Il titolo che abbiamo dato, a questo “pezzo”, non sorprenda ma leggere questo libretto, pubblicato da Chiarelettere nella collana Istant Book, dal titolo “antico”,infatti richiamano le parole del Vangelo, “Come pecore in mezzo ai lupi” (pagg. 150 € 7,00), fa un salutare effetto: la parola profonda di ogni testimone del Vangelo interroga sempre la nostra quotidianità. Continua a leggere
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“Uomini di Dio” on line. Un sito per ricordare la storia dei monaci di Tibhirine
E’ di questi giorni la notizia che è on-line il sito del monastero di Tibhirine (http://www.monastere-tibhirine.org), in Algeria nella zona dell’Atlas.
Come si sa questo è il luogo del martirio, avvenuto nel 1996 durante la guerra civile, dei monaci cistercensi francesi che vivevano in quel monastero. I loro nomi sono diventati famosi dopo il film del regista francese Xavier Beauvois, vincitore a Cannes l’anno scorso del “Gran Premio della giuria, “Uomini di Dio” (titolo originale “Des Hommes et des diieux”). Un vero capolavoro. Continua a leggere
Ribellarsi all’indifferenza
In tempi caotici come questi, che sono anche tempi drammatici, leggere parole forti (parole che hanno un significato, che non cadono, quindi, nell’insignificanza) che possono scuotere la nostra mente e la nostra anima ormai assuefatta (o forse cinica) non può che far bene.
Ed è il caso di questo istant book , pubblicato dalla Casa editrice Chiarelettere, che raccoglie alcuni articoli di Antonio Gramsci, usciti sull’Unità tra il 1917 e il 1918 (un periodo, quindi, di alta tensione sociale e politica per l’Italia ormai alla fine dell’era giolittiana).
E’ l’Italia della disfatta di Caporetto, degli scioperi per il pane. L’Europa è segnata dalla fine degli Imperi centrali e dalla rivoluzione russa di Lenin.
Insomma una temperie che segnerà per sempre la storia del novecento italiano ed europeo.
Eppure, nonostante sia passato quasi un secolo, quelle parole di Gramsci mantengono una lucidità, e un’attualità, impressionante.
Che è tipico, per dirla con Italo Calvino, degli autori classici.
“Odio gli indifferenti” (pagg. 112, € 7,00) è il titolo che il curatore, David Bidussa studioso del pensiero politico contemporaneo, ha voluto dare al libretto.
In questi scritti del pensatore sardo c’è il Paese Italia. “Il Paese Italia, non la nazione italiana: le cose minute, i comportamenti, i tic che si usano, le consuetudini con cui si organizza la vita associata. Una realtà che sollecita l’indagine sulla vita reale non la costruzione di proiezioni ideologiche”.
E in questa operazione Gramsci mette in opera lo sguardo dell’intelligenza appassionata (che è poi quella dioturna passione per migliorare la condizione degli uomini e delle donne) per contrastare quella “ideologia” della quotidianità che appiattisce tutto.
Così, in queste pagine, sono affrontati i mali ancora irrisolti della società italiana: l’inconsistenza della classe politica, il trasformismo, la scuola, gli scandali, l’assenza di eticità nella burocrazia, il perbenismo ipocrita, ecc.
Ma alla base del “ragionamento” gramsciano c’è la ribellione nei confronti degli indifferenti: “Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che ‘vivere vuol dire essere partigiani’. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Questo atto d’accusa durissimo è anche un giudizio su un certo modo di fare politica, di leggere gli avvenimenti della storia, di partecipare all’azione sociale di costruzione della “città futura”: “L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui si affogano gli entusiasmi più splendenti”. Ancora sono intense le parole di Gramsci.
Per l’indifferente, che è poi la massima manifestazione della irresponsabilità, tutto quello che avviene è fatalità (“che – come scrive ancora l’autore – sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo”). Quanto è attuale questo pensiero! Sì l’indifferente è quello che legge i grandi movimenti della storia come una catastrofe (spreca paroloni come “terremoto sociale”, “tsumani umanitario” e quant’altro). In realtà questo atteggiamento è frutto di una chiara scelta politica: quella che vede solo il proprio interesse, altro che fatalità!
