Due Papi, Due Santi? Intervista a Massimo Faggioli

imagesLa giornata del 27 aprile sarà un evento mondiale. Per la doppia canonizzazione di due Papi, Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, sono attesi cinque milioni di pellegrini.  Per  capire un po’ più in profondità questo avvenimento abbiamo intervistato il professor Massimo Faggioli, Professor of History of Modern Christianity all’University of St. Thomas di Minneapolis (USA).

 

 

 

Professor Faggioli, questa della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni-Paolo II è sicuramente un atto molto significativo di Papa Francesco. Qual è il significato “storico – teologico” di questa doppia canonizzazione ?

 

Sono due papi legati alla storia del concilio, specialmente Giovanni XXIII. Il messaggio è che la chiesa e  il papato di oggi non sono comprensibili senza il Vaticano II – specialmente senza Giovanni XXIII che ebbe l’idea di convocarlo. Ma la doppia canonizzazione serve a dare un equilibrio a due volti della chiesa contemporanea complementari ma diversi.

 

 

Ad un osservatore “malizioso”, però, non può sfuggire che da un lato si proclama Santo Giuseppe Roncalli, il Papa della tenerezza e del Concilio Vaticano II (Il Concilio dell’apertura della Chiesa al mondo), e dall’altra si proclama Santo Karol Woitjla, il Papa, per certi versi, della “restaurazione” (il termine è volutamente forte). Non si rischia una contraddizione ?

 

È anche una contraddizione, ma se vogliamo meno contraddittorio della prima coppia di papi santi a cui pensò Paolo VI nel 1965, ovvero Pio XII e Giovanni XXIII. La differenza tra i due è non al livello della santità personale, ma in termini di memoria di chiesa circa la loro azione sulla chiesa come papi. Da questo punto di vista non c’e’ dubbio che la canonizzazione di Wojtyla lascia perplessi alcuni, se si pensa ad alcuni casi ancora aperti e controversi (come la questione dei Legionari di Cristo).

 

Roncalli aveva una “sapientia cordis” capace  di rompere le barriere tra gli uomini. E’ questo il lato più immediato e popolare di Giovanni XXIII. Qual è il messaggio “perenne” per la Chiesa?

 

Due cose direi: la “medicina della misericordia” (che Roncalli imparò su se stesso dopo gli anni del seminario) e i “segni dei tempi” (la necessità per la chiesa di essere cosciente del mondo, perche’ la chiesa esiste per la salvezza del mondo). Non a caso sono elementi molto visibili anche in papa Francesco.

 

 

Wojtila è stato un uomo “drammatico” (ovviamente nel senso nobile del termine). Il suo era un cristianesimo  militante, molto “politico” (la sua battaglia epocale contro il comunismo) . Certamente un Papa che nella fase finale della sua vita ha testimoniato con forza la sua fede. Insomma il lungo pontificato di Wojtila ha le sue grandi luci  e le sue ombre (ad esempio l’incomprensione verso Monsignor Romero). Anche qui qual è il messaggio “perenne”  per la Chiesa?

 

Il messaggio perenne direi che è la volonta’ di un papa di reagire a grandi trasformazioni in corso nel mondo di fine novecento: la fine della guerra fredda, i mutamenti biotecnologici, la questione del gender. In questo senso il messaggio lasciato da Giovanni Paolo II e’ ancora difficile da giudicare storicamente: molto del suo insegnamento in materia morale non è (ancora?) stato recepito dalla chiesa e in certe parti di chiesa (come nelle Americhe) e’ accusato di essere la causa di molti problemi di oggi – non ultima, la repressione della teologia della liberazione in America Latina.

 

 

Insomma due “ecclesiologie” si confrontano. Von Balthasar, il grande teologo  svizzero, affermava che la “Verità è sinfonica”. C’è però, un punto critico nel cristianesimo wojtiliano: quello delle grandi adunate.  Eppure la secolarizzazione ha “galoppato” molto nel mondo contemporaneo.  Papa Francesco, che gode di immensa popolarità, è consapevole di questo “rischio”?

