“Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede”. Il testo del discorso di Papa Francesco alla comunità ebraica nella Sinagoga di Roma

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Grande emozione ha suscitato  la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma. Emozionante per il clima veramente fraterno della comunità ebraica nei confronti del Papa. Il Papa ha ricambiato con la sua grande umanità, pronunciando parole indelebili. Ma aldilà delle parole, importanti quelle del Rabbino capo, sono stati i segni, i comportamenti , che hanno segnato la visita. Il clima di fraternità dominava il tutto. IRREVOCABILITÀ’ dell’alleanza di Dio con il Popolo d’Israele, la chiave è tutta qui. Da questo discende tutto il futuro dell’impegno per la pace di ebrei e cristiani. La profezia del Concilio, il documento Nostra Aetate, dà il suo frutto. In questa visita non potevano mancare le PAROLE forti sulla Shoah. Ma ancora una volta sono stati i gesti a incarnare le parole. L’abbraccio di Francesco nei confronti dei sopravvissuti di Auschwitz è stato forte. Emblematico,così, è stato il canto finale, Ani maamin,: “credo in piena fede nella venuta del messia”, che cantavano gli ebrei mentre andavano a morire nei crematori, . un canto struggente, che ti toglie il respiro.

Una giornata indelebile per la storia millenaria dell’ebraismo e del cristianesimo.

Di seguito pubblichiamo il testo dell’intervento del Papa:

Cari fratelli e sorelle,

sono felice di trovarmi oggi con voi in questo Tempio Maggiore. Ringrazio per le loro cortesi parole il Dottor Di Segni, la Dottoressa Dureghello e l’Avvocato Gattegna; e ringrazio voi tutti per la calorosa accoglienza, grazie! Todà rabbà!

Nella mia prima visita a questa Sinagoga come Vescovo di Roma, desidero esprimere a voi, estendendolo a tutte le comunità ebraiche, il saluto fraterno di pace di questa Chiesa e dell’intera Chiesa cattolica.

Le nostre relazioni mi stanno molto a cuore. Già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche e rendere grazie al Signore, che ci dona la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si è creato un legame spirituale, che ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune. Nel dialogo interreligioso è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare. E nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra Aetate 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.

Con questa mia visita seguo le orme dei miei Predecessori., Papa Giovanni Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13 aprile 1986; e Papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali. Mi auguro che crescano sempre più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede. Per questo è significativo che io sia venuto tra voi proprio oggi, 17 gennaio, quando la Conferenza Episcopale Italiana celebra la “Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei”.

Abbiamo da poco commemorato il 50º anniversario della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, che ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Il 28 Ottobre scorso, in Piazza San Pietro., ho potuto salutare anche un gran numero di rappresentanti ebraici, e mi sono così espresso: «Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria trasformazione che ha avuto in questi cinquant’anni il rapporto tra cristiani ed ebrei. Indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli. Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra aetate ha tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; “no” ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano». Nostra aetate ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Essa naturalmente non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo , ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche emerse negli ultimi decenni trascorsi dalla promulgazione di Nostra aetate. Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei. I cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele.

Insieme con le questioni teologiche, non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Quella di una ecologia integrale è ormai prioritaria, e come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato. Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Es 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso. Ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla. Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita.

Il popolo ebraico, nella sua storia, ha dovuto sperimentare la violenza e la persecuzione, fino allo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli con il cuore, in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza ad ogni testimone della Shoah ancora vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti.

Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia. Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi progetti di salvezza, come dice il profeta Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Che il Signore ci benedica e ci protegga. Faccia splendere il suo volto su di noi e ci doni la sua grazia. Rivolga su di noi il suo volto e ci conceda la pace (cfr Nm 6,24-26). Shalom alechem!

Dal Sito:  HYPERLINK 

“Il nome di Dio è Misericordia”. Il libro-intervista di Papa Francesco

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Saranno il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, l’attore Roberto Benigni, Padre Federico Lombardi e Jianqing Zhang Agostino (ospite del carcere di Padova) a presentare il  libro-intervista, scritto dal vaticanista della Stampa Andrea Tornielli, al Papa Francesco dal titolo «Il nome di Dio è Misericordia», domani, nella tarda mattinata, all’Augustianum di Roma situato a due passi da Piazza San Pietro. Anche Rainews24 seguirà la presentazione. Questo libro, scrive Tornielli, “è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay”. Il libro-intervista, da domani in libreria per le edizioni Piemme, esce in contemporanea in 86 Paesi: tra gli editori ci sono, Verlag e Planeta.

