Medio Oriente: L’Export record di armi italiane. Intervista a Giorgio Beretta

Abu Dhabi Class dal sito: www.fincantieri.it

Abu Dhabi Class dal sito: www.fincantieri.it

Nello scacchiere drammatico del Medio Oriente grande è la presenza dei Sistemi d’arma
italiani. E questo pone enormi problemi politici. Ne parliamo con Giorgio Beretta,
analista di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e
difesa) di Brescia e membro della Rete italiana per il disarmo (o Rete Disarmo).

Beretta, gli scenari di guerra aumentano: la gravissima escalation del conflitto in Iraq ad opera dell’ Isis, un vero e proprio esercito integralista, che sta compiendo stragi contro le minoranze etniche e religiose presenti nel territorio iracheno, tutto questo impone alla comunità internazionale di intervenire per fermare la follia integralista. La “Rete Italiana per il disarmo” ha criticato l’invio armi da parte del governo italiano ai curdi, quali le ragioni?

Innanzitutto dobbiamo considerare attentamente la situazione in Iraq e nella regione. Siamo di fronte ad un fenomeno che le agenzie dell’Onu definiscono di “pulizia culturale”  (“cultural cleansing’’), con “orribili crimini contro l’umanità” commessi ogni giorno da parte di gruppi armati associati allo Stato islamico in Iraq e Levante (ISIL). Un fenomeno che lo stesso presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, non ha esitato a paragonare ad un “genocidio”. In questo contesto l’Unione europea e l’Italia hanno un dovere prioritario: quello di mettere in atto tutti gli strumenti previsti dalla comunità internazionale per proteggere le popolazioni. Questo dovere invoca l’assunzione della [di quella che gli statuti delle Nazioni Unite definiscono come] “responsabilità di proteggere” (Responsibility to protect): tale responsabilità non ricade solo sul governo iracheno ma sull’intera comunità internazionale.  Attenzione: non è detto che debba essere il paese in cui si verificano questi crimini a richiedere la protezione della comunità internazionale, può benissimo essere ogni Stato membro dell’Onu che ne rilevi la necessità. E ogni intervento, anche militare, di “peace enforcement” stabilito in ambito Onu va esercitato secondo la norma della “responsabilità nel proteggere” (Responsibility while protecting) che non prevede assolutamente il bombardamento di aree popolate.

L’Unione europea, invece, per quanto riguarda l’Iraq ha deciso di delegare questa responsabilità di proteggere al governo iracheno e alle azioni militari aeree degli Stati Uniti limitando il proprio contributo – e la propria responsabilità – all’assistenza umanitaria e alla fornitura di armamenti. E’ innanzitutto questo auto-confinamento dell’Ue che reputiamo molto grave: significa di fatto non assumersi alcuna precisa responsabilità di fronte ad una  immane catastrofe ed allinearsi alla strategia militare degli Stati Uniti i cui risultati, dall’intervento unilaterale del 2003 – senza alcun mandato dell’Onu – per rovesciare il regime di Saddam Hussein, sono sotto gli occhi di tutti.

Avete espresso anche dubbi sulla tipologia di armi inviate ai peshmerga (su queste c’è una “denuncia” del Movimento 5Stelle, che ha sentito fonti irachene, secondo cui un primo lotto di armi sarebbero state bloccate dal governo centrale iracheno), quali sono questi dubbi?

Non entro nel merito della “denuncia” del M5S che lascio a chi di competenza valutare.  Riguardo alle armi che l’Italia intende inviare in Iraq ci sono due chiari problemi: uno di scelta politica e l’altro riguarda la situazione nella regione. Il governo italiano intende inviare ai militari peshmerga in Iraq diverse armi in parte dimesse dalle nostre forze armate e di provenienza da fondi di magazzino non più utilizzabili in ambito Nato. Ma soprattutto intende inviarne una parte proveniente da un lotto di armamenti di fabbricazione sovietica sequestrati al trafficante Zhukov e tenuti per anni nelle riserve dell’isola sarda della Maddalena. Queste armi, come prevede una sentenza del Tribunale di Torino del 2006 mai resa operativa, andavano distrutte. C’è quindi una precisa responsabilità politica del governo Renzi che a fronte di una sentenza di un Tribunale ha deciso di avvalersi di una legge successiva (la legge  108 del 2009) (vedi la nota in fondo all’intervista) che permette – attenzione è un permesso non un obbligo né un dovere – al Ministero della Difesa di disporre di armi sequestrate e non ancora distrutte “per fini istituzionali”. Quale sarebbe il “fine istituzionale” che il Ministero intende perseguire è tutto da chiarire. Ma soprattutto va ricordato che una parte di queste armi sequestrate sarebbe stata inviata nel 2011 agli insorti di Bengasi in Libia apponendo da parte dell’allora governo in carica (Berlusconi IV) il segreto di Stato: chiediamo perciò che  non si faccia alcun utilizzo di queste armi e che venga invece aperta subito un’inchiesta parlamentare per verificare quante e quali armi siano già state inviate nei vari teatri di guerra.

