La frugalità felice. Intervista a Serge Latouche

Serge Latouche, professore emerito all’Università di Parigi, è il “profeta” della teoria della “decrescita felice”. Il suo è un pensiero “alternativo”, critico dell’ideologia dominante di stampo ultraliberista. Certo le sue sono tesi provocatorie, però fanno riflettere sugli effetti devastanti del “pensiero unico” e sulla follia consumistica. La casa editrice Boringhieri ha pubblicato il suo ultimo libro: Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita.

Professore, la crisi che stiamo vivendo, ormai da troppo tempo,   ha messo in discussione un modello di “sviluppo” centrato sulla crescita. Lei afferma che “l’unica via all’abbondanza è la frugalità”. Non è contraddittorio?

Sembra una contraddizione, anche un ossimoro, perché abbiamo ancora il “software” della crescita. Siamo totalmente colonizzati dall’ideologia della crescita. L’ideologia ci ha fatto credere che viviamo in una “società dell’abbondanza”,infatti non viviamo in una società dell’abbondanza  ma, invece,siamo in una società di scarsità. La società dei consumi è una società della frustrazione  perché dobbiamo sempre consumare. Questo lo sanno bene i pubblicitari. Dobbiamo sempre essere scontenti di ciò che abbiamo per desiderare ciò che non abbiamo e per consumare sempre di più. L’unica possibilità per riconoscere l’abbondanza è di limitare i nostri bisogni e desideri, questa si chiama frugalità. Se siamo frugali allora possiamo soddisfare i nostri bisogni. L’ha spiegato bene il grande antropologo americano Marshall Sahlins nel libro “Economia dell’età della pietra”. Per lui l’unica società dell’abbondanza è quella dei cacciatori del paleolitico, perché con una attività di due o tre ore al giorno potevano soddisfare i loro bisogni e dedicare il resto del tempo alla festa, al gioco, all’ozio.

Eppure di fronte a questa crisi i governi occidentali continuano ad affermare, l’ultimo vertice europeo di Bruxelles ne è la conferma, che bisogna puntare sulla crescita (specialmente per economie gravate da un forte debito pubblico come quella   italiana). Quali sono i limiti di questo paradigma?

Puntare sulla crescita per uscire dalla crisi è una stupidità e mostruosità. Una stupidità perché da molti anni la crescita che conosciamo con un tasso del -2% e anche -3% non crea più posti di lavoro. Per creare dei posti di lavoro ci vorrebbe una crescita del 4% o del 5% oggi non è né possibile né auspicabile perché distrugge troppo l’ambiente. Non possiamo più consumare ancora macchine, macchine, non è possibile. E’, poi, una mostruosità perché con la crescita siamo arrivati ai limiti dell’ecosistema, la crescita distrugge ancora più velocemente il pianeta. Siamo già nei guai con il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la fine del petrolio, ecc.

Esiste una alternativa al “Turbocapitalismo” finanziario? Se si, su quali basi?

Si l’alternativa è la “società della decrescita” o dell’abbondanza frugale. Per costruire questa alternativa si deve, naturalmente, uscire dal capitalismo, da questa logica distruttiva del produrre sempre di più per consumare sempre di più, generare sempre più rifiuti e distruggere sempre più velocemente il pianeta.

I suoi critici affermano le sue sono “utopie antimoderne” e “tecnofobe”. Come risponde a questa critica?

Sicuramente siamo contro una certa modernità o contro gli eccessi della modernità, non siamo contro il messaggio iniziale della modernità che era quello di una cemancipazione, ma invece di emanciparsi la modernità ci ha resi servi dei mercati finanziari, invece di renderci “autonomi” ci ha reso “eteronomi”. Siamo ora “sottomessi”, basta vedere l’esempio della Grecia anche a loro è stato proibito di fare un referendum sulla politica dell’austerità, Siamo contro questa tecnoscienza pilotata dalle multinazionali, vogliamo un’altra scienza meno aggressiva (meno prometeica) più ecologica e una tecnologia che sia sottomessa alla decisione che le scelte tecniche siano fatte non dalle multinazionali ma dal popolo. Naturalmente per costruire la “società della decrescita” abbiamo delle tecniche, ma dobbiamo usare delle tecniche diverse: bisogna sviluppare la “medicina ambientalista”, l’ecologia, riciclare per ridurre il consumo delle risorse naturali, ecc. Ci sono tante ricerche da fare.

Parliamo della politica. E’ vero, secondo Lei, che viviamo in una “postdemocrazia”?

“Postdemocrazia” è un termine usato dal politologo inglese Colin Crouch. Sono d’accordo non viviamo più da molto tempo in una democrazia. Lui definisce la “postdemocrazia” una democrazia manipolata dai media e dalle “lobbies” e questo è sempre più verificato. Sono questi che fanno la politica non solo negli Usa ma anche da noi.

Quello che lei propone è una “rivoluzione antropologica”. Quindi una ridefinizione dei valori della nostra società. Cosa metterebbe al primo posto per l’inizio di questa  “rivoluzione”?