Quello di Francesco è un vero e proprio inno alla Misericordia di Dio, una misericordia vissuta nella sua esperienza di Pastore nei luoghi delle periferie esistenziali e sociali dell’Argentina.

Dal libro esce un ritratto a tinte forti dell’ecclesiologia missionaria di Bergoglio, una sfida profetica per tutta la Chiesa cattolica.

Di seguito pubblichiamo un breve estratto, tratto dal sito http://www.lastampa.it/vaticaninsider/ita, del libro di Andrea Tornielli.

Troppa misericordia?  

La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre.

Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. […]

Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.

Andrea Tornielli, Il nome di Dio è Misericordia, Ed. Piemme, Milano 2016, pagg. 120, 15 €

 

 

Alle radici del conflitto tra Arabia Saudita e Iran. Intervista a Marina Calculli.

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Lo scenario mediorientale si fa sempre più caldo. Il conflitto tra Arabia Saudita e Iran, dopo che il regime di Riad ha giustiziato il leader sciita Nimr  al-Nimr, getta quell’area del mondo ancor più nel caos. Quali sono le cause di questo conflitto? Quali saranno le conseguenze per l’intero M.O. e per il mondo occidentale? Ne parliamo con la studiosa Marina Calculli, Ricercatrice Fulbright presso l’Institute for Middle Eastern Studies della George Washington University a Washington DC (Usa).

Il conflitto, secolare, all’interno dell’Islam tra Sciiti e Sunniti conosce un nuovo e drammatico episodio con l’esecuzione, da parte saudita, dello Sheik Nimr al-Nimr (Sciita). Perché il regime di Riad temeva il religioso sciita? Quello che appare è che al-Nimr non fosse uno sciita settario, anzi aveva condannato il regime di Assad (sciita), quali sono allora le ragioni profonde di questa esecuzione?

E’ vero che c’è stata una dinamica settaria, ma quella che è in atto in questi giorni non è l’ultima puntata di un conflitto secolare. Sarebbe errato vederci odi ancestrali in questa faccenda. SI tratta piuttosto della politica di potenza delle due potenze regionali che si contendono l’egemonia sul Levante arabo e trovano utile mobilitare le piazze politicamente, socialmente e militarmente cavalcando queste divisioni settarie. C’è una duplice motivazione alla condanna a morte di Nimr al-Nimr. La prima è domestica: la casa regnante percepisce i fervori di un malcontento popolare soggiacente, anche dovuto al fatto che con il prezzo del petrolio così basso, cresce l’incertezza assieme alla disparità socio-economica. Inoltre, l’Arabia Saudita non ha solo un problema storico con la regione as-sharkiyya, ovvero orientale, dove vive la minoranza sciita da sempre marginalizzata. C’è anche il problema dei simpatizzanti dell’ISIS. Infine, c’è il problema dei numerosi attivisti per i diritti umani nel paese.  Dunque il regime ha voluto dare un messaggio per dissuadere qualsiasi forma di dissidenza e critica interna e poi l’ha buttata sul problema degli sciiti che, nella versione del potere, sarebbero tutti finanziati dall’Iran, così da creare paura del nemico estero in casa presso i sunniti e divaricare lo scontro sociale in un’ottica di divide et impera. C’e’ poi anche una motivazione internazionale: l’Arabia Saudita vede un Iran non più marginalizzato come prima dalla comunità internazionale e questo cambia gli equilibri anche regionali. Tra pochi giorni saranno levate le prime sanzioni contro Teheran che aprono uno scenario nuovo per l’Iran. L’Arabia Saudita cerca ancora di far saltare l’accordo e ripristinare lo status quo precedente.

Riad accusava al-Nimr di essere un “agente iraniano”. Quale era il suo rapporto con il regime degli ayatollah iraniani? 

Nimr era ovviamente uno cheikh sciita e in quanto tale aveva studiato in Iran e si era formato lì. Ma aveva più volte ribadito in sermoni peraltro disponibili online che il legame degli sciiti sauditi con l’Iran era un’invenzione dell’Arabia Saudita per non affrontare i veri problemi, ovvero le rivendicazioni sociali, politiche ed economiche della popolazione di As-sharkiyya. In uno dei suoi discorsi, peraltro, Nimr disse che il potere saudita parlava di un “paese straniero”, senza neppure avere il coraggio di chiamare l’Iran con il suo nome. E sarcasticamente diceva al potere: “Perché allora non andate a far guerra a questo paese straniero invece di arrestarci, torturarci, ammazzarci qui, se il problema è questo paese?”. Si tratta di un escamotage sarcastico per esporre il pretesto politico, la narrazione settaria, le bugie che hanno forgiato il potere in Arabia Saudita.

Questa esecuzione porterà ad ulteriori tensioni nello scenario, già complicato, del Medio Oriente. Pensa che tra Iran e Arabia Saudita si arriverà alla guerra , se non apertamente, ovvero ad una guerra per procura, dove i contendenti potranno mettere a segno colpi, attraverso alleati, per mettere in grave difficoltà il nemico? Insomma l’instabilità della zona aumenterà sempre di più?

Ci sono già diverse guerre per procura, fronti caldissimi, in Medio Oriente. La Siria e lo Yemen sono casi eccellenti in cui si vede come l’ostinazione per il potere – tanto da parte saudita quanto iraniana – non solo crea tragedie di proporzioni inaudite, ma rischia di ritorcersi contro i poteri stessi. Da queste guerre e’ nato l’ISIS, in Yemen sta proliferando al-Qaeda: quanto il potere saudita potrà giocare con questi gruppi senza essere travolta essa stessa dalla sula forza dirompente? Lo stesso in parte vale per l’Iran, che sta dal suo canto esacerbando la crisi, sostenendo a tutti i costi Bashar al-Assad in Siria, una mossa che procrastina la fine delle ostilità in quanto la maggior parte degli attori, anche quelli disposti a trattare con Damasco, non potranno mai accettare di sedersi al tavolo con un leader responsabile – proprio in quanto leader – della morte di 250.000 persone. CI sono altri poteri emersi dal conflitto che guardano al loro sostegno popolare, costituitosi durante la guerra e largamente anti-Assad. L’ossessione iraniana suAssad ha di fatto cristallizzato lo stallo e le tensioni di questi giorni certamente allontanano ancora di più la pace.

Il regime di Riad ha fatto del settarismo religioso un uso politico per riaffermare il suo potere sul mondo sunnita. Giustificando così la repressione al suo interno, e la guerra nello Yemen. Si pone così per il mondo occidentale la questione dell’alleanza con l’Arabia saudita. Fino ad ora l’occidente ha continuato a fare affari con la monarchia saudita, pensa si arriverà ad un chiarimento con il regime dei Saud?

E’ l’alleanza più ipocrita dell’Occidente. Ma questo non deve stupire: le alleanze si fanno per interesse politico, economico e strategico sempre. Quello che sta crollando in questo periodo è semmai la narrazione di copertura di questa alleanza, ovvero il tentativo di dipingere l’Arabia Saudita come un paese moderato. E’ importante semmai capire anche come tutti gli attori del sistema internazionale strumentalizzano narrazioni “emozionali”, “Identitarie” o a marca “religiosa”. Quella degli sciiti contro i sunniti e’ una guerra che in realtà si gioca tra potenze e su un piano strategico. Quella tra Oriente e Occidente, o Cristianità e Islam, ha motivazioni analoghe. Bisognerebbe guardare alle alleanze o alle rivalità strategiche non come a opposizioni o comunioni identitarie, ma come un complesso di interessi in cui l’identità raramente gioca un ruolo fondamentale, se non nella sua strumentalizzazione. Credo che l’alleanza tra USA e Arabia Saudita ne sia la prova più esemplare.

Il prezzo del petrolio, sempre più basso, ha prodotto conseguenze economiche e sociali nei paesi produttori di greggio. Quale regime è più vulnerabile tra Teheran e Riad?