C’è il rischio di alimentare il mercato nero interno?

Proprio questo rappresenta il secondo motivo per cui ci opponiamo all’invio di armi in Iraq. Ma attenzione, non è un semplice “rischio”: la sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e di centri di ricerca autorevoli come il SIPRI di Stoccolma.  Un rapporto del Pentagono già del 2007 segnalava che a fronte di oltre 13mila armi consegnate all’esercito iracheno se n’era persa traccia per più di 12mila e tra quelle armi figurano pistole, fucili d’assalto, mitragliatrici e lanciagranate. Una simile situazione si è verificata in Afghanistan. Non a caso una specifica ricerca del SIPRI definisce questi due paesi come “gli esempi più evidenti dei rischi collegati alla fornitura di armi a Stati fragili”. Il nostro governo pare intenda avvalersi delle capacità di controllo dei nostri servizi di intelligence: se i migliori servizi di intelligence del mondo non hanno nemmeno saputo informarci per tempo sulla terribile minaccia che incombeva sulle popolazioni del nord Iraq, c’è davvero da preoccuparsi.

Veniamo alle armi italiane:  Lei in un suo articolo ha affermato che non c’è stato, nel 2013, un crollo delle esportazioni di armi italiane. Anzi il 2013 si è confermato il secondo anno “record” per l’export armiero. Tutto questo a fronte di un crollo degli ordinativi. Ci può spiegare il perché?

Dobbiamo sempre distinguere le consegne di sistemi militari dalle autorizzazioni che il governo rilascia: le consegne rappresentano ciò che di fatto si esporta, le autorizzazioni riflettono quello che in gergo viene definito il “portafoglio d’ordini” dell’industria militare nazionale. Nel 2013 non c’è stato alcun crollo nelle effettive esportazioni di sistemi militari italiani: sono stati infatti spediti nel mondo armamenti italiani per oltre 2,7 miliardi di euro (€2.751.006.957), cioè solo poco meno della cifra-record ventennale realizzata nel 2012 (€2.979.152.816): un calo quindi (del 7,7%), ma non certo un “crollo”.

Il “crollo” ha riguardato le autorizzazioni all’esportazione che nel 2013 si sono dimezzate: dagli oltre 4 miliardi (€4.160.155.096) del 2012 si è infatti passati a poco più di 2 miliardi di euro (€2.149.307.240) del 2013. Si tratta però del “valore globale”, cioè della somma delle autorizzazioni per esportazioni con quelle relative ai “programmi governativi di cooperazione” (detti anche “programmi intergovernativi”) tra cui figurano anche i sistemi in costruzione per la dotazione delle nostre forze armate.

Su questo “crollo” degli ordinativi hanno influito tre fattori. Il primo è che gran parte dei “programmi intergovernativi” sono già stati autorizzati negli anni scorsi. Il secondo è che la domanda di armamenti è fortemente altalenante perché  – a differenza dei beni di consumo – i maggiori sistemi militari (dai caccia alle navi da guerra) non si esauriscono in breve tempo. Ma c’è un terzo fattore sul quale la nostra industria militare e lo stesso governo farebbe bene a riflettere: le indagini per corruzione che hanno coinvolto Finmeccanica in India e Fincantieri per le navi inviate agli Emirati Arabi Uniti non favoriscono certo la credibilità delle maggiori industrie militari del nostro paese. E non basta un “Codice Etico” per risolvere il problema.

Nel 2013 sono state  autorizzate, nel Medio Oriente, esportazioni di armi italiane per un valore di 709 milioni di Euro. Un dato davvero preoccupante. Quale è il quadro complessivo dell’export dei sistemi d’arma italiani in Medio Oriente?

