Il sindacato dopo Mirafiori. Intervista a Tiziano Treu

Divampa la polemica nel mondo sindacale, ed anche politico, sull’accordo siglato a Torino su Mirafiori. Sulla prospettive future per le relazioni industriali e, quindi, del Sindacato Confederale ne parliamo con  il senatore Tiziano Treu, già Ministro del Lavoro nel governo Dini e Ministro dei Trasporti nel governo Prodi, attuale Vice-Presidente della Commissione Lavoro del Senato.

Senatore Treu siamo in presenza, dopo Pomigliano, alla seconda svolta, ad opera dell’Amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne , nelle Relazioni Industriali del nostro Paese. Così  l’intesa per  Mirafiori, siglata da Fim, Uilm e da altre sigle sindacali con l’esclusione della Fiom, ha suscitato grande polemica. Lei ha definito l’accordo una “bomba atomica”, perché?

No, io ho scritto che c’era il rischio di una “bomba atomica”, è stato riportato male. Dico che la sfida di Marchionne è una sfida inevitabile e che bisogna affrontare. Sto guardando adesso in giro per il mondo e sono sfide simili, cioè bisogna che le relazioni industriali siano utili alla competitività e quindi devono cambiare. Però c’è modo e modo di farlo, quindi è stato giusto cogliere questa sfida, però  io credo che questa sfida si possa tenere dentro il quadro dei contratti nazionali. Per questo dicevo che se si il rompe il quadro dei contratti nazionali allora c’è il rischio di essere una “una bomba atomica”. Infatti questo è un punto che nell’accordo di Mirafiori è rimasto aperto, cioè le parti si incontreranno di nuovo il 24 di gennaio per definire come questa nuova compagnia , la Newco, quest’accordo si può inserire in un contratto dell’auto nazionale. Questa è la cosa che si dovrebbe fare, invece se restasse un contratto aziendale solo allora sarebbe una rottura grave del sistema.

Il sociologo Luciano Gallino, in un articolo su Repubblica, ha scritto che Marchionne, con questo accordo, vuole portare l’America a Torino. Quindi non solo le auto ma anche le relazioni industriali. E’ d’accordo con Gallino?

Guardi come ho detto non è così. Io sto guardando decine e decine d’accordi in Germania non in America. L’America non ha mai avuto un contratto nazionale,  ha sempre avuto contratti solo aziendali e questo è un modello che non va bene perché è antiegualitario, rompe il tessuto sociale, mentre la Germania ha avuto, come noi, un “sistema” nazionale e poi anche contratti aziendali. Anche in Germania c’è  una spinta a fare delle deroghe al contratto nazionale che sono necessarie per stare sul mercato e  per mantenere l’occupazione. Quindi io credo che bisogna guardare alla realtà anche in paesi vicini, però, insisto,  si possono fare anche degli accordi in deroga ma sempre in un quadro nazionale che stabilirà delle regole comuni a tutti ma permettendo delle soluzioni specifiche per certe aziende. Per esempio, nel caso dell’automobile, in Germania si fanno turni diversi, pause diverse, una organizzazione del lavoro diverso. Questa è la particolarità. Sui salari non c’è stata nessuna riduzione.

Quindi, allora, non è d’accordo con Gallino?

No, è un modo dire esagerato. O meglio, io temo che possa diventare una cosa completamente slegata dal sistema nazionale allora questo sì che sarebbe americano. Invece, mi auguro, come si è fatto come la Cisl e la Uil dicono: si mantiene un quadro nazionale però si permettono delle deroghe specifiche sull’organizzazione del lavoro, come, ripeto, avviene in un sistema solido come quello tedesco.

C’è stato un “primo Marchionne” sembrava attento agli investimenti tecnologici e alla formazione e alla motivazione del personale. Ora il “secondo” Marchionne parla il linguaggio della globalizzazione spinta:  “Investimenti in cambio della governabilità della fabbrica”. Insomma una lettura dei processi economici mette in conflitto tra loro globalizzazione e diritti del lavoro. Come uscirne fuori?

