Sarà il Sinodo della Speranza? Intervista a Massimo Faggioli

Massimo Faggioli “Per ricercare ciò che oggi il Signore chiede alla Sua Chiesa, dobbiamo prestare orecchio ai battiti di questo tempo e percepire l”odore’ degli uomini d’oggi, fino a restare impregnati delle loro gioie e speranze, delle loro tristezze e angosce. A quel punto sapremo proporre con credibilità la buona notizia sulla famiglia”. Così Papa Francesco si è rivolto ai fedeli in piazza San Pietro, durante la veglia di preghiera organizzata dalla Cei alla vigilia del Sinodo. “Conosciamo – ha aggiunto il Pontefice – come nel Vangelo ci siano una forza e una tenerezza capaci di vincere ciò che crea infelicità e violenza”.
Con queste parole molto forti Papa Francesco ha dato, praticamente, inizio al Sinodo straordinario sulla Famiglia. Quali le prospettive di questo evento molto atteso? Ne parliamo con il Professore Massimo Faggioli, Storico della Chiesa all’ University of St. Thomas (USA).

 

Professore, Lei ha definito, questo Sinodo straordinario sulla famiglia, come l’evento più importante, dal dopo Concilio Vaticano II, per la Chiesa Cattolica. Perché?
Perchè nel corso degli ultimi 50 anni, dalla fine del concilio in poi, nella chiesa cattolica si era pensato di poter fare a meno della dimensione collegiale, specialmente quando si trattava di discernere questioni morali e sociali. Papa Francesco è cosciente di questo deficit di collegialità: nel corso del pontificato ha parlato spesso ed esplicitamente di collegialità, e anche nel discorso in Piazza San Pietro della sera del 4 ottobre alla veglia pre-Sinodo organizzata dalla CEI.

Il tema è la Famiglia, che nella nostra società si declina in modi diversi (da quella tradizionale alle coppie omosessuali). Un tema che scotta per la morale cattolica. Le chiedo: Il Sinodo sarà all’altezza delle sfide?
Nessuno lo sa prima che inizi, ma quello che è nuovo è il fatto che il Sinodo, nei suoi membri di diritto e in quelli nominati dal papa, rappresenta voci diverse e quindi non c’è un copione già scritto, come è accaduto per tutti i Sinodi dal 1967 ad oggi. Ma non dimentichiamo che questo Sinodo è solo la prima parte dell’anno sinodale: nell’ottobre 2015 c’è un altro Sinodo sullo stesso tema e quindi quello che si apre domenica 5 ottobre sarà in un certo senso anche la preparazione dei prossimi 12 mesi e non darà soluzioni definitive a problemi (come le unioni omosessuali) di cui la chiesa non ha mai parlato in modo collegiale.

La vigilia è stata segnata da polemiche, da parte degli ambienti conservatori, nei confronti delle posizioni del cardinale Kasper, molto vicino a Papa Francesco, sulla riammissione dei divorziati risposati al sacramento eucaristico. Quanto è forte questa posizione?
Non è chiara la consistenza numerica delle posizioni, ma si ha l’impressione che gli oppositori di Kasper abbiano parlato di più e si siano organizzati meglio nella fase presinodale. Ma al Sinodo non ci saranno due fronti netti: su molte questioni ci saranno posizioni più sfumate. Le posizioni destra-sinistra a cui siamo abituati in Occidente non valgono per le chiese che non sono in Europa e Nord America.

L’impressione che si ha è che nel Sinodo si giocherà una partita, che va ben al di là del tema proposto, ovvero una sorta di “rivincita” di certi ambienti, sconfitti al Conclave, nei confronti dell’opera di rinnovamento di Papa Francesco. E’ così?
Da parte di alcuni c’è certamente voglia di rivincita, ma direi che quelle sono più che altro frange al di fuori dell’episcopato: il primo anno e mezzo di papa Francesco ha accreditato la sua capacità di interpretare i bisogni della chiesa nel mondo moderno presso tutti gli schieramenti, a parte quelli più ideologizzati.

Tornando al Sinodo: qual è la la posta in gioco dal punto di vista ecclesiologico e teologico?
Dal punto di vista ecclesiologico, la questione è se il Sinodo dei vescovi come istituzione è capace di essere espressione della collegialità episcopale (finora non lo è stato) e se i vescovi sono ancora capaci di dibattere tra di loro al fine di esprimere una teologia che sia anche pastorale. Dal punto di vista teologico, è la questione di come articolare dottrina e pastorale alla luce delle necessità delle anime del nostro tempo, specialmente di quanti non sono perfetti ma peccatori – cioè tutti.

