CONTRADA ARMACÀ, un “giallo” su Reggio Calabria

Contrada ArmacàUn giallo ambientato nel cuore di Reggio Calabria, tra violenza e bellezza, irresistibile vitalismo e sanguinaria ferocia. Scritto dal bravo giornalista, e inviato dell’Espresso, Gianfrancesco Turano (nato lui stesso  a Reggio Calabria).

LA TRAMA
L’omicidio di Rosario Laganà, giovane parrucchiere ucciso per strada in un agguato, non suscita particolare clamore a Reggio Calabria. Il movente, si mormora, sarebbe una faccenda di corna o di droga. Nessuno sembra insospettito dal fatto che il ragazzo era intimo di Oriana, la collaboratrice più fidata del sindaco, morta suicida solo poche settimane prima. Chi non si accontenta di facili spiegazioni è lo zio di Rosario, Demetrio Malara, ex insegnante, un uomo solitario che ha già perso il figlio quindicenne in un regolamento di conti fra clan rivali.
La pista di Oriana diventa una scommessa privata, ma per esplorarla Malara ha bisogno di aiuto. Fortunato Amato detto Nato, un suo ex studente che alla carriera di avvocato ha preferito il business dei matrimoni e si è ritagliato un ruolo come organizzatore di eventi, è l’uomo giusto al momento giusto. Narcisista e donnaiolo, brillante e abituato a vivere all’insegna del “me ne fotto”, Nato conosce mezza Reggio ed è ben introdotto nei circoli che contano. Fra risse nei locali della movida reggina, container gonfi di armi e cocaina in transito nel porto di Gioia Tauro, sparatorie nei boschi dell’Aspromonte, donne irresistibili e sicari disposti a tutto, la strampalata coppia d’investigatori entrerà nelle viscere di una città dove nulla accade per caso e dove ogni delitto è il risultato del mancato rispetto di regole non scritte. Un romanzo dove tutte le consorterie oscure del potere  si intrecciano. Insomma Contrada Armacà è un giallo che squarcia la facciata rispettabile di Reggio Calabria, svelando un sistema criminale che arriva a lambire perfino la Casa bianca.

Gianfrancesco Turano, Contrada Armacà,Ed. Chiarelettere, Milano 2014, pagg. 320, € 16,90.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto del libro.

UNO

CAPOCRIMINE  Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani.
Non è la prima volta. Nel 1976 – io ero bambino – sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve.