“Il Cavaliere nero”. È questo il titolo del libro inchiesta scritto da Paolo Biondani e Carlo Porcedda per Chiarelettere, uscito in questi giorni in libreria. Un libro con documenti inediti che svela tutto il sistema dei fondi “neri” del Cavaliere. Il Cavaliere nero naturalmente è Silvio Berlusconi. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’Editore, un capitolo che fornisce i dati sulla frode per cui il leader di Forza Italia è stato condannato a 4 anni di reclusione in via definitiva.
I numeri della frode
Una condanna da 10 milioni
La sentenza definitiva del 1° agosto 2013 ha inflitto a Silvio Berlusconi quattro anni di reclusione, una condanna che però è soltanto teorica: tre anni sono cancellati dall’indulto del 2006 e il quarto potrà scontarlo da uomo libero, grazie al beneficio dell’«affidamento in prova ai servizi sociali». Sul piano economico, la condanna finale lo obbliga a risarcire il danno provocato dalla frode fiscale: l’imposta evasa, naturalmente, e un rimborso allo Stato, costretto a un’attività d’indagine resa «difficilissima e costosa», come spiega la sentenza, proprio dalla «particolare complessità dell’operazione di occultamento del reale risultato fiscale» delle sue aziende. I giudici però hanno dovuto commisurare il risarcimento a una piccola parte dell’evasione totale: soltanto quei 7,3 milioni che sono sopravvissuti alla prescrizione. Berlusconi è stato quindi condannato a rimborsare allo Stato, in totale, 10 milioni di euro. Meno di un trentaseiesimo dei profitti che ha potuto nascondere all’estero con il reato di cui è stato dichiarato colpevole.
I numeri del nero
La massa di denaro nero che, fin dai primi anni Ottanta, si è riversata sulle società offshore gestite e finanziate dalla Fininvest, ma che oggi risultano «di proprietà personale di Berlusconi», è, come scrivono i giudici, «colossale». Nel solo processo All Iberian, che riguardava il primo gruppo di offshore, attive nel periodo 1989-1994 (con ricadute fino al 1995), l’atto d’accusa finale ha ricostruito una lunga serie di operazioni riservate, per un valore totale di 1550 miliardi di lire: 775 milioni di euro. Il processo Mediaset interessa altre società anonime, con un nuovo sistema di conti bancari: ci sono le offshore più segrete del sistema Fininvest, a cui si aggiungono società di copertura intestate a intermediari di comodo e prestanome. Qui l’accusa ha come limite temporale il periodo successivo: dal 1994 al 1998.
La condanna definitiva quantifica il totale dei fondi neri, solo per questo quinquennio, in altri 368 milioni 510.000 dollari. Anche in questo caso, non si tratta di ipotesi, stime o deduzioni, ma di soldi veri, bonificati sui conti bancari scoperti dai magistrati.Le stesse sentenze considerano provato che Berlusconi avesse un mare di nero già negli anni Ottanta, anche se le indagini hanno dovuto concentrarsi fin dall’inizio, per effetto della prescrizione, sul periodo successivo al 1989. L’avvocato Mills però ha confessato di aver creato le prime offshore per la Fininvest già «a metà degli anni Ottanta», quando operavano effettivamente le prime tesorerie offshore dei diritti televisivi, come Accent e Timor, da cui sono nate le famose Century One e Universal One, quelle che Berlusconi progettava di donare ai figli.
Tesoretto alle Bermuda per la figlia Marina
Le carte del processo Mediaset documentano anche una ricca donazione offshore di papà Silvio alla figlia Marina, la primogenita, oggi al vertice del gruppo editoriale Mondadori e azionista di controllo della Fininvest. Al centro del caso c’è una società anonima delle Isole Vergini. Si chiama Bridgestone Properties Limited ed è una delle società offshore create dall’avvocato David Mills tra gli anni Ottanta e Novanta per gestire il nero uscito dalla Fininvest. La Bridgestone è una cassaforte immobiliare: è intestataria di una favolosa villa alle Bermuda, chiamata Blue Horizons, e della sua dotazione, che comprende uno yacht.
Le indagini dei magistrati milanesi hanno ormai ricostruito anche la storia di questo tesoretto offshore: paradisi fiscali, proprietà non dichiarate, documenti sottratti alle perquisizioni. Tutto comincia nel 1987, quando Silvio Berlusconi compra personalmente la villa Blue Horizons pagandola 12 milioni di dollari. Pochi anni dopo, la rivende per circa 9 milioni e mezzo. Sulla carta sembra solo un affare sbagliato: una lussuosa residenza ai Caraibi comprata a caro prezzo, che viene ceduta perdendo un paio di milioni di dollari. L’acquirente di quella villa alle Bermuda, però, è proprio la Bridgestone, che compare nell’elenco delle offshore targate Fininvest (il famoso Gruppo B) sequestrato nel 1996 nello studio Mills.
L’avvocato inglese, negli interrogatori dell’epoca, conferma che anche quella società anonima è collegata al gruppo di Berlusconi, ma giura di saperne pochissimo, sostenendo che non era lui a gestirla. A quel punto i magistrati concludono che la Bridgestone, in sostanza, serviva a scaricare sull’azienda italiana le spese personali per la villa e lo yacht: è una delle accuse che, dopo le elezioni del 2001, vengono cancellate dalla legge che ha annientato il reato di falso in bilancio. A partire dal 2002 le nuove indagini su Mediaset, quelle che nel 2013 porteranno alla condanna definitiva di Berlusconi, permettono anche di ricostruire la reale proprietà di quella offshore con annessa villa alle Bermuda. Prima di tutto i magistrati scoprono un altro depistaggio: l’avvocato Mills aveva sottratto proprio i documenti sulla Bridgestone alla perquisizione della polizia inglese, il 16 aprile 1996, insieme alle carte su altre società anonime.
Era la prima parte dell’operazione completata tre giorni dopo dal banchiere-tesoriere Paolo Del Bue, incaricato di far sparire le tre offshore personali di Silvio Berlusconi: Principal Network, Century One e Universal One, le grandi fabbriche del nero dei diritti televisivi. Scoperto così il doppio depistaggio, i magistrati chiedono direttamente a Mills, nell’interrogatorio del 18 luglio 2004, a chi appartiene veramente la Bridgestone. L’avvocato inglese, nervosissimo, ammette: «Bridgestone è la società che aveva acquistato la villa di Silvio Berlusconi alle Bermuda e un’imbarcazione: so che apparteneva a Marina Berlusconi. E ne ho avuto conferma quando ho consegnato le carte di Bridgestone al suo avvocato Maurizio Cohen, di Montecarlo, che mi disse che le avrebbe consegnate a Marina Berlusconi».
La confessione di Mills smentisce la versione ufficiale, riportata nei contratti d’affitto della villa Blue Horizons sequestrati dalle autorità britanniche: fino al 2003 Marina Berlusconi continuava ad apparire come semplice inquilina e firmava gli atti come teorica controparte della misteriosa immobiliare Bridgestone. Alla fine del 2004 i magistrati riescono a interrogare a Montecarlo anche il suo avvocato, Maurizio Cohen, che conferma tutto: «Ricordo di aver ricevuto nel 1999 o 2000, mi sembra dall’avvocato Mills, il dossier concernente la proprietà Blue Horizons, che è una villa alle Bermuda». E a chi appartiene quella villa? Cohen, in francese, risponde sicuro: «Marina Berlusconi ha il godimento esclusivo della proprietà e lei stessa mi ha indicato che è registrata come proprietaria nei registri fondiari delle Bermuda. Mi ha detto che ne è diventata proprietaria per donazione». Un magnifico regalo di papà: una villa da sogno in formato offshore.
Miliardi al portatore
Non bastasse, c’è il nero italiano. Nel verdetto definitivo del processo per le tangenti alla guardia di finanza, la Cassazione spiega che il proprietario della Fininvest, almeno fino all’inizio degli anni Novanta, aveva notevolissime «disponibilità extra-bilancio» anche dentro i confini nazionali. La stessa Suprema corte (cioè i giudici che in quel caso lo hanno assolto) ha quantificato questi fondi neri in «circa 130 miliardi di lire»: altri 65 milioni di euro. Il metodo era ancora artigianale: i soldi erano depositati in «libretti di risparmio al portatore» (poi vietati dalle
norme antiriciclaggio), che venivano gestiti dai due manager che erano anche i suoi tesorieri personali, Livio Gironi e Giuseppino Scabini.
Il meccanismo si basava su un sistema di anticipi e restituzioni, tutti in contanti, che veniva chiamato «sospesi di cassa». L’intera inchiesta sulle «toghe sporche» è nata da un modesto prelievo da uno di quei libretti, battezzato con un nome in codice calcistico: «Inter». Attraverso l’inchiesta All Iberian, inoltre, i magistrati hanno scoperto anche una rete di «depositi fiduciari», rimasti attivi almeno fino al 1995: soldi custoditi riservatamente dalla Banca Arner (con il fondo «Pennine») o dalla Bil del Lussemburgo. Si tratta di un altro giro di denaro non ufficiale, che però non finisce alle offshore. In totale, su questi depositi fiduciari, c’erano altri 150 miliardi di lire: 75 milioni di euro. Anche questi soldi sono spariti. Le indagini, arenate nei testardi silenzi delle banche interessate, non hanno potuto accertare dove siano stati nascosti per sfuggire ai controlli.