 

Credo che Francesco sia consapevole, anche se lo strumento che deve usare – il papato mediatico – non è diverso. Ma si vede che lo stile di Bergoglio è diverso da Wojtyla: certamente piu` roncalliano che wojtyliano.

 

Ultima domanda: Dal suo osservatorio americano come viene vissuta dai cattolici statunitensi questa duplice canonizzazione?

 

La figura di Giovanni XXIII e’ piu’ vicina ai cattolici laici di una certa generazione, quella del concilio e del primo post-concilio. Giovanni Paolo II e’ piu’ vicino al clero e ai vescovi di oggi, e alla generazione che lo vide in televisione e in terra americana tra gli anni ottanta e novanta. Ma per il cattolicesimo americano tutto Giovanni XXIII e’ l’ultimo papa veramente popolare, al di sopra delle polemiche. Per gli americani, dopo l’enciclica di Paolo VI “Humanae Vitae” del 1968 sulla contraccezione, il papa non e’ stato piu’ lo stes

Il Si della Consulta alla Fecondazione Eterologa: Una scelta di civiltà? (2) Intervista a Padre Luigi Lorenzetti

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Luigi Lorenzetti

 

Concludiamo, con questa seconda intervista, la nostra piccola inchiesta sulla fecondazione eterologa. Padre Lorenzetti è tra i maggiori  italiani, docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna e collaboratore di varie riviste fra cui Famiglia Cristiana, dove cura la rubrica “Il teologo”.

 

 La Legge 40 sulla Fecondazione medicalmente assistita ha subito “smantellamenti” , in questi 10 anni di “”vita”, continui. Sono  state 30 le sentenze di tribunali civili,  frutto di un bipolarismo etico assai poco convincente. Qual è  stato il grande limite di questa legge?

La legge 40 del 2004, nel regolare la procreazione medicalmente assistita (Pma) intende conciliare due valori-base: il primo è il legittimo desiderio al figlio che è proprio della coppia sposata (e, per estensione, anche alla coppia di fatto stabilmente unita). Da qui il divieto della fecondazione eterologa (con ovociti o gameti fuori della coppia). Il secondo è il bene-diritto  del concepito (nascituro, embrione). Al riguardo, la legge 40 presuppone che l’embrione è, fin dall’inizio, un essere umano reale con potenzialità di sviluppo (e non già essere umano potenziale); è qualcuno e non qualcosa; ha valore finale  (bene per se stesso) e non strumentale sia pure in vista di alte finalità sociali. Da qui il divieto della diagnosi prenatale finalizzata alla selezione degli embrioni; della produzione di non più tre embrioni per evitare la crioconservazione e, quindi, la loro eventuale perdita, come anche di evitare gravidanze plurime.

La legge 40, in riferimento alla tutela dei due valori in gioco, è stata considerata (ed è) una buona legge, sebbene sia stata (ed è) criticabile per opposti pareri: alcuni sostengono che la legge si sbilancia eccessivamente a favore del concepito a danno della coppia; altri, al contrario, affermano il rovescio, in quanto favorisce la coppia a danno del  concepito (nascituro). Si può facilmente constatare  che la legge italiana è più restrittiva rispetto a quelle di altri paesi europei. D’altra   parte, nessun tipo di legislazione è criterio e misura di altri tipi. Ogni legislazione è giudicabile e giudicata in base ai valori (diritti) umani che tutela o mano. È piuttosto auspicabile un confronto critico tra le varie legislazioni.

Veniamo alla sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa. Per il Settimanale “Famiglia Cristiana” si tratta di una follia italiana in quanto potrebbe favorire una “fecondazione selvaggia per tutti”.  Qual è il suo parere?

