100 anni di Pax Romana, imparando che l’unità politica dei cattolici era transeunte e che la teologia morale da ripensare. Intervista a Stefano Ceccanti

Proprio oggi,  cento anni fa, nacque a Friburgo l’associazione cattolica “Pax Romana”. Con Stefano Ceccanti, ex Presidente nazionale della FUCI e attualmente costituzionalista e deputato del PD, cerchiamo di capire che cosa ha significato la nascita di “Pax Romana” per il laicato cattolico.

Professor Ceccanti, in un recente articolo del Riformista, ed anche oggi su Avvenire, lei ha ricordato che nel luglio del 1921, esattamente cento anni fa, dopo la prima guerra mondiale e all’esplosione dei nazionalismi esasperati, nacque a Friburgo l’associazione internazionale degli universitari cattolici Pax Romana che poi funzionò fino al Concilio Vaticano II come un grande network montiniano e maritainiano, fornendo la gran parte degli uditori laici al Concilio. Ha anche ricordato che analogamente a quanto era successo in Italia dove dalla Fuci era germogliato il Movimento Laureati di Azione Cattolica (oggi Meic), nel 1947 era poi sorto anche il secondo ramo di Pax Romana, quello appunto dei laureati. Un anno prima era sorta la Jec internazionale, coinvolgendo gli studenti delle secondarie, a cui corrisponde in Italia il Movimento Studenti dell’Azione Cattolica. Forse però vale la pena ora di concentrarci su quello che è successo dopo, nel post-Concilio, a cominciare dagli aspetti ecclesiali: le intuizioni di Pax Romana sono state sostanzialmente fatte proprie dalla Chiesa oppure anche problematizzate?

Un’esperienza di frontiera quale è quella di associazioni di ambiente, per di più inviate in ambienti che si erano separati dall’influenza della Chiesa in modo anche polemico, è sempre per sua natura sperimentale. La realtà ecclesiale pone domande all’ambiente ed anche viceversa. In questo senso il Concilio ha fatto proprio il metodo, per così dire, sperimentale, tra Chiesa e mondo ed ancor più puntualmente il documento montiniano del 1971, la Lettera Octogesima Adveniens del 1971, specie al suo paragrafo 4. Altra cosa sono i le sperimentazioni concrete, che sono destinate ad essere superate. Paradossalmente, siccome il metodo è confermato, i punti provvisori di arrivo vengono problematizzati. Nei movimenti di ambiente il post-concilio determina anzitutto un nuovo protagonismo delle periferie ed in particolare dell’America Latina. Quel movimento composito che chiamiamo teologia della liberazione parte dal movimento universitario brasiliano e da quello peruviano, il cui assistente è per molti anni Gustavo Gutierrez. Però non possiamo dire esattamente che Gutierrez viene a sostituire Maritain perché in realtà, come spiega per l’appunto Paolo Vi nel testo del 1971, la Chiesa riscopre non solo la propria dimensione internazionale, ma anche policentrica. Mentre i vari filoni conciliari in America Latina, con risonanza globale, cercano di declinare il tema dell’opzione per i poveri, in realtà negli altri continenti soprattutto nel Nord del mondo le priorità non potevano essere le stesse. Devo dire che poi la situazione si è molto evoluta anche in America Latina, ad esempio con le riflessioni sulla teologia della rigenerazione dell’attuale arcivescovo di Lima Carlos Castillo, che è sttao anche lui assistente del movimento peruviano

Ma in Europa e nel Nord del Mondo quali sono stati quindi gli specifici problemi e le specifiche priorità?

In Europa sono due i temi che animano maggiormente i dibattiti dopo il Concilio, molto diversi tra di loro. Il primo è quello del rapporto tra comunità cristiane e politica: l’opzione preferenziale per la democrazia finalmente sancita dalla Gaudium et Spes pone in prima fila la Chiesa nel rompere i rapporti coi precedenti regimi autoritari in Portogallo e in Spagna. A ciò, col nuovo pontificato di Giovanni Paolo II, si aggiunge il protagonismo nell’abbattimento delle cosiddette democrazie popolari. Dentro le democrazie, però, già il Concilio e poi la Octogesima Adveniens, avevano stabilito come regola il pluralismo. Può sembrare strano perché il Concilio, almeno a prima vista, era segnato dall’apogeo delle Democrazie Cristiane, almeno in Italia ed in Germania, mentre l’Mrp francese stava scomparendo. In realtà la Cdu tedesca era (ed è) un partito molto diverso dalla Dc italiana non solo perché interconfessionale con una significativa presenza evangelica e posizionato più chiaramente sul centrodestra,, ma anche perché dalla svolta della Spd di Bad Godesberg la Chiesa cattolica aveva assunto una posizione di equidistanza istituzionale tra i due maggiori partiti e c’era già una presenza significativa di cattolici nella Spd. Lo spiegò anni fa l’allora cardinale Ratzinger in una conferenza al Senato italiano causando stupore in molti che credevano erroneamente che lo schema fosse simile a quello italiano. Quindi in realtà il Concilio e poi l’Octogesima Adveniens prendono atto di una situazione di fatto, a cui l’Italia continuava a fare eccezione.

Proseguiamo su questo primo punto, ma cosa motivava l’eccezione?

Lo spiega il vescovo francese Matagrin che fu l’estensore del documento dei vescovi francesi del 1972 a favore del pluralismo politico. Paolo VI approvò il documento, che del resto era la diretta conseguenza dell’Octogesima Adveniens, ma gli spiegò che riteneva diversa la situazione politica italiana. Il testo francese era scritto per riconoscere la legittimità della presenza anche nel nuovo Partito Socialista accanto a quella più tradizionale nei partiti di centrodestra, mentre in Italia il problema era che il primo partito della sinistra si diceva ancora comunista, quindi espressione di una religione secolare. Era l’egemonia comunista sulla sinistra che comportava il mantenimento dell’opzione prudenziale per l’unità politica dei cattolici. Questo però aveva precise conseguenze sui movimenti di ambiente collocati nella scuola, nell’università e nel mondo del lavoro. Al di là delle scelte dei singoli, nello schema italiano di tipo montiniano e degasperiano, essi avevano la funzione di presidiare socialmente e culturalmente le correnti di sinistra del partito unitario. Più precisamente i movimenti intellettuali di Azione Cattolica avevano il loro referente naturale nella corrente morotea, quelli del mondo del lavoro nella corrente di Forze Nuove. Viceversa fuori dall’Italia, dove il partito più forte della sinistra non era comunista, era saldamente pro occidentale, la collocazione naturale era quella nei partiti socialisti. Non a caso Pax Romana esprime due Presidenti del Consiglio nel nuovo Portogallo democratico: prima Pintasilgo, che poi è anche la capolista socialista per le prime elezioni europee a cui partecipa il suo Paese, e quindi Guterres, l’attuale segretario generale dell’Onu. Diciamo che in Europa sulla politica al Maritain iniziale, teorico delle democrazie cristiane (che poi però sarebbe divenuto un filosofo cristiano della democrazia) per questi movimenti si sostituiva Mounier, secondo il quale la collocazione naturale di questi settori era nella sinistra non comunista.

Al di là delle diversità delle singole persone c’erano quindi per così dire delle scelte quasi naturali?

Sì, nella prima sessione europea a cui partecipai nell’aprile del 1981, in concomitanza col primo turno delle presidenziali francesi era abbastanza pacifico che la grande maggioranza dei quadri di questi movimenti votasse socialista e non solo nel Regno Unito dove c’era una classica vicinanza col Labour. Per inciso la moglie di Tony Blair faceva parte in quegli anni del movimento secondario e c’era stato un afflusso significativo di quadri nel Ps francese (più però nell’area di Delors e Rocard) ed anche il nostro presidente mondiale Carbonell era già impegnato nel Partito Socialista Catalano, di cui sarebbe poi stato parlamentare regionale.

E come leggevano la situazione italiana?

R-Noi portammo come relatrice in quella sessione Paola Gaiotti, che era stata eletta al Parlamento europeo grazie alla sinistra dc del Nord-Est. Piacque a tutti moltissimo per i contenuti, ma alla fine ci chiesero come facesse a stare nel Ppe anziché nel Pse. Non era tanto facile spiegarlo. Però da questo ci rendemmo conto che eravamo noi l’eccezione e non la regola e che quella eccezione non poteva che essere transeunte. Da lì poi partimmo con le iniziative per la democrazia dell’alternanza, compresi i referendum elettorali. Ci sembrava un modello più fecondo per la democrazia e anche per la Chiesa.

E il secondo tema?

Era quello del cosiddetto scisma sommerso, per dirla col filosofo Pietro Prini. Nelle società avanzate si era determinata una situazione nuova. Mentre nelle società tradizionali maturità fisica, entrata nel mondo del lavoro e matrimonio erano sostanzialmente allineati, viceversa già negli anni ’70 e ’80 si era già creato un ampio periodo di intervallo tra maturità fisica da una parte, stabilità lavorativa e scelta matrimoniale. Le categorie tradizionali elaborate dalla teologia morale e recepite dal Magistero non sembravano comprensibili, erano percepite come una somma di divieti, ampiamente disapplicati proprio perché non comprensibili. Era difficile individuare soluzioni, però il problema non poteva essere negato, ma a parte poche voci come in Italia il cardinal Martini non si riusciva a passare dai dibattiti informali a una vera discussione pubblica. Era però un nodo scoperto, come emerse anche in due conflitti, uno italiano ed uno europeo.

Quali furono?

Il primo fu una educata ma ferma contestazione a monsignor Carlo Caffarra alla settimana teologica della Fuci del 1980 perché aveva esposto tesi iper-rigoriste. Il secondo fu la visita di Giovanni Paolo II al campus di Lovanio. Venne scelta come oratrice Veronique Oruba, del nostro segretariato europeo Jec-Miec, che chiese con franchezza di rielaborare un insegnamento in chiave più personalistica, ma questa franchezza non fu presa tanto bene, almeno sul momento. Lei ebbe dei problemi con l’Università, poi per fortuna superati.

Una situazione spiacevole

Sì, ma sono contrario ai vittimismi. Se si sceglie un approccio sperimentale, di stare sulla frontiera, pur senza fare scelte estreme, provocatorie, ma in modo giustamente sobrio, direi moroteo, è anche inevitabile che ci possano essere incomprensioni. Come diceva il padre domenicano Maydieu ai residenti cattolici francesi contro Vichy era vero che la scelta di ribellarsi a quella che secondo alcuni era un potere legittimo non poteva poggiare su un qualche documento magisteriale pre-esistente, ma l’importante era che fosse ragionevole pensare che nell’arco di una generazione, ex post, quel documento avrebbe potuto esserci. In effetti ci fu poi la Gaudium et Spes per l’opzione preferenziale per la democrazia e la Populorum Progressio sul diritto di resistenza. Per di più, obiettivamente, abbiamo vissuto momenti privilegiati come il seminario segreto di Pax Romana convocato in fretta e furia nel maggio 1985 in Polonia sulle prospettive che si aprivano con l’arrivo di Gorbaciov alla guida del Pcus il mese precedente.

E cosa accadde?

Il seminario fu convocato dal nostro movimento polacco, il Kik, nel presupposto che prima o poi la cosiddetta democrazia popolare sarebbe caduta. Liberi dal dover essere uniti contro il Regime, ci fu una significativa maggioranza, che ovviamente noi dell’Ovest supportammo, per la creazione di una normale democrazia occidentale legata all’Europa. Però ci fu anche una consistente minoranza, proveniente dalle zone più agricole, che ipotizzava un rapporto tra Chiesa cattolica e democrazia analogo a quello della Costituzione italiana con l’Islam. Per fortuna poi nel 1989 il Presidente del Kik Mazowiecky divenne primo ministro. Però vedemmo allora che ci potevano essere dei problemi. Del resto la democrazia non si sviluppa in modo lineare.

 

 

Cattolici, l’orizzonte globale tra identità e resilienza. Una riflessione di Luigi Bobba vent’anni dopo il G8 di Genova

Per ricordare il ventennale delle manifestazioni  contro il vertice del G8 di Genova e i drammatici fatti di violenza, culminati nella orribile sanguinaria repressione, da parte delle forze dell’ordine, nei confronti dei manifestanti, nella Scuola Diaz, pubblichiamo,   per gentile concessione dell’autore, questa riflessione di Luigi Bobba, all’epoca Presidente nazionale delle Acli. Una riflessione, quella di Bobba, che tocca le tematiche, ancora attuali, che portarono i cattolici a scendere in piazza per reclamare una autentica giustizia sociale nei rapporti mondiali*.

Nel luglio 2001, alla vigilia del vertice G8 di Genova, anche le associazioni della società civile di area cattolica come le ACLI, riunite sotto lo slogan “Sentinelle del mattino” lanciato da Giovanni Paolo II, fecero sentire la loro voce con una manifestazione pacifica e composta nel capoluogo ligure che appariva già in fermento nell’imminenza dell’evento politico di cui l’Italia del governo Berlusconi era il Paese organizzatore.

Non va dimenticato che il tema sul tappeto era la valutazione politica che il G8 era chiamato a dare sulla globalizzazione dell’economia e della finanza e che in quel momento storico la posizione più diffusa e prevalente tra i movimenti era quella dei cosiddetti antagonisti i “no global” il cui portavoce era allora Vittorio Agnoletto.

Ricordo benissimo che toccò proprio a me come Presidente nazionale delle Acli prendere la parola per dare voce alle Sentinelle del mattino e spiegare le ragioni della nostra originale posizione “new global” che non si limitava a condannare la globalizzazione in quanto tale, ma esprimeva la necessità di un discernimento tra gli aspetti ipositivi e negativi della globalizzazione. Tuttavia veniva rigettata senza mezzi termini una globalizzazione senza regole, non rispettosa dei diritti umani che era soltanto una forma aggiornata di colonizzazione globale. Una posizione chiara e netta sul giudizio degli effetti della globalizzazione ma con la quale, contestualmente, si prendevano le distanze dai movimenti no global per la loro posizione ambigua circa la condanna delle azioni violente perpetuate in diverse manifestazioni.

All’inizio del terzo millennio, quelle associazioni cattoliche volevano esprimere soprattutto la loro volontà di intraprendere un nuovo cammino certamente aperto alla globalità, ma da intendere sempre come pluralità culturale di valori e di colori, come convivialità delle differenze e ricchezza dei punti di vista, mai come omologazione, uniformità e conformismo.

Come denunciavo testualmente nel mio intervento di 20 anni fa, a Genova, “la globalizzazione senza regole aumenta la solitudine del cittadino, lo fa sentire ancor più inutile e impotente, lo indebolisce nella sua identità culturale e nel suo radicamento territoriale, lo rende omologato al sistema e al Pensiero Unico, riducendo la memoria collettiva e il suo legame vitale con il passato. Inoltre, rende più confuse le prospettive di futuro, rinchiudendo il suo orizzonte in un presente statico e piatto, rassegnato e in difesa.”.

Ebbene, il ventennio trascorso ha confermato non solo come la globalizzazione , insieme ad indubbi effetti positivi, quali l’uscita dall’area della poverta’ di centinaia di milioni di persone, abbia ristretto i confini del mondo ma soprattutto come abbia esasperato le sue contraddizioni, gli squilibri economici e le ingiustizie sociali, moltiplicato la crescente presenza delle periferie anche esistenziali e aumentato lo scandalo degli sprechi.

Negli anni più recenti è stato soprattutto papa Francesco a denunciare la perdita di umanità e di civiltà nel mondo attuale, dando voce ad una Chiesa sempre più consapevole di svolgere la sua missione di “ospedale da campo” dove alla già pesante pandemia sociale si è aggiunta quella sanitaria del Covid-19 che ha fatto percepire al mondo intero la minaccia del rischio planetario.

Nelle sue due encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020) ha indicato chiaramente quali siano i passi da compiere per fare spazio agli esclusi, ai non garantiti, agli emarginati, a coloro che sono considerati senza diritti, ai nuovi poveri, agli anziani abbandonati alla loro solitudine, alle donne che restano prive della parità di genere, ai giovani condannati al precariato e all’assenza di futuro, allo sfruttamento minorile e alle forme più vergognose di violenza sui bambini.

A dire il vero, non solo papa Francesco ma la stessa Onu è intervenuta con l’Agenda 2030,che contiene i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, un documento politico che è stato approvato da ben 193 Paesi, tra cui l’Italia. Tali sfide globali riguardano le persone, il pianeta, la prosperità, la pace e la partnership. Un’agenda per affrontare i drammi principali che riguardano i sette miliardi e mezzo di persone che abitano oggi sul pianeta e in particolare coloro che sono alle prese con la povertà, la fame, la salute, l’istruzione e la parità di genere.

Per intervenire e ridurre le disuguagliane di ogni tipo che impediscono all’ umanità di vivere in maniera decente e dignitosa si richiedono cambiamenti profondi e radicali. Si tratta di compiere una svolta non solo di natura economica ed ecologica, ma anche culturale e spirituale.  Il Papa stesso parla infatti di un “deterioramento etico e culturale che si accompagna a quello ecologico” (Laudato si’, 162). Ciò che più dovrebbe preoccupare è che “la gente ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida ciecamente in un domani migliore a partire dalle attuali condizioni del mondo e delle capacità tecniche” (Laudato si’, 113)

Tutti coloro che per ragioni di studio guardano al futuro ci dicono che gli spazi dell’utopia si sono assai ridotti, mentre sono aumentati, come ha spiegato bene Bauman, gli spazi della retrotopia e, ancor più, soprattutto dopo l’avvento della pandemia, le previsioni catastrofiste della distopia.