Il principale paese acquirente è stato l’Arabia Saudita (€ 296.399.644) che oltre ai caccia Eurofighter – una commessa anche questa dai contorni quanto mai torbidi – ha acquistato i relativi missili IRIS-T, ma anche un ampio arsenale di bombe, munizionamento, apparecchi per la direzione del tiro, veicoli e velivoli militari per oltre 126 milioni di euro.

Sono continuate le forniture di sistemi militari all’Algeria (€ 234.580.121): al controverso governo del presidente Bouteflika erano state autorizzate esportazioni nel 2011 per un record di oltre 477 milioni di euro a cui vanno sommati i quasi 265 milioni di euro del 2012 e gli attuali 235 milioni di euro: il leitmotiv è, evidentemente, armi e sistemi militari in cambio di gas e petrolio. Lo stesso motivo è alla base delle esportazioni verso gli Emirati Arabi Uniti che nel 2013 si sono visti autorizzare importazioni di armamenti italiani per quasi 95 milioni di euro. L’anno scorso agli Emirati sono state consegnati sistemi militari per un record di oltre 434 milioni di euro, tra cui spiccano due corvette “Abu Dhabi Class”, una commessa sulla quale lo scorso dicembre la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per “tentata  corruzione internazionale”. E sempre il petrolio fa da leitmotiv alle commesse autorizzate all’Oman: si tratta di oltre 44 milioni di euro che riguardano “armi automatiche”, munizioni e veicoli terrestri e non comprendono ancora – visto che la tabella degli Esteri non li segnala – i dodici Eurofighter ordinati dal Sultanato già nel dicembre del 2012 insieme ad altri velivoli prodotti dal consorzio di cui la britannica BAE è capofila per un valore complessivo di oltre 4 miliardi di dollari.

Nonostante le sommosse che hanno scosso l’Egitto per tutto il 2013, il ministero degli Esteri ha autorizzato esportazioni di materiali d’armamento per oltre 17 milioni di euro tra cui figurano armi automatiche, munizioni, bombe e sistemi per la direzione del tiro. Quasi 11 milioni di queste armi sono state consegnate fino ad agosto dell’anno scorso quando, come segnala una breve nota della Relazione, in sede di Consiglio degli Affari Esteri sono state decise “misure restrittive”. Le uniche di cui la Relazione da notizia e che comunque non pare abbiano interessato altri paesi della zona mediorientale come la Turchia, verso la quale Rete Disarmo aveva chiesto al ministro Bonino di sospendere l’invio di sistemi militari in considerazione della violenta repressione messa in atto dalle forze armate. Da non dimenticare Israele al quale proprio primi giorni dei raid aerei su Gaza, Alenia Aermacchi ha consegnato i primi due velivoli addestratori M-346 che sono parte di una contratto del valore di oltre 800 milioni di euro.  Un contratto definito dall’allora premier Mario Monti un “salto di qualità” che prevede la fornitura di questi velivoli ad Israele in cambio dell’acquisto dall’Italia di sistemi militari israeliani: di fatto un ottimo affare per Alenia Aermacchi e un’ulteriore spesa per i contribuenti italiani.

E’ chiaro che tutta questa presenza di armi in uno scacchiere drammatico, come quello mediorientale, pone enormi problemi politici. Quanto è efficace il controllo del Parlamento?

E’ proprio questo il punto più preoccupante. Da oltre sei anni ,cioè dai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, tutta la materia delle esportazione di sistemi militari non viene esaminata nelle competenti commissioni della Camera e del Senato. E questo nonostante la Presidenza del Consiglio abbia inviato ogni anno al parlamento una corposa Relazione come per legge.  La recente modifica della legge (la n.185 del 1990) richiede  che questa esame debba adesso essere ottemperato, ma ad oltre un mese dalla consegna della Relazione non mi risulta sia stato messo in calendario. Ma c’è di più. Proprio a partire dall’ultimo governo Berlusconi sono stati sottratte dalla relazione governativa una serie di informazioni di importanza fondamentale per il controllo parlamentare tanto che oggi è praticamente impossibile sapere dalla Relazione ciò che tutti dovremmo, per legge, sapere: e cioè a quali paesi il Governo abbia autorizzato l’esportazione di quali specifici sistemi militari, per quale quantità e valore, e a quali paesi siano state consegnate quante e quali armi nel corso dell’anno. E’ perciò quanto mai necessario e urgente che le competenti commissioni del parlamento riprendano il controllo dell’attività del Governo. Non farlo significa, di fatto, permettere ai vertici dei colossi dell’industria militare nazionale e ai gruppi politici che li sostengono di dettare al nostro paese una materia che riguarda direttamente la politica estera e di difesa del nostro paese.