E’ difficile a livello teorico, naturalmente si tratta di una rivoluzione culturale, invece della guerra di tutti contro tutti che è la concorrenza, si deve mettere la cooperazione, la natura, nel senso di vivere in armonia. A livello concreto penso che la prima cosa da fare sia “rilocalizzare” non solo l’economia ma anche ritrovare il senso del “locale” che significa al medesimo tempo “demondializzare” e soprattutto “demercificare”, contro questo movimento di mercificazione del mondo.

Ce la farà la sinistra europea a rinnovare il cammino dell’Europa?

Purtroppo non c’è speranza. Anche la sinistra, quella dominante, ha bisogno di una “rivoluzione”. La speranza viene dall’Italia perché con le liste civiche, i movimenti della società civile – come a Napoli e Milano – che sono fuori dai partiti hanno indicato una strada che mi sembra va da nel buon senso per cambiare le cose.

Una “Road Map” sul lavoro. Intervista al Senatore Tiziano Treu

La settimana politica e sociale, nel nostro Paese, è stata segnata, tra l’altro, dal dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori . Scatenato dalle dichiarazioni del Ministro Fornero (poi specificate meglio). Su questo, ed altri temi collegati al lavoro, abbiamo intervistato il Senatore del PD Tiziano Treu, ex-Ministro del Lavoro nel primo governo Prodi.

Sull’articolo 18 c’è un dato interessante che il quotidiano “Repubblica”, in questi giorni, ha pubblicato (Si tratta di un sondaggio Unioncamere-Excelsior). Ovvero che il problema più grave per le imprese italiane non è l’articolo 18, di flessibilità in uscita, ma è la mancanza di prospettive a breve termine…
Non c’è dubbio, perché il nostro primo problema è quello di riprendere a crescere poiché se non c’è una economia che riprenda a funzionare non ci sarà lavoro né per quelli attualmente attivi né soprattutto per i giovani, quindi, non è che l’articolo 18 aiuta, in generale, l’articolo 18 può essere visto in un contesto che permetta, da una parte, la crescita, e dall’altra che dia alle persone in caso di crisi e di difficoltà un sistema di ammortizzatori e di sicurezze e che quindi assicurino; questi sono i due problemi principali non certo la riforma dell’articolo 18.

La riforma del mercato del lavoro italiano è un tema troppo importante per il futuro del nostro Paese. Quale potrebbe essere una possibile “road map” di riforme?
Adesso vedremo quando il governo aprirà un tavolo, come ha promesso e come è scritto anche nella Manovra, con le parti sociali perché questa è una materia che va affrontata in questo modo. Credo che ci sia, innanzitutto, da considerare come affrontare le migliaia di persone che sono in difficoltà, molti sono addirittura senza lavoro, senza pensione perché c’è stato questo spostamento dell’età pensionabile: quindi il primo tema è quello di avere un ammortizzatore soprattutto per i giovani precari e per le persone anziane poiché questo mercato del lavoro che tutti gli altri paesi europei hanno e che da noi non è ancora sistemato, potrà permettere anche una maggiore mobilità che è altrettanto essenziale, poi dopo occorreranno delle misure specifiche per superare, soprattutto, quelle che sono le maggiori difficoltà come altri paesi hanno fatto; i giovani che sono usciti dalla scuola prematuramente e che sono quelli che avranno più problemi ad entrare nel mercato del lavoro che richiede più conoscenze del passsato. Questi sono, sicuramente, i temi che andranno affrontati per primi, poi dopo occorrerà, per tutte le professioni, rendere più facile l’accesso ai giovani e aumentare il contenuto di competenze.

Il premier Monti vorrebbe imitare in Italia il modello scandinavo. E’ possibile questo?
Il modello scandinavo non può certamente essere importato tale e quale perché è molto particolare però l’idea comune a tutto il modello sociale europeo, non solo ai paesi scandinavi anche alla Germania, la Francia è proprio questa che ci vuole l’economia più innovativa da una parte, quindi, come dicevo, imprese più innovative e lavoratori con maggiori competenze, dall’altra parte una maggiore mobilità che però si può fare solo se c’è la sicurezza data da servizi sul mercato del lavoro,da ammortizzatori sociali, quindi questa idea della flexsecurity, questa è la base del modello sociale europeo. Nei paesi scandinavi ha un livello di tutele che sono particolarmente alte ma in realtà la base è comune è questa flessibilità ma nella sicurezza.

Ultima domanda: Sulla riforma del mercato del lavoro un ruolo importante lo giocherà il PD. Troverà una sintesi tra le diverse posizioni?

Credo di si, ci stiamo lavorando, poi su molte cose si è già d’accordo, sulla necessità degli ammortizzatori universali, sulla necessità di semplificare i tipi di lavoro, i contratti che sono necessari, sono solo pochi e invece ci occorre renderli fruibili a tutti con costi uguali per evitare che si adoperino contratti precari perché costano meno. Su questi punti siamo largamente d’accordo;ci potrà essere poi qualche differenza nel momento in cui si arriverà a discutere su come gestire le crisi, sul problema dei licenziamenti ma io credo che arriveremo a un punto.