Non potrà dunque bastare la conversione economica perché “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale” (Laudato si’, 109).

È vero che papa Francesco sostiene convintamente le prospettive di tanti economisti di area cattolica impegnati da anni a promuovere una nuova e originale “economia civile” che ha il merito di coniugare insieme la cultura del dono e del bene comune con il principio del profitto e dell’interesse individuale.

Questi economisti spiegano in modo razionale che insieme alla categoria del dono e dell’azione gratuita è possibile valorizzare e fare spazio alle esperienze del non profit, ai soggetti del Terzo Settore, alle molteplici realtà dell’economia civile.

Si tratta di scoprire insieme la bellezza del dono, e contemporaneamente l’interesse per l’altro. Sta qui infatti, l’originalità dell’economia civile, ossia il valore di legame che è proprio del dono. In questo modo, oltre al valore d’uso e al valore di scambio (entrambi già noti all’economia tradizionale) acquista un ruolo di rilievo il “valore di legame” che è tipico dell’economia civile. Ed è ciò che diventa oggi prezioso per generare e rafforzare il legame comunitario.

L’accordo storico raggiunto in questi giorni nell’ultimo vertice del G7 che si è tenuto a Londra prevede, come è noto, una “global tax” del 15% sulle grandi imprese multinazionali. Non si conoscono ancora i dettagli, ma tale decisione dimostra con evidenza che cosa sia in grado di fare la politica quando si fa valere nei confronti della finanza e dell’economia. Inoltre, questa decisione andrebbe accompagnata con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie speculative. Una proposta nota come “Tobin Tax”,che era stata sposata proprio dai movimenti e dalle organizzazioni del Terzo settore e che si rivela ancora oggi non solo giusta ma necessaria per poter disporre delle risorse necessarie per affrontare le sfide globali come quella ecologica o la mancanza di lavoro.

Alla conversione culturale si richiede poi di abbattere il predominio del paradigma tecnocratico sull’economia e sulla politica. Gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà umana e sociale si vedono chiaramente nel degrado dell’ambiente e della vita sociale in tutte le sue dimensioni. Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientare le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati e ristretti gruppi di potere.

Così pure, non è affatto sufficiente una conversione ecologica perché sarebbe soltanto una risposta parziale. “Serve uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale” (Laudato si’, 111).

Francesco invita ogni uomo a non chiudersi in se stesso o nel suo piccolo orticello, ma ad avere il cuore aperto al mondo intero. Come non bisogna separare e contrapporre globale e locale, così non bisogna separare e contrapporre l’identità e la differenza.

All’interno di ogni società, la fraternità universale e l’amicizia sociale devono essere alimentati come due poli inseparabili e coessenziali (Fratelli tutti, 144). Sta precisamente qui la conversione spirituale di cui oggi abbiamo urgente bisogno.

Dobbiamo essere leali con noi stessi e riconoscere che esistono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. In realtà ogni cultura sana è per sua natura aperta e accogliente, così che “una cultura senza valori universali non è una cultura senza” (Fratelli tutti, 146).

Senza il rapporto ed il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di se stessi e della propria terra, perché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana” (Fratelli tutti, 147).

In questa visione aperta e dialogica della cultura umana è veramente difficile comprendere le posizioni che si autodefiniscono “sovraniste”, perché non si tratta di imporsi né di contrapporsi per prevalere sugli altri. L’atteggiamento da sostenere è quello che promuove amore civile e politico, solidarietà umana e amicizia sociale.

“Nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena” (Fratelli tutti, 150)

Che tipo di mondo desideriamo tramettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda, dice papa Francesco, non riguarda solo l’ambiente in modo isolato perché non si può porre la questione in maniera parziale. Occorre rendersi conto che quello che è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra (Laudato si’, 160).

Mi avvio a concludere esprimendo questa mia convinzione che è stata rafforzata dall’esperienza collettiva che abbiamo tutti pagato di persona a caro prezzo, ma da cui stiamo forse uscendo definitivamente: la pandemia. Non è vero che per salvare dal naufragio noi stessi, l’umanità e il pianeta non ci sia più niente da fare.

L’esperienza del Covid-19 ci ha aperto gli occhi e ha dimostrato palesemente che quando tutti siamo costretti a vivere una stessa situazione collettiva di paura e- strema e di illimitata fragilità, ciò che prima tutti ritenevano impossibile realizzare, diventa inaspettatamente possibile e alla nostra portata. È appunto questa la “lezione della pandemia”. Come afferma acutamente Mauro Ceruti: “è dalla cura della fragilità che si genera la creatività umana, non dalla forza della guerra contro il nemico”.

Sappiamo bene che ci sono coloro che non credono ai valori universali, né al bene comune e tanto meno alla fraternità globale perché mettono al primo posto il sovranismo e l’ideologia del nemico. Nella società attuale serve innanzi tutto la resilienza come capacità di assorbire l’urto di un evento traumatico e luttuoso, imparando a curare la ferita o il danno psichico per non restare schiacciati dal dolore e dalla sofferenza. La resilienza è molto più della resistenza, è una risorsa necessaria e di vitale importanza per continuare a vivere e a sperare. Come scrive Papa Francesco: “D’altra parte è  grande nobiltà   essere capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce all’amore, la speranza e la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente,malgrado tutto.”(Fratelli tutti,n.196) E’ tempo anche per la nostra Italia, arrocata e ferita, di rialzarsi in piedi e tornare ad avere fiducia nella rinascita, facendo leva su un’etica dei beni comuni e della solidarietà inclusiva, in continuità con la nostra migliore e più bella tradizione civile.

*(Il testo è stato pubblicato nel numero 18 della testata genovese “la Città. Giornale di Società Civile”.  Questo numero della rivista è dedicato, in larga parte, proprio al ventennale dei fatti del G8). 