Certamente l’Arabia Saudita la cui economia dipende quasi totalmente dalle esportazioni di greggio. Teheran ha invece una economia storicamente assai più diversificata, ha un apparato industriale nazionale molto sviluppato. E’ quello che ha salvato l’Iran dal collasso nel periodo delle sanzioni. Inoltre l’Iran ha una popolazione colta e specializzata, mentre l’Arabia Saudita dipende in larga parte dalla manodopera specializzata straniera.

Quali conseguenze avrà, questo conflitto tra Iran e Arabia Saudita, nella guerra all’ Isis?

L’ISIS approfitta dello sfaldamento degli stati. E’ lì che emerge l’ISIS. Dove non c’e’ più governance, emerge l’ISIS in altri termini. Dunque il procrastinare di questo stallo ovviamente e’ una buona notizia per l’ISIS. Mentre una transizione in Siria, per esempio, creerebbe comunque un’alternativa per buona parte di quella popolazione che non può prestare più lealtà a Bashar al-Assad e si trova schiacciata da ISIS.

Ultima domanda: Quale partita può giocare, in positivo, l’Europa in questo conflitto?

Non credo che l’Europa sia in grado di giocare una grande partita in un momento storico in cui persino gli Stati Uniti hanno poche carte in mano. Ci sono troppi interessi contrastanti tra alleati e potenziali alleati. L’Iran si prospetta come un nuovo paradiso di investimenti e business e i governi europei vogliono che l’accordo ingrani. Dall’’altro lato non si può far saltare l’alleanza con le monarchie del Golfo, inclusa l’Arabia Saudita, perché c’e’ una struttura di interdipendenza finanziaria e commerciale da mantenere.

SE NASCE UN BAMBINO,VUOL DIRE CHE DIO CREDE ANCORA NELL’ESSERE UMANO. Un testo natalizio di Leonardo Boff

San Jose, COSTA RICA: Brazilian Franciscan father Leonardo Boff, one of the greatest exponents of the Liberation Theology gives, an interview to an university newspaper 14 March, 2007 in San Pedro, east from San Jose. Boff said that the warning issued to Spanish Jesuit Jon Sobrino will stir the debate around the liberation theory, still pretty alive in the world. Sobrino's books, widely distributed in the heavily Catholic region, contain passages that are "either erroneous or dangerous and may cause harm to the faithful," the Vatican said, issuing a warning "notification" but stopping short of condemning him.   AFP PHOTO / Mayela LOPEZ (Photo credit should read MAYELA LOPEZ/AFP/Getty Images)

San Jose, COSTA RICA: l’ex frate francescano brasiliano, Leonardo Boff, in una foto del 2007 (MAYELA LOPEZ/AFP/Getty Images)

Pubblichiamo questa intensa riflessione natalizia del Teologo brasiliano della liberazione Leonardo Boff*

Siamo sotto Natale, ma non c’è atmosfera di festa. Piuttosto tira aria di venerdì santo.Tante sono le crisi, gli attentati terroristici, le guerre che, insieme, potenze bellicose e militariste (USA, Francia, Russia e Germania) scatenano contro lo stato islamico. Hanno semidistrutto la Siria, che ora affronta una spaventosa mortalità di civili e bambini come la stessa stampa ha fatto vedere. Atmosfera contaminata da rancori e spirito di vendetta nella politica brasiliana, per non dire dei livelli astronomici di corruzione: tutto questo spegne le luci di Natale, fa appassire gli alberi di Natale che dovrebbero creare   un’atmosfera di allegria e di innocenza infantile che ancora persiste in qualsiasi persona umana.

         Chi ha potuto assistere al film Bambini Invisibili, in sette scene differenti, diretto da famosi registi come Spike Lee, Katia Lund, John Woo tra gli altri, ha potuto rendersi conto della vita distrutta di bambini di varie parti del mondo, condannate a vivere di rifiuti e nei rifiuti; e anche così ci sono scene commoventi di cameratismo, di piccole gioie negli occhi tristi e di solidarietà tra di loro.

         E pensare che sono milioni oggi nel mondo e che lo stesso Bambino Gesù, secondo i testi biblici è nato in una grotta e messo in una greppia, luoghi riservati ad animali, perché Maria,  prossima a partorire, non aveva trovato posto in nessuna locanda di Betlemme. Lui si è mescolato al destino di tutti questi bambini maltrattati dalla nostra insensibilità.

         Anni dopo, questo stesso Gesù già grande dirà: “Chi riceverà questi miei piccoli fratelli e sorelle, riceverà me”. Il Natale si realizza quando avviene l’accoglienza come quella che il Padre Lancellotti organizza in S.Paolo per centinaia di bambini di strada sotto un viadotto e che ha potuto contare per molti anni sulla presenza del Presidente  Lula. In mezzo a questa ondata di disgrazie, nel mondo e in Brasile mi viene in mente un pezzo di legno con la scritta a fuoco che un malato di un ospedale psichiatrico dello Stato di Minas Gerais (BR) mi consegnò in occasione di una visita compiuta da me per incoraggiare il personale. Ci stava scritto:”Tutte le volte che nasce un bambino, è segno che Dio crede ancora nell’essere umano”.

         Ci sarà mai un atto di fede e di speranza più grande di questo? In alcune culture africane  si dice che Dio abita in forma tutta speciale nelle persone che noi chiamiamo “pazzi”. Per questo sono adottati da tutti e tutti  hanno cura di loro come se si trattasse di un fratello e di una sorella. Per questo sono integrati e vivono pacificamente. La nostra cultura li tiene isolati e non si riconosce in loro.

          Il Natale di quest’anno ci rimanda a una umanità offesa e a tutti i bambini invisibili le cui sofferenze somigliano a quelle del Bambino Gesù, che nell’inverno della campagna di Betlemme, adagiato nella greppia di una stalla, ebbe a tremare di freddo. Secondo un’antica leggenda fu riscaldato dal fiato di un bue e di un asinello che come premio ebbero in seguito restituita la loro piena vitalità.

         E’ bene ricordare il significato religioso del Natale: Dio non è un vecchio barbuto dagli occhi penetranti, che scrutano severi tutte le nostre azioni. E’ un bambino. E come bambino non giudica nessuno. Vuole solo vivere in compagnia e essere accarezzato. Dalla mangiatoia ci arriva questo messaggio:”Oh, creature umane, non abbiate paura di Dio. Non vedete che sua Madre ha fasciato le sue piccole braccia? Lui non minaccia nessuno. Più che aiutare ha bisogno di essere aiutato e portato in braccio”.

         Nessuno  meglio di Fernando Pessoa, il grande poeta portoghese ha compreso il significato umano e la verità del Bambino Gesù.

         “Lui è l’Eterno Bambino, il Dio che mancava. Lui è l’umano che è naturale. Lui è il Divino che sorride e che gioca. E per questo io so con tutta certezza che Lui è il Bambino Gesù vero. E’ la creatura umana così umana che è Divina. Andiamo così d’accordo noi due,in compagnia di tutto, che mai pensiamo l’uno all’altro….Quando io morirò, o Bambino, che io sia il bambino, il più piccolo. Prendimi in braccio e portami a casa tua. Spoglia il mio essere stanco e umano. Mettimi a letto. Contami una storia, che io mi sveglio, per poi dormire di nuovo. E dammi i sogni tuoi perché io possa giocare fino a che io nasca un giorno qualsiasi che tu sai qual 蔑

         Ce la facciamo a contenere l’emozione davanti a tanta bellezza? Per questo vale ancora, nonostante le difficoltà in contrario, celebrare sommessamente il Natale.

         Infine ha ancora un significato l’ultimo messaggio che mi incanta: ”Ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere ‘dio’. Solo Dio vuole essere bambino”.

         Abbracciamoci l’un l’altro come chi abbraccia la Creatura divina che si nasconde in noi e che mai ci ha abbandonato.

         E che il Natale sia ancora una festa sommessamente felice.

*Leonardo Boff, ecoteólogo e columnist del Jornal do Brasil on line

(Traduzione Romano Baraglia e Lidia Arato)

Dal Sito https://leonardoboff.wordpress.com/2015/12/25/se-nasce-un-bambinovuol-dire-che-dio-crede-ancora-nellessere-umano/

Il testo è apparso, anche IN LINGUA portoghese, nella edizione on line del Jornal do Brasil

Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo

Paterniti-Tutti-gli-uomini-del-generaleChi sono gli uomini che hanno combattuto in prima fila il terrorismo negli anni di piombo? Chi sono gli uomini che agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa hanno indagato, rischiato, vissuto come clandestini, servito il Paese e la democrazia, per essere dimenticati dopo l’uccisione del loro comandante passato a combattere la mafia?

Questo libro, “Tutti gli uomini del generale”, da pochi giorni nelle librerie, scritto dalla giornalista  Fabiola Paterniti per la casa editrice Melampo, con la prefazione dell’ex ministro degli interni Virginio Rognoni, racconta per la prima volta la lotta al terrorismo attraverso la voce dei protagonisti che sostennero il peso di un impegno senza limiti. Ne nasce una storia sincera, per molti aspetti nuova. Sono testimonianze orali raccolte in tante regioni d’Italia. Carabinieri semplici, marescialli, ufficiali, restituiscono le tinte di quella stagione e il senso di una difficilissima impresa collettiva, talora smontando con semplicità insinuazioni e ricostruzioni fantasiose che hanno tenuto banco per quasi quarant’anni. Le indagini, gli infiltrati, le vite da clandestini. E poi i successi, i caduti, i momenti di allegria, la fedeltà al loro comandante, che tutti ancora chiamano “il signor generale”.. E infine l’amarezza per essere stati dimenticati, superata dall’orgoglio di avere servito lo Stato.   Insomma è la Storia del Nucleo Speciale antiterrorismo dei Carabinieri.

Il libro è arricchito dalle testimonianze di Gian Carlo Caselli e di Armando Spataro, due magistrati che collaborarono con il generale in inchieste decisive; e si chiude con le storiche interviste che Carlo Alberto dalla Chiesa rilasciò a Enzo Biagi e a Giorgio Bocca, che rilette a distanza di trent’anni rivelano ancora più chiaramente la consapevolezza e il coraggio del generale nell’affrontare i misteri e le doppiezze del nostro Paese.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo due estratti del libro:

Dal Capitolo “L’ufficiale dalla memoria buona. Gian Paolo Sechi. Parte seconda: il dopo Moro”   (pp.94-96)          (ora generale in pensione)

Il generale passa a questo punto, quasi automaticamente, a raccontare di Marco Donat Cattin. Lo fa con la determinazione di chi sa che sta per parlare di una grande storia. Una di quella vicende tipiche della nazione entrate negli annali e nella memoria pubblica per i nomi altisonanti dei protagonisti e per gli scenari umani e politici che fanno loro da sfondo.

“Ricordo bene quando arrestammo il figlio di Carlo Donat Cattin. Da mesi avevo incaricato un mio uomo di pedinare un tizio che ci risultava avesse contatti con Marco Donat Cattin. Un giorno questo presunto amico si recò alla stazione di Torino Porta Nova e salì su un treno diretto in Francia. A quel punto il mio uomo bloccò un signore che passava lì per caso, e gli diede una mancia con la richiesta di farmi arrivare un messaggio nel quale mi informava che stava prendendo il treno per la Francia. Poco dopo questi mi telefonò: ‘Tu sei Boss? – mi chiese – Trucido mi ha detto di chiamarti per dirti che quel tizio è salito su un treno che porta in Francia e, quindi, anche lui è diretto in Francia’. Dopo un po’, ricevetti un’altra telefonata, questa volta erano i carabinieri di Bardonecchia che mi lessero un promemoria che Trucido aveva scritto in treno e consegnato loro. Erano tutte le informazioni che aveva acquisito e che comunicai alla gendarmeria francese. Appena il treno giunse a destinazione, l’uomo che avevamo pedinato raggiunse altra gente. In seguito incontrò Marco Donat Cattin, che così venne arrestato. Quando fu preso tutti fingevano di non capire chi fosse, ma io arrivai in Francia quello stesso pomeriggio. E guardando l’uomo che avevano fermato dissi: ‘Ma questo assomiglia a Donat Cattin’. La mia osservazione naturalmente era ironica, sapevano tutti la sua identità, ma non osavano dirla. Infatti, appena feci quel nome, successe il putiferio. Da quel momento costui venne trattato come il Presidente della Repubblica in visita ufficiale in Francia. Vennero a prenderlo settimane dopo con l’aereo presidenziale, ossia quello che aveva tutte le comodità. Il Governo mandò quest’aereo con un ufficiale che non si occupava di lotta al terrorismo.  Al ritorno in Italia, atterrammo nella base militare di Vicenza, a bordo c’ero io e c’era anche Mario Mori, che faceva parte della nostra struttura. Poi feci salire Donat Cattin su un’auto e lo accompagnai a Torino. Lo chiusi in camera di sicurezza, mentre, in quegli stessi giorni, avevamo Patrizio Peci in un alloggio al piano di sopra”.

