Il testo che pubblichiamo, per gentile concessione dell’Associazione “Koiné” ( www.e-koine.com) è l’intervento di Pierre Carniti, ex Segretario Nazionale della Cisl negli anni 80, al Convegno dell’Associazione “Koiné” (“Basta con le mezze misure. Piantiamo qualche chiodo”) che si è svolto nei giorni scorsi a Roma. Al Convegno hanno partecipato esponenti politici, economisti e sindacalisti. E’ stata una occasione per fare il punto sui nodi strategici della crisi italiana.
1) Malgrado da qualche tempo ci venga preannunciata una imminente ripresa, sappiamo che il disordine economico e sociale non è un fenomeno passeggero. Esso nasce infatti da incontrollate dinamiche speculative del sistema finanziario, da un disastroso aumento delle diseguaglianze, da un mutamento antropologico nel rapporto tra cittadini e politica. Quella con cui siamo alle prese non è quindi di una crisi fugace, ciclica. Ma è la messa in discussione radicale di un modello di sviluppo sociale. Perciò per farvi fronte occorrono un pensiero all’altezza della radicalità della sfida e soggetti collettivi in grado di promuoverlo e sostenerlo.
2) Purtroppo nella nostra situazione si combinano debolezze storiche ed inadeguatezza della classe dirigente economica, politica e sociale. Il che spiega perché la condizione dell’Italia è ben più grave di quella di altri paesi. Alla nostra deriva ha certamente contribuito anche: un sistema produttivo frantumato in una miriade di piccole e piccolissime imprese; un capitalismo di relazione, asfittico e largamente sussidiato; una produttività del sistema estremamente bassa a causa di istituzioni amministrative e decisionali dove tutti si occupano di tutto e nessuno risponde mai di niente; una economia informale e sommersa funzionale ad una enorme evasione fiscale, verso la quale si è sempre deciso di chiudere un occhio e se necessario anche due; una emarginazione tanto dei giovani che degli anziani non certo estranea al crescente disamore per la politica ed alla sfiducia circa la capacità dei soggetti sociali collettivi di riuscire a cambiare il corso delle cose. Al deterioramento della nostra situazione è giusto ricordare le precise responsabilità riconducibili alla classe politica del centrodestra. Tuttavia, ciò che ora conta è che difficilmente riusciremo a superare le emergenze che ci stanno strangolando senza una profonda discontinuità con il passato ed un investimento senza precedenti (culturale e politico) a sostegno di proposte “radicali” (che non vuol dire estremiste o utopiche ma, al contrario, in grado di andare alla radice dei problemi) da parte di tutte le forze democratiche. Operazione possibile solo se, assieme alla capacità di comunicare, si riscopre anche quella di ricostruire una speranza e sintonizzarsi con le tante energie umane e civili inascoltate del paese.
3) Tenuto conto di questo contesto, non è facile condividere il giudizio, insistentemente ribadito dallo stesso premier, ma non solo, che la stabilità politica (cioè del governo) sia da considerare, non semplicemente un fatto utile in sé, ma addirittura un “valore assoluto”. Intanto perché, a giudicare dalle trappole quotidiane, il “governo delle larghe intese”, sembra piuttosto il “governo delle insuperabili contraddizioni”. A cominciare dalla incredibile abolizione della tassa sulla casa, che esiste in tutti i paesi, anche quelli che non sono soffocati dai nostri vincoli di bilancio. Costringendo perciò il premier a destreggiarsi per cercare di scansare le continue imboscate ed a sminare instancabilmente il terreno su cui è costretto a camminare. Ma soprattutto perché ciò che serve davvero è, assieme ad una maggiore credibilità europea ed internazionale che la stabilità può favorire, anche nuova credibilità della politica in Italia. Realizzabile solo se si individua una rotta di vera innovazione, avendo chiaro gli obiettivi irrinunciabili. Che non sono cioè sacrificabili a giochi politici ed a calcoli di Palazzo. Penso in particolare: alla dignità condivisa del lavoro; al miglioramento della rete di sostegno contro l’esclusione e la marginalità, che includa finalmente (nel quadro di una revisione complessiva delle misure di sostegno sociale) il varo di uno strumento come il reddito minimo garantito; al rilancio ed al rinnovamento dell’impegno pubblico per scuola e sanità; alla lotta alle diseguaglianze, che sono il freno principale alla crescita economica oltre che un grave fattore di disgregazione sociale; alla tutela della legalità, intesa anche come difesa dei più deboli; ad una forte integrazione europea democraticamente strutturata e dunque meno disponibile a “confortare i confortati” ed “affliggere gli afflitti”, propensione favorita anche dalla sopravalutazione dell’Euro; all’esercizio responsabile dei diritti di libertà delle persone; all’integrazione civile dei nuovi cittadini di origine straniera; ad una crescita economica equa e sostenibile, in termini sociali ed ambientali; al controllo sullo strapotere della finanza; all’investimento per la formazione e la ricerca. L’elenco naturalmente potrebbe continuare. Ma quelli richiamati sono punti essenziali sui quali costruire una mediazione culturale ed una sintesi politica per aggregare un largo fronte democratico.
