“Liberazione o Morte”. Una riflessione su Camilo Torres a cinquant’anni dalla morte. Intervista a Padre Sergio Bernal Restrepo (S.J)

(Wikipedia)

(Wikipedia)

Cinquant’anni fa, il 15 febbraio del 1966, nella regione colombiana di Santader, venne ucciso da una raffica di mitra, durante un combattimento contro le truppe governative, il sacerdote colombiano Camilo Torres. In quegli anni l’America Latina, sull’onda lunga della Rivoluzione cubana, era attraversata dalla lotta di liberazione dei movimenti guerriglieri contro i regimi sanguinari e corrotti delle oligarchie politiche-economiche. La vita di Camilo Torres, così, divenne da subito un punto di riferimento, l’ispiratore, per quei cristiani che, in situazioni di estrema ingiustizia, scelsero la lotta armata per la rivoluzione sociale e politica del Continente latinoamericano. Cosa resta, cinquant’anni dopo dell’esempio di Padre Camilo Torres? Ne parliamo, in questa intervista, con il Padre gesuita Sergio Bernal Restrepo, decano del “Medio Universitario”, della Pontificia Universitad Javeriana di Bogotà. Padre Bernal, sociologo è uno studioso autorevole della Dottrina Sociale, è stato per anni Decano della Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Padre Bernal, a cinquant’anni dalla sua morte (Camilo Torres venne ucciso durante un combattimento nella regione di Santander) forse è venuto il tempo di guardare con occhi nuovi, da parte della Chiesa, alla figura di padre Camilo Torres. E’ possibile questo? Cosa sta facendo al riguardo la Chiesa cattolica in Colombia?

Certo, si può guardare, anzi, si deve. Ma, quali occhi? Tant’acqua è passata sotto i ponti, come si dice fra noi. Camilo visse un momento di idealizzazione del Marxismo e della sua analisi della realtà, quando si pensava che la rivoluzione era la via di uscita per i grandi problemi dell’ingiustizia nell’America Latina e Cuba si presentava come il modelo che non soltanto ispirava, ma fatticamente offriva l’appoggio ai movimenti rivoluzionari del Continente. La storia di Cuba, Nicaragua, Salvador, Venezuela, più recentemente, hanno dimostrato che, come ben diceva Paolo VI nella Populorum progressio, la rivoluzione, di fatti, porta con se più male che bene. “E tuttavia lo sappiamo: l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande” (PP 31). La storia di cinquant’anni di lotta rivoluzionaria nel Paese, hanno dimostrato che non è questa la strada per la trasformazione sociale e politica.

È doveroso ammettere che la Chiesa non ha saputo gestire il caso Camilo Torres. Anche se non possiamo giudicare l’arcivescovo di Bogotá di allora con i criteri di oggi, l’atteggiamento rigido e autoritario, per niente pastorale, non era la via corretta e, in un certo modo, spinse Camilo alla scelta sbagliata. Camilo realizzava un lavoro pastorale molto valido in un ambiente universitario assai ostile alla Chiesa, nel quale un buon numero di studenti e docenti accoglieva la proposta rivoluzionaria di buon occhio e, parte di questa visione, era considerare la Chiesa Cattolica come un nemico da combattere, dato il suo coinvolgimento con lo stabilimento (establishment). Oggi, direi che non si può parlare della Chiesa in genere, fra l’altro perché all’interno della gerarchia vi sono atteggiamenti assai contrastanti. Alcuni vescovi hanno offerto visioni molto moderate riconoscendo aspetti positivi nel caso Camilo, mentre altri continuano a mantenere una posizione di assoluta condanna.

Andando più in profondità: quali sono le radici su cui si basò l’impegno di Padre Camilo Torres? Torres parlava di “prassi “dell’amore efficace”. Cosa intendeva con questo termine? 

A mio avviso, questa frase è molto ambigua. Certo, l’amore cristiano deve tradursi nella prassi quotidiana e di questo amore veremmo giudicati nell’ultimo giorno (Matteo 25). Ma la domanda è se la violenza contro chi che sia, è conciliabile con l’amore cristiano. Questo, mi pare, fu il grande errore di Camilo anche se condiviso da molti in quel momento. Dinanzi alle situazioni d’ingiustizia prevalenti nel Paese, ad un primo sguardo potrebbe sembrare che la rivoluzione sia la via più eficace, ma, come ho accennato sopra, la storia ha dimostrato il contrario. Forse negli ultimi giorni Camilo ha ceduto alle lusinghe dei piccoli partiti di sinistra che sembravano aprirgli la strada ad una possibile candidatura alla lizza per la presidenza della repubblica. Comunque, si deve vedere Camilo come un sognatore, più che come un malfattore come vorrebbero alcuni.