Franco Marini, il Popolare. Intervista sulla sua eredità politica con Giorgio Merlo

Sono passati più di cinque mesi dalla scomparsa di Franco Marini. Marini, come si sa, è stato un protagonista del sindacato e della vita politica italiana. Domani, Lunedì 12 luglio, alle ore 21, sulla pagina Facebook di Edizioni Lavoro, è stata riprogrammata la presentazione, rinviata lo scorso 7 giugno, del libro di Giorgio Merlo, «Franco Marini, il Popolare». Intervengono Pier Luigi Bersani, Pier Luigi Castagnetti e Domenico Tuccillo. Modera il dibattito Gennaro Sangiuliano, direttore del TG2. Sarà presente l’autore. Un confronto tra protagonisti politici che hanno accompagnato e apprezzato per molti anni la militanza e l’impegno pubblico di Franco Marini. Con Giorgio Merlo, ex deputato PD e giornalista professionista, approfondiamo alcuni punti del suo libro.

Giorgio, il tuo libro è sicuramente un testo interessante. Però, è lo dico con grande rispetto, ha il limite della fretta. Forse un pò di pazienza avrebbe giovato un pò di più alla comprensione della figura di Franco Marini. La prima domanda è questa : nel tuo libro si gustano sapori  antichi: la sinistra sociale dc, Donat Cattin, sindacato dottrina sociale della chiesa ecc. Nel tempo liquido di questa nostra contemporaneità politica cosa rimane di quei sapori antichi?
Certo, i “sapori antichi” come Tu Gigi li definisci, hanno sempre il loro fascino e il loro richiamo. Soprattutto in un’epoca dominata dalla desertificazione culturale, dal populismo, dall’opportunismo e dal trasformismo politico e parlamentare. Ma le mode, prima o poi, tramontano. E, non caso, la parabola del grillismo – il più pericoloso vulnus per la qualità e la salute della nostra democrazia negli ultimi anni – sta volgendo finalmente al termine. Ma, purtroppo, il populismo continua a scorrere nel sottosuolo della società italiana e non sarà facile rimuoverlo in fretta. Anche dopo la fine, speriamo presto, della triste e decadente parabola del grillismo. E in quel momento, non è difficile prevederlo, torneranno in campo quelle categorie politiche e culturali che sono state costitutive in altre stagioni della politica italiana: dal valore dei partiti popolari alla importanza delle culture politiche, dalla qualità della classe dirigente alla salvaguardia dei principi costituzionali, dalla credibilità delle istituzioni democratiche alla serietà e alla trasparenza del linguaggio. Categorie politiche spazzate via dall’ideologia grillina e da chi le ha tristemente assecondate. Ecco perchè il magistero politico, culturale, sociale, istituzionale di uomini come Carlo Donat-Cattin, il patrimonio della sinistra sociale della Dc o la perdurante attualità della dottrina sociale della Chiesa ritorneranno protagonisti. E lì dovremo essere pronti a raccogliere la nuova sfida che avremo di fronte dopo le macerie seminate dalla incultura devastante del grillismo.

Veniamo alla figura Franco Marini. Nel tuo libro lo leghi, indissolubilmente, alla figura di Carlo Donat Cattin. Per sostenere, alla fine della tua analisi, che Marini è l’autentico erede di Donat Cattin. È una conclusione che non mi convince. La trovo un pò meccanicistica. Per quali motivi tu pensi questo? Non pensi, invece, che quella di Donat fu una scelta per la sopravvivenza di Forze Nuove?
Donat-Cattin in un memorabile e profetico intervento a Saint-Vincent nel settembre 1990 – sei mesi prima della sua prematura scomparsa – indicò proprio in Franco Marini il “naturale erede della tradizione e della esperienza della sinistra sociale democristiana”. Non credo che lo fece solo per una burocratica e protocollare sopravvivenza di quella corrente. Al contrario, egli credeva nella Dc e credeva nel suo pluralismo politico e culturale interno. E sapeva bene, come disse molte volte Aldo Moro, che senza una “sinistra sociale di ispirazione cristiana” sarebbe stata la stessa Dc a pagarne duramente le conseguenze in termini politici ed elettorali. Certo, in quei tempi era ancora possibile avere un “erede” politico. E, in quel caso specifico, Franco fu veramente l’erede naturale di Donat-Cattin per la guida di Forze Nuove. Per storia personale, per cultura politica, per la sua biografia e anche, diciamolo, per il suo temperamento e coraggio.

Rimango sul punto: il patrimonio Ideale di Donat Cattin e Marini sono simili. Declinati in tempi diversi. Però consentimi di osservare che mentre Donat aveva visione politica, pensa al rapporto con Moro, Marini era un operativo. Per questo penso che il vero erede di Donat Cattin sia Guido Bodrato. Ovviamente non sarai d’accordo…
Guido Bodrato è un “maestro” del cattolicesimo democratico e popolare nel nostro paese nonchè un grande amico. E Guido è stato per molti anni il vero “delfino” di Donat Cattin, come si diceva un tempo. Poi c’è stato il “preambolo” del congresso della Dc del 1980 e tutto ciò che lo ha preceduto e seguito. E lì i rapporti, quelli politici come ovvio e mai quelli personali, si sono interrotti. Era inevitabile che dopo molti anni, se si voleva proseguire quella straordinaria esperienza politica, culturale ed organizzativa, ci voleva un leader riconosciuto da tutti. E Marini rispondeva, in quel particolare momento storico, a quella esigenza e a quella richiesta.

Parliamo del Marini politico. Divenne segretario del PPi. Di quella stagione delicata della politica italiana fu un protagonista sicuramente importante. Qual è stato il frutto più importante che Marini portò alla politica italiana?
Molti frutti ha portato. Ne ricordo tre, secondo me i più importanti. Innanzitutto la sua “riconoscibilità” politica. Quando parlavi di Marini sapevi di chi parlavi. Sapevi chi era. Era il “Popolare” per antonomasia. E questa sua caratteristica, decisiva per la qualità e la credibilità della stessa politica, lo ha sempre accompagnato. Dalla Dc al Ppi, dalla Margherita al Pd. In secondo luogo il suo coraggio. Certo, come per il carisma, in politica “o c’è o non c’è, è inutile darselo per decreto”, per dirla con Donat-Cattin. E Franco faceva del coraggio anche un atto di lotta politica e sindacale. E proprio nel sindacato come nella politica, Marini era conosciuto ed apprezzato per il suo coraggio e per la sua determinazione. In ultimo la lealtà. Marini era un uomo leale. E l’ha pagato pure a caro prezzo. È sufficiente ricordare l’esperienza, squallida e triste, della sua mancata elezione a Capo dello Stato quando buona parte dei parlamentari del Pd – partito che lui aveva contribuito a fondare – lo cecchinarono nel segreto dell’urna dopo aver fatto una regolare votazione per indicarlo come candidato. Un comportamento talmente squallido che poi portò questi miserabili, alcuni dei quali ancora presenti nelle aule parlamentari, a vantarsi pubblicamente di quel gesto vigliacco. Come reagì Marini? Con il suo consueto costume e stile. Con poche parole. Dicendo soltanto, come ricorda l’amico Castagnetti, “bastava dirmelo prima”. Ecco la lealtà e la trasparenza dell’uomo. Altrochè la rottamazione renziana e l’onestà grillina…

Del PD è stato, come hai ricordato, uno dei padri fondatori. Come ha vissuto il PD? Che idea aveva?
Il Pd, come ho detto poc’anzi, Marini ha contribuito in modo determinante a fondarlo. Certo, non era più in prima linea come con le altre esperienze partitiche. Ma lui credeva nel Pd ad una condizione. Essenziale e decisiva. Che non rinunciasse mai alla sua anima popolare, cattolico sociale e cattolico popolare. Credeva veramente in un partito plurale e detestava tanto i partiti personali quanto i cartelli elettorali. Ma l’ultima versione del Pd non lo convinceva più anche se continuava a frequentare le sempre più sporadiche assemblee nazionali e i pochi momenti di incontro collettivi. La visibilità politica, culturale ed organizzativa dell’area popolare la riteneva quasi una precondizione per poter garantire e coltivare la natura plurale del partito. Così non è più stato e così non è più. Ormai il Pd è un’altra cosa, ha un altro profilo e un’altra identità. Ma, per restare a Franco e al Pd, non posso non pensare che dopo il comportamento squallido ed indecoroso della vicenda Quirinale/2013, avesse un altro giudizio su quel partito. E non solo per la sua vicenda personale, ma per il modo di essere e di comportarsi nella concreta dialettica politica. In sintesi, e questo lo diceva apertamente negli ultimi anni anche se con garbo e discrezione, non era più il partito che lui, con altri, aveva contribuito a fondare nel lontano 2007.

Sulla stagione renziana come si è espresso?
Non nutriva risentimenti personali. Non rientravano nella sua concezione politica e della vita politica. Ma che il renzismo rappresentasse per lui il peggio della politica italiana non aveva dubbio alcuno. Prima dell’avvento del grillismo, ugualmente detestato. Sempre a livello politico, come ovvio.

Cosa ha da dire oggi, agli attuali dirigenti del PD, la figura di Marini?
Credo che il magistero politico, culturale, istituzionale e anche organizzativo di Franco Marini possa dire ancora molto alla politica italiana ma poco al Pd. A questo Pd. E questo perchè il suo modo di far politica, la sua cultura di riferimento e la sua stessa modalità di organizzare la politica e il suo progetto sono sostanzialmente estranei alle modalità concrete con cui il Pd si muove nella società italiana. Semmai, e questo lo credo profondamente, il suo magistero possa ancora dire molto, anzi moltissimo, a tutti quei cattolici che intendono intraprendere l’impegno politico. Nel pieno rispetto della laicità dell’azione politica senza alcuna deviazione clericale o confessionale e, soprattutto, nella coerenza con quella dottrina sociale cristiana che lo ha accompagnato in tutta la sua esistenza. Dall’impegno nell’associazionismo giovanile cattolico al sindacato, dalla politica al partito, dalle istituzioni alla vita normale di tutti i giorni. Aperto al confronto e al dialogo sempre. In ogni momento e in ogni istante ma senza rinunciare mai alla sua identità e alla sua cultura.

Ultima domanda. Torniamo all’inizio: perché hai dato quel titolo al libro? Sembra schiacciare politicamente Marini…
Per un motivo molto semplice. Marini era un uomo popolare perchè amava stare in mezzo alla gente. A tutta la gente. Indimenticabili, al riguardo, i suoi appuntamenti con gli alpini. E, inoltre, perchè Franco Marini era un Popolare autentico. Per la sua cultura e per il suo progetto politico.

Da Pomigliano a Termoli: è in Italia la nuova “giga factory” di Stellantis. Intervista a Giuseppe Sabella

CEO of Stellantis Carlos Tavares (Photo by Daniel Pier/NurPhoto via Getty Images)

CEO of Stellantis Carlos Tavares (Photo by Daniel Pier/NurPhoto via Getty Images)

Com’è noto, si è tenuto ieri l’Electrification Day di Stellantis. L’attesa era alta, un po’ per
comprendere le reali intenzioni del quarto gruppo mondiale dell’auto; un po’ perché qualcuno si aspettava la sorpresa, ovvero l’annuncio della nuova Giga Factory di batterie in Italia. E, appunto, l’annuncio c’è stato: il sito prescelto è quello di Termoli. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0.

Sabella, cosa significa per il nostro Paese la Giga Factory di Termoli?
È un’operazione industriale importante. Mi lasci però prima dire che se oggi l’Italia sta ritrovando centralità nel settore dell’automotive, questo è grazie agli accordi di Pomigliano del 2010. Senza quelle intese Fiat in Italia avrebbe chiuso – e con essa gran parte del nostro settore auto – e non saremmo qui a celebrare questa svolta. Il contraccolpo di quella vicenda, alla fine, è stato tutto per il sistema confindustriale che non è stato in grado di far fronte ad un’occasione di innovazione importante. E ha perso non solo terreno ma anche l’azienda più importante che aveva. C’è chi ci ha creduto ed è per questo stato attaccato e biasimato. Mi riferisco a una vulgata che ha coinvolto persino l’Accademia e il Parlamento. Una cosa incredibile e mai vista prima, in presenza oltretutto di una importante operazione di rilancio industriale che da Pomigliano oggi fa tappa a Termoli.

Perché la definisce un’operazione industriale importante?
I motivi sono diversi a cominciare da quello prettamente industriale: sappiamo che la vera ragione per cui il Lingotto ha voluto la fusione con PSA è per ridurre la sua distanza dalla frontiera dell’elettrico. Se c’è un limite della stagione di Marchionne – che non dimentichiamolo mai ha preso in mano una Fiat tecnicamente fallita e, portandola alla fusione con Chrysler, l’ha resa uno dei marchi più competitivi al mondo – è quello di non aver oltrepassato il confine dell’oil. Oggi la Giga Factory di Termoli avvicina l’industria italiana alla tecnologia dell’elettrico. Ma facciamo un passo indietro: l’anno scorso, Pietro Gorlier (responsabile area EMEA di Stellantis) disse testualmente “nel giro di due/tre anni, Europa e Italia diventeranno l’epicentro della produzione mondiale della mobilità elettrica”. Tuttavia, poco risalto per queste dichiarazioni: ad oggi è prevalsa l’idea – sempre tra i soliti noti – che la Francia farà razzia delle nostre produzioni, a vantaggio del proprio comparto manifatturiero.

E invece?
Non che questa possibilità non esista, nelle alleanze – anche in quelle più riuscite – vi sono sempre conflitti di interesse latenti. Il punto è che oggi una delle missioni più importanti che hanno i governi è proprio questa: nel mondo globalizzato, ministri e primi ministri devono sempre più operare a protezione della propria economia e delle proprie imprese. Quindi, se qualcuno fa affari a suo vantaggio con le nostre aziende, ciò può significare anche che non sono state protette adeguatamente e in qualche caso svendute, come del resto è successo. È molto importante quindi, quando si sta al governo, sapere quali sono le imprese che si possono cedere e quali no. Negli anni passati è stato uno stillicidio. Oggi possiamo dire che questa situazione si sta normalizzando.

Nel caso specifico in un certo senso succede il contrario: è la Francia a darci qualcosa. È così?
Questo è un altro aspetto per cui ritengo importante questa operazione: il consolidamento della partnership europea tra Francia e Italia, nell’ottica di contrastare USA e Cina. Ma c’è un altro elemento che mi pare significativo: la terza Giga Factory di Stellantis in Europa per la produzione di batterie per veicoli elettrici – le altre due sono in Francia e Germania – sarà allocata presso lo stabilimento delle Meccaniche di Termoli, in Molise, dove lavorano oltre duemila addetti. Si tratta di uno stabilimento vecchio che produce motori a combustione, a rischio chiusura. È evidente che nel giro di qualche anno vi saranno cali produttivi significativi. In questo modo, si dà un futuro industriale e occupazionale a questo sito produttivo in un’area del Paese – il Mezzogiorno – che ha bisogno di investimenti come questo. Deve essere questa un’operazione pilota del Green Deal italiano, soprattutto al Sud. Come sappiamo, il nord produttivo è più agganciato al cuore dell’industria europea, la Germania. Ed è più avanti dal punto di vista dell’innovazione.

Tavares ha parlato anche dell’investimento complessivo nell’elettrificazione.  Quali considerazioni possiamo fare? 
Possiamo certamente dire che Pietro Gorlier un anno fa non scherzava affatto. Gli obiettivi di Tavares ed Elkann sono molto ambiziosi: entro il 2030 i veicoli elettrificati dovranno rappresentare oltre il 70% delle vendite in Europa e più del 40% delle vendite negli USA. Per il raggiungimento di questi obiettivi, il piano di Stellantis prevede oltre 30 miliardi di euro da investire entro il 2025 nell’elettrificazione e nello sviluppo software. Si tenga presente che due mesi fa Stellantis e Foxconn – il più grande produttore di componenti elettronici al mondo nonché il principale assemblatore di Apple, Dell, HP, Microsoft, Motorola, Nintendo, Nokia, ecc. – firmavano un memorandum d’intesa per dare vita a Mobile Drive, nuova realtà dedicata allo sviluppo di tecnologie digitali per l’auto. Il software sarà il “cuore” della mobilità elettrica. In particolare, Mobile Drive proporrà programmi di infotainment, telematica e sviluppo di piattaforme cloud service attraverso innovazioni di software che dovrebbero includere applicazioni basate in particolare su intelligenza artificiale e comunicazione 5G. Questo ci dice quanto si stia sempre più riducendo la differenza tra manifattura e servizi: l’industria 4.0 è sempre di più servizio. La UE sembra puntare molto sulla mobilità elettrica, del resto in Europa c’è Stellantis ma ci sono anche Renault e Volkswagen, Daimler, BMW…
Come ho scritto nel mio libro “Ripartenza verde” , la trasformazione della mobilità è il più rilevante obiettivo che il Green Deal europeo si è dato, non solo per rispondere alla questione climatica, ma anche perché da un punto di vista economico le implicazioni sono rilevantissime. Sebbene il 2020 sia l’annus horribilis dell’automobile (-24,3% di immatricolazioni in Ue, -27,9% Italia), si registra una crescita significativa della diffusione dell’auto elettrica (+107% Ue, +251,5% Italia). Mobilità elettrica però significa anche infrastrutture e batterie, cosa su cui in Europa bisogna accelerare e su cui i costruttori stanno facendo pressing sull’Unione. Del resto, come si vende l’auto elettrica se non ci sono le colonnine? Anche se, in futuro, l’evoluzione dell’auto elettrica potrebbe prescindere dalle colonnine. Il movimento dell’auto, infatti, è in grado da sé di produrre energia.

In conclusione, concentriamoci in prima battuta sulle infrastrutture: qual è al momento la situazione?
Secondo Acea, al momento ci sono circa 200mila colonnine in tutta Europa. Il Green Deal ne prevede 3 milioni installate entro il 2030. In Italia, l’ultimo aggiornamento del Piano Nazionale Energia e Clima (2020) ha stimato che, entro 10 anni, la rete di ricarica passerà da 8mila a 45mila stazioni e il parco circolante raggiungerà un ventaglio compreso tra i 4 e i 6 milioni di auto elettriche. Per quanto riguarda la produzione di batterie, è questo un mercato dominato dalla Cina; Australia e Usa fanno la loro parte ma sono molto indietro. Su questo versante, l’Europa si sta organizzando per essere autonoma, come del resto per la produzione di vaccini e semiconduttori. La Giga Factory di Termoli è nel segno di questa logica.

Veniamo ora all’aspetto occupazionale: il motore elettrico è più semplice e più piccolo di circa la metà rispetto al motore a combustione. Quali sono le conseguenze di questa trasformazione sul piano del lavoro? 
Naturalmente il problema è serio. Motore elettrico significa meno componenti e meno mano d’opera. Mobilità elettrica però vuol dire anche infrastrutture e batterie. E, in quest’ottica, l’installazione delle colonnine per l’alimentazione e lo sviluppo dell’industria delle batterie sono occasione di riconversione e di ricollocazione dei flussi occupazionali in uscita dal settore dell’automotive. I governi hanno un compito importante: accompagnare la trasformazione con politiche del lavoro efficaci, che significa riqualificazione e ricollocazione di lavoratori e lavoratrici. Se pensiamo al nostro Paese, questo è il nostro punto debole, e non è una novità. Sono gli enti locali – le Regioni – ad avere le deleghe del lavoro: bisogna che lavoriamo sulla modernizzazione dei nostri servizi all’impiego, soprattutto nel centro sud del Paese.

Creare una Coscienza civica per il futuro. Intervista a Luca Rolandi

Un libro di Gloria Schiavi e Luca Rolandi, giornalisti e osservatori della realtà, pubblicato dall’editrice torinese Neos racconta le storie di comunità, donne e uomini, giovani e adulti che nel nostro Paese, prima e durante la pandemia, si impegnano per trovare nuove strade di partecipazione civica. “Coscienza civica e dove trovarla. Storie da una Italia che r-esiste”. Ne parliamo, in questa intervista, con Luca Rolandi.

Come è nata l’idea di scrivere un libro su questo tema, di attualità sicuramente ma non sempre considerato come si dovrebbe?

C’è bisogno di coscienza civica, di formazione di donne e uomini che siano orientati a pensare e agire per il bene comune. Insieme a Gloria Schiavi, giornalista e documentarista, con una grande esperienza internazionale abbiamo provato a raccontare alcune storie straordinarie per la loro semplicità e coerenza. Come ricorda spesso Gloria si tratta di storie belle di persone che combattono per fare in modo che le cose vadano nella direzione giusta. Storie “inspiring”, con cui speriamo di stimolare il cambiamento e l’impegno civico. Il progetto editoriale è  nato come una sfida mettendo insieme sensibilità diverse, le nostre di autori, e le esperienze composite dei testimoni. Speriamo che il libro possa essere letto e discusso da tante comunità. Provare a trovare il bene non è facile. Noi con molta umiltà e mettendoci in ascolto ci abbiamo provato.

Quali sono le storie che raccontate nel saggio?

Intanto va detto che noi abbiamo osservato e raccolto la testimonianza di tantissime persone:   28 storie di cittadinanza attiva e di partecipazione “dal basso”, 28 casi esemplari di coscienza civica, 28 iniziative sparse su tutto il territorio nazionale, da Torino a Roma a Lecce, da Milano a Rimini ad Accumoli, messe in campo da comuni cittadini che si sono dimostrati capaci di avviare cambiamenti all’interno delle loro realtà e che si battono per il bene comune nelle forme più diverse, alcune assai innovative (inclusione dei più deboli, sostenibilità, ri-uso, co-housing, agricoltura biologica, lotta alla speculazione immobiliare, valorizzazione dei territori marginali, piattaforme digitali e civic hacking, ecc.). “Storie di ordinario civismo”, come le definisce il sociologo Franco Garelli, che firma la prefazione, collegate tra loro “dal filo rosso di una creatività sociale attenta a misurarsi con il possibile e il realizzabile”.

Chi sono i protagonisti di questa r-esistenza civica?

Gruppi di cittadini che lottano per realizzare il “quartiere che vogliamo”, che si mobilitano intorno a palestre, campi sportivi ed aree verdi, che recuperano vecchie fabbriche abbandonate per farne luoghi di convivialità, che ridanno vita ad aree montane e collinari oramai spopolate, che realizzano condomini solidali aperti, che fanno rinascere borghi e aziende agricole dimenticate nelle zone colpite dal terremoto, che promuovono corsi di italiano per donne immigrate, che si prendono cura degli immigrati senza fissa dimora, che utilizzano la rete per offrire servizi concreti alle popolazioni colpite da eventi drammatici.

Cosa insegnano questi interventi d’impegno costante e coraggioso per il nostro Paese?

Sono piccole rivoluzioni nate dal basso, magari per rispondere alle difficoltà, che costituiscono invece il germe trasformativo della società. Buone pratiche operose e silenziose, che spesso cadono nell’indifferenza dei media. Questa raccolta di casi e testimonianze vuole portarle in primo piano e dare dignità documentaria a quegli alveari innovativi, tanti ed esemplari, che crescono in Italia: una risorsa di energia costruttiva che mette in moto cambiamenti concreti ed innesca altre azioni positive, una resistenza attiva dalle molte sfaccettature, urbana, agricola, ecologica, sociale. In una parola, umana.