4) Sviluppo che presuppone la capacità della politica di guidare processi di crescita civile. Ovviamente senza alcuna concessione a malintesi sensi di onnipotenza. Al contrario, la precondizione per ogni recupero di ruolo della politica è un imprescindibile e profondo processo di autocritica e di rinnovamento. Non solo generazionale, ma di cultura, di capacità di proposta ed iniziativa, di modi di essere, di stili di vita. Non si può infatti ignorare che la polemica contro la “casta”, spesso portata avanti con intenti di delegittimazione della politica, così come la denuncia circa un suo degrado irrimediabile, coltivato ad arte da populismi di segno diverso, hanno precise giustificazioni nei comportamenti delle stesse forze politiche. Sia a livello nazionale che locale. Quindi il punto che non può essere assolutamente banalizzato è che senza una profonda modifica degli atteggiamenti, senza un recupero di moralità pubblica e privata, senza una vera trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche, la politica non riuscirà ad assolvere al ruolo che le compete.
5) Voglio anche aggiungere che la ripresa di fiducia nella politica difficilmente potrà realizzarsi in un orizzonte di moderatismo. Quello, per intenderci, legato al ricorrente mito del “centro”. Formula semantica alquanto contraddittoria. Continuamente in bilico tra liberismo e sussulti compassionevoli. Così che, mentre è chiaro cosa sia il centro in geometria ed in toponomastica, nella cultura e nella dottrina politica il suo vero significato (almeno per me) rimane un enigma. Il che non significa naturalmente che, con riferimento alle dinamiche politiche, si debba sottovalutare l’utilità della nascita di una destra liberale e moderata. Finalmente degna di questo nome. Perciò sostitutiva sia del forza-leghismo, impermeabile alla legge e tendenzialmente razzista, che di un grillismo prigioniero della politica dei “vaffa”. Ma francamente non si vede come possano essere le forze sociali e la sinistra democratica a farsene carico. In ogni caso, tenuto conto che nelle democrazie contemporanee il centro, più che il luogo di una identità politica distinta, è prevalentemente il luogo sociale (dove si addensano quanti non amano essere irretiti dalla politica) la questione che andrebbe esplicitamente posta è in quale parte dello schieramento politico i “neocentristi” intendano collocarsi. Cioè quali siano i loro interlocutori preferenziali. Quanto meno per impedire che, con atteggiamenti corrivi, si favorisca una ricaduta nella pratica dei “due forni”. Politica che l’Italia ha già sperimentato in passato e francamente non si vede nessuna ragione per rimpiangerla.