Parlando di sé Camilo Torres affermava: «Sono un rivoluzionario , come colombiano, come sociologo, come cristiano e come sacerdote. Come colombiano, perché non posso estraniarmi dalle lotte del mio popolo. Come sociologo, perché grazie alla mia conoscenza scientifica della realtà, sono giunto alla convinzione che le soluzioni tecniche ed efficaci non sono raggiungibili senza una rivoluzione. Come cristiano, perché l’essenza del cristianesimo è l’amore per il prossimo e solo attraverso una rivoluzione si può ottenere il bene della maggioranza. Come sacerdote, perché dedicarsi al prossimo, come la rivoluzione esige, è un requisito dell’amore fraterno indispensabile per celebrare l’eucarestia». Qui si tocca il rapporto tra cristianesimo e rivoluzione. E’ un punto fondamentale nell’azione e nel pensiero di Torres. C’è, dunque, una “teologia della rivoluzione” (oppure della liberazione) in Torres? 

In un certo senso, si potrebbe dare una risposta affermativa alla domanda. Tuttavia vi erano tante sfumature nella teologia della liberazione che passavano da approcci compatibili con la Rivelazione, fino a quelli che predicavano la violenza, anzi, la lotta di classe, come la sola via di uscita. Non pochi sacerdoti in Colombia si schieravano nel “movimento Golconda” che era assai vicino al Marxismo, ma non sono arrivati a degli impegni concreti di lotta. Esistevano pure alcuni tentativi di elaborazione di una teología della rivoluzione, ma non saprei dire fino a che punto Camilo faceva parte di questi movimenti.

Come si sa Camilo Torres, dopo essere stato ridotto allo stato laicale (comunque lui si sentì sempre sacerdote), entrò nell’ ELN (Esercito di Liberazione Nazionale, un gruppo di impostazione marxista diverso dalle Faarc). E qui si pone il punto del rapporto tra Torres e i gruppi comunisti. Come si è sviluppato questo rapporto? 

Dare una risposta a questa domanda richiederebbe uno studio approfondito cercando le fonti che io ignoro. In un certo senso penso che quanto detto sopra potrebbe offrire alcune piste.
Ai tempi di Camilo Torres la Chiesa cattolica della Columbia era su posizioni conservatrice. Oggi che ruolo gioca oggi la Chiesa nella società colombiana?

Purtroppo la Chiesa oggi ha perso molto della sua capacità di “liderato” (cioè di leadership ndr), la quale era assai evidente ai tempi di Camilo. Come accennato sopra, penso che in parte, ciò sia dovuto alle divisioni interne nella Conferenza Episcopale. Ci vorrebbe una posizione molto più chiara e coraggiosa, davanti al processo di pace in corso, per esempio.
Si arriverà, con Papa Francesco, alla riabilitazione della figura di Camilo Torres?

Non mi pare. Dire questo, sarebbe travisare il pensiero di Francesco il quale vorrebbe portare la Chiesa alla radicalità evangelica che, però non è compatibile con la scelta per la rivoluzione violenta. Anzi, la sua strada è quella della misericordia e del dialogo. Qui, forse, viene bene stabilire un contrasto fra Camilo e Romero. Chi ha avuto un impatto più forte nel Continente? Eppure, sono due modi assai diversi di leggere, anzi, di vivere il Vangelo in una situazione di violenza istituzionalizzata e di ingiustizia schiaciante.

Una parola sulla situazione attuale della Colombia. Come stanno andando i colloqui di Pace tra il governo e la guerriglia?

Si tratta di una situazione troppo complessa, spesso semplificata dai Media e da tanti che non riescono a campirne la complessità. Abbiamo vissuto più di cinquanta anni di guerra, negata sistematicamente dai goveri precedenti. Questa è, in parte, il risultato di un Paese dominato da una piccola elite di potere economico e politico che possiede più della metà del territorio e che mantiene in una situazione di esclusione alla maggioranza della popolazione. Per un verso si può dire che la Colombia è uno Stato moderno dove, per esempio abbiamo introdotto technologie di spico e, per un altro, ancora muoiono bambini per causa della denutrizione. Esiste un cultura di violenza ad ogni livello che ha caratterizzato la nostra storia. La guerriglia domina in una buona parte del territorio dove lo Stato non ha mai fatto una presenza reale. Il problema è diventato ancora più complesso con il commercio della droga che è un caso tipico della economía di mercato dominante. A ciò forse dovremmo aggiungere una oposizione irrazionale che cerca di presentare la realtà in maniera tropppo semplice, a proprio vantaggio, ribadendo che il Presidente Santos vuole consegnare il Paese al socialismo di stampo cubano.
Ultima domanda: Cinquant’anni dopo la sua tragica fine, cosa ha ancora da dirci Camillo Torres?

Semplicemente che occorre un cambio radicale nelle strutture economiche, politiche e sociali, ma che dobbiamo trovare la nostra strada, non cercando di adottare modeli ormai falimentari. Inoltre, che il Vangelo va preso sul serio come punto di ispirazione, ma non alla maniera di Camilo, ma piuttosto a quella di Francesco.