La fecondazione eterologa, a differenza dell’omologa, compromette il diritto del nascituro a una famiglia, a genitori certi, a un’identità genetica chiara; inoltre equivoca il concetto di paternità/maternità e di filiazione.

La sentenza della Consulta “smantella” dalla legge 40 il divieto della fecondazione eterologa, accogliendo le critiche che, in questo decennio, sono state poste all’opinione pubblica: il divieto discrimina un gran numero di coppie per le quali l’omologa non è praticabile; favorisce il turismo procreativo di quanti se lo possono permettere e altre motivazioni ancora.

Come prima reazione: è palese che la sentenza non interpreta ma stravolge la legge 40 proprio nell’ intento di conciliare i due valori in gioco, di cui si è detto precedentemente. La sentenza è sbilanciata nel favorire il desiderio della coppia, compromettendo il bene-diritto del nascituro ad avere genitori certi. Il figlio è posto, per legge, di fronte all’ambiguità tra genitori biologici e genitori sociali.      

 

Dal punto di vista delle coppie  sterili questa sentenza è una buona notizia. Ma la maternità e la paternità biologica sono ancora un valore per la società secolarizzata?

Sono insostenibili due visioni estreme: quella che sostiene principalmente se non esclusivamente la dimensione biologica; ugualmente l’altra che sostiene che la vera genitorialità è quella di chi fa crescere il figlio. In verità, la dimensione biologica e la dimensione  affettiva sono distinte, ma non separabili. La genitorialità biologica e la genitorialità spirituale non sono realtà, ma due dimensioni dell’unica realtà.

 

E’ giusta l’esclusione di single e per le coppie omosessuali ?

Il criterio primario da seguire non è il desiderio dell’adulto, ma il bene del minore. Nel caso della coppia o unione omosessuale, il minore parte oggettivamente svantaggiato per una serie di controindicazioni: il necessario ricorso alla fecondazione artificiale e, quindi, la violazione del diritto del nascituro ad avere genitori certi; inoltre, per crescere umanamente, il minore ha  bisogno, anche secondo le acquisizioni delle scienze umane, di due genitori nella versione maschile/femminile e non di due padri o di due madri. È vero che tanti minori, di fatto, sono in condizioni proibenti la crescita psicologica e umana anche in coppie eterosessuali, ma questo non giustifica introdurre, per legge, scelte e decisioni così cariche di problematicità.

 

Anni fa il filosofo laico tedesco Jurgen Habermas  metteva in guardia verso lo “scivolamento di una genetica liberale, vale a dire una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta”. Adesso con questa sentenza cade l’ultimo mattone su cui reggeva la legge 40, quindi si torna indietro di 10 anni. Quindi si porrà il problema di una nuova normativa. E’ possibile un cammino più laico di quello fatto con la legge 40? Ovvero raggiungere una mediazione alta su questo tema delicatissimo?

La legge civile non è né religiosa né atea, deve essere giusta; e lo è in riferimento a valori(diritti) umani.

Nel contesto sociale e culturale pluralista, è necessario ripensare il rapporto tra morale (norma morale) e diritto (norma giuridica). Le leggi civili non sono giuste/ingiuste perché conformi/contrarie a una morale di tipo confessionale. Sono, invece, giuste/ingiuste in base alla morale fondata sui valori (beni, diritti) umani, che tali sono a prescindere da appartenenze culturali, religiose, etniche.  

 

Nel 2005 la Chiesa italiana entrò con forza nella battaglia referendaria sostenendo l’astensione. Ma era la  Chiesa del Cardinale Ruini. Oggi con Papa Francesco quale sarà secondo lei l’atteggiamento della Chiesa?

I proponenti il referendum del 2005 intendevano condurre a cancellare i quattro divieti: la fecondazione eterologa, la diagnosi-preimpianto; la crioservazione; la sperimentazione degli embrioni. Il referendum non ha avuto seguito, perché non ha raggiunto il quorum richiesto. L’astensione è stata sostenuta dalla Chiesa, tuttavia, si deve riconoscere che, tra i 73% degli astenuti, non c’era soltanto il mondo cattolico ossequiente al card. Ruini.