Stando ai risultati delle inchieste giudiziarie, normalmente il sistema delle offshore serviva a far uscire soldi dalla Fininvest ufficiale, per riversarli all’estero sui conti non dichiarati di Silvio Berlusconi. Ma qualche volta è successo il contrario: è il Cavaliere che, in circostanze eccezionali, sposta denaro proprio, depositato in Italia, nelle tesorerie estere. Tra le operazioni che interessano personalmente Silvio Berlusconi, la più misteriosa si svolge poco prima che esploda Tangentopoli. Tutto parte dal «mandato 500», il deposito riservato aperto da Berlusconi alla Fiduciaria Orefici di Milano. Tra il 1991 e il gennaio 1992, più di 90 miliardi di lire (45 milioni di euro) fanno uno stranissimo
tour internazionale: la Fiduciaria Orefici compra titoli di Stato, due manager Fininvest vanno a ritirarli, li portano a San Marino, li cambiano in contanti e ne depositano un terzo. Gli altri due terzi, esattamente 55 miliardi di lire, tornano subito in Italia, negli uffici della Fininvest, da dove ripartono per la Svizzera. Sempre in contanti, stipati nei furgoni blindati di una ditta italiana di trasporto valori prima, e di un corriere elvetico poi. Gli autisti, sentiti come testimoni, ricordano un commento scherzoso su quell’incredibile traffico di valigette di banconote tra Milano, San Marino e Lugano: «Ma che ci fate con tutti questi soldi? Gli fate prendere aria?».
Anche i dirigenti della Fiduciaria Orefici, che non avevano mai visto prelevare simili somme in contanti, testimoniano di aver chiesto spiegazioni ai dirigenti della Fininvest e ricordano una loro risposta allusiva: «I politici costano cari». Quella frase a verbale ha sollevato sospetti e illazioni, perché proprio in quei mesi a Roma era stato varato il chiacchieratissimo piano nazionale delle frequenze televisive, ma è rimasta per anni enigmatica. Solo le inchieste sulle offshore hanno permesso ai magistrati di decifrare, almeno in parte, l’incauta battuta dei cassieri della Fininvest. Al processo «Toghe sporche», infatti, i pm milanesi hanno potuto affermare che quei 55 miliardi di lire del «mandato 500», alla fine del tour, sono approdati sul conto svizzero di All Iberian: sono serviti a finanziare le tangenti pagate da una parte a Craxi, dall’altra ai giudici corrotti. In questo caso, quindi, erano i soldi personali di Berlusconi che entravano nelle offshore, usate come schermo per cancellare le tracce della provenienza di quelle tangenti. Nell’ottobre 1992, però, le tesorerie estere restituiscono il «prestito»: i 55 miliardi che hanno preso aria in Svizzera si riuniscono ai 35 di San Marino e tornano tutti in Italia, «nella disponibilità di Silvio Berlusconi», che li utilizza in parte per «spese familiari», in parte per finanziare una sua società personale, la Mercurio Fincom, che si occupa di film.
L’inarrestabile Agrama
Un altro tesoro nascosto è invece attualissimo. Nel processo Mediaset il ruolo di principe del nero, appena un gradino sotto Berlusconi, spetta indubbiamente a Frank Agrama, imprenditore con base a Los Angeles, condannato a tre anni di reclusione. La sentenza definitiva lo bolla come un «intermediario fittizio» che, almeno fino al 1998, incassava il nero e lo spartiva segretamente con Berlusconi in persona, tanto da presentarsi di fatto come suo «socio occulto». L’inchiesta non ha potuto documentare come siano stati divisi e dove siano finiti i 170 milioni di dollari che Agrama ha incassato dal Gruppo Fininvest solo fino a quell’anno. I soldi infatti sono stati «appositamente dispersi in mille rivoli finanziari», tra società anonime e conti offshore, sparsi in svariati paradisi fiscali impenetrabili alle rogatorie. Dopo decine di pagine di motivazioni, i giudici spiegano però che è «del tutto logico», alla luce della massa di prove raccolte, concludere che Agrama abbia restituito a Berlusconi una grossa fetta del tesoro nero accumulato vendendo a Mediaset, in esclusiva, i film della Paramount. Mentre «non vi è alcun elemento di prova» per sostenere la tesi contraria, cioè che l’amico americano possa aver truffato Berlusconi «per decenni», per «cifre colossali» e senza provocare la minima reazione, anzi continuando a lavorare per le sue televisioni perfino mentre era già in corso il procedimento per frode fiscale.