Solo, appunto se si facciano da tutte e due le parti  dei cambiamenti. Marchionne deve dimostrare di essere veramente innovativo. Perché uno dei guai della Fiat è che ha pochi modelli nuovi, quindi deve dimostrare lui di essere competitivo, perché la competitività non è solo del lavoro ma anche dell’organizzazione, del prodotto. Secondo deve essere più partecipativo, non autoritario.  Molte di queste cose, che sono difficili, si fanno con il consenso. Anche in Italia, come in Germania, ci sono molte Aziende che hanno fatto cose innovative e che competono sui mercati internazionali senza rompere i rapporti perfino con la Cgil, vedi il caso di Luxottica. Innovative ma partecipate. Da parte del Sindacato che si fronteggi questa sfida e si accettino quelle condizioni organizzative che sono essenziali per competere e quindi per salvare i posti di lavoro. Le due cose si possono tenere insieme, naturalmente non è facile. La stessa Fiom di Torino era disponibile perché ha capito che se non si accettano queste innovazioni, da tutte e due le parti, in modo anche partecipato si perde la città, una città come Torino, senza Mirafiori sarebbe tragica.

Sulle ultime vicende sindacali  quello che emerge, purtroppo, è  un certo bipolarismo sociale. Il governo italiano cerca la divisione sindacale per schiacciare a sinistra la Cgil, ed il Pd, per attrarre a sè Cisl e Uil. Così facendo si fa un danno gravissimo al movimento sindacale italiano. Lei non vede questo pericolo?

Anche qui il governo dovrebbe svolgere un ruolo di mediazione positiva, perché la sfida è difficile. bisogna tenere insieme le ragioni della produttività, dei lavoratori e del consenso, in questa direzione il governo  dovrebbe adoperarsi come hanno fatto tanti ministri del lavoro in passato e dei Paesi vicini. Invece, questo governo, su Pomigliano è stato assente. Spesso fa un’opera che non aiuta o addirittura favorisce le divisioni, questo non va bene perché è un male per tutti. Se adesso noi continuiamo  ad affrontare questi problemi con il conflitto, con la Fiom che sta fuori, che fa male, lo ha detto anche Susanna Camusso, se non riusciamo a rimettere assieme i “pezzi” questo è un guaio per tutti.

Tornando all’accordo su Mirafiori e sulle prospettive del sindacato italiano. La Cgil mette in evidenza il problema dei diritti, la Cisl e la Uil di come non perdere l’investimento. E così si consuma la divisione. Certo poi le accuse reciproche tra leader sindacali non favorisce la “riconciliazione”. Da dove partire per trovare un minimo di unità?

Anzitutto l’unità, nel merito, la devono cercare le parti stesse, che si parlino, devono parlarsi, come altre volte, quando nel passato ci sono state divisioni poi si sono cercati i modi per superarle. Il governo non deve sostenere la divisione ma favorire delle mediazioni positive. Poi la cosa urgente, a proposito dei diritti, questo lo ripeto, occorre che ci siano delle regole sulla rappresentanza. Queste, purtroppo, non ci sono, generali, quelle che ci sono, sono superate. Perché la stessa norma dello Statuto dei Lavoratori dice che in Azienda hanno diritti solo quelli che firmano gli accordi. E questa è una norma vecchia che va cambiata perché in questo modo la Fiom se non firma gli accordi sta fuori. E questo non va bene perché, è chiaro che secondo me la Fiom sbaglia a non accettare la sfida, però i diritti per un sindacato come la Fiom, sicuramente rappresentativo, i diritti ci devono essere. Quindi bisogna riprendere in mano le regole, fare, anzitutto, magari un accordo tra le Confederazioni che ripristini una possibilità, una agibilità per tutti e poi, se necessario, fare una legge che confermi l’accordo. La stessa Susanna Camusso ha lanciato un appello, adesso, alla Marcegaglia per riprendere il tavolo delle regole, perché questo interessa tutti anche alla Confindustria,  perché una Confindustria con la Fiat che esce non è certo legittimata ,rischia di essere in crisi anche la rappresentanza degli imprenditori. Tanto è vero che gli imprenditori nella Confindustria non sono favorevoli, come ho detto anch’io, che ci sia una “bomba atomica” sono per mantenere il quadro.

Una battuta su Bonanni, come lo giudica?