Il tramonto della borghesia

Il fenomeno della“scomparsa della borghesia, si è accentuato fino a diventare il nervo scoperto di un paese in affanno, sostanzialmente fermo, barricato a difesa del proprio alto livello di benessere e incapace di proiettarsi verso il futuro. L’eclissi della borghesia è il comune denominatore che ha investito, con eguale intensità, la politica, l’economia e la società. Un virus che ha contagiato tutto e tutti, non risparmiando nessuno dei punti nevralgici del sistema”. Continua a leggere

Operai

“Esiste ancora la ‘classe operaia’? La ‘lotta di classe’ si è conclusa con il Novecento? Non c’è, forse, una risposta univoca a queste domande: quel che è certo, però, è che in Italia gli operai esistono ancora”.

Con questi interrogativi inizia il bel libro di Antonio Sciotto, bravo giornalista del Manifesto, “Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi.” (Ed. Laterza, 2011, pagg. 145, € 12,00).

Un libro prezioso, tanto che qualcuno lo ha paragonato alla famosa inchiesta di Gad Lerner (“Operai”, recentemente riproposto dalla Feltrinelli) sulla vita degli operai Fiat di Mirafiori. Allora, eravamo alla fine degli anni Ottanta, la classe operaia incominciava il suo declino, dopo la grande sconfitta sindacale del 1980, ma era ancora la classe “generale” quella su cui tutta la società faceva riferimento per “misurare” il grado di giustizia raggiunto da un Paese.

Oggi, invece, esistono i “post-operai”, come li ha definiti Paolo Griseri sul Venerdì di Repubblica, quelli che vivono dopo le ideologie, “gli operai che non vanno di moda” (P. Griseri).

Operai dimenticati anche dalla Sinistra.

Così ci è voluto il drammatico rogo della ThyssenKrupp (dicembre 2007) per farci ricordare della dura realtà operaia del nostro Paese (le cui vittime, sette operai bruciati, hanno ottenuto giustizia con la recentissima, e giustissima, sentenza di condanna per omicidio, nei confronti dei dirigenti Thyssen , pronunciata dal Tribunale di Torino).

Così il libro di Sciotto ci aiuta a conoscere la geografia della sofferenza, della solitudine operaia in questa Italia della grande crisi. Un viaggio che lo ha portato dal Nord al Sud Italia, passando per la Sardegna.

Esce fuori un panorama attraversato da nuove forme di lotte:”tanti operai scelgono di rendersi visibili ai media inventando forme originali di protesta, affiancando alla piazza o al blocco delle strade, l’occupazione di tetti e monumenti. C’è chi è salito sulla porta antica della sua cittadina, chi su una torre medievale, e altri ancora su una ‘fiaccola’, la ciminiera della fabbrica, alta centocinquanta metri” ed altri che “occupano” un isola. Così incontriamo i casi degli operai della Innse di Milano (quelli rimasti in cima al carroponte contro la dismissione della loro fabbrica), quelli della Fiat di Melfi e degli operai della Vinylis di Porto Torres (un vero e proprio caso mediatico con l ‘ utilizzo anche di Internet) auto reclusi sull’Isola dell’Asinara, e diversi altri. Senza dimenticare Termini Imerese, Pomigliano e, naturalmente, Mirafiori.

Così oggi gli operai sono diventati un “caso” mediatico, perfino qualcuno è diventato un “divo” del circo mediatico : cioè si parla di loro solo quando si crea un caso. “Che si parli delle loro vertenze – osserva Sciotto – non vuol dire affatto che esse vengano poi risolte” (ed è il caso ad esempio della Vinylis di Porto Torres).

Il libro ci fa conoscere anche la grande solitudine delle tute blu: i diversi casi di suicidi avvenuti nel Nord-Est del Paese (questi episodi hanno investito anche piccoli imprenditori). Così lasciati soli, segno di un grande scollamento collettivo, qualcuno di loro tenta una via di fuga nella droga (la cocaina in particolare).

Poi c’è la vita quotidiana delle donne operaie e delle famiglie. Carmen cassaintegrata di Pomigliano afferma: “Altro che terza settimana, io finisco i soldi già la prima. Con 920 euro al mese devo pagare un affitto di 540”. E via di questo passo.

Così va avanti l’economia di sopravvivenza.

Così, per finire, alcune considerazioni. Molti davano per scomparso “Cipputi”. Invece il libro, ci ha dimostrato quanto il lavoro, quello duro, sia ancora la misura profonda per la giustizia sociale di un Paese. E quanto bisogno di un grande sindacato unitario c’è in questa Italia ubriacata dal niente della politica.

Dove va il Capitalismo Italiano? Intervista a Giulio Sapelli

Il Capitalismo italiano sta vivendo un periodo di turbolenza. Ad esempio la tensione che sta vivendo ora il gruppo “Generali”, al suo interno, ne è la cifra, insieme alla vicenda di Parmalat (senza dimenticare Fiat ed altre ancora ), più eclatante. Tensioni dovute ad una “un’ offensiva – come afferma Giulio Sapelli in questa nostra intervista – per arginare dalla sua vocazione il più potente gruppo del capitalismo italiano” . Così siamo ad un passaggio delicatissimo per la Compagnia. Continua a leggere