Alla Fiat seppero subito del nuovo arrivato. Così molti dirigenti fecero pressioni enormi, andarono a cercare gli uomini del generale con la richiesta di liberarlo o di dargli lo stesso trattamento di Peci. “Puntualizzammo loro che Peci era un pentito e ci stava raccontando tutto dell’organizzazione terroristica di cui faceva parte e quindi era un’altra questione.  Marco Donat Cattin non voleva collaborare”.

Il problema per gli uomini del nucleo era su come tenere le dovute distanze verso il padre, che era stato ministro in diversi governi, ricopriva l’incarico di Vice-Segretario unico della Democrazia Cristiana, ed era dotato di grande potere e influenza. A quel tempo c’era una norma che imponeva loro, per i casi di arresto, di informare subito il Ministro, e così fecero. “Quindi il padre venne a saperlo abbastanza in fretta. E questa vicenda scatenò anche una dura polemica nelle cronache di allora”.

Ma la storia più curiosa che Sechi mi racconta riguarda il periodo precedente, ossia il modo in cui erano arrivati all’illustre terrorista di Prima linea. “Oltre a pedinare l’amico, avevamo seguito anche la madre che da più di un anno sistematicamente prendeva il treno da Torino e scendeva a una stazione vicino Vercelli. Lì incontrava il figlio. Lui le dava un pacco e lei ricambiava con un altro. Sa cosa c’era dentro questi involucri? Biancheria. Sì, proprio così. Lui le dava la biancheria sporca e lei quella pulita. Già un anno prima, quindi, la famiglia sapeva, oltre che della sua militanza in un’organizzazione terroristica, la località in cui si era rifugiato.

Quello che ancora oggi mi dispiace è che un uomo delle istituzioni, come il padre di Marco, non abbia mai preso una posizione netta. Anche se è difficile parlarne ad anni di distanza. Una volta che aveva scoperto il figlio terrorista, avrebbe dovuto essere conseguente. In fondo era stato un Ministro con responsabilità ben precise nei confronti della collettività, ricopriva incarichi pubblici.  Ciò di cui sono sicuro è che lo sapesse già da un anno, ma non fece niente”.   

Dal Capitolo “Giuseppe Severino” (maresciallo),  pp.150-153

Giuseppe Severino sorseggia il suo caffè e, ogni tanto, tira fuori una risata che pare trascinata dai ricordi. Il racconto è spesso frenato dalla paura di dire troppo. In fondo, in questi lunghi anni, la memoria delle gesta degli “uomini del generale” ha subìto storpiature e libere interpretazioni che tuttora pesano sulle loro vite. I riconoscimenti sono stati pochi, mentre tante sono state le letture distorte della loro attività. Per fortuna li sorregge lo spirito di squadra: la grande risorsa che gli uomini del nucleo avevano creato in quegli anni, è ancora vivo, e ancora dà forza. Per questo, Severino fa in modo che il suo racconto torni sempre sul generale: “è morto in solitudine, se fossimo stati noi a difenderlo, non sarebbe successo. Quando veniva da queste parti e si fermava a prendere un caffè, ci chiedeva di lasciarlo da solo, non voleva che mettessimo a rischio la nostra vita per lui. Quindi, dopo tanta insistenza, lui entrava al bar e noi lo guardavamo a distanza di cinque o sei metri. Sapevamo di dover tenere gli occhi ben aperti. Io non dormivo la notte per questo lavoro, non vedevo la mia famiglia per molto tempo, mancavo spesso da casa, anche per 15 o 20 giorni di seguito”. Severino era a capo delle sedi di Parma, di Piacenza, di Reggio Emilia e di Modena. Un’area cruciale per l’antiterrorismo: in quelle provincie furono identificati parecchi brigatisti e sbaragliati numerosi covi. Ha collaborato direttamente con il generale anche quando questi costituì le carceri speciali: “I nostri uffici a quel tempo erano a Roma, sulla Salaria. Hanno mitragliato i muri della sede tante volte. Non si può avere idea di quale fosse il clima a quel tempo”. Il periodo del terrorismo l’ha segnato. Mentre parla si ferma a riflettere, come volesse capire se sta dicendo qualcosa di troppo. Ha il timore che le sue parole possano giovare a nuovi “sciacalli per infangare il nome del generale”.