Bonanni in generale ha vari atteggiamenti, ma in questo caso non credo che potesse fare diversamente perché, ripeto, la sfida andava colta. Naturalmente mi auguro che adesso anche lui contribuisca a rimettersi al tavolo delle trattative per fare le regole e non invece lasciare peggiorare la situazione.

Grammatica dell’esistenza

Enzo Bianchi continua, con questo nuovo libro, a proporre una grammatica dell’esistenza profonda e antica.

L’itinerario iniziato con il bellissimo Il Pane di ieri, prosegue, ora, con Ogni cosa alla sua stagione
 (Ed. Einaudi, pagg. 127, € 17,00). Libro profondamente laico, perché profondamente religioso.

Lui, monaco, fondatore della Comunità di Bose ( che si trova in Piemonte, vicino a Biella, ed è uno dei luoghi più preziosi del Cristianesimo contemporaneo), esprime così una profonda fedeltà alla terra, in quanto opera di Dio e del processo di umanizzazione della storia dell’uomo.

“Ora che avverto quotidianamente – scrive Enzo Bianchi – l’incedere della vecchiaia, la memoria mi riporta sovente a luoghi in cui ho vissuto o dove sono passato nei miei numerosi viaggi e che hanno
suscitato affetti o sentimenti diversi”.

Allora ecco il “mondo” dell’autore: il Monferrato, luogo dell’infanzia e dell’adolescenza (i bric, il paese situato sulle colline, con il suo dialetto, le sue usanze, i suoi “riti” laici (come il falò), con la vita dura della campagna – fatta di fatiche, di stenti ma anche di solidarietà (belle le pagine dedicate all’ospitalità dei viandanti). Il Monferrato, quindi, è il luogo della educazione ai valori essenziali della terra). Poi c’è Torino, la città degli studi universitari, Gerusalemme (dove ha studiato l’ebraico per comprendere in profondità la Parola), Santorini, con la sua luce forte, luogo del Mediterraneo. Tutti luoghi importanti per l’autore che ne hanno arricchito la sua umanità.

Ma il luogo “principe” è la cella: “è da lì che osservo il mondo, gli eventi, le persone che me lo rendono familiare e amato; ed è lì che assumo consapevolezza delle gioie e delle sofferenze che attraversano i miei giorni, ed è lì che prendono forma con cui tento di narrare qualcosa della mia vita e della mia fede nella compagnia degli uomini”. Enzo Bianchi è un uomo saggio e realista. Non c’è nulla di sdolcinato nelle sue parole sulla cella. “Tra quelle quattro mura la verità dell’uomo è messa alla prova nel rapporto nel rapporto
con il proprio corpo, con il cibo, con la propria sessualità, con il tempo, con gli altri, con l’avere, il fare, con Dio stesso, con tutte quelle presenze quotidiane che, paradossalmente, fanno percepire il proprio peso attraverso l’assenza”. Così la cella diventa luogo di “combattimento” e di benedizione, il crogiolo che libera dalle scorie dell’inessenziale per forgiare il monaco nella sua verità più profonda.

Così da quella cella passa in rassegna la sua vita, e il racconto si fa intenso.

Ecco, allora, che nel libro scorrono i personaggi che hanno reso uomo, nel senso più alto del termine, il nostro autore. Così si imbattiamo nel ritratto del padre, Pinèn, un socialista burbero, ateo, dotato di un forte senso della giustizia capace di leggere gli uomini con uno sguardo e con ironia, oppure in quello di una donna umile e povera, Teresina del Muchet, che produceva robiole,” un’icona della gratuità e della bontà dell’essere umano anche nella sua dimensione più selvatica”. Ma le parole più dolci sono quelle per Etta e Cocco, la coltissima maestra e la postina del paese, che sono state per l’autore più che due madri adottive. Grazie ai loro risparmi Enzo Bianchi poté studiare. Un’altra tappa fondamentale nella vita dell’autore. Senza dimenticare gli amici dell’infanzia e di gioventù con i quali “ha imparato a vivere”.

Il libro, poi, è un inno alla gratitudine e all’essenzialità della vita. In questo senso i piaceri della vita possono essere gustati in profondità (splendide, al riguardo, le pagine dedicate al vino).

