Un militante per la giustizia: Ramon Sugranyes de Franch

Alla vigilia del suo centesimo compleanno Ramon Sugranyes de Franch è morto a Barcellona lo scorso 27 febbraio. Per i più in Italia, forse, questo nome non dice nulla. In realtà è stato un vero protagonista del movimento cattolico internazionale e della storia culturale europea del novecento.

La sua vita si può leggere in una bella intervista pubblicata dalla casa editrice Rubbettino (Ramon Sugranyes de Franch, “Dalla guerra di Spagna al Concilio. Memorie di un protagonista del XX secolo”. (Intervista a cura di P. Hilari Raguer), Ed. Rubbettino, pagg. 247. € 15,00).

Nato nel 1911 in Catalogna da una famiglia borghese, Il padre, architetto, è stato stretto collaboratore di Gaudì, il genio che progettò la Cattedrale della Sagrada Familia a Barcellona.
Si trasferì, da esule, a causa della guerra civile (o incivile) spagnola, a Friburgo in Svizzera (dove è stato professore di Letteratura Iberica) divenne nella seconda metà del ‘900 presidente di Pax Romana (l’organizzazione internazionale degli e degli intellettuali cattolici) che gli consentì di partecipare, come uditore laico, al Concilio Vaticano II (è stato uno dei protagonisti, insieme ai teologi francesi, nella redazione della Gaudium et Spes). Così tra questi due eventi, ma anche successivamente, si svolge la testimonianza di questo limpido “militante per la giustizia” (questo è il titolo originale, in lingua catalana, del libro).

Questo “catalano universale”, non solo per la sua attività di Presidente di Pax Romana – poi dell’Istituto Internazionale “Jacques Maritain” – ma anche per il suo magistero intellettuale all’Università di Friburgo, è un rappresentante esemplare degli uomini di quella “terza Spagna” che durante il conflitto fratricida «non trovarono – come scrive lo storico benedettino Raguer – il loro posto nelle ‘due Spagne’ caine e che, oltretutto, agirono come ‘pompieri’». Ovvero a quelli che non restarono indifferenti o inattivi di fronte alla tragedia, ma che rischiarono la loro vita, e qualcuno di loro la perse, sforzandosi in primo luogo di evitare la guerra e, una volta scoppiata, di favorire una mediazione internazionale per una pace negoziata. Sono state importanti, anche, le azioni umanitarie per salvare persone minacciate oppure che erano ingiustamente imprigionate.

Quindi è nel dramma della guerra che il giovane Sugranyes compie la scelta decisiva della sua vita. Scappato, come sappiamo, da Barcellona nell’agosto del 1936 si rifugiò in Svizzera. Qui andò a confessarsi da un prete catalano, il quale gli disse che non l’avrebbe assolto se non gli prometteva di tornare in Spagna a combattere con la milicia franchista.

La confessione con il prete franchista
Ecco come Sugranyes ricorda quel dialogo con quel prete franchista :
“Quanti anni hai?”
“Mi scusi, ma io vengo a confessare i miei peccati, non a dichiarare il mio stato civile”.
“Non hai forse l’età militare? Perché non vai a lottare per Cristo Re?”
“Non sono venuto qui per parlare degli avvenimenti del nostro paese, bensì dei miei peccati”.
“Se non vai a combattere per Cristo Re non posso darti l’assoluzione”.
“Allora mi perdoni, ma io me ne vado”.
Ramon esce e va allora a consigliarsi da un altro sacerdote, il futuro cardinale Charles Journet: “Mi incoraggiò ad agire secondo la mia coscienza senza lasciarmi influenzare da condizionamenti esterni. Non è con la forza delle armi che il regno di Cristo verrà sulla terra”.

Il grande teologo, amico di Montini, gli disse anche  di rivolgersi a Don Luigi Sturzo. Ecco la splendida risposta di Sturzo alla lettera di Sugranyes de Franch :
«La Chiesa di Spagna, che avrebbe dovuto fare opera di pace», scriveva Sturzo al giovane spagnolo, «si è per lo più allineata con una delle parti, fino a definire la guerra una crociata o guerra santa. Da quella stessa parte si trovano i latifondisti, gli industriali, la classe ricca, coloro che hanno la maggiore responsabilità nell’abbandono della classe lavoratrice nelle mani dei sovversivi, perché si sono opposti a tutte le riforme sociali tentate nel nome del cristianesimo, degli insegnamenti di Leone XIII e del movimento della democrazia cristiana. La sostanza della guerra civile è sociale, non religiosa; lo spagnolo è cattolico a modo suo, perfino quando brucia le chiese per protesta: fa come il carrettiere blasfemo, che se la prende con Dio perché il suo cavallo recalcitra… Secondo me, solo i cattolici e i preti che si saranno tenuti fuori dal conflitto potranno fare opera di pacificazione. Per questo soffro nel vedere che molti giornali e riviste cattolici stranieri sono così benevolmente a favore di Franco, senza pensare che in tal modo danno agli avversari nuovi motivi di credere che tutta la Chiesa cattolica, perfino il Papa, è nemica del popolo operaio spagnolo, nemica degli stessi baschi che difendono la loro identità e autonomia». Parole profetiche, guardando anche la Spagna di oggi.