Con Papa Francesco, i cattolici, da cittadini si sentono impegnati, in modo democratico e laico, per una legislazione sulla fecondazione artificiale che sia conforme o la più conforme possibile ai valori (diritti) umani. Non si tratta, infatti, di una questione religiosa, ma umana, laica. Il confronto, pertanto, deve avvenire tra una posizione ragionevole, meno ragionevole o più ragionevole.

Non è superfluo osservare che prima di una questione legislativa c’è una questione morale. Il fenomeno della procreazione medicalmente assistita evidenzia il desiderio profondo della paternità/maternità che viene raggiunto di frequente con grande dispendio di energie, anche economiche. È un evento che merita rispetto e ammirazione, ma questo non giustifica ogni modalità per ottenerlo: il fine buono (avere il figlio) esige che siano buone anche le modalità per averlo. Quando queste oggettivamente mancano, perché non pensare a forme alternative di vera paternità/maternità, quali l’adozione, l’affidamento? La Chiesa si sente impegnata nel formare le coscienze sul senso dell’apertura alla vita, così che agiscano non per costrizione (nemmeno per costrizione di una norma morale), ma per convinzione e consapevolezza personale.

 

 

(la foto di Padre Lorenzetti è tratta dal sito www.famigliacristiana.it )

 

Il Si della Consulta alla Fecondazione Eterologa: Una scelta di civiltà? (1) Intervista a Giorgio Tonini

medium_110305-183037_mi111207pol_0005Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla fecondazione eterologa si è acceso un forte dibattito nell’opinione pubblica sulla Legge 40. Pubblichiamo la prima intervista su questo tema, lo facciamo con  il Senatore Giorgio Tonini del PD, che è stato, all’epoca della discussione e approvazione della Legge 40,  capogruppo dei DS in commissione sanità e relatore di minoranza della legge.

 

La Legge 40 (quella sulla Fecondazione medicalmente assistita) ha subito “smantellamenti” , in questi 10 anni di “”vita”, continui. Sono  state 30 le sentenze di tribunali civili. La legge  è frutto di un bipolarismo etico assai poco convincente. Qual è  stato il grande limite di questa legge?

 

Il doppio limite della legge 40 è stato quello di essere una legge ideologica, anche a costo di affermare norme irragionevoli, e di essere stata approvata con una maggioranza divisiva, nella più assoluta sordità alle ragioni altrui. Il principale aspetto ideologico della legge 40 è stato la pretesa di affermare uno statuto giuridico dell’embrione umano come persona, anche fuori dal corpo della donna, dunque “in provetta”. Doveva essere una sorta di rivincita rispetto alla legge 194, che tuttavia non si è avuto il coraggio di mettere in discussione a viso aperto. Il risultato è stato paradossale e irragionevole: il combinato disposto della 40 e della 194 portava infatti l’ordinamento giuridico italiano a tutelare in modo assoluto l’embrione in provetta, considerato persona sacra e inviolabile, “fermo restando quanto stabilito dalla 194”, ossia la dipendenza del feto, nei primi mesi di gravidanza in modo pressoché totale, dal principio di autodeterminazione della donna. Una contraddizione insostenibile, che la Corte, come era prevedibile e come avevamo previsto nel corso del lungo e inutile dibattito in Senato, ha smantellato pezzo dopo pezzo.

 

Veniamo alla sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa. Per il Settimanale “Famiglia Cristiana” si tratta di una follia italiana in quanto potrebbe favorire una “fecondazione selvaggia per tutti”.  Qual è il suo parere?