Per vivere, dunque, bisogna imparare a vivere. “Si, imparare è una attività che ci accompagna per tutta la vita, non tanto perché ‘gli esami non finiscono mai’, ma piuttosto perché ogni giorno, anche a sessanta, a settant’anni e oltre, apprendiamo a vivere fino a imparare a morire. Si, per amare l’autunno della vita occorre
imparare l’ars moriendi, l’arte del congedo”. Così la vecchiaia non è una “dimunutio”, un diminuire, ma al contrario una intensità interiore con cui lo sguardo sul mondo fugge dal cinismo. Proprio
come scrive San Paolo : “Se il mio uomo esteriore si va disfacendo, c’è il mio essere interiore che può rinnovarsi ogni giorno”. Così, con questa saggezza umana e cristiana, si fa bella la terra.

Angelicamente Anarchico

Intervista a Don Andrea Gallo

Don Andrea GalloMi accoglie nel suo studio, che è l’archivio parrocchiale, nella Chiesa di San Benedetto di fronte al Porto di Genova. Un luogo molto amato da Don Gallo e, da un altro anarchico nello spirito, Fabrizio de André. Certe atmosfere del posto, infatti, rievocano alcune canzoni del grande Faber.  Ecco perché lui è “Angelicamente Anarchico”. Il che vuol dire esprimere un atteggiamento interiore, profondo, di libertà. Così per circa un’ora mi sono gustato la saggezza evangelica, e umana, di Don Andrea Gallo.

Don Andrea parliamo un pò di te: ti definisci come un “prete da marciapiede” , amico e fratello della gente che vive ai margini della società. Sono quarant’anni che fai questa vita e non molli, da dove ti viene questa carica?

“Prete da marciapiede” perché questa è la mia storia, è dove ho imparato la vita. Lo diceva pure Don Lorenzo Milani: “Io a questi figli di operai e contadini ho insegnato a leggere e a scrivere, a far di conto. Loro mi hanno insegnato la vita”. Il mio marciapiede è la vita. Così quando mi chiedono: “Don Gallo in quale Università ti sei laureato?” Rispondo: “La strada è stata la mia università”.  Quindi sono quarant’anni che sono qui nella Chiesa di San Benedetto. La mia carica? Questa viene perché sento l’appartenenza alla famiglia umana, la laicità. Una volta ho chiesto ad un teologo: “mi vuoi dire se i non credenti, gli agnostici, quelli di altre religioni sono figli di Dio secondo il dogma di Santa romana Chiesa, o no? Lui risponde: si!”. Quindi la carica è l’appartenenza all’umano, alla famiglia umana. I teologi lo dicono: “gratia supponit natura!”. Siamo figli di Dio tutti.

La tua partecipazione alla trasmissione di Fazio  e Saviano ha suscitato critiche nell’opinione pubblica ufficiale cattolica. Come ti sei sentito a leggere certe reazioni ?

Tu pensa l’Avvenire, il mio quotidiano cattolico, che scrive: “si trova sempre un prete vanitoso disposto a fare da scendiletto”. Ora dico se un giornale cattolico deve scrivere così, non citando il nome. Quindi questo non mi ha manco sfiorato. E’, invece, una amarezza per chi mi è amico e mi conosce, ma per me no. Perché quelli li conosco, questo è clericalismo,loro non sanno cos’è la mitezza di Gesù, è arroganza, è volere imporre a tutti i costi i principi evangelici e così facendo li annullano completamente perché non sono corrispondenti a quello che dice Gesù. Per questo mi sento di dire:io continuo. Quante volte mi sento dire: “tu ormai in questa Chiesa sei troppo stretto, ti dò una villetta, ti ritiri, vai con qualche ragazzo se vuoi continuare a seguire le comunità”. E io: “ma  io nella Chiesa Cattolica sono a casa mia, vuoi che me ne vada di casa?”. Ancora, perché continuo? Perché l’appartenenza al popolo di Dio, alla Chiesa Cattolica me l’han trasmessa i miei vecchi, la mia famiglia povera. L’essenzialità del Vangelo e l’appartenenza alla Chiesa anche con la sua struttura. Quante volte ho detto ai vescovi: “la correzione fraterna nella nostra Chiesa addirittura risale alle prime comunità cristiane, quindi Eminenza Lei non faccia tanti discorsi dia degli ordini ,perché conosco anche il Codice di Diritto Canonico e non mi interessa neppure che mi dica le motivazioni, io almeno per un anno obbedisco” . A Siri, che era il mio primo cardinale, ho detto: “Eminenza se lei mi dice che Don  Gallo deve uscire con la pentola in testa, io esco con la pentola in testa, ma il suo ordine deve essere coram ecclesia, coram populo”.