Cipolle e Libertà. Storia di un profeta – operaio. Un ricordo di Gelmino Ottaviani di Marco Bentivogli*

Gelmino2

 

Nei giorni scorsi, a Verona , è morto Ottaviano Gelmini storico leader dei metalmeccanici della Cisl di Verona. Un testimone per tutto il movimento sindacale, un maestro per molti giovani sindacalisti. In tempi difficili per il movimento sindacale, ricordare questo “profeta-operaio”, come lo chiama il Segretario Nazionale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, offre l’occasione per riflettere un poco sulle ragioni profonde del fare sindacato. Ragioni e ideali che Ottaviano Gelmini ha incarnato con grande rigore morale.

Pubblichiamo, per gentile concessione della Segreteria Nazionale della Fim, questo ricordo di Gelmini.

“Sono nato nel 1937. Per capire come le cose sono cambiate nella mia vita, basta pensare che mi chiamo Gelmino perché, quando mi hanno battezzato, questo strano nome era di moda”.

Comincia con questa intelligente ed ironica consapevolezza il racconto “Cipolle e Libertà” – a cura di un grande narratore di storie personali, quale è stato Federico Bozzini – della vita di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico veneto, poi storico dirigente sindacale della Fim, la categoria dei metalmeccanici della Cisl.

Gelmino e’ scomparso il 23 febbraio, ma l’insegnamento che ci lascia non scomparirà mai.

“Cipolle e Libertà” e’ un racconto intenso, che ha ispirato anche un bellissimo monologo del Teatro Civico di Marco Paolini, un libro che si legge tutto d’un fiato e da cui emerge tanto, sia della storia da cui veniamo, ma anche e soprattutto del presente che stiamo vivendo.

Infatti, la cosa che più colpisce delle parole e dei pensieri di Gelmino e’ la loro incredibile, straordinaria attualità, tanto da rendere questo uomo un “profeta” dei nostri giorni, una mente lungimirante che è stata e rimarrà sempre un punto di riferimento indimenticabile per molti di noi.

Attraverso la sua vita ripercorriamo la storia del nostro Paese dal Dopoguerra in poi, i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento, la Guerra, gli attentati terroristici, ma anche il boom economico degli anni Sessanta e le prime automatizzazioni industriali.

Situazioni che Gelmino affrontò con grande coraggio e determinazione.

“Cosa ti ricordi della guerra?

I bombardamenti, quelli me li ricordo.

Ma non mi ricordo di avere avuto paura”.

Il 6 settembre 1954 inizio’ a lavorare come tornitore alla Riello (“noi da operai stavamo bene”, “mi pareva di avere il vestito da sera”) vivendo, dall’interno della sua fabbrica a Legnago, in provincia di Verona, il boom degli anni Sessanta quando “la gente si è messa il riscaldamento in casa”.

Ma poi, come egli stesso ci ricorda (“Le sconfitte sono sempre iniziate il giorno dopo delle vittorie”), i suoi colleghi hanno “cominciato a lavorare il doppio guadagnando meno” e i giovani operai che Gelmino vedeva arrivare in fabbrica non avevano più quel senso di appartenenza che aveva contraddistinto il suo ingresso in Riello.

Poi iniziarono i licenziamenti.

Nel ’58 si iscrisse alla Fim e Gelmino ci racconta con grandissimo ed intenso realismo tutta la fatica di fare il sindacalista, di togliere tempo e spazio a moglie e figli per “insegnare” ai colleghi i concetti di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza, di democrazia, di senso del dovere (“non era tempo perso”, ci dice).

Non aveva paura di lottare, di scontrarsi con i superiori per difendere questi principi, per osteggiare i soprusi, lo sfruttamento, le ingiustizie.

Una volta, di fronte ad un capo del personale che “teorizzava la linea dura”, Gelmino gli rispose – per nulla intimorito:  “Senta, io a casa ho ancora una cassetta di cipolle. E, mangiando pane e cipolle, metto in ginocchio la Riello”.

Era faticoso “tenere assieme” i lavoratori, fare sintesi di opinioni diverse e spesso in conflitto tra loro, ma ne valeva la pena perché era l’unica strada per apprendere quella che forse è la lezione più grande che ci ha lasciato Gelmino, la libertà.

Perché la libertà non cade dall’alto, si conquista, si sceglie. Soprattutto la libertà di pensiero.

Sosteneva: “Si dice sempre che il tempo e’ denaro, ma il denaro non è tempo. Non è reversibile l’equazione. Il tempo e’ vita. E, se è vita, decido io dove investirlo: nella pesca, nell’orto, al sindacato, in famiglia. Questa è liberta’. Lo so che è una parola grossa, allora la riempi di parole piccole e vai meglio”.

Gelmino e’ stato anche uno straordinario modello di semplicità e di sobrietà, valori che gli derivavano dalla sua umile famiglia di origine – quella in cui la ‘mansarda’ di oggi era ancora il ‘granaro’ –  ma che lui scelse di non tradire mai (“Quello che prendevo mi bastava. Bisogna aver fatto la fame per sapere quanto poco ti basta per campare”).