Ecco il testo della Legge 3 agosto 2009, n. 108
Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali. (09G0117) (GU n.181 del 6-8-2009) Entrata in vigore del provvedimento: 7/8/2009

Art. 5. (Disposizioni in materia contabile)

3.  Le  armi,  le  munizioni,  gli esplosivi e gli altri materiali di interesse  militare  sequestrati e acquisiti dallo Stato a seguito di provvedimento   definitivo  di  confisca  dell’autorità giudiziaria possono  essere  assegnati  al  Ministero  della difesa per finalità istituzionali,  con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con  i  Ministri  della  difesa  e  dell’economia e delle finanze. Si provvede  con  decreto  del Ministro della difesa, di concerto con il Ministro  dell’economia  e delle finanze, nel caso in cui la confisca è   stata   disposta   dall’autorità   giudiziaria   militare.   Le disposizioni  di  cui al presente comma si applicano anche alle armi, alle  munizioni,  agli  esplosivi e agli altri materiali di interesse militare  per  i  quali, anteriormente alla data di entrata in vigore della  presente  legge,  è stata disposta ma non ancora eseguita la distruzione.

 

 

Il Califfo eretico sarà sconfitto dall’Islam. Un’analisi di Aldo Madia

califfo-baghdadi-Mosul-800x540‘Islamic State e Islam’. A tentare di capire attraverso uno specialista, Aldo Madia, come l’obiettivo perseguito nell’Islam anche dai movimenti più estremisti è mutato nel tempo. Il testo si fa comprendere come Al Baghdadi, l’ “eretico”,  viola il principio chiave dell’Umma, la comunità dei fedeli che è ‘Unione’ e non settarismo. Pubblichiamo il “pezzo” per gentile concessione del sito: www.remocontro.it

Difesa della terra musulmana e salvaguardia della religione disse il Profeta Maometto. La ‘salafyya’, da aslaf , gli antenati.

Tra la Mecca e Medina

Le formazioni più radicali si dividono in due gruppi.

– Nel primo, rientrano quanti fanno riferimento alla vita del Profeta nella Mecca quando con un modesto gruppo di seguaci predicava (dawah) pacificamente per acquisire discepoli.

– Nel secondo gruppo, sono compresi coloro che si ispirano alla vita di Maometto a Medina, dove, rifugiato per sfuggire alle persecuzioni cui era sottoposto insieme ai suoi fedeli alla Mecca, ottenne un vasto sostegno che gli consentì di unire alla predicazione il Jihad, il combattimento.

Le tre scuole di Medina

Coloro che si attengono al periodo della Mecca tendono all’isolamento per evitare contaminazioni con la vita occidentale.

Quelli che si orientano alla vita del Profeta a Medina ritengono che il tempo del jihad sia arrivato e si dividono in tre tipologie:

1) “I locali”, che privilegiano la lotta contro “il nemico vicino”, cioè i regimi arabi considerati corrotti e seguaci dei valori occidentali;

2) “I separatisti”, formati da minoranze islamiche presenti in Paesi non musulmani (Kashmir, Cecenia, Kazakistan), che intendono proclamare Stati Indipendenti;

3) “Gli internazionalisti”, organizzazioni de-territorializzate ispirate al Manifesto di Peshawar del febbraio 1998 firmato da Al Qaeda e altri 10 gruppi. Il documento teorizza la necessità di iniziare “la guerra a sionisti e crociati”, ritenuti responsabili della corruzione dei Paesi islamici e indicati come “i nemici lontani”, cioè USA e forze straniere che vogliono invadere le terre dell’Islam.

L’eresia al-Baghdadi

Nel complesso e diversificato mondo islamico, il Califfato Islamico creato alla fine di giugno da Abu Bakr al-Baghdadi non trova nessuna legittimazione e, al contrario, incontra molti ostacoli nella quasi totalità dell’élite dottrinale.

Nel silenzio dei media non solo occidentali, Baghdadi è accusato di violare il principio chiave dell’ ”umma”, la comunità dei fedeli che è appunto ‘Unione’ e non il settarismo e la divisione che Baghdadi sta provocando in Siria e Iraq.