 

La fecondazione eterologa è una pratica controversa, che propone notevoli problemi di gestione: al contrario di quella omologa, che si pratica all’interno della coppia sposata o stabilmente convivente, l’eterologa comporta l’intervento di un donatore esterno alla coppia e pone quindi il problema della gratuità della donazione, dell’anonimato che non può comunque essere assoluto, del diritto del nato da fecondazione eterologa a conoscere i suoi genitori biologici, e così via. Anche in questo caso, tuttavia, si sarebbe dovuto legiferare cercando il consenso più largo possibile attorno ad una normativa essenziale e ragionevole, che tenesse d’occhio il mainstream europeo. E invece, anche su questo punto, si è scelto un approccio ideologico e si è voluta una prova di forza divisiva e anche un po’ arrogante. In nome, si è detto e si sente ripetere anche oggi, del diritto del figlio ad avere due genitori naturali: un diritto che sovrasterebbe quello improprio dei genitori sterili ad avere un figlio. Considerazioni apparentemente di buon senso, attraverso le quali tuttavia la legge pretende di penetrare ambiti misteriosi come quello del senso della vita, fino a voler stabilire le condizioni minime entro le quali si abbia diritto a venire al mondo. Ma può la legge affermare che al di sotto di quelle condizioni minime (nascere da due genitori che siano anche quelli biologici) non abbia senso venire al mondo e quindi si abbia il… diritto di non nascere? E ancora, se è sensato sostenere sul piano etico che una coppia sterile non abbia il diritto di procreare a tutti i costi, è plausibile e ragionevole tradurre questa raccomandazione morale in un divieto assoluto a ricorrere alla fecondazione eterologa “artificiale”, posto che quella, sempre eterologa, ma “naturale” nessuno si sognerebbe di vietarla? Si tratta, come è evidente, di aporie insuperabili, figlie della impropria sovrapposizione tra il dialogo etico e l’obbligo giuridico.

 

Dal punto di vista delle coppie  sterili questa sentenza è una buona notizia. Ma la maternità e la  paternità biologica è ancora un valore per la società secolarizzata?

 

Credo sia ancora un valore, ma giustamente e opportunamente relativizzato, in favore del primato della maternità-paternità sociale. I genitori adottivi, una realtà sempre più diffusa e giustamente apprezzata, anche se anch’essa non priva di rischi e difficoltà, si ribellano al solo sentir distinguere tra figli “propri” e figli “adottati”. Questa positiva maturazione non poteva non riversarsi anche sulla procreazione medicalmente assistita. A mio modo di vedere è giusto sostenere la preferibilità etica dell’adozione rispetto alla fecondazione eterologa: perché accanirsi con le tecniche per far venire al mondo un bambino, quando ce ne sono milioni abbandonati? Ma un conto è un rispettoso dialogo etico, altra cosa è porre un obbligo o un divieto, con la forza della legge, in una materia così intima e sensibile.

 

E’ giusta l’esclusione di single e per le coppie omosessuali ?

 

Su questo punto c’era stato allora un ampio consenso. La procreazione medicalmente assistita è una pratica sanitaria, finalizzata a porre rimedio all’infertilità (o anche, come chiedevamo noi, alla prevenzione della trasmissione delle malattie genetiche). Non è una pratica da utilizzare per procreare al di fuori di uno stabile rapporto di coppia. Naturalmente, ora c’è il rischio che il pendolo del bipolarismo etico, irresponsabilmente attivato dieci anni fa, corra verso l’estremo opposto…

 

Anni fa il filosofo laico tedesco Jurgen Habermas  metteva in guardia verso lo “scivolamento di una genetica liberale, vale a dire una genetica regolata dalla legge della domanda e dell’offerta”. Adesso con questa sentenza cade l’ultimo mattone su cui reggeva la legge 40, quindi si torna indietro di 10 anni. Quindi si porrà il problema di una nuova normativa. E’ possibile un cammino più laico di quello fatto con la legge 40? Ovvero raggiungere una mediazione alta su questo tema delicatissimo?

