale sbocco potrebbe avere, questa radicalizzazione, in termini sociali e politici?

Effettivamente abbiamo esempi nel passato dei danni prodotti dalla radicalizzazione politica del ceto medio. La Germania e l’Italia degli anni venti e trenta ne sono due esempi. Anche qui bisogna però fare bene attenzione. Anzitutto, rispetto allora, le condizioni sono molto diverse. Resta comunque la possibilità di derive radicali in senso autoritario, se le condizioni dovessero peggiorare. E l’evoluzione dell’opinione pubblica e del quadro politico in molti Paesi non è davvero incoraggiante. Tuttavia, la storia insegna che il ceto medio si è mobilitato come attore radicalizzato quando si è diffuso nei suoi ranghi un atteggiamento di panico, e questo non è il caso attuale nelle nostre società. Oggi il ceto medio è piuttosto una “classe ansiosa”, come ha detto in America Robert Reich a proposito del fenomeno Trump. Riconoscere la differenza fra panico e ansia non ci tranquillizza, ma è importante, e deve farci riflettere che c’è spazio per intervenire, e che il ceto medio non è perduto alla democrazia.

Com’ è la situazione, del ceto medio, negli altri Paesi europei? Di fronte a questa crisi qual è stata la risposta della politica?

L’esplosione della “questione del ceto medio” si è verificata verso la fine del secolo scorso. In America si era annunciata prima ed è stata molto vivace dopo. E’ comunque significativo che, dove più dove meno, si sia manifestata in tutti i Paesi avanzati. Proprio questo la rendeva il segnale che cambiamenti profondi del capitalismo contemporaneo erano arrivati a una fase nuova, con conseguenze sociali pesanti che arrivavano a toccare anche l’insieme prima meglio stabilizzato.

Per circostanze diverse relative all’andamento dell’economia e/o al miglior funzionamento delle compensazioni sociali, la questione è stata sentita meno in Paesi come il Regno Unito, la Svezia, l’Olanda. Qui si trova un ceto medio meno usurato. Più avvertita è stata invece la questione in altri, fra i quali in particolare l’Italia e la Francia. La politica ne ha preso atto, e il problema del ceto medio è entrato nei programmi elettorali. Comunque sia, anche nuovi fattori di crisi – basti pensare alle migrazioni o al terrorismo internazionale – hanno reso meno centrale e specifica l’attenzione al ceto medio. Questa è una tendenza che oscura e tende a rendere episodiche e confuse le politiche che riguardano le classi medie. Faccio osservare che ho cambiato termine di riferimento, perché quanto sta nel mezzo è un insieme ora più eterogeneo, e riemergono le tensioni fra le sue varie componenti professionali, che prima erano mediate in un progetto di ceto medio, politicamente coltivato in combinazioni di risorse diverse.

Lei prende di mira il capitalismo deregolato, ovvero l’estensione della logica del mercato. Quali strade si possono percorrere per superare la crisi?

Non so se questa sua domanda sia, nel clima di oggi, politically-correct; intendo se non sia una domanda impertinente, da non fare in Italia a un professore, specie se anziano. Umorismo a parte, riconosco che è difficile fare politica oggi, per chiunque ci provi. Ed è velleitario sparare sentenze.

Alla fine del mio libro dico qualcosa sulle prospettive, ma qui riprendo solo un punto generale, che era nella domanda. Il mercato è una grande risorsa di regolazione economica e sociale, ma è sprecato se si afferma in un vuoto di regole, tanto più in epoca di globalizzazione e finanziarizzazione. Non solo l’economia non può funzionare bene se lasciata esclusivamente alla autoregolazione di mercato, ma soprattutto è immanente al capitalismo che il mercato tende a conquistare alla regolazione di mercato sempre più ambiti della vita di relazione. Questa tendenza, ha l’effetto di consumare società, di non permettere la vitale, genuina espressione della società civile, di generare anomia individuale e collettiva, e problemi sociali rilevanti.

Queste osservazioni non sono deduzioni “ideologiche”, ma constatazioni analitiche. I modi in cui il consumo di società si verifica, e punti in cui intervenire sono segnalati da molta, buona ricerca sociale. Aggiungo ancora, per precisare, che se è certamente vero che i tasselli da ricomporre nel quadro economico e politico contemporaneo sono diventati più piccoli, incerti e complicati da combinare, il punto è che dobbiamo guardarci anche da una possibile retorica della inconsistenza della società; la società non è completamente sfatta o sbriciolata dai processi di differenziazione e individualizzazione, e retoriche che insistono su questa immagine giocano proprio a favore della radicalizzazione autoritaria.