Principio che è stato alla base dell’espulsione di Baghdadi da Al Qaeda all’inizio del 2014 su decisione dell’attuale leader, Ayman al-Zawahiri, dopo il vano tentativo di porre fine alla guerra fratricida intentata da Baghdadi contro l’omologo Fronte Al Nusra.

Secondo la legge islamica, la frammentazione dei gruppi viola il principio dell’unità dei credenti e dell’unicità del Califfo e nel caso contrario si scade a livello di movimenti totalitari ma non totalizzanti. aslaf, gli antenati.

L’Islam salverà l’Occidente dal Califfo

Mentre gli USA bombardano postazioni e militanti di IS e i paesi europei forniscono ai curdi armamento, Baghdadi, dopo avere vinto molte battaglie, potrebbe perdere quella più importante all’interno del suo mondo.

La guerra che gli verrà dichiarata da quella religione di cui si è autoproclamato Califfo, discendente dal Profeta e in nome della quale ha richiesto l’obbedienza di tutti i fedeli.(Aldo Madia, per oltre 40 anni ha svolto attività sul terrorismo in Italia e Paesi europei e dell’opposizione armata in Medio Oriente, Asia e Africa).

 

(dal Sito: http://www.remocontro.it/2014/08/23/califfo-eretico-sconfitto-dall-islam/)

L’autunno caldissimo di Renzi. Intervista a Giorgio Tonini (PD).

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Si profila per il Premier Matteo Renzi una ripresa dell’attività di governo
molto difficile. I dati economici non scherzano: siamo in piena stagnazione.
Come si svilupperà l’azione di governo? Ne parliamo con Giorgio Tonini,
vicepresidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, “archiviata” la riforma del Senato, una riforma molto
discussa e, per qualcuno, con molti limiti, ora per il Premier incominciano
le sfide che toccano il vissuto concreto degli italiani, ovvero le riforme
economiche e quelle del lavoro. Le chiedo: non si è perso tempo a discutere,
in alcuni frangenti male, di una riforma che porterà beneficio, se li porterà,
solo tra qualche tempo, mentre la crisi morde sempre di più? Insomma non
ha avuto la sensazione che la riforma sia stata usata come arma mediatica di
distrazione nei confronti di problemi urgenti?
Assolutamente no. La discussione, inevitabilmente anche molto tecnica, sulle
riforme costituzionali, non ha alcun potere di distrazione di massa dai problemi
economici, che mordono sulla carne viva delle persone, delle famiglie e delle
imprese. La verità è che, per un verso, non è affatto vero che governo e
parlamento, in questi mesi, si siano occupati solo, o anche principalmente, di
riforme costituzionali. Le camere sono state letteralmente intasate di provvedimenti
sull’economia: dal decreto sugli 80 euro, a quello sui contratti a termine; dal
decreto sulla competitività, a quello su cultura e turismo, fino a quello sulla pubblica
amministrazione; e a settembre sono già programmate la discussione sulla delega
in materia di lavoro, quella sulla giustizia e quella sulle opere pubbliche. Detto
questo, e fermo restando che sarà la legge di stabilità il vero esame di maturità per
Renzi e i suoi ministri, il governo ha fatto non bene, ma benissimo ad impegnarsi
a fondo anche sulla riforma costituzionale, come su quella elettorale. Perché
solo l’Italia abbina ad una grave e ormai endemica crisi economica e sociale,
un’altrettanto cronica crisi politica e istituzionale: solo noi, in piena crisi, abbiamo
cambiato quattro governi, quattro premier e quattro ministri dell’economia in tre
anni. Nessun altro paese europeo si è trovato in una condizione di instabilità,
anzi di vera e propria precarietà, politica e istituzionale, come la nostra. Solo
la presidenza della Repubblica, grazie alla generosità e all’autorevolezza di un
galantuomo di quasi novant’anni, ha garantito la continuità istituzionale. Dunque
la riforma elettorale e quella costituzionale, con il superamento del bicameralismo,
sono un’emergenza nazionale, non un passatempo estivo. E l’impegno diretto del
governo è stato una necessità, dopo il fallimento dello schema adottato alla fine
della scorsa legislatura: al governo tecnico (Monti) le riforme economiche, alle forze
politiche in parlamento quelle istituzionali. Il risultato fu, com’è noto, l’ennesimo
nulla di fatto sulle riforme elettorali e costituzionali. Senza l’impegno diretto del
governo, che peraltro non ha impedito modifiche e miglioramenti del testo, il Senato
non avrebbe mai votato la sua autoriforma, come hanno dimostrato il duro e cieco
ostruzionismo delle molte opposizioni trasversali e l’uso strumentale di improbabili
allarmi contro la presunta deriva autoritaria.
Veniamo alle sfide: il ciclo economico segna il meno su molti indicatori
economici: dalla crescita alle entrate fiscali. Mentre segna il più sulla
disoccupazione giovanile. Un quadro pesante. Eppure il nostro premier è
ottimista, ma L’Europa lo è di meno di lui. Senatore Tonini, dove trae Renzi
tutto il suo ottimismo?
Chi governa ha il dovere di essere ottimista, di vedere sempre il bicchiere mezzo
pieno, di fare appello alle comunque ingenti risorse materiali e immateriali di cui
l’Italia dispone e che possono consentirle di riprendere il cammino dello sviluppo. In
questo senso, l’ottimismo è anche un richiamo alla responsabilità, a non aspettare
aiuti esterni, a rimboccarsi le maniche e a fare leva sulle nostre possibilità. Ma c’è,
ovviamente, molto di più. C’è in Renzi una forte e in un certo senso inedita
consapevolezza della radice comune delle difficoltà che incontrano tutti i paesi
europei a mettere in campo strategie di uscita dalla crisi e di ripresa della crescita e
dell’occupazione. L’accostamento simbolico del nostro -0,2 per cento al -0,2
tedesco, negli ultimi dati trimestrali sull’andamento del PIL, sta lì a dimostrare che
nessuno può farcela da solo, neppure la Germania; che tutti devono fare i compiti a
casa, noi col nostro debito, la Francia col suo deficit, la Germania col suo surplus;
e che senza una leva federale, un piano di massicci investimenti europei che
ricreino una forte domanda interna, l’andamento dell’economia europea finirà per
divergere in modo preoccupante, non solo da quello dei paesi emergenti, ma
perfino da quello degli Usa. Semmai, se una critica si può fare a Renzi e al
governo, è quella di aver sprecato troppo tempo e troppe energie in una inutile
polemica con la Germania sui margini di flessibilità consentiti dai trattati, una
questione intrinsecamente intergovernativa dalla quale ci si può attendere ben
poco, al massimo qualche decimale di punto di sforamento sul deficit, e di aver