Ora, in una società che si ostina a rimanere egoisticamente, selettivamente opulenta e che non ha imparato la lezione neanche dopo la  crisi iniziata nel 2008, questi valori sono un faro che deve illuminare la nostra attività e il nostro impegno civico, così come lo sono stati nella vita di Ottaviani.

Suonano tristemente profetiche anche le sue parole riguardo alla pensione, ‘guadagnata’ dopo una vita di lavoro: “Io sono un privilegiato perché tutte le mattine in cui mi sveglio sotto al letto trovo le cinquanta mila lire che mi spettano di pensione”.

Gelmino non si è mai rassegnato, e in questo abbiamo il dovere di seguire il suo esempio fino in fondo, ad una società in cui i giovani non riescono neanche ad immaginare la pensione perché il futuro e’ stato loro rubato da chi ha scambiato la libertà del lavoro con il denaro, da chi ha pensato di sfruttare il presente e gli altri, ma ha scoperto di avere perso tutto, anche se stesso.

“Se la Repubblica e’ fondata sul lavoro, anche tu ti sei fondato sul lavoro. Hai capito che il lavoro non sempre rende liberi.

Servono almeno un metro uguale per tutti, regole non scritte, da non cambiare in corso, cipolle per resistere e senso del limite. Senso del limite. Perché se no sei un poveretto, anche se sei miliardario”.

Gelmino ci ha insegnato il significato delle parole “dovere”, “responsabilità”, “libertà” e “limite”: un patrimonio di valore inestimabile di cui gli saremo sempre riconoscenti, ma che soprattutto abbiamo il dovere di non sprecare.

*Segretario Generale Nazionale Fim – Cisl

Pubblichiamo un estratto del libro Cipolle e libertà, ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, di Federico Bozzini, Edizioni Lavoro.

(…) Sono sempre stato curiosissimo di tutte le novità che incrociavo.

Mi interessava veramente osservare e capire. Da quel momento gli studenti hanno cominciato ad arrivare davanti alla fabbrica e a frequentare le sedi del sindacato. Noi della Fim aprivamo la porta a tutti: chi ci chiedeva di discutere ci invitava a nozze. Non avevamo nessuna paura degli extraparlamentari, forse perché anche le nostre idee sbrindellate non stavano in nessun partito. Diverso era l’atteggiamento dei compagni della Cgil. Loro un partito ce l’avevano e guardavano con sospetto a tutta questa ventata di nuove idee che sembravano ridiscutere tutto e tutti.
La Riello aveva una tradizione di operai comunisti. Se uno era comunista era della Fiom e della Cgil per forza. Noi siamo stati i primi a sgarrare questa regola. Ma per loro restavamo i “mocoletti”, ii ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro. Non me lo hanno mai dette in faccia queste cose, ma non c’è alcun dubbio che dietro le spalle la menavano alla grande. L’obiezione che ti facevano era semplice: ma come, tu sei socialista, perché non vieni alla Cgil? Sei socialista e allora perché perdi tempo a chiacchierare con questa gente che critica sindacato o partito?
Quando non si discuteva in fabbrica, c’erano riunioni di fuoco in sede. Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire. C’era tutto il mondo che si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione…
Avevo un figlio di 4 anni e uno di otto mesi. Mi ricordo l’8 dicembre del 1969 ero stato a Verona a un comizio di Bruno Storti, allora segretario generale della Cisl. Faceva freddo e per la fretta ho lasciato in casa la stufa a cherosene con i tubi staccati. Mia moglie, per non far battere i denti ai bambini, ha dovuto arrangiarsi a montare gli scarichi da sola. Quando sono tornato ne ho sentite di tutti i colori. Un giorno è scoppiata e mi ha detto: “se avessi saputo che avresti fatto una vita del genere, non ti avrei sposato”. In quei mesi i figli li vedevo e non li vedevo. Molto spesso ero lontano da casa anche la domenica. Al mattino arrivava la bianchina di Natali o la Prinz verde di Viviani e partivo.

Gli scenari della Fisica dopo la scoperta delle “onde gravitazionali”. Intervista a Paola Leaci

Grande eco ha avuto, nell’opinione pubblica internazionale, la scoperta delle “Onde Gravitazionali”.  Si tratta della conferma dell’intuizione di Albert Einstein, ipotizzata dal grande fisico  nel 1916. Lo studio di Einstein è conservato presso gli Archivi dell’Università Ebraica di Gerusalemme. La fisica sta vivendo una stagione felice di scoperte. Tra i principali protagonisti di questa nuova frontiera della fisica c’è anche il lavoro di ricerca di alcuni fisici italiani (proprio ieri alla Sapienza di Roma, nell’aula Amadi, c’è stata la presentazione dei risultati della ricerca).  Quali saranno i futuri scenari della fisica dopo questa scoperta? Quali implicazioni avrà nella nostra vita? Di tutto questo parliamo, in questa intervista, con Paola Leaci che è stata una delle artefici della scoperta. Paola Leaci, 35 anni,  attualmente svolge la sua attività di ricerca, presso il dipartimento di Fisica della Sapienza.