Ancora una volta non si tratta di deduzioni o illazioni. I giudici lo dimostrano e lo spiegano per filo e per segno nelle motivazioni della condanna definitiva. Ma se è vero che Agrama, in sostanza, è un tesoriere occulto di Berlusconi, questo significa che il Cavaliere nasconde ancora, in giro per il mondo, una nuova montagna di denaro nero. Una cassaforte segreta tutt’ora in funzione. Il consulente tecnico della procura, Gabriella Chersicla, ex revisore della Kpmg, si è guadagnata il plauso di tutti i giudici, dal tribunale alla Cassazione, illustrando al processo i risultati economici oggettivi del «sistema Agrama». Nel solo quinquennio 1994-98, le tv di Berlusconi hanno speso 199 milioni e mezzo di dollari per acquistare film della Paramount attraverso quel fortunatissimo mediatore di Los Angeles. Ma di tutti quei soldi, al colosso del cinema americano ne sono arrivati meno di un terzo. Le società di Agrama, che erano il primo anello della catena degli intermediari, hanno incassato 55 milioni di dollari «senza svolgere alcuna attività reale». Altri 80 milioni sono finiti direttamente sui conti delle offshore televisive di Silvio Berlusconi.
Dunque, la spesa totale dichiarata da Fininvest e Mediaset ha quasi raggiunto quota 200, ma ben 135 milioni di dollari se li sono divisi, in nero, Berlusconi e Agrama, che è fortemente sospettato di aver dovuto girare anche una parte della quota personale, di nascosto da tutti, al suo benefattore. A dispetto di inchieste e processi, però, Frank Agrama sembra aver continuato serenamente a vendere film al gruppo Mediaset attraverso una nuova rete di società estere, con uffici tra Hong Kong e l’Irlanda, in cui formalmente non compare.
Su questi ultimi affari non c’è ancora una sentenza: il processo-bis è ancora in primo grado. Il risultato economico, però, è già chiarissimo,
grazie a una nuova consulenza tecnica che il pm De Pasquale ha affidato alla stessa superesperta, Gabriella Chersicla. Che ora, grazie alle nuove indagini internazionali, ha potuto ricalcolare tutte le entrate e le uscite dei conti bancari targati Agrama fino al 2008. Il bilancio finale ha dell’incredibile. Il gruppo Fininvest/Mediaset versa a questo mediatore, in totale, quasi mezzo miliardo di dollari: esattamente 486 milioni e mezzo. Ma ai grandi produttori di Hollywood, per pagare i reali costi dei diritti televisivi, le società di Agrama versano soltanto 169 milioni. Mentre gli altri soldi, cioè più di 300 milioni di dollari, finiscono in tasca a società o persone che
E chi incassa tutto questo denaro? Anche questa è una caccia al tesoro, tutta interna al pianeta Agrama. Più di 30 milioni di dollari escono dalle società dell’amico americano per finire sui conti esteri di dirigenti o rappresentanti dello stesso gruppo Fininvest/Mediaset. Primo fra tutti il solito Daniele Lorenzano, condannato a tre anni e otto mesi al processo Mediaset. Sono soldi non dichiarati al fisco e, stando agli avvocati, nemmeno all’azienda. In mezzo a tutto quel nero, insomma, una cordata di dirigenti italiani si è sicuramente ritagliata una bella cresta Altri 46 milioni di dollari sono rimasti in tasca alla famiglia Agrama, che ne ha restituiti solo 22 alle società. La differenza è il suo guadagno personale finora accertato: il premio per i rischi che si è assunto.
Almeno 25 milioni (ma tra le uscite dubbie ce ne sono altri 35, per un totale di circa 60) sono molto sospetti, perché finiscono a società-fantasma che sono state già schedate nel processo Mediaset come «intermediari fittizi». Sono quelle stesse società di comodo, senza alcuna struttura, che fino al 1998 avevano restituito soldi in nero, ovviamente senza dichiararlo, soprattutto alle offshore personali di Silvio Berlusconi. Dopo il 1999, invece, si ignora chi abbia intascato i soldi delle nuove mediazioni. Di sicuro Agrama continua a pagare tutti fino al 2008.Nel bilancio dell’amico americano, però, la sorpresa più grande è che ben 198 milioni di dollari sono spariti. È certo soltanto che sono usciti dai conti di Agrama e non sono stati incassati da nessun vero fornitore di film o programmi televisivi. Sono transitati sui conti esteri di misteriose società anonime, che li hanno dispersi da un capo all’altro del mondo. Su questi circa 200 milioni di dollari, la Procura di Milano continua a indagare.
e se la cava con una pena risibile !
alcuni interrogativi:come ha fatto a realizzare tutti questi soldi – possono essere ‘puliti’- solo noi miseri cittadini siamo soggetti al controllo guadagni spese da parte dello stato – la legislazione relativa alle società è così permissiva in altri paesi civili – è cosi in Svizzera – Come per tutti i delinquenti esiste un delinquente più astuto e con più pelo; forse dove non arriva un paese corrotto e incapace arriveranno loro.L’esperienza mi ricorda che è solo questione di tempo e che più il piatto è ricco più è appetibile – Vivo forse più tranquillo di Baerlusconi e della sua fomiglia. Saluti