Don Primo Mazzolari: un profeta per l’oggi

Il titolo che abbiamo dato, a questo “pezzo”, non sorprenda ma leggere questo libretto, pubblicato da Chiarelettere nella collana Istant Book, dal titolo “antico”,infatti richiamano le parole del Vangelo, “Come pecore in mezzo ai lupi” (pagg. 150 € 7,00), fa un salutare effetto: la parola profonda di ogni testimone del Vangelo interroga sempre la nostra quotidianità. Continua a leggere

“Lo Stato siamo noi”. L’attualità di Piero Calamandrei

In tempi di transizione, come questi che stiamo vivendo, è bene che ciascuno di noi ritrovi la propria memoria storica e politica. Bene ha fatto, così, la casa editrice Chiarelettere a pubblicare questa raccolta di interventi e scritti di Piero Calamandrei (“Lo Stato siamo noi”, pagg, 137. € 7,00).

Il libretto raccoglie interventi e scritti che coprono un arco temporale che va dal 1946 al 1956. Sono ripresi, nella maggior parte, dalla rivista “Il ponte”.
Il progetto che ha animato la vicenda umana e politica di Calamandrei è stato quello di “defascistizzare gli italiani” per fondare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione del 1948. Su queste basi nasce la “cittadinanza attiva” dell’Italia repubblicana.
La visione del giurista fiorentino della Costituzione era una visione dinamica, si potrebbe dire progressiva: “Le Costituzioni – scriveva – vivono fino a che le alimenta dal didentro la forza politica”. Senza questo “spirito vitale” le costituzioni muoiono.
Per questo Piero Calamandrei, padre Costituente e tra i fondatori del Partito d’Azione, tra le figure più nobili della nostra storia repubblicana in un discorso ai giovani, giustamente celebre, tenuto a Milano nel 1955, nel salone dell’Umanitaria, affermava: “Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla cosa vostra, metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – queste è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo di un tutto, nei limiti dell’Italia e del mondo”.
E’ un appello, quello di Calamandrei, all’agire politico nobile, ad una visione della politica come “scienza della libertà”. Che non è la libertà individualistica, l’individualismo infatti afferma il tragico orgoglio dell’uomo che considera la propria sorte staccata da quella degli altri che il fascismo ha portato ad etica suprema con l’urlo animalesco del “me ne frego!” (in nome di questo poi si schiacciano popoli e nazioni). Quella intesa da Calamandrei,invece, è la libertà intesa come interdipendenza: “libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale (…) I popoli saranno veramente liberi quando si sentiranno, anche giuridicamente, “interdipendenti”. Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno ad unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al comune, dalla regione, dall’unione supernazionale alla intera umanità”.
Siamo agli antipodi della logica leghista dove il primato sta nella separazione, il “federalismo” della Lega è atomismo invece che interdipendenza.
Per concludere queste brevi note: dicevamo, poco sopra, del progetto di Calamandrei per creare una nuova “religione civile” centrata sulla Costituzione. Ebbene questa non può nascere dalla “desistenza”, che è sinonimo di passività, rassegnazione, ignavia, assenza di futuro, ma al contrario nasce dalla “resistenza” che parte, scrive Calamandrei, da un “sussulto morale che è stato la ribellione di ciascuno di noi contro la propria cieca e dissennata assenza”. Per questo “ora e sempre RESISTENZA”.

Grammatica dell’esistenza

Enzo Bianchi continua, con questo nuovo libro, a proporre una grammatica dell’esistenza profonda e antica.

L’itinerario iniziato con il bellissimo Il Pane di ieri, prosegue, ora, con Ogni cosa alla sua stagione
 (Ed. Einaudi, pagg. 127, € 17,00). Libro profondamente laico, perché profondamente religioso.

Lui, monaco, fondatore della Comunità di Bose ( che si trova in Piemonte, vicino a Biella, ed è uno dei luoghi più preziosi del Cristianesimo contemporaneo), esprime così una profonda fedeltà alla terra, in quanto opera di Dio e del processo di umanizzazione della storia dell’uomo.

“Ora che avverto quotidianamente – scrive Enzo Bianchi – l’incedere della vecchiaia, la memoria mi riporta sovente a luoghi in cui ho vissuto o dove sono passato nei miei numerosi viaggi e che hanno
suscitato affetti o sentimenti diversi”.

Allora ecco il “mondo” dell’autore: il Monferrato, luogo dell’infanzia e dell’adolescenza (i bric, il paese situato sulle colline, con il suo dialetto, le sue usanze, i suoi “riti” laici (come il falò), con la vita dura della campagna – fatta di fatiche, di stenti ma anche di solidarietà (belle le pagine dedicate all’ospitalità dei viandanti). Il Monferrato, quindi, è il luogo della educazione ai valori essenziali della terra). Poi c’è Torino, la città degli studi universitari, Gerusalemme (dove ha studiato l’ebraico per comprendere in profondità la Parola), Santorini, con la sua luce forte, luogo del Mediterraneo. Tutti luoghi importanti per l’autore che ne hanno arricchito la sua umanità.

Ma il luogo “principe” è la cella: “è da lì che osservo il mondo, gli eventi, le persone che me lo rendono familiare e amato; ed è lì che assumo consapevolezza delle gioie e delle sofferenze che attraversano i miei giorni, ed è lì che prendono forma con cui tento di narrare qualcosa della mia vita e della mia fede nella compagnia degli uomini”. Enzo Bianchi è un uomo saggio e realista. Non c’è nulla di sdolcinato nelle sue parole sulla cella. “Tra quelle quattro mura la verità dell’uomo è messa alla prova nel rapporto nel rapporto
con il proprio corpo, con il cibo, con la propria sessualità, con il tempo, con gli altri, con l’avere, il fare, con Dio stesso, con tutte quelle presenze quotidiane che, paradossalmente, fanno percepire il proprio peso attraverso l’assenza”. Così la cella diventa luogo di “combattimento” e di benedizione, il crogiolo che libera dalle scorie dell’inessenziale per forgiare il monaco nella sua verità più profonda.

