Il tramonto della borghesia

Il fenomeno della“scomparsa della borghesia, si è accentuato fino a diventare il nervo scoperto di un paese in affanno, sostanzialmente fermo, barricato a difesa del proprio alto livello di benessere e incapace di proiettarsi verso il futuro. L’eclissi della borghesia è il comune denominatore che ha investito, con eguale intensità, la politica, l’economia e la società. Un virus che ha contagiato tutto e tutti, non risparmiando nessuno dei punti nevralgici del sistema”.

Così Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, e il giornalista Antonio Galdo scrivono in questo loro pamphlet, L’eclissi della Borghesia (pagg. 90 € 14) uscito per i tipi della Laterza, dedicato ad uno dei fattori determinanti della “decadenza” italiana: appunto il tramonto della borghesia.
La loro è una analisi spietata della situazione del nostro Paese.
Il libro ci offre una definizione della borghesia che va ben al di là del termine usato da Karl Marx, ovvero come l’altro polo dello scontro di classe che vedeva opposti tra loro proletari e borghesi: “ la borghesia moderna – scrivono gli autori – , non più classificabile attraverso categorie economiche, è una classe sociale con una funzione politica: mettere ordine e creare riferimenti in un sistema altrimenti condannato al caos o all’anarchia”. Si parla, quindi, di “borghesia” come sinonimo di “classe dirigente”. Capace di creare movimento, mobilità sociale, sviluppo.

In questo senso allora il “discorso” del libro è accettabile e perfino profetico.
Spesso si fa confusione equiparando “borghesia” e “ceto medio”. Le due cose non stanno insieme.
Il “ceto medio”, frutto certamente del prodigioso sviluppo italiano del secondo dopoguerra, è visto dagli autori come il luogo indistinto delle pulsioni individualistiche, o del soggettivismo atomistico, cui risultato, se non temperato da un surplus di etica, porta dritto ad una visione della vita come guadagno rapace. Qui non è messo sotto accusa il desiderio di miglioramento sociale ed economico. Qui si accusa il soggettivismo fine a se stesso, l’ipertrofia dell’io. Il risultato di questi decenni segnati da questa “cultura” individualistica è stato il berlusconismo (ovvero dall’amoralismo, dall’egoismo, e dalla visione della politica come “presentismo” senza nessuna visione del futuro se non quella del proprio interesse).
Eppure L’Italia, nella sua storia, ha conosciuto minoranze borghesi capaci di decisioni grandi per il popolo italiano: dal Risorgimento, al II dopoguerra. E qui i nomi, pur di estrazioni diverse, sono quelli di Raffaele Mattioli, Pasquale Sarceno, Ezio Vanoni, Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Gente ,dicono gli autori, che prendevano decisioni ignari del proprio particolare. In nome di un valore più alto che andava a benificio di tutti. Gente, chi più chi meno, che sapeva mettere in pratica le virtù “borghesI” della mitezza, della visione del futuro.
In questo senso per una società aperta avere una elité di tale natura vuol dire creare movimento e quindi futuro.
Ci sono speranze, allora, per l’Italia? Si, concluso il ciclo del soggettivismo amorale, il berlusconismo, l’Italia può ripartire solo se passa dall’io al noi. Ovvero se riscopre il desiderio, l’ardore di nuovi orizzonti, e nuovi traguardi. Un sentimento che rende vivi: “per uscire dalla palude e dall’immobilismo, abbiamo bisogno di ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi”. Ovvero da quella riserva etica che sola può generare futuro.

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