Continua a voler essere un fantasma, come gli era stato richiesto in quegli anni del terrorismo, quando il suo nome di battaglia era “Seve” e il nome con il quale si presentava ai comuni mortali rimaneva tale, ma con un’aggiunta: geometra Severino. E, in effetti, quel “geometra” davanti al cognome sembra anticipare l’anonimato in cui si sarebbe immerso dopo i duri anni di servizio per lo Stato. Lontano dalla stampa, dal chiacchiericcio pettegolo dei palazzi del potere e dalle malevolenze di chi preferiva ricostruire la storia dell’antiterrorismo con le proprie fisime anziché con i fatti. Ma del generale non si stanca mai di parlare, perché è l’uomo che gli ha consentito di conoscere la parte bella dello Stato: “Lui è stato sempre presente nelle nostre vite. Ci chiamava al telefono, parlava con mia moglie. Spesso ci scriveva. Ho conservato gelosamente tutte le sue lettere. Mi cercò persino prima della sua morte, credo sia stata l’ultima telefonata, ma io non c’ero. E ricordo, ancora, dove mi trovavo in quel momento. Lui sapeva perfettamente chi lavorava e chi erano le persone fidate. Un giorno ha fatto neri alcuni ufficiali che non avevano rispettato le regole, in quell’occasione avrei voluto sprofondare dalla vergogna per loro, il generale fu durissimo. Era una persona seria, con un grande senso dello Stato. E se penso a quello che gli hanno detto dopo la sua morte, tutte queste congetture, questi retroscena fasulli, mi arrabbio. Lui era una persona limpida, il nostro lavoro era limpido, oltre che faticoso. Abbiamo dato la vita a questo Paese, ed ho visto tanti mascalzoni pronti a tirarci addosso le pietre. Se penso a quante volte l’ho accompagnato sulla tomba di sua moglie Dora… Spesso la notte mi chiamava e io gli andavo ad aprire il cancello del cimitero, perché poteva andarci solo a quell’ora, per ragioni di sicurezza. Io lo osservavo da lontano e pensavo a quel pover uomo che non poteva neanche pregare tranquillamente come tutti gli esseri normali”. Fatica a stare seduto e si guarda intorno, come per allontanare l’ emozione che riaffiora dai ricordi. Il bar a quest’ora è pieno di gente che chiacchiera e legge.

“Noi adesso viviamo in modo modesto, com’è giusto che sia, ma questo Paese non ha voluto riconoscere il nostro operato neanche conservandone una buona memoria. Prima di arrivare a casa, a quei tempi, facevo dei lunghissimi giri per timore di essere sotto osservazione dei terroristi.  Avevo paura non per me, ma per i miei familiari. Non conoscevamo orari, eravamo sempre in movimento, per controllare, per raccogliere informazioni, per identificare i terroristi. Sono stati anni durissimi. Ho visto morire tra le mie braccia il maresciallo Maritano, che per me era come un padre. E dalla Chiesa mi chiamò, subito dopo, per sapere come erano avvenuti i fatti. Di me si fidava, sapeva come lavoravo e quanto affetto mi legava a lui”. 

“Noi eravamo soli anche a quei tempi, non eravamo ben visti anche all’interno dell’Arma, perché eravamo autonomi. E anche molti magistrati non potevano vederci. Eravamo un corpo estraneo, compatto, autonomo e questo dava fastidio. Il nostro essere uniti era la forza che avevamo. Il lavoro si faceva con serietà, professionalità e sacrifici e sapevamo di poter contare solo su dalla Chiesa.  Certamente rifarei tutto, ma per lui, e non per questo Paese che non è stato in grado di proteggerlo e dargli il giusto riconoscimento. Sono arrabbiato, ho visto troppi mascalzoni in giro”.

Fabiola Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Ed. Melampo, Milano 2015