Quindi la sua non fu una comoda evasione “bensì un compromesso per la pace e la giustizia”.
Difficile racchiudere in un periodo determinato della sua vita le sue attività. Ma sicuramente è in Pax Romana che svolse il suo ruolo di leader cattolico internazionale. I suoi “grandi amici”, per riprendere un termine di Raissà Maritain, sono stati i grandi del cattolicesimo europeo del XX secolo: Jacques Maritain, G.B. Montini (divenuto poi Papa Paolo VI), l’abbé Charles Journet, Vittorino Veronese (diventato poi Direttore Generale dell’Unesco), Padre Loewe e diversi altri. Così attraverso Pax Romana e la Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) conobbe diversi futuri esponenti della classe dirigente italiana, europea e sudamericana (Edoardo Frei, T. Mazowieski, e tanti altri tra cui anche il cardinale Wojtyla).

Forse le parole del filosofo francese Etienne Gilson aiutano a trovare il senso della testimonianza di Sugranyes de Franch: “La finalità propria di Pax Romana è quella di organizzare attraverso il mondo la fraternità degli spiriti che mettono l’intelligenza al servizio di Dio”.

Onore alla Germania

Senza nulla togliere alle “furie rosse” di Del Bosque, al suo gioco fatto di ragnatele asfissianti di palleggi, alla bravura di Puyol, resta da dire che questo mondiale (alquanto strano, non per noi italiani che l’eliminazione al primo turno se la siamo ampiamente meritata per l’insipienza dimostrata sul campo e non solo) sarà ricordato anche per la bella, quella di ieri un po’ meno sul piano del gioco, Germania guidata da Loew.

Inesorabile, come un destino crudele, ogni volta che la “panzerdivision” tedesca incontra una squadra latina viene eliminata (è capitato nel passato con l’Italia ieri con la Spagna).
Ma la Germania di Loew non è la fredda “panzerdivision” di Beckenbauer e di Mayer, un po’ arrogante e supponente, che abbiamo sconfitto nella mitica partita del ’70 allo stadio Azteca di Città del Messico.
Quella era figlia della guerra fredda, dell’orgoglio della rinascita, e di alcuni stereotipi della Germania profonda.
Questa di oggi è figlia della società multietnica. E’ la cifra, più spettacolare, del cambiamento della società tedesca, ormai sempre più multicolore (del resto basta girare per Berlino per rendersene conto a colpo d’occhio).
Se si pensa alla storia della Germania, con le sue luci e le pesantissime ombre (ma questo vale, sia chiaro, anche per noi italiani), questo assume una dimensione epocale.
Nella patria della “purezza” ariana, cantata da Wagner, fino all’incubo infernale del nazismo, senza dimenticare l’antisemitismo di alcuni filosofi del romanticismo tedesco, fa impressione che si veda crollare, grazie ad un pallone, il mito della razza.
Certo il cambiamento calcistico è frutto anche di una politica di integrazione. Oggi chi nasce in Germania se almeno uno dei due genitori risiede nel paese da più di otto anni è da subito cittadino tedesco.
Per cui non vi è da sorprendersi se nella Germania di Loew scorre sangue polacco, spagnolo, bosniaco, tunisino, ghanese, brasiliano, nigeriano e turco (come la stella Ozil, che ora tutti i club europei vogliono). Risultato: fantasia e grinta.
E’ una gran bella lezione per tutti. Si spera che “anche le curve più becere – come ha scritto Gad Lerner – dei nostri stadi dovranno smetterla di gridare “non ci sono negri italiani”, e la bellezza del calcio le porterà ad abbracciare la generazione Balotelli. E’ un delizioso sberleffo della storia quello che si sta consumando nell’ultima patria dell’apartheid”.