Ultima domanda. Lei vive negli Usa ed insegna in una Università americana, quindi è a stretto contatto con il mondo cattolico statunitense. Il Papa Francesco sta usando, con fortissima determinazione, il pugno di ferro nei confronti di preti e vescovi che hanno commesso , o sono stati silenti, questo orribile crimine. Come sta reagendo la Conferenza Episcopale USA?
Dalla conferenza episcopale USA non ci sono state reazioni agli eventi delle ultime due settimane, ma in America l’azione di papa Francesco era attesa in modo particolare. Si potrebbe dire che “l’effetto Francesco” ha iniziato a farsi sentire solo adesso, dopo un anno e mezzo in cui molti americani temevano e altri speravano che Francesco non avrebbe avuto un impatto in America.

Alla scoperta dell’ “Internet delle cose”. Intervista ad Antonino Caffo

Si è aperta giovedì a Roma, al Parco della Musica, la mostra “Maker Faire Rome 2014”, un evento dove i cosiddetti “artigiani digitali” mettono in mostra le più importanti innovazioni tecnologiche. Questo ci offre l’occasione di parlare dell’Internet delle cose (“Internet of Things”). Lo facciamo con Antonino Caffo, giornalista dell’edizione on-line del La Stampa (www.lastampa.it) e Panorama (www.panorama.it).

Antonino CaffoCaffo, incominciamo con il dare una definizione di “Internet delle cose”, che a molti sembra un concetto astruso invece è un termine concreto. Cosa s’ intende con questo?

L’internet delle cose è la definizione che si utilizza per descrivere quelli oggetti inanimati, tra cui i classici che abbiamo con noi da anni, che adesso possono diventare intelligenti e scambiare informazioni connettendosi alla rete.
Un esempio sono i gadget che supportano l’attività fisica, come i braccialetti, con cui registrare i propri allenamenti, lo stato di salute e i risultati raggiunti o i cosiddetti smartwatch, che donano nuova luce ad un accessorio semplice come l’orologio, che ora può arrivare a compiere azioni molto complesse, degne di uno telefonino.
Il panorama dell’Internet delle cose è però nato per funzioni diverse come il controllo di grandi flussi di persone (ad esempio le telecamere connesse ai siti della polizia nel caso di concerti, eventi di interesse pubblico, manifestazioni) o il monitoraggio di complessi industriali.
La declinazione verso oggetti più vicini al pubblico è stata la naturale conseguenza dello sviluppo di internet e del successo degli smartphone. In questo senso il livello di educazione “digitale” ha permesso che altri tipi di oggetti, notoriamente noiosi come lampade, persiane e orologi, acquistassero maggiore interesse verso il consumatore.

Secondo l’economista Jeremy Rifkin la post-rivoluzione dell’IoT (internet of Things) sarà il motore decisivo per lo sviluppo planetario. Non è un po’ esagerato Rifkin?

Si pensi che secondo vari studi di ricerca entro il 2020 gli oggetti connessi alla rete (quindi anche quelli considerati IoT) saranno tra i 50 e i 200 miliardi. Questo vuol dire che tutti avremo con noi almeno un dispositivo in grado di andare su internet, che si tratti di uno smartphone, un tablet o un’automobile. È evidente che anche il commercio troverà in questo modo sbocchi ulteriori. Aziende che normalmente oggi offrono i loro prodotti su internet potranno pensare di sviluppare un’app per l’orologio così da avvisare gli utenti quando si trovano vicino ad un loro negozio e approfittare di un particolare sconto, oppure l’automobile potrà connettersi (in parte lo fa già) a sistemi di infomobility e scoprire come fare per evitare il traffico. Con questa logica potranno aprirsi delle partnership di collaborazione importanti, magari con le stazioni di servizio, di carburante o motel. Insomma il campo di azione, almeno per lo sviluppo di idee, è davvero illimitato.
In questo modo non solo si potrà dare nuovo spazio all’economia ma anche creare nuovi posti di lavoro con figure competenti, che sappiano interpretare e usare i dati inviati da dispositivi intelligenti con un fine particolare. Ad esempio ci vorranno persona che sappiano filtrare i dati sullo stato di salute inviati dalle persone al medico, oppure analisti che dovranno studiare come le persone usano le Smart TV (anch’esse parte del mondo IoT) per andare su internet, e quali applicazioni future potranno avere maggiore successo su questo apparecchio. Al contrario di chi sostiene che l’Internet delle cose farà perdere il lavoro a molte persone, a mio parere credo che avverrà il contrario, con la richiesta di figure sempre più capaci di dare un significato concreto ai dati analitici raccolti con tali dispositivi.

Una ricerca del Politecnico di Milano ha individuato ben sette macro-aree di applicazione dell’ “Internet of Things”: dalle smart-city alla sanità. Quali sono attualmente, in Italia, le maggiori applicazioni in questa logica?