6) Ci sono dunque problemi di schieramento. Tuttavia è bene non dimenticare mai che per la maggior parte delle persone, alle prese con drammatici problemi quotidiani, le tattiche politiche interessano poco o nulla. Giustamente per loro la sola questione cruciale è infatti: “primum vivere”. Obiettivo sempre impegnativo e purtroppo difficilmente realizzabile per tantissime persone, delle quali non si occupano i media. Troppo assorbiti a raccontare le paranoie di Berlusconi e dei suoi cortigiani. Ma per interloquire con quanti sono ai margini servono impegni credibili capaci di correggere, qui ed ora, il corso delle cose. Il che, tra l’altro, dovrebbe indurre ad escludere dall’agenda le soluzioni miracolistiche delle cosiddette “riforme strutturali”. Invocate come un mantra da numerosi: politici, pseudo esperti, commentatori. In quanto le riforme strutturali (soprattutto quelle finalizzate alla deregolamentazione dei mercati ed alla flessibilità del lavoro, che sono in definitiva quelle richieste dall’establishment) non hanno e non possono avere alcuna funzione anticiclica. In proposito basterà ricordare che poiché la rigidità del mercato del lavoro è stata indicata per anni come la causa fondamentale della nostra debolezza economica, come l’origine del declino sia della crescita che dell’occupazione (con il risultato di indurre ad una scriteriata proliferazione dei contratti atipici e precari, ad una mutilazione dell’articolo 18, alla possibilità di derogare dalle norme contrattuali e legislative), ci si sarebbe dovuto aspettare la ressa di investitori stranieri alle frontiere per finanziare nuovi progetti in imprese italiane. Invece non si è visto nessuno. Anzi, l’unica cosa che purtroppo si è vista è stata l’aumento della disoccupazione. Ovviamente ci sono anche riforme strutturali utili. Persino necessarie. Basti pensare, ad esempio, a quella piuttosto semplice e banale (e, forse, proprio per questo non attuata) di limitare il pagamento in contanti per ridurre l’evasione. Ma il dato da tenere presente è che, in linea di massima, le riforme strutturali non riescono ad avere effetti anticongiunturali. Perché la loro realizzazione richiede tempo e soprattutto una stabilità politica che, non può essere quella delle “larghe intese”. Proprio perché, anche quando apparentemente riesce a reggere, produce solo impotenza e paralisi.
7) Perciò per cercare davvero di uscire dal pantano non possono essere ulteriormente eluse due questioni decisive: redistribuire reddito; redistribuire lavoro. La redistribuzione del reddito è indispensabile per aumentare la domanda interna e frenare così la tendenza recessiva altrimenti destinata ad avvitarsi progressivamente su sé stessa. Teoricamente l’obiettivo può essere indifferentemente perseguito: o con un aumento dei salari, o con la diminuzione del prelievo fiscale sui redditi da lavoro. La seconda alternativa sembrava condivisa da governo e parti sociali. Purtroppo le speranze che a questo riguardo erano state riposte nella legge di Stabilità sono andate deluse. Almeno finora. Intanto per l’esiguità delle risorse messe in campo. Naturalmente per aumentare le risorse disponibili sarebbe stato necessario un parallelo aumento delle entrate. Cosa possibile facendo, ad esempio, quanto ha promesso il nuovo sindaco di New York. Cioè far pagare di più i ricchi. Operazione che, come sanno tutti, non ha controindicazioni economiche. Ma, almeno nel nostro caso, deve misurarsi con insuperabili resistenze politiche. Infatti. anche a questo proposito le “larghe intese” si rivelano un ostacolo insormontabile. Non si tratta di un mio pregiudizio. Ma semplicemente della constatazione di un dato di fatto. Che trova, per altro, conferma nelle cronache quotidiane. Si aggiunga inoltre, che assieme ai limiti delle risorse stanziate si è anche improvvidamente deciso di disperderle in mille rivoli. Tant’è vero che se invece di destinare 100 o 200 euro all’anno di sconto fiscale sui salari (cosa che ha fatto indignare gli stessi beneficiari), i pochi mezzi disponibili fossero stati, ad esempio, concentrati: per raddoppiare gli assegni familiari, per dimezzare la povertà estrema, o per risolvere definitivamente il problema degli esodati, la situazione economica e sociale non sarebbe radicalmente cambiata, ma almeno si sarebbe potuto vedere qualche risultato concreto. Per quanto parziale. Altrettanto sconsolanti le considerazioni sulla redistribuzione del lavoro. In proposito lo stato dell’arte è questo: gli orari italiani sono mediamente superiori di 300 ore all’anno a quelli europei. Per di più con una singolare differenza: mentre in Germania veniva istituita la “banca delle ore”, in Olanda veniva incentivato il part-time volontario, in Francia veniva ridotto l’orario settimanale, noi abbiamo approvato la dissennata legge Sacconi, che ha defiscalizzato il lavoro straordinario. Non occorre essere strateghi di organizzazione produttiva per rendersi conto che se anche solo ci avvicinassimo alla media degli orari europei riusciremmo a mettere al lavoro alcune centinaia di migliaia di disoccupati. Che non sarebbe certo un risultato disprezzabile. Purtroppo, si deve amaramente constatare che la lotta alla disoccupazione si riduce assai spesso ad un puro esercizio verbale. In pratica ad omaggi rituali che, nei fatti, si risolvono in rifiuti sostanziali.