La conferma dell’intuizione di Albert Einstein, quello sulle “onde gravitazionali”, grazie, anche al contributo prezioso di fisici italiani, è stato recepito con grande attenzione dalla opinione pubblica internazionale. Per l’autorevole fisico britannico, Stephen Hawking,  questa conferma può portare ad “un nuovo di guardare l’universo” e, addirittura, potenzialmente, rivoluzionare l’astronomia. Le chiedo: in cosa consiste questo “nuovo modo di vedere l’Universo”? Cambierà Qualcosa nella nostra percezione dell’universo?

Ci tengo a precisare che l’evento osservato e’ frutto di una stretta collaborazione di circa 1300 persone, tra cui -come lei giustamente osserva- fondamentale il contributo italiano. 

Il violento processo di collisione osservato è caratterizzato da un rilascio di energia pari a tre volte la massa del Sole, ma risulta invisibile. Le onde gravitazionali, che sono in grado di attraversare indisturbate profondi strati di materia, risultano quindi l’unico messaggero in grado di fornire informazioni su ciò che è veramente accaduto, essendo  assenti le emissioni di segnali elettromagnetici. Averle trovate significa perciò anche guardare indietro nel tempo e conoscere i dettagli dei primissimi istanti di vita dell’Universo.

Il risultato raggiunto rappresenta quindi un modo completamente nuovo di guardare ed ascoltare l’universo, una possibilità di esplorare cio’ a cui non abbiamo mai avuto accesso finora.

Lei ha parlato anche di implicazioni “tecnologiche”, in che senso?

Al di la’ delle implicazioni di carattere astrofisico, che sono tante, ce ne sono varie anche in ambito tecnologico e pratico.

Le onde gravitazionali sono predette dalla teoria della Relativita’ Generale di Einstein. Pochi sanno che le conoscenze derivanti da questa teoria hanno fornito un contributo essenziale alla messa a punto e al grado di precisione ottenibile dalle attuali reti satellitari GPS.

Ci sono inoltre molte analogie tra alcune delle tecniche che noi analisti dati utilizziamo per l’estrazione del segnale gravitazionale e quelle utilizzate nel campo dell’elaborazione digitale delle immagini, che trovano impieghi rilevanti anche nel campo della video-sorveglianza. 

Detto in altre parole, noi cerchiamo l’impronta del segnale gravitazionale emesso da una particolare classe di sorgenti con una tecnica del tutto analoga a quella che si utilizza per identificare una figura umana.

Inoltre, il processo di estrazione del segnale gravitazionale e’ nella maggior parte dei casi molto complicato dal punto di vista computazionale. Esso richiede familiarità con vari software e tecniche per creare algoritmi efficienti in grado di funzionare su processori paralleli. Alcuni di questi programmi e tecniche sono largamente utilizzati non solo nel mondo accademico, ma anche in molti settori dell’industria. Due esempi immediati riguardano la tecnologia superiore basata sulle unità di elaborazione grafica (GPU), che è ampiamente utilizzata in campi disparati come l’elaborazione di immagini scientifiche, l’esplorazione petrolifera e perfino in ambito finanziario. Questi sono solo alcuni esempi. Insomma, la ricaduta tecnologica e’ notevole, anche se non immediatamente tangibile.

Bosone di Higgs, onde gravitazionali, ecc. la fisica sta vivendo una stagione felice di scoperte. Quali saranno le prossime tappe, come si svilupperà la ricerca sulle “onde gravitazionali”? Riusciremo a “vedere” le vestigia dell’Universo primordiale?

Assolutamente si, penso siamo vicini! Al momento basiamo le nostre affermazioni su un unico evento. Affermazioni più accurate saranno possibili solo dopo aver rivelato più eventi di onde gravitazionali e -almeno personalmente- sono confidente che ce ne saranno degli altri.

Al momento io ed i miei colleghi stiamo continuando ad analizzare i dati del primo run osservativo di LIGO, conclusosi lo scorso 12 Gennaio. Non sappiamo ancora cosa ci troveremo davanti. 

Inoltre, il segnale osservato proviene solo da una delle possibili sorgenti di onde gravitazionali, ma ce ne sono delle altre. Il nostro compito è identificarle analizzando anche i dati che verranno raccolti in maniera congiunta dai due interferometri LIGO (situati uno ad Hanford e l’altro a Livingston)  e dall’interferometro Virgo (situato a Cascina, Pisa) entro quest’anno.

L’utilizzo di più rivelatori e’ fondamentale sia per poter eliminare i tanti disturbi ambientali (avvalendosi di tecniche di coincidenza) che per ridurre l’incertezza nella direzione di provenienza di un segnale gravitazionale.