Sicuramente siamo molto attivi nel campo delle Smart City. Le grandi città, come Roma e Milano, utilizzano varie apparecchiature che rientrano nella prima categoria individuata dall’Osservatorio Internet of Things del Politecnico. Semafori connessi a videocamere, rilevatori di fumo gestiti da remoto e quelle che vengono chiamate “smart grid” (gestione intelligente degli apparati elettrici e idraulici) sono una realtà. La sfida è poter trasferire questi dispositivi almeno in tutti i capoluoghi di provincia. Si tratta di tecnologie scalabili, ovvero che si possono adattare ad ogni situazione, con evidenti vantaggi e risparmi economici (ad esempio si potrà conoscere ciclo di vita di un tubo prima che si rompa concretamente e debba essere sostituito).
I cittadini forse non si accorgono molto di questi cambiamenti. Sotto questo punto di vista, l’IoT che sfonderà sarà di certo quello della categoria degli indossabili.

Una frontiera interessante sono gli “indossabili”. Ci spiega il significato?

Non bisogna confondere l’Internet delle cose con le tecnologie indossabili o wearable, concetto molto di moda ultimamente che è solo una delle declinazioni di IoT. Per indossabili ci si riferisce infatti a dispositivi capaci di comunicare con la rete, piccoli e da poter propriamente “indossare”. Che si tratti di occhialini, bracciali, orologi o fotocamere, siamo dinanzi ad accessori che hanno quasi perso la loro caratteristica principale per assumere forme e utilizzi diversi, grazie all’accesso alla rete. Possiamo considerare gli indossabili come una categoria dell’Internet delle cose. Di certo è quella più vicina alle persone per via dei costi più accessibili (ci sono braccialetti anche a meno di 100 euro) e della possibilità di essere portati sempre con sé (non mi sognerei mai di viaggiare con un rilevatore di fumo intelligente, mentre con uno smartwatch si, e avrebbe anche più senso).

Ultima domanda. Quali sono gli scenari problematici per questa frontiera?

Tante possibilità ma anche dubbi e problematiche riguardano la gestione dei cosiddetti Big Data, ovvero la raccolta di più informazioni su un individuo. Se fino a poco tempo fa tutto si limitava a ciò che contenevano smartphone e tablet, ora le informazioni sensibili sono un po’ ovunque e l’Internet delle cose farà elevare all’ennesima potenza il traffico di dati privati sulla rete.
Il problema è che ogni cosa che viaggia su internet è, almeno ipoteticamente, violabile dai criminali informatici. Più oggetti personali si connettono al web, più sarà ampio lo spettro a disposizione di queste figure per rubare i nostri segreti, o semplicemente informazioni personali che ci appartengono.
Non è un contesto da sottovalutare. Se un criminale dovesse entrare in possesso dei dati scambiati dal mio braccialetto per il fitness, che registra l’ora in cui sono uscito di casa, i chilometri trascorsi e il rientro, il ladro potrebbe verificare se esco di casa sempre alla stessa ora e in quali giorni. Entrare indisturbato per tentare un furto non sarebbe così un gran problema.
C’è un evidente problema sicurezza che va affrontato. Molto spetta alle aziende produttrici che devono assicurare la massima efficienza degli oggetti e dei canali di comunicazione (la necessaria crittografia dei file durante lo scambio, ovvero l’illeggibilità degli stessi ad occhi indiscreti) oltre all’affidabilità delle piattaforme che conservano i dati sensibili. Tre elementi fondamentali (hardware, software e cloud) che, assieme ad una corretta educazione delle persone, potranno decretare il successo o il fiasco dell’Internet delle cose.

La Bad Godesberg di Renzi. Intervista a Giorgio Tonini

Sulla Riforma del lavoro il PD sta compiendo la sua Bad Godesberg?

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Ne parliamo con Giorgio Tonini, vicepresidente del PD al Senato e membro della Segreteria nazionale del partito.

Tonini, qualche osservatore ha invocato per la riforma del lavoro a Renzi il coraggio di fare una “Badgodesber”, ovvero di rompere il tabù dell’articolo 18. La rottura nel PD ,avvenuta  nella tarda serata di lunedì, durante la direzione può essere considerata una piccola Badgodesberg per il PD ?