8) Dunque la strada per aprire una nuova prospettiva è tutta in salita. Per altro, senza che quasi ce ne accorgessimo si è verificata una profonda modificazione sociale. La società del lavoro si è infatti trasformata nella società del consumo. Così che l'”ordine dell’egoismo” individuale ha preso il sopravvento “sull’ordine della solidarietà”. Solidarietà che un tempo ha avuto il suo vivaio più fertile nei grandi luoghi di lavoro. Ebbene, sono stati soprattutto i consigli di amministrazione ed i dirigenti delle multinazionali, con il tacito consenso del potere politico, ad occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra lavoratori: mediante lo svuotamento del potere di contrattazione collettivo; erodendo la rappresentanza delle associazioni di tutela dei lavoratori ed in non pochi casi obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite il peggioramento dei contratti di lavoro, con l’esternalizzazione ed il subappalto delle funzioni produttive, la deregolamentazione degli orari di lavoro, l’avvicendamento del personale. E cosi via. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per mettere in discussione la logica dell’autotutela collettiva e favorire una sfrenata competitività individuale.
9) Invertire questa tendenza non sarà facile. Il potere che conta e che sta aumentando di importanza è già diventato globale, mentre la politica ed i soggetti collettivi sociali sono rimasti locali. Quanto lo erano prima. Ne consegue che il potere oggi più rilevante rimane fuori dalla portata della attuali istituzioni politiche e sociali, mentre il loro margine di manovra all’interno dello Stato continua a ridursi. L’anoressia della politica e dei soggetti sociali collettivi si ripercuote nell’erosione dell’interesse dei cittadini nei loro confronti ed in una diffusa tendenza a sostituire l’azione sociale e la politica istituzionalizzata con l’impulso a provare politiche “fluttuanti” e mediaticamente condizionate, che alimentano indignazioni e fuochi di paglia, ma non sono mai in grado di cambiare i termini della situazione concreta. Poiché l’incertezza dei nostri giorni affonda le proprie ragioni nello spazio globale, il compito di ripristinare il perduto equilibrio tra potere e politica può essere perciò svolto con efficacia soltanto investendo anche la dimensione globale.
10) Inutile sottolineare che il cammino da fare al riguardo sarà lungo ed accidentato. Sappiamo tuttavia che anche un cammino lungo incomincia sempre con un primo passo. Ed il primo passo, sia per quanto riguarda le forze politiche che le forze sociali, è l’avvio di una battaglia comprensibile e non ulteriormente rinviabile per istituzioni europee: più democratiche, più solidali, più eque, più consapevoli delle loro responsabilità. In grado quindi, a differenza di quanto succede ora, di contribuire alla ricostituzione di una speranza collettiva, che non può più essere circoscritta entro le frontiere nazionali. Nel contempo occorre però sapere che la battaglia per rinnovare l’Europa politica e sindacale sarebbe inesorabilmente destinata all’insuccesso se prima non riuscissimo a dimostrare di essere capaci di rinnovare noi stessi. Incominciando cioè a prendere finalmente coscienza che, tanto i contenuti che il modo di fare politica, quanto gli obiettivi che le forme delle lotte sociali, non possono essere acriticamente subordinati alla allo status quo. Magari limitandosi a guardare nello specchietto retrovisore, nella aspettativa di poterne ricavare qualche motivo di conforto. Tanto più tenuto conto che il compito della politica non è affatto quello di conservare il passato. Ma semmai quello di realizzare le sue speranze.