Sempre per parlare della trasmissione “Vieni via con me” i “movimenti pro life” avevano reclamato di poter partecipare per bilanciare la presenza di Peppino Englaro e di Mina Welby. Confesso che ho trovato esagerata la reazione di certi opinionisti. Il risultato è stato un manicheismo insopportabile. Qual è il tuo pensiero?

La trasmissione potrà essere criticata, approvata ma non era una trasmissione pro-morte, e allora dovevano venire quelli pro-vita. Allora potrei dire che a questo punto, potete criticare, potete lamentare, ma lì c’è un inno alla vita. Ancora una volta, vedi, è una difesa del proprio potere. Ormai, secondo me, non ci saranno più scontri di civiltà, di religione, ci sono gli scontri contro  gli enigmi della vita , e uno degli enigmi è la morte. Enigma vuol dire che non si capisce mai fino in fondo. Il male, la sofferenza, la sessualità. Vedi tutte le crociate ma il messaggio evangelico è proposta e non è imposizione, quindi senza arroganza e senza intolleranza. Partendo proprio dalla dottrina della Chiesa, di cui tutti sono figli di Dio, dobbiamo riconoscere che qualunque persona, donna, uomo ha il suo ethos e soprattutto dobbiamo ringraziare il Concilio Vaticano II che dopo secoli è il primo Concilio che difende i diritti di ciascuna creatura umana, dove finalmente è assodato da nostra Santa Madre Chiesa il primato della coscienza personale. Pio IX  addirittura alla fine dell’800  dice che chi sostiene il primato della coscienza è scomunicato immediatamente. Ma come facevano ad insegnare il Padre Nostro? Questo rapporto personale, Babbo, Papà! Quindi chi dice il contrario è eretico. E’ chiaro, me l’ha scritto un Cardinale: è vero quello che vai dicendo che la coscienza personale è dottrina certa nella nostra Santa Madre Chiesa tuttavia, caro figliolo, una coscienza si può dire retta se fa riferimento alla verità. A quell’eminentissimo ho detto: finalmente siamo in sintonia, perché Eminenza – è solo Gesù che dice che io sono la via, la verità – non la cerchiamo insieme? Non mi ha più risposto.

Parliamo della tua amata Chiesa. Ripeti spesso che il “Tempio può crollare”. In che senso Don Andrea?

Quando io dico il “tempio può crollare” è vero. Anzi sta crollando. A mio avviso la Chiesa è sede vacante. Noi crediamo ai vescovi, i successori degli apostoli, crediamo al Vescovo di Roma, mi piace dire come gli orientali del secolo X, primus inter pares. Nel Vangelo “tu sei Pietro, ama, pasci i miei agnelli”. Abbiamo uno scisma ancora più terrificante del secolo X. Quindi direi che il crollo è già in atto e non è mia l’espressione, lo dice da decenni Arturo Paoli, grande scrittore di spiritualità e testimone . La traccia che il Concilio dava di uscire dalla piramide verticale era creare la chiesa circolare: al centro Gesù, il popolo di Dio. E allora ecco la Lumen Gentium, ecco il popolo di Dio in cammino dove c’è l’ordine degli episcopi, dei presbiteri e dei diaconi con mediatore Gesù. Oggi chi governa? Le lobbies e in primis l’Opus Dei, è incredibile che addirittura si definiscono l’Opera di Dio. Lo Ior, Istituto per le opere religiose, la Compagnia delle Opere, di questa spiritualità di don Giussani, anticomunismo viscerale, una interpretazione gravissima del principio di sussidiaretà, S. Egidio, le nunziature Che cos’è tutto questo? Lo dirò con una battuta: un Cardinale per il mio cammino sul marciapiede, dove s’incontrano gli ultimi, mi richiamava alla prudenza al che io gli posi una domanda sincera: “Eminenza come si comporterebbe Gesù? E lui era molto seccato mi rispose: “ma se la metti su questo piano!” Su che piano la devo mettere? La mia non è una contestazione alla Chiesa ma un dono d’amore, la mia soprattutto non è mormorazione, glielo dico coram populo. Vorrei ribadire a questa domanda dei concetti fondamentali: Ecclesia, parlo della Chiesa Cattolica nel rispetto di tutte le altre Chiese, è sempre gloriosa. Pensa a quanti testimoni, soprattutto anonimi, martiri anche. Finché ci sarà un povero ci sarà sempre un testimone. Siate chicco di grano, cioè il cristiano per testimoniare la verità accetta il martirio. Ecclesia semper reformanda, anche in campo pedagogico deve trovare un nuovo linguaggio antropologico. Quindi una ,proposta nel rispetto di tutti auspico con il Cardinale Martini un Concilio Vaticano III con pochi temi: io metterei quello del linguaggio, un linguaggio nuovo.