La vicenda delle “onde gravitazionali” ha coinvolto, come ha ricordato lei, circa 1300 ricercatori, e lei è fra gli artefici della scoperta. Il suo caso enfatizza, giustamente, la preparazione ottima, in questo caso sul piano della fisica, che il nostro sistema universitario offre agli studenti. COSA manca alla ricerca italiana per frenare la fuga dei cervelli? 

Credo che la presenza di adeguati finanziamenti contribuirebbe fortemente a limitare questa “fuga di cervelli”. 

Devo pero’ aggiungere che, per quanto mi riguarda, la scelta di recarmi all’estero, proprio presso il “Max Planck Institut fuer Gravitationsphysik” in Germania, e’ stata assolutamente volontaria, la realizzazione di un mio desiderio.

La sua storia, però, è una storia di “rientro” dal Max Planck Institute all’Università la “Sapienza” di Roma. Una scelta coraggiosa (visto lo stato della ricerca italiana), perché?

Penso che ognuno di noi possa fornire il proprio contributo -anche se talvolta esiguo- per migliorare le cose e che sia bello farlo anche nel proprio paese di provenienza, se ovviamente ne si ha la possibilità e la voglia.

Ultima domanda: Qual è la motivazione più profonda che un giovane deve avere per affrontare lo studio della Fisica?

La bramosia della conoscenza, comprendere il contesto nel quale si colloca il nostro bel pianeta e capire quello che accade al di fuori di cio’ che vediamo.

“Nel cuore del conflitto”. Un bel saggio di Alessandro Pucci

nelcuoredelconflittoA volte capita d’imbattersi in persone inconsuete, davvero fuori dall’ordinario, che compiono azioni fuori dagli schemi, che dedicano tempo e pazienza all’elaborazione di strategie personali e originali di sopravvivenza e persino di perseguimento della felicità. Capita più spesso di quanto s’immagini.

Meno frequenti, invece, quelli che vanno oltre e, accanto a tale sforzo, compiono anche quello di un’elaborazione critica del proprio percorso intimo, generando così un processo di comunicazione rivolto agli altri, nel tentativo (immaginiamo), di renderli partecipi dei propri progressi, se pure di progressi si tratta.

È questo il caso di Alessandro Pucci, che nella vita di tutti i giorni fa il tecnico manutentore di reti telefoniche per una grande compagnia: controlla le centraline, sale e scende da impianti e palificazioni, accetta e distribuisce lamentele, rampogne e minacce della clientela, tanto bisognosa di connettività quanto avara di complimenti. 

La sua “vita vera”, da qualche anno a questa parte, si svolge invece lungo percorsi diversi. Ha letto molto, ha compiuto un percorso di studi teologici e filosofici, ha riflettuto sulla vita quotidiana e sui conflitti che, numerosi, l’avvelenano o la rendono migliore. Cura un blog – cronache dell’anima (http://cronachedellanima.blogspot.it/) – nel quale riversa le sue riflessioni.

Da questo processo è nato un piccolo libro: “Nel cuore del conflitto”; autopubblicato, venduto in rete e distribuito personalmente nei numerosi incontri che l’autore ha organizzato nella sua terra, le Marche, offre una penetrante lettura della vita di relazione; con un linguaggio che oscilla fortemente tra l’eloquio filosofico e la piana, semplice declinazione delle riflessioni quotidiane, Pucci riesce a rendere una modesta e luminosa testimonianza.

Testimonia infatti che è possibile, qualunque sia la nostra funzione nella grande “macchina mondiale” (scippando la definizione da un romanzo di un altro marchigiano, come lui: Paolo Volponi), provare a dipanare la matassa dell’esistenza e delle relazioni, accettando e provando a comprendere – è il caso di dirlo – la natura del “conflitto”, ineluttabilmente presente nella nostra vita.

Quattro capitoli: il conflitto interiore; il conflitto sociale; la guerra come degenerazione del conflitto; la speranza di pace. Seguendo questa mappa concettuale, la ragionata proposta di Alessandro Pucci illumina alcuni angoli del nostro quotidiano, con grande efficacia, soprattutto quando affronta i temi legati alla vita di relazione, ai rapporti umani. In fondo, sembra dire Pucci, tutta la vita è una lotta: cerchiamo di trovarci un senso e una prospettiva.

Come ha acutamente notato padre Alex Zanotelli in una sua recensione apparsa sul numero di Ottobre 2015 di “Mosaico di Pace”, il tema del conflitto è troppo vasto per «poter essere esaurientemente sviluppato in un unico testo». Tuttavia Pucci (è ancora Zanotelli che lo scrive) tenta «di tracciare un sentiero, una via percorribile (…) viaggiare all’interno dei conflitti significa cercare di capire la vita e i suoi inquietanti misteri».