La politica per Gramsci, invece, è il massimo di responsabilità, intelligenza e “fantasia” (ovvero di progettazione e anticipazione del futuro). Profonde queste parole: “Nella vita politica l’attività fantastica deve essere illuminata da una forza morale: la simpatia umana” senza questa profondità spirituale c’è il dilettantismo politico (ovvero l’approssimazione, lo schematismo, l’idiozia nei confronti della storia). “Perché si provveda adeguatamente – afferma Antonio Gramsci – ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzano le necessità della vita con le disponibilità dello Stato”.
Questi irresponsabili “obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano”. Anche qui le cronache contemporanee ci offrono uno spettacolo desolante.
Insomma, per Gramsci, il politico inetto che non sa rappresentarsi il dolore degli uomini è crudele. E prima o poi la Storia gli renderà conto.
Molti altri temi affronta questa raccolta di scritti, ma quello che più conta è l’appello appassionato che viene fuori da queste belle pagine, come ci ricorda il curatore del libro: “scongiurare che la nuova quotidianità possa apparire come l’unico dei mondi possibili”.
Filosofia del viaggio
Siamo nell’era di Internet, tutto, e subito, ci viene messo a disposizione con un click. Così, grazie alle nuove tecnologie, le immagini di luoghi lontani diventano familiari.
In questo tempo dell’istante può esistere ancora il viaggio? Cioè quell’essere nomade che ti consente, ancora, di stupirti della vita? Chi è il viaggiatore? Che cos’è il viaggio?
A queste domande cerca di rispondere Michel Onfray, uno dei più popolari filosofi francesi contemporanei, con questo suo libro: Filosofia del viaggio. Poetica della Geografia, Ed. Ponte Alle Grazie, 2010.
Il libro è una vera e propria “fenomenologia” del viaggio.
Con una passione, che potremo definire “neoepicurea” (“l’arte del viaggio induce un’etica ludica, una dichiarazione di guerra alla quadrettatura e al cronometraggio dell’esistenza”), l’autore scandaglia gli attimi in cui una voce, che nasce dall’interiorità, ti sprona a decidere per quel luogo scelto. Il viaggio, però, non è improvvisazione: “La ricchezza – scrive Onfray – di un viaggio necessita, a monte, della densità di una preparazione: come ci si predispone alle esperienze spirituali esortando l’anima ad aprirsi, ad accogliere una verità in grado di infondersi. La lettura agisce sotto forma di rito iniziatico, rivela una mistica pagana. L’accrescersi del desiderio sfocia in seguito in un piacere raffinato, elegante e singolare. (…) Nel viaggio si scopre soltanto ciò di cui si è portatori. Il vuoto del viaggiatore crea la vacuità del viaggio, la sua ricchezza ne produce l’eccellenza”.
Così ogni strumento (Atlanti, guide, libri ecc) arricchisce il desiderio, per cui, per dir così, “ogni viaggio vela e disvela una reminescenza”.
Il viaggio è un’esperienza totale.
Infatti “il viaggio fornisce l’occasione per dilatare i cinque sensi: sentire e comprendere in modo più profondo, guardare e vedere in modo più intenso, assaporare e toccare con maggiore attenzione. Teso e pronto a nuove esperienze, il corpo in subbuglio registra più dati rispetto al consueto (…). Viaggiare intima il pieno funzionamento dei sensi. Emozione, affezione, entusiasmo, stupore, domande, sorpresa, gioia e sbalordimento, ogni cosa si mescola nell’esercizio del bello e del sublime, dello spaesamento e della differenza”.
Ora il viaggiatore è diverso dal turista. Il viaggiatore è un artista. Infatti “Il viaggiatore ha bisogno più di una attitudine alla visione che di una capacità teorica. Il talento nel razionalizzare è meno utile della grazia. Quando lo possiede il nomade artista conosce e vede come un visionario, comprende e coglie senza spiegazioni per impulso naturale”.
Il viaggio, quindi, è una esperienza umana integrale.
“Sé stessi, questa è la grande questione del viaggio. Sé stessi, e nient’altro.(…) Una quantità di pretesti, di occasioni e di giustificazioni, certo, ma, di fatto, ci si mette in cammino spinti soltanto dal desiderio di partire incontro a se stessi nel disegno, molto ipotetico, di ritrovarsi, se non di trovarsi”. Viaggiare, quindi, conduce in modo inesorabile verso la propria soggettività. Alla fine è questo che conta….