 

Sul piano giuridico, la legge 40 resta in piedi, depurata dei suoi eccessi. Può darsi che si debba lavorare a qualche rifinitura, ma non c’è nessun vuoto normativo. Quanto alla “mediazione alta”, che avevo auspicato nella mia relazione di minoranza proprio citando Habermas, come testimone di una preoccupazione, che avrebbe dovuto essere comune, a normare, in modo ragionevole e consapevole del limite della politica e del diritto, una materia così sensibile, penso che dieci anni fa si sia persa un’occasione forse irripetibile. Ora, grazie alle sentenze della Corte, si deve provare a fermare il pendolo del bipolarismo etico, creando le condizioni, culturali e politiche, per un incontro, sulle materie che riguardano la vita e la famiglia, attorno a soluzioni legislative miti e ragionevoli, che tengano d’occhio il mainstream della società e non inseguano le minoranze estremiste, pur nel rispetto di tutte le idee e di tutte le posizioni.

 

Nel 2005 la Chiesa italiana entrò con forza nella battaglia referendaria sostenendo l’astensione. Ma era la  Chiesa del Cardinale Ruini. Oggi con Papa Francesco quale sarà secondo lei l’atteggiamento della Chiesa?

 

Dieci anni fa si saldarono, nella Chiesa, quelli che a me e non solo a me parvero allora due errori storici: una asimmetria nel magistero, che considerava “non negoziabili” sul piano politico-legislativo le posizioni della Chiesa stessa in materia bioetica o di etica sessuale e familiare, mentre questo non avveniva, ad esempio, per le questioni sociali; e una forte esposizione politica della Chiesa stessa, che pensò di porre rimedio alla fine dell’unità politica dei cattolici nella Dc, dando vita ad una nuova unità politica dei cattolici attorno ad un progetto definito culturale, ma in realtà tutto politico, di adesione collettiva, contrattata dalla stessa gerarchia, al polo di centrodestra, a sua volta alla ricerca di un’identità dopo il fallimento dell’ipotesi del partito liberale di massa. La crisi economica, che ha capovolto la gerarchia delle priorità nel dibattito pubblico, riportando in primo piano le questioni economiche e sociali, la vittoria di Obama negli Stati Uniti con il concorso di una larga maggioranza di cattolici e, in Italia, la nascita e il progressivo affermarsi del Partito democratico, come casa comune dei riformisti fondata sul dialogo e la reciproca contaminazione tra laici e cattolici, hanno spazzato via quel vecchio schema. L’avvento di Papa Francesco mi pare stia aprendo un orizzonte nuovo per il magistero cattolico: non c’è più la vecchia asimmetria, semmai c’è un primato della questione sociale su quelle bioetico-familiari. E c’è soprattutto la riaffermazione conciliare della distinzione dei piani: alla Chiesa la proposta, tanto più forte quanto più mite ed umile, dei principi evangelici; alla politica, nella sua autonoma responsabilità, la definizione delle norme giuridiche, nel libero confronto con tutte le posizioni presenti nella società. In ogni caso, la Chiesa di Francesco non chiede il supporto del braccio secolare per affermare i suoi valori, ma si affida alla fecondità evangelica della predicazione alle libere coscienze delle donne e degli uomini del nostro tempo.

 

 

 

La figlia del Papa. Un libro di Dario Fo

copertina“In tutte le storie famose, come quella dei Borgia, si trovano sempre diverse versioni del dramma.Nella maggior parte dei casi, però, si scopre un intento deformante, soprattutto dal punto di vista storico. Personalmente non ho fatto altro che ricercare la verità”. Così il premio Nobel Dario Fo spiega la sua ultima opera letteraria,  un libro, uscito oggi nelle librerie per i tipi di Chiarelettere, sulla figura di Lucrezia Borgia. E nel pomeriggio di oggi a Milano, presso l’aula magna dell’Università Milano – Bicocca, c’è stato uno spettacolo-presentazione del volume a cura della Compagnia teatrale “Fo-Rame”.