Così da quella cella passa in rassegna la sua vita, e il racconto si fa intenso.

Ecco, allora, che nel libro scorrono i personaggi che hanno reso uomo, nel senso più alto del termine, il nostro autore. Così si imbattiamo nel ritratto del padre, Pinèn, un socialista burbero, ateo, dotato di un forte senso della giustizia capace di leggere gli uomini con uno sguardo e con ironia, oppure in quello di una donna umile e povera, Teresina del Muchet, che produceva robiole,” un’icona della gratuità e della bontà dell’essere umano anche nella sua dimensione più selvatica”. Ma le parole più dolci sono quelle per Etta e Cocco, la coltissima maestra e la postina del paese, che sono state per l’autore più che due madri adottive. Grazie ai loro risparmi Enzo Bianchi poté studiare. Un’altra tappa fondamentale nella vita dell’autore. Senza dimenticare gli amici dell’infanzia e di gioventù con i quali “ha imparato a vivere”.

Il libro, poi, è un inno alla gratitudine e all’essenzialità della vita. In questo senso i piaceri della vita possono essere gustati in profondità (splendide, al riguardo, le pagine dedicate al vino).

Per vivere, dunque, bisogna imparare a vivere. “Si, imparare è una attività che ci accompagna per tutta la vita, non tanto perché ‘gli esami non finiscono mai’, ma piuttosto perché ogni giorno, anche a sessanta, a settant’anni e oltre, apprendiamo a vivere fino a imparare a morire. Si, per amare l’autunno della vita occorre
imparare l’ars moriendi, l’arte del congedo”. Così la vecchiaia non è una “dimunutio”, un diminuire, ma al contrario una intensità interiore con cui lo sguardo sul mondo fugge dal cinismo. Proprio
come scrive San Paolo : “Se il mio uomo esteriore si va disfacendo, c’è il mio essere interiore che può rinnovarsi ogni giorno”. Così, con questa saggezza umana e cristiana, si fa bella la terra.

Filosofia del viaggio

Siamo nell’era di Internet, tutto, e subito, ci viene messo a disposizione con un click. Così, grazie alle nuove tecnologie, le immagini di luoghi lontani diventano familiari.
In questo tempo dell’istante può esistere ancora il viaggio? Cioè quell’essere nomade che ti consente, ancora, di stupirti della vita? Chi è il viaggiatore? Che cos’è il viaggio?
A queste domande cerca di rispondere Michel Onfray, uno dei più popolari filosofi francesi contemporanei, con questo suo libro: Filosofia del viaggio. Poetica della Geografia, Ed. Ponte Alle Grazie, 2010.
Il libro è una vera e propria “fenomenologia” del viaggio.
Con una passione, che potremo definire “neoepicurea” (“l’arte del viaggio induce un’etica ludica, una dichiarazione di guerra alla quadrettatura e al cronometraggio dell’esistenza”), l’autore scandaglia gli attimi in cui una voce, che nasce dall’interiorità, ti sprona a decidere per quel luogo scelto. Il viaggio, però, non è improvvisazione: “La ricchezza – scrive Onfray – di un viaggio necessita, a monte, della densità di una preparazione: come ci si predispone alle esperienze spirituali esortando l’anima ad aprirsi, ad accogliere una verità in grado di infondersi. La lettura agisce sotto forma di rito iniziatico, rivela una mistica pagana. L’accrescersi del desiderio sfocia in seguito in un piacere raffinato, elegante e singolare. (…) Nel viaggio si scopre soltanto ciò di cui si è portatori. Il vuoto del viaggiatore crea la vacuità del viaggio, la sua ricchezza ne produce l’eccellenza”.
Così ogni strumento (Atlanti, guide, libri ecc) arricchisce il desiderio, per cui, per dir così, “ogni viaggio vela e disvela una reminescenza”.
Il viaggio è un’esperienza totale.
Infatti “il viaggio fornisce l’occasione per dilatare i cinque sensi: sentire e comprendere in modo più profondo, guardare e vedere in modo più intenso, assaporare e toccare con maggiore attenzione. Teso e pronto a nuove esperienze, il corpo in subbuglio registra più dati rispetto al consueto (…). Viaggiare intima il pieno funzionamento dei sensi. Emozione, affezione, entusiasmo, stupore, domande, sorpresa, gioia e sbalordimento, ogni cosa si mescola nell’esercizio del bello e del sublime, dello spaesamento e della differenza”.
Ora il viaggiatore è diverso dal turista. Il viaggiatore è un artista. Infatti “Il viaggiatore ha bisogno più di una attitudine alla visione che di una capacità teorica. Il talento nel razionalizzare è meno utile della grazia. Quando lo possiede il nomade artista conosce e vede come un visionario, comprende e coglie senza spiegazioni per impulso naturale”.
Il viaggio, quindi, è una esperienza umana integrale.
“Sé stessi, questa è la grande questione del viaggio. Sé stessi, e nient’altro.(…) Una quantità di pretesti, di occasioni e di giustificazioni, certo, ma, di fatto, ci si mette in cammino spinti soltanto dal desiderio di partire incontro a se stessi nel  disegno, molto ipotetico, di ritrovarsi, se non di trovarsi”. Viaggiare, quindi, conduce in modo inesorabile verso la propria soggettività. Alla fine è questo che conta….