lasciato sullo sfondo, almeno della comunicazione pubblica, la questione decisiva,
tutta comunitaria e federale, di come “cambiare verso” alla politica economica
europea, facendo come gli americani: applicare agli stati nazionali nel modo più
severo la regola del pareggio di bilancio e della riduzione del debito, insieme alle
relative riforme strutturali sul versante dell’offerta, ma rendere tutto questo
sostenibile, attraverso l’utilizzo della forza dell’euro (in analogia con quanto fanno
gli Usa col dollaro) per mobilitare capitali da utilizzare per il finanziamento di un
vero e proprio New Deal europeo, centinaia di miliardi di euro per finanziare
infrastrutture, riqualificazione del territorio, dell’ambiente e del patrimonio edilizio,
ricerca e sviluppo, formazione superiore, cooperazione militare… tutti investimenti
gestiti direttamente da un’autorità federale europea. Vorrei che non perdessimo la
formidabile occasione rappresentata dal semestre di presidenza italiana
dell’Unione, un semestre che coincide con quello di avvio della nuova commissione
e del nuovo parlamento, per imporre questa nuova agenda: capacità di bilancio
dell’Eurozona e grande piano di investimenti, da finanziare attraverso la Bei, la
garanzia della Bce e i project-bond. Il piano Juncker dei 300 miliardi va in questa
direzione, come pure le ipotesi avanzate da Draghi sulla concertazione comunitaria
delle riforme. I francesi condividono questa strategia e i tedeschi non possono più
dire di no. Con Renzi l’Italia può dare un apporto decisivo a questa svolta storica:
per l’Europa e non solo per l’Italia.
La maggioranza è attraversata da una disputa stucchevole, “teologica” ha
detto, con qualche ironia, Pierre Carniti, sull’articolo 18. Alfano e Sacconi
vogliono abolirlo, Renzi apre ma nel quadro di Riforme più ampie. Anche
queste sono “nubi” sul cammino del governo. Renzi andrà allo scontro con il
Sindacato, oppure troverà il modo di coinvolgere il movimento Sindacale?
Mi pare che Renzi abbia detto con chiarezza una cosa molto importante: il
governo, insieme al parlamento, è impegnato a riscrivere non un articolo, ma
l’intero Statuto dei lavoratori, per adeguarlo ad una realtà del mondo del lavoro che
davvero molto poco ha in comune con quello degli anni Sessanta e Settanta del
secolo scorso. Renzi non era ancora nato, lei ed io eravamo bambini, l’Italia era in
pieno boom economico e demografico, una generazione di giovani figli di contadini
aveva riempito di sé, della sua prorompente voglia di crescita economica e di
riscatto sociale, le grandi fabbriche del Nord del paese. Era scesa in campo una
grande forza di cambiamento, che chiedeva per sé non solo la sua parte di reddito
prodotto, ma una carta di diritti per una cittadinanza piena, nella fabbrica e nella
società. Accanto ai giovani operai, c’erano i giovani studenti, anche loro la prima
generazione che poteva studiare, invece di andare a morire in guerra. Studenti e
operai insieme, attraversati dall’altro grande movimento, quello di emancipazione
delle donne, hanno dato vita in quegli anni a quella che Aldo Moro, con sincera
ammirazione, definì “la stagione dei diritti”, ammonendo peraltro che essa avrebbe
finito per dimostrarsi effimera, se non fosse nato in Italia “un nuovo senso del
dovere”, un nuovo sistema di regole, basato su un nuovo patto sociale, per la
crescita, il lavoro, la cittadinanza. Del resto, già pochi anni dopo l’approvazione
dello Statuto dei lavoratori (1970), l’Italia era entrata in crisi, a causa dello shock
petrolifero e poi dell’inflazione a due cifre, espressione di una fragilità di fondo del
nostro sistema produttivo e della struttura stessa dello Stato e della spesa
pubblica, che non permettevano una crescita sana e solida, una volta usciti dal
regime dei bassi salari e del basso costo dell’energia. Proprio Pierre Carniti fu
protagonista, trent’anni fa, di quel patto contro l’inflazione, contro quell’idra a sette
teste che stava divorando salari e pensioni e stava mettendo in discussione le
conquiste economiche e sociali di un’intera generazione. Grazie a quel patto,
l’inflazione fu domata, ma le cause strutturali della fragilità italiana non furono
affrontate dalla politica con una compiuta strategia riformista e la febbre riemerse
sotto forma di deficit e poi debito pubblico. E quando con l’ingresso nell’euro non
abbiamo più potuto fare né inflazione né deficit, si è fermata la crescita. Da questa
spirale usciremo solo con politiche europee adeguate sul lato della domanda, come
abbiamo detto, ma anche solo se e quando ci decideremo a fare le famose riforme
sul lato dell’offerta. A cominciare da quella del lavoro, che in sintesi si riassume in
un punto fondamentale: dobbiamo passare dalla centralità della tutela statica del
lavoratore sul posto di lavoro, alla centralità di una nuova, dinamica tutela del
lavoratore nel mercato del lavoro. La vecchia tutela, quella solo e soltanto sul posto
di lavoro, si è tradotta nell’attuale, insostenibile regime di bassa produttività e bassi
salari. Da questo assurdo scambio tutto in perdita per tutti dobbiamo uscire con un
nuovo scambio, che ci dia alta produttività e alti salari, in un contesto di piena e
buona occupazione. Anche assecondando quella schumpeteriana “distruzione
creativa” di posti di lavoro che è l’unica via per accrescere la produttività, mettendo