 

Lucrezia, Figlia di un papa, tre volte moglie (un marito assassinato), un figlio illegittimo… tutto in soli 39 anni, in pieno Rinascimento. Una vita incredibile, da raccontare. Ci hanno provato scrittori, filosofi, storici. Di recente sono state dedicate a Lucrezia serie televisive di successo in Italia e all’estero.

 

Ora, eccezionalmente, il premio Nobel Dario Fo, staccandosi da ricostruzioni scandalistiche o puramente storiche, ci rivela in un romanzo tutta l’umanità di Lucrezia liberandola dal cliché di donna dissoluta e incestuosa e calandola nel contesto storico di allora e nella vita quotidiana. Ecco il fascino delle corti rinascimentali con il papa Alessandro VI, il più corrotto dei pontefici, il diabolico fratello Cesare, e poi i mariti di Lucrezia, cacciati, uccisi, umiliati, e i suoi amanti, primo fra tutti Pietro Bembo, con il quale condivideva l’amore per l’arte e, in particolare, per la poesia e il teatro. Tutti pedine dei giochi del potere, il più spietato.

 

Una vera accademia del nepotismo e dell’osceno, tra festini e orge. Come oggi. Perché il romanzo della famiglia dei Borgia è soprattutto la maschera del nostro tempo che, visto attraverso il filtro di quel periodo, ci appare ancora più desolante e corrotto.

 

 

Dario Fo, La Figlia Del Papa, Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 208, € 13,90.

 

 

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un breve estratto del libro

 

 

A piedi giunti nel fango

 

Sulla vita, sui trionfi e sulle nefandezze più o meno documentate dei Borgia si sono scritte e messe in scena opere e pièces teatrali, realizzati film di notevole fattura con attori di fama e, ultimamente, anche due serie televisive di straordinario successo. Qual è il motivo di tanto interesse verso il comportamento di questi personaggi? Senz’altro la spudorata mancanza di pulizia morale che viene attribuita loro in ogni momento della vicenda.

Un’esistenza sfrenata a partire dalla sessualità fino al comportamento sociale e politico.

Fra i grandi scrittori che ci hanno raccontato drammi, cinismi e amori di questa potente famiglia ci sono ad esempio Dumas, Victor Hugo e Maria Bellonci. Ma uno dei più noti è John Ford, elisabettiano dell’inizio del Seicento, che mise in scena Peccato che sia una puttana, opera ispirata quasi sicuramente alle presunte avventure di Lucrezia Borgia e suo fratello Cesare, che la leggenda assicura essere stati amanti. La nostra amica Margherita Rubino ha condotto una ricerca sui drammi scritti nel tempo stesso dei Borgia e ha scoperto ben due autori, Giovanni Falugi e Sperone Speroni, che trattano della vicenda mascherandola con una provenienza romana, nientemeno che da Ovidio.

Certo che se stacchiamo di netto dal Rinascimento italiano la storia di papa Alessandro vi e dei suoi congiunti ne otteniamo una saga sconvolgente, dove i personaggi si muovono senza alcun rispetto per gli avversari e spesso nei propri stessi confronti.

La vittima da immolare ogni volta, fin dalla sua infanzia, è senz’altro Lucrezia. È lei che viene buttata tanto dal padre che dal fratello in ogni occasione nel gorgo degli interessi finanziari e politici, senza un briciolo di pietà. Di cosa ne pensi la dolce figliola non ci si preoccupa assolutamente. Del resto è una femmina, un giudizio che valeva anche per un padre futuro papa e un fratello prossimo cardinale. Anzi in certi momenti Lucrezia è un pacco con tondi seni e stupendi glutei. Ah, dimenticavamo, anche i suoi occhi sono carichi di malìa.

