Onore alla Germania

Senza nulla togliere alle “furie rosse” di Del Bosque, al suo gioco fatto di ragnatele asfissianti di palleggi, alla bravura di Puyol, resta da dire che questo mondiale (alquanto strano, non per noi italiani che l’eliminazione al primo turno se la siamo ampiamente meritata per l’insipienza dimostrata sul campo e non solo) sarà ricordato anche per la bella, quella di ieri un po’ meno sul piano del gioco, Germania guidata da Loew.

Inesorabile, come un destino crudele, ogni volta che la “panzerdivision” tedesca incontra una squadra latina viene eliminata (è capitato nel passato con l’Italia ieri con la Spagna).
Ma la Germania di Loew non è la fredda “panzerdivision” di Beckenbauer e di Mayer, un po’ arrogante e supponente, che abbiamo sconfitto nella mitica partita del ’70 allo stadio Azteca di Città del Messico.
Quella era figlia della guerra fredda, dell’orgoglio della rinascita, e di alcuni stereotipi della Germania profonda.
Questa di oggi è figlia della società multietnica. E’ la cifra, più spettacolare, del cambiamento della società tedesca, ormai sempre più multicolore (del resto basta girare per Berlino per rendersene conto a colpo d’occhio).
Se si pensa alla storia della Germania, con le sue luci e le pesantissime ombre (ma questo vale, sia chiaro, anche per noi italiani), questo assume una dimensione epocale.
Nella patria della “purezza” ariana, cantata da Wagner, fino all’incubo infernale del nazismo, senza dimenticare l’antisemitismo di alcuni filosofi del romanticismo tedesco, fa impressione che si veda crollare, grazie ad un pallone, il mito della razza.
Certo il cambiamento calcistico è frutto anche di una politica di integrazione. Oggi chi nasce in Germania se almeno uno dei due genitori risiede nel paese da più di otto anni è da subito cittadino tedesco.
Per cui non vi è da sorprendersi se nella Germania di Loew scorre sangue polacco, spagnolo, bosniaco, tunisino, ghanese, brasiliano, nigeriano e turco (come la stella Ozil, che ora tutti i club europei vogliono). Risultato: fantasia e grinta.
E’ una gran bella lezione per tutti. Si spera che “anche le curve più becere – come ha scritto Gad Lerner – dei nostri stadi dovranno smetterla di gridare “non ci sono negri italiani”, e la bellezza del calcio le porterà ad abbracciare la generazione Balotelli. E’ un delizioso sberleffo della storia quello che si sta consumando nell’ultima patria dell’apartheid”.