in campo al contempo una nuova generazione di diritti e di tutele, per una nuova
generazione di lavoratori. Il primo diritto, il diritto basilare e fondamentale, in questa
nuova prospettiva, non è più la cosiddetta “job property”, l’idea che il lavoratore è
proprietario del “suo” posto di lavoro, una proprietà che quando l’azienda va in crisi
finisce per assomigliare tragicamente alle catene che nell’antica Roma legavano il
destino dei rematori alla loro galera, ma il diritto a restare competitivo sul mercato
del lavoro, attraverso la formazione permanente e ricorrente e a strumenti di
accompagnamento, nella certezza del reddito, garantita da nuovi ammortizzatori
sociali, da un lavoro che finisce verso un nuovo lavoro che può crearsi. Questo è il
cuore del nuovo Statuto, che può e deve segnare il definitivo superamento
dell’attuale dualismo tra lavoratori iperprotetti (peraltro in rapido declino) e la
crescente massa di lavoratori iperprecari, ai limiti della schiavitù, in favore di un
sistema di regole e diritti universali, sintetico e chiaro, “traducibile in inglese”, come
dice Pietro Ichino, perché pensato in chiave europea e rivolto anche agli investitori
esteri, che devono poter scegliere di venire in Italia anche per la semplicità e la
modernità del suo codice di diritto del lavoro. È in questo contesto più ampio che il
dibattito sull’articolo 18 esce dallo stanco rituale simbolico, “teologico” appunto, che
oppone i difensori di totem agli abbattitori di tabù, e si colloca in uno scenario
riformatore più ampio e innovativo.
Veniamo al quadro politico: Renzi dice no all’aiuto, questo si mortale per lui,
di Berlusconi sulla frontiera del governo. Reggerà?
Questa legislatura si è aperta con la “non-vittoria” del Pd di Bersani, l’impossibilità
di dar vita ad una collaborazione con il M5S e l’accordo obbligato con il
centrodestra e il suo leader, Silvio Berlusconi, prima per eleggere il presidente della
Repubblica e poi per dar vita ad un governo per le riforme elettorali e costituzionali,
che necessariamente si dotasse anche, attraverso un non facile compromesso tra
forze tra loro politicamente alternative, dei programmi idonei ad affrontare le gravi
difficoltà economiche e sociali del paese. Il governo di Enrico Letta ha impostato
questo lavoro comune tra il Pd e l’allora Pdl, con l’apporto delle formazioni centriste
che avevano sostenuto la leadership di Mario Monti, anche sulla base di una
clausola del tutto esplicita di separazione tra la vicenda giudiziaria di Berlusconi
e la vita del governo di larghe intese. La clausola di separazione non ha tuttavia
retto alla prova dei fatti. La condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione per
frode fiscale e la conseguente sua decadenza da senatore, sancita da un voto
dell’assemblea di Palazzo Madama, hanno fatto saltare l’accordo di governo.
Berlusconi è uscito dalla maggioranza e il governo ha potuto continuare il suo
lavoro, solo grazie alla scissione consumatasi nel Pdl, con la rinascita di Forza
Italia e la fondazione del Nuovo centrodestra. Era chiaro tuttavia che il destino
del governo Letta era segnato e con esso la sorte della legislatura, che poteva al
più riuscire ad approvare una nuova legge elettorale per poi riportare il paese alle
urne. È in questo scenario che si inserisce il patto del Nazareno, il vero capolavoro
politico di Matteo Renzi, che è riuscito a riportare Berlusconi al tavolo delle riforme,
senza modificare la composizione della maggioranza di governo e, come hanno
dimostrato i risultati delle europee, senza pagare alcun prezzo elettorale, anzi
semmai ottenendone un consistente vantaggio per il Pd, che col nuovo leader
e la sua strategia di movimento, ha conquistato una inedita centralità politica ed
elettorale. Ora Berlusconi è tornato ad offrire il suo sostegno anche sul versante
dell’azione di governo, in particolare nel campo economico e sociale. Penso che
il Pd e il governo, tanto più in un passaggio così difficile come quello che stiamo
attraversando, debbano accogliere in modo aperto e positivo tutte le manifestazioni
di disponibilità al confronto costruttivo che vengano dalle opposizioni. Non credo
invece che sia all’ordine del giorno, neppure da parte di Forza Italia, una rimessa in
discussione degli equilibri di governo.
Ultima domanda. Parliamo della Comunicazione del Premier. “Dal tacchino
ai gufi e agli avvoltoi lo zoo politico s’è fatto cupo”, è il titolo di un articolo
firmato, qualche giorno fa, da Jacopo Iacoboni sulla Stampa.
“Il premier si sta cucendo addosso un immaginario fatto di animali cupi
(i gufi), per non dire palesemente profittatori (gli sciacalli e gli avvoltoi),
o iettatori, gli «uccellacci del malaugurio». È una visione del mondo che
Renzi addebita a chi lo critica, non a sé, ma gli finisce appiccicata addosso,
ci pensi; rischia di essere dal punto di vista della comunicazione un
purissimo autogol, la sensazione di qualcosa di buio, e di una lingua troppo
aggressiva”. Non è venuto, per lui, il tempo del realismo e dell’umiltà?
Il realismo, a Renzi, non è mai mancato, è anzi una sua spiccata virtù. Quanto
all’umiltà, mi pare che la pratichi nei fatti, pur senza professarla troppo nelle parole.
Il resto, mi pare siano più o meno gradevoli dibattiti estetico-estivi.