Sei stato amico fraterno di Fabrizio De André. Tra “anarchici”  v’intendevate bene: lui a cantare le storie degli emarginati e tu a operare per la solidarietà nei loro confronti. Perché parli dell’opera del grande Faber come del “Quinto Vangelo”?

Si quella del “Quinto Vangelo” è stata una risposta che ho dato a una domanda che mi fece, scherzando, il mio Cardinale su quanti sono i Vangeli canonici. Li sai? Risposi: quattro, ma Eminenza io ne ho un quinto. E lui: e lo so i Vangeli apocrifi. Ma quali apocrifi, la strada! Il quinto Vangelo secondo De André. Eminenza non le sembra che la strada in direzione “ostinata e contraria” sia la sintesi del cammino del cristiano? De André parla all’uomo e sveglia il dubbio che Dio esista, questo è un Vangelo, una buona notizia. Tutta l’opera di De André la sua poesia, la sua musica, il suo canto viaggia su due binari: il primo è l’ansia per la giustizia sociale, lui educato dai borghesi. Il secondo è che un nuovo mondo è possibile. Allora che città vogliamo? La polis greca che esclude o la Civitas Dei di Sant’Agostino? Sant’Agostino dice che la “civitas è semper augescens”. Ma non militarmente. Allora ecco la conversione. C’è un documento dell’81 della Conferenza Episcopale Italiana, “La Chiesa italiana e le prospettive del Paese” In questo documento si afferma che bisogna ripartire dagli ultimi. I Figli di Abramo hanno avuto il compito di abolire gli idoli: il potere, il denaro. “Non nominare il nome di Dio invano, sono Io l’unico Dio”. Allora ecco che si riscoprono i valori della tolleranza, dell’accoglienza, della condivisione, della partecipazione. Quindi il Fabrizio ha questo senso, che non traccia una strada, ma dice a tutti che hanno un dono, che ciascuno può trovare la propria emancipazione, il proprio riscatto. Come avviene? Ripartendo dagli ultimi. Ecco qui il mio camminare sul marciapiede. Che cos’è, quindi, Fabrizio se non un cristiano?

L’ultimo rapporto Censis parla di una società italiana “appiattita” e senza “desiderio”. Insomma una società spenta. Da dove ripartire, secondo te, per “rinascere” come Paese?

Siamo in caduta. Non lo dico solo io. Come ogni anno al Monumentale di Milano l’Arcivescovo celebra la messa per i caduti, quest’anno c’era un suo delegato. Il quale ha parlato di “eutanasia della democrazia”, che siamo tutti responsabili: singoli, istituzioni, tutti. Ora noi abbiamo una bussola: che è la nostra Costituzione Repubblicana, non c’è altro, che oltretutto è una conquista. La Costituzione non è solo riferimento alla Resistenza ma anche, come ricorda Dossetti, alla seconda guerra mondiale. La sintesi della Costituzione è questa: l’Italia è una Repubblica, Res pubblica, casa di tutti e non di pochi, Democratica, deve nascere dalla partecipazione dal basso, Laica, dove ci si rispetta, infine Antifascista. Questo non è un optional. Il fascismo è l’empietà. Quindi la bussola l’abbiamo, si tratta di prendere coscienza e di riscoprire quelli che sono i valori della democrazia. E’ fatica quotidiana che però porta alla letizia, al gusto della vita.

Verso la fine del berlusconismo? Intervista ad Eugenio Scalfari

La prossima settimana con il voto delle due Camere sulle mozioni di sfiducia sapremo quale sarà il destino del governo Berlusconi. Molti osservatori si interrogano sul futuro politico dell’Italia in questa complicata transizione. Ne parliamo con Eugenio Scalfari fondatore del quotidiano “La Repubblica”.

Direttore Scalfari, la storia politica italiana sta vivendo un periodo assolutamente convulso. Davvero siamo alla fine di un’epoca, quella berlusconiana? Siamo alla vigilia, come ha scritto recentemente su Repubblica Massimo Giannini, di un “nuovo 25 Aprile”? Oppure sarà un “nuovo 8 settembre”?

Purtroppo non credo che siamo alla fine dell’epoca berlusconiana. Siamo probabilmente alla fine del governo Berlusconi ma il berlusconismo è una delle costanti degli italiani, una sorta di fiume carsico che di tanto in tanto emerge e che si chiama demagogia, furbizia, prevalenza dell’egoismo rispetto al bene comune. Di volta in volta questo fiume carsico ha assunto diverse denominazioni; si è chiamato crispismo, fascismo, doroteismo, craxismo, berlusconismo. Le forme furono profondamente diverse e determinate dai diversi contesti, ma la natura di questo fenomeno è sostanzialmente la medesima ed è quel tipo di Italia rispetto alla quale noi ci sentiamo stranieri.

Cosa lascia in “eredità” il “berlusconismo”?

L’eredità del berlusconismo è quella di cui alla risposta precedente.

Una delle tante battaglie del quotidiano Repubbica, da Lei fondato, è stata quella per fare dell’Italia una “democrazia compiuta”. La svolta di Fini favorisce questo percorso, oppure la transizione italiana è ancora lontana dall’essere compiuta?

La svolta di Fini è un tassello per una democrazia compiuta. Forse l’avvio di un confronto civile tra una destra europea e una sinistra altrettanto europea, sempre che l’Europa abbia un futuro, del che allo stato dei fatti può sorgere più di un fondato dubbio.

Il PD è ancora alla ricerca di se stesso. E le primarie milanesi ne confermano la debolezza. Quali sono, secondo lei, i punti fermi di un partito autenticamente riformista?

Effettivamente il Pd ha un problema identitario che non è stato risolto. I punti fermi di un partito riformista furono posti da Veltroni al Lingotto due anni fa e con qualche aggiornamento restano ancora quelli. Putroppo la classe dirigente attuale di quel partito è una nomenclatura a tutti gli effetti e quindi non mi sembra in grado di riprendere il cammino. Il problema di un ringiovanimento della classe dirigente esiste ma non si risolve certo con la demagogia dei vari Renzi e neppure con quella, ben più raffinata, ma egualmente sconquassante di Vendola.

Guardando un po’ in profondità, si ha la percezione che la società italiana sia senza punti di riferimento capaci di uno sguardo lungo sui nostri problemi. Insomma un periodo “oscuro” pieno di “barbarie”. E’ Così? Oppure vede, nel caos, qualche segno di speranza?

ll caos è la premessa per l’emergere delle forme.

Lei è amico del Cardinale Carlo Maria Martini. Spesso nei vostri dialoghi, tra “persone che pensano” come direbbe il Cardinale, vi sono significative convergenze. Mi sembra un punto importante, a livello culturale, nel secolare dialogo italiano tra “Laici” e “cattolici”. Purtroppo non tutti nella Chiesa hanno l’inquietudine del Cardinale Martini, come vede la presenza della Chiesa oggi in Italia?

La presenza della Chiesa in Italia non è molto confortante. A livello di parrocchie, di oratori, ed anche di parecchie diocesi si può registrare un desiderio evangelico apprezzabile, che si riflette anche in molti settori del volontariato cattolico. Questa è la Chiesa che avrebbe voluto e vuole il Cardinal Martini, con la quale un dialogo da parte laica è certamente possibile; ma è purtroppo una Chiesa minoritaria.