 

 

Il Popolo e gli dei. Un libro sulla grande crisi

5260849“La sovranità si è spostata verso i gironi opachi e incontrollati della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato. Vista con lo sguardo del cittadino essa diventa lontana, inafferrabile, apolide: il popolo e gli dei non sono mai stati più lontani.
Se la sovranità, con i suoi nuovi dei, slitta sempre più verso l’alto, dove va il popolo? In teoria è lrnella nube del mugugno e della rabbia, si trasforma da comunità di cittadini a esercito di sudditi”.

Questa è la chiave di lettura del libro, scritto a quattro mani, da Giuseppe De Rita, presidente del Censis, e dal giornalista Antonio Galdo per i tipi della Laterza. Il titolo da l’idea del paradigma basilare del libro “Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani” (pagg. 104. € 14,00).

Che è poi la proiezione su scala nazionale della più grande frattura “sismica”, la “faglia” planetaria prodotta dalla “iperglobalizzazione”, tra la “superelitè” del potere finanziario globale e il resto del mondo (ivi compresa anche la politica degli Stati sovrani).

Dove i primi sono sempre più ricchi e i secondi sempre più poveri.

L’Italia, come il resto del mondo occidentale, non sfugge alla “logica” diabolica che la grande crisi ha prodotto in questi ultimi anni.

Se è vero che nella nostra Costituzione, come nel resto del Costituzionalismo moderno e contemporaneo, la sovranità appartiene al popolo in questi ultimi anni in realtà, come detto all’inizio, si è assistito ad un grande furto di sovranità. Ovvero il potere reale si è spostato verso entità sempre più astratte (il Mercato) ma, in realtà, molto reali.

Così gli “Dei”, le elitè tecnocratiche -politiche, si collocano sempre più lontane dal popolo. Un popolo italiano, definito dagli autori con grande realismo e perfino crudeltà analitica, come popolo della sabbia: “fragile per definizione, esposto ai rischi prodotti dal potere cieco dei mercati, dal furto della sovranità, dalla crisi della rappresentanza”. Queste sono le tre grandi crisi che attraversano la società italiana. Gli “Dei”, o la “casta” secondo altri, godono di ogni tipo di privilegio mentre il distante si perde nei mille rivoli della crisi (dalla disoccupazione, alla perdita di garanzie sociali ed economiche): “il vento soffia sul popolo della sabbia crea dune e avvallamenti, scatena tempeste”. Tempeste che sfociano nel ribellismo sterile dell’antipolitica. Una crisi di rappresentanza che tocca tutti gli istituti della partecipazione dai partiti alle istituzioni europee (vissute come burocrazia tecnocratica).

E’ la mancanza di un ideale, di un progetto, di un sogno condiviso ovvero di quella “chimica sociale” che produce una società solidale.
Secondo l’analisi dei due autori, le responsabilità di questo processo che ha separato in modo quasi definitivo la società civile da coloro che sono chiamati ad amministrarla vanno divise equamente tra le due parti in causa. Il “popolo”, infatti, negli anni della Crisi non ha saputo porsi come entità collettiva capace di pretendere il rispetto dei propri diritti, preferendo frammentare le sue richieste in un pulviscolo di lamentele senza scopo e accontentandosi di sparare a zero, in modo generalizzante e qualunquista, sulla classe politica in toto, mentre “gli dei” hanno approfittato della situazione per consolidare il proprio potere e gestire al meglio i propri affari, disinteressandosi totalmente dei loro doveri nei confronti della collettività. Il risultato di questo processo è un Paese che esce dalle maglie della crisi come irrimediabilmente frammentato, un Paese in cui ogni individuo rimane chiuso nel suo piccolo guscio nel tentativo di tutelare se stesso e in cui l’idea stessa di società diventa sempre più labile, sempre più difficile da afferrare.

La soluzione di questa frattura, difficile per gli autori, passa per una nuova stagione di protagonismo di partecipazione politica. Solo con una nuova statualità si può ripristinare il comune destino degli italiani.

(dalla Rivista Arel n° 3/2013)