Ecco: dietro ciascuno di noi – e dentro – c’è un mistero; e ancora più grande è quello del mondo. Come scrisse il teologo Rudolph Otto, si tratta di un “mysterium tremendum et fascinans”. Ed è curioso (o provvidenziale?) che, alle volte, un valido aiuto per affrontare l’enormità del tema ci giunga, inatteso, da chi – senza titoli, senza fasti – prova a condividere con gli altri i pensieri più profondi.

Alessandro Pucci, Nel cuore del conflitto, Prefazione di Roberto Mancini (Ordinario di Filosofia Teoretica, Università degli Sudi di Macerata), pagg.: 212, self-published – ISBN-13: 978-1507634806

Il libro è disponibile anche su Amazon (http://www.amazon.it/Nel-Cuore-Conflitto-Alessandro-Pucci/dp/1507634803/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1455548623&sr=8-1&keywords=nel+cuore+del+conflitto ).

L’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill è una nuova tappa della “geopolitica della misericordia”. Intervista a Francesco Peloso

Papa Francesco durante l'udienza generale del 10 febbraio 2016 in piazza San Pietro in Vaticano (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Papa Francesco durante l’udienza generale del 10 febbraio 2016, Piazza San Pietro in Vaticano (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Domani, nella mattinata, Papa Francesco lascerà Roma per recarsi in Messico. Un viaggio importante. Durerà una settimana. Farà tappa all’Avana dove, all’aeroporto “Josè Martì”, incontrerà , nel pomeriggio, il Patriarca Russo Ortodosso Kirill. L’incontro durerà due ore. Alla fine ci sarà la firma di una dichiarazione congiunta dei due leader religiosi. Un incontro storico, che segnerà una svolta nei rapporti tra la Chiesa Cattolica e l’Ortodossia. Una svolta che viene da lontano. Come si è arrivati a questo incontro? Quali sono le possibili conseguenze a livello religioso e politico? Ne parliamo, in questa intervista, con Francesco Peloso, giornalista  vaticanista del sito d’informazione religiosa, del quotidiano “La Stampa”, “Vatican insider”. Peloso è  anche collaboratore dell’Unità e del settimanale “Internazionale”.

L’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Ortodosso Kirill, che avverrà all’aeroporto dell’Avana, è un fatto di enorme portata storica. Non è un fatto episodico. Ovviamente ha una sua storia, quella dei rapporti con l’ortodossia. Quali sono le “radici” di quest’incontro ?

Il dialogo fra la Chiesa di Roma e il mondo ortodosso va avanti dagli anni del Concilio Vaticano II, ma di certo – considerato che le le chiese d’oriente fra di loro non sono tutte uguali – la svolta nel dialogo con il patriarcato di Mosca inizia dopo la caduta del Muro di Berlino e il ripristino della libertà religiosa in Russia. Si tratta per altro delle due maggiori confessioni cristiane del mondo fra le quali, nei secoli passati e fino a tempi recenti, non sono mancante le incomprensioni, le diffidenze, le rivalità. Da quando però il processo ecumenico ha preso piede, il possibile incontro fra Roma e Mosca rappresentava di certo il coronamento agognato di questo percorso.

La scelta del luogo non è causale…..Perché proprio all’Avana?

Per motivi politici prima ancora che religiosi, o comunque per un mix di queste due componenti. Bisogna considerare infatti che Cuba continua ad aver buone relazioni con Mosca, ben oltre la stagione della guerra fredda. Certo sono mutate molte cose, e tuttavia si tratti di due nazioni, entrambe protagoniste di primo piano della storia contemporanea che, per varie ragioni, si collocano in modo antagonista o quanto meno interlocutorio rispetto agli Stati Uniti, e questo indubbiamente le lega, non sono insomma alleati degli Usa, anzi ne hanno contestato in questi decenni il primato di unica superpotenza. D’altro canto Cuba è entrata – anche grazie alla formidabile mediazione del papa e del Vaticano – in una nuova e originale fase nei rapporti con Washington, è iniziato il disgelo, sono caduti i muri, riprese le relazioni diplomatiche, ed è solo l’inizio. E qui bisogna sottolineare che anche il presidente Obama è uno degli attori da considerare in quanto sta avvenendo; la rinuncia dell’attuale capo della Casa Bianca ad essere ‘gendarme del mondo’, ha insomma avuto un peso in questa vicenda, e il dialogo fra lui e il papa è nato proprio a partire da questa scelta. Il regime castrista, d’altro canto, sotto la guida di Raul Castro, si sta aprendo un po’ alla volta al mondo, anche alla presenza della religione. La Chiesa cattolica ha fatto da apripista, quella ortodossa sta seguendo la stessa strada. Cuba è quindi un po’ certamente ‘casa’ del papa, quale leader morale, religioso e in parte politico riconosciuto da tutta l’America Latina, e sicuramente è un partner importante per Mosca, sia a livello politico che religioso.

Quali saranno, nelle due ore di colloquio, i principali “dossier” che affronteranno?

Quelli di cui si è già detto in questi giorni: in primo luogo il senso del cammino ecumenico, il valore dell’incontro fra il papa e il patriarca per la pace; qui mi aspetto qualcosa di più che una dichiarazione solo formale. Poi certamente la vicenda ucraina con i contrasti fra ortodossi e greco-cattolici, il Medio Oriente, il problema dei cristiani perseguitati, il no al fondamentalismo religioso, a chi usa il nome di Dio per uccidere o promuovere guerre sante, la libertà e la convivenza religiosa, il tema dell’ambiente, il contributo del cristianesimo alle relazioni pacifiche fra gli Stati, i governi, i popoli…vedremo.

L’incontro con il Patriarca Kirill avrà delle conseguenze sui rapporti con gli Uniati (i cristiani di rito greco fedeli a Roma), che, come si sa, sono una comunità molto presente in Ucraina (altro luogo di conflitto). Con questo incontro crollerà un altro muro (quello tra “uniati” e Patriarcato di Mosca), con possibili conseguenze politiche?

Non credo che crollerà un muro, il conflitto ucraino ha infatti già prodotto un fiume di vittime del quale forse ci siamo accorti solo in parte. Senza contare i profughi, gli sfollati interni, le lacerazioni sociali, gli opposti e intransigenti nazionalismi alimentati da Mosca e da Kiev, il problema dell’applicazione di accordi internazionali, da parte di Putin in particolare. I greco-cattolici e i fedeli al patriarcato di Mosca sono dentro questo schema terribile, in parte ne sono protagonisti. Certo, l’abbraccio fra Francesco e Kirill può dire qualcosa: soprattutto in termini di una convivenza possibile, facendo compiere un primo passo importante in direzione di un superamento di una contrapposizione storica fra la Chiesa ucraina fedele a Roma e quella russa. D’altro canto il nodo Ucraina è sempre stato il vero ostacolo al l’incontro fra il papa e il patriarca; vediamo fino a che punto ci sarà coraggio di venirsi incontro.

Insomma con questa mossa Francesco si conferma un “player” di livello planetario. Forse l’unico che ha un carisma che gli consente massima libertà dli movimento… La “geopolitica della misericordia” ha messo a segno diversi successi. Possiamo fissare i punti fermi della “geopolitica” di Francesco?

Mi pare un’impostazione corretta della questione, tuttavia i punti fermi sono troppi da elencare. Parlerei però, piuttosto, di una diplomazia in movimento, una diplomazia dinamica, che ha nel multilateralismo e poi ancor di più nel multipolarismo, la sua bussola. Qui non si tratta di capire chi sono i ‘nuovi’ alleati della Santa Sede, come qualcuno seguendo vecchi schemi prova a fare, ma di comprendere il metodo: è questo “camminare insieme nella differenza” che conta. Cioè la necessità di accettare l’interlocutore, di comprenderne la sua visione, per lavorare insieme tutte le volte che questo è possibile, sapendo che restano -allo stesso tempo – delle distanze. Solo così, nel metodo Francesco, si può puntare a obiettivi di fondo come la fine dei conflitti, l’allargamento del principio di cittadinanza a chi ne è escluso (gli ‘scartati’ spesso richiamati dal papa), la rinuncia a interessi di potere in nome di un aiuto ai deboli, o di politiche in favore del genere umano e delle generazioni future, come nel caso della salvaguardia ecologica, del Creato. Per fare questo non si può stilare la classifica dei cattivi, dire: tu non ti puoi sedere la tavolo del negoziato, con te non ci parlo. Il riconoscimento dell’altro implica un approccio nuovo, multipolare appunto, e di pari dignità. Il che non significa rinunciare alle proprie ragioni, alle critiche, al contrario vuol dire dare una chance in più a principi che, altrimenti, sarebbero rifiutati a priori; si pensi alla libertà religiosa in Cina o nei Paesi islamici, per non dire degli squilibri sociali ed economici fra nord e sud del Pianeta.

Il prossimo muro che cadrà sarà la Cina?

Il dialogo con la Cina prosegue in modo positivo, la diplomazia vaticana è al lavoro, ma i tempi di queste cose sono sempre incerti, mille ostacoli possono frapporsi.

Ultima domanda: Dopo l’ Avana il Papa andrà in Messico. Un paese dilaniato dalle bande criminali dei Narcos e dalla corruzione. Quali sono gli obiettivi di questa visita?

Il discorso sul Messico sarebbe lungo. Di certo il papa vuole portare una parola di speranza ai più deboli, agli offesi, ai migranti, ai poveri, che sono le vere vittime della violenza tremenda e disumana dei cartelli della droga, della corruzione degli apparati statali, della ‘tratta’ di esseri umani da una parte all’altra del confine con gli Stati Uniti. E poi di certo nei pensieri del pontefice ci sono le popolazioni indigene. Il Messico, con papa Francesco, credo che possa riscoprire un cristianesimo ispirato, profetico, capace di parlare di pace, di fratellanza, di giustizia e di perdono, parole non retoriche, ma che toccano la carne viva di un popolo.