In un certo senso si. Renzi ha proposto alla direzione del Pd un cambiamento profondo di cultura politica sulla questione delicata e decisiva delle tutele del lavoro; e la direzione ha risposto con un si largamente maggioritario. Un partito riformista di centrosinistra, qual è il Pd, non sarebbe tale se non si battesse per i diritti dei lavoratori: il diritto al lavoro, innanzi tutto; e poi il diritto nel lavoro. Il problema è che le forme concrete che questi diritti universali devono assumere non possono essere oggi le stesse di quasi mezzo secolo fa. Allora, negli anni sessanta, in un contesto di crescita economica impetuosa e di quasi piena occupazione, il modello produttivo che appariva vincente era la grande fabbrica fordista, nella quale si entrava da ragazzi e si usciva da pensionati. In quel contesto, i diritti dei lavoratori si identificavano con la loro tutela sul posto di lavoro. Oggi quel mondo non esiste quasi più e comunque non è il mondo del futuro, quello nel quale abiteranno i giovani, i nostri figli. Il loro mondo è caratterizzato da una lunga durata della vita lavorativa e da un inevitabile alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di ricerca o comunque di cambiamento di lavoro. Dunque, alla centralità della tutela sul posto di lavoro deve sostituirsi quella della tutela nel mercato del lavoro: offrendo più opportunità di essere assunti e in maniera stabile, un sostegno al reddito nei periodi di perdita del lavoro, strumenti di accompagnamento e ricollocazione in un nuovo lavoro, e in tutte queste fasi formazione, formazione, formazione. Il Jobs Act Renzi-Poletti si muove decisamente in questa direzione, la direzione di un nuovo patto virtuoso tra impresa e lavoro.

Veniamo al famoso editoriale del Corriere della Sera, firmato dal Direttore De Bortoli, in cui si criticava Renzi per la sua inconcludenza. Ma c’è un passaggio ,in quel pezzo,  che ha colpito l’opinione pubblica: ovvero che il patto del nazareno ‘odora di massoneria “. Cos’è una battuta o vede altri scenari?

Mi ha molto colpito quel passaggio. Renzi ha risposto al direttore del Corriere, protestando di essere un boy scout e non un massone. Questo è quello che vedono e sanno tutti gli italiani. Se De Bortoli sa qualcosa di diverso, lo dica: è il suo dovere di giornalista. In nessun paese anglosassone sarebbe tollerabile che il direttore di un grande giornale facesse intendere ai suoi lettori di sapere qualcosa di compromettente a riguardo del capo del governo e di non volerlo dire loro con chiarezza e trasparenza.

La scorsa settimana Renzi non ha fatto altro che prendersela con i “poteri forti “. Francamente la cosa è ridicola, visto le frequentazioni renziane (marchionne e Altri). Che idea si è fatto di questo scontro?

Credo che si tratti in gran parte di un dibattito mediatico, con pochi riscontri nella realtà. Del resto, lo stesso Renzi ci ha riso su, dicendo che in Italia più che poteri forti ci sono pensieri deboli. Nei giorni scorsi, alcuni imprenditori, come Della Valle, hanno aspramente criticato Renzi. Altri, come Marchionne, lo hanno coperto di elogi. Per fortuna siamo un paese libero e nei paesi liberi le cose vanno così: il governo, qualunque governo, ha una parte del paese che lo sostiene e una che lo avversa. Al momento, il gradimento del premier, del suo governo e del suo partito sono molto alti. Vuol dire che sono molto alte le aspettative del paese su questa in gran parte nuova classe dirigente. Renzi sa molto bene e lo ripete continuamente che ha sulle spalle la responsabilità di non mandare deluse tutte queste aspettative.

Renzi ha aperto, su alcuni temi, al Sindacato. Resta però il un fastidio del Premier verso il Movimento sindacale. Insomma, francamente, non trova semplicistico (per non dire altro) tutto questo?

Anche in questo Renzi è un uomo della sua generazione, nata quando il sindacato aveva da tempo oltrepassato lo zenit del suo consenso e della sua influenza nel paese. La verità è che in questi anni il sindacato non ha saputo rinnovarsi, se non molto, troppo lentamente e parzialmente, e chi non si rinnova declina. Basti pensare a quelle tre sigle: Cgil, Cisl e Uil, sigle gloriose, ma figlie delle divisioni della guerra fredda, cioè di un mondo che semplicemente non esiste più. Perché debbano esserci ancora oggi tre grandi centrali confederali e non una sola, grande organizzazione, unitaria, autonoma e riformista, come ad esempio il Dgb tedesco, è una domanda alla quale è impossibile dare una risposta. Negli anni settanta il sindacato guidava il cambiamento, anche col suo percorso unitario, mentre oggi fatica a inseguirlo. Al punto che la politica è più avanti: con il Pd si è realizzata l’unità politica dei riformisti, sognata per decenni, mentre dell’unità sindacale si sono perse le tracce.

C’è un altro punto che colpisce: ovvero una certa inclinazione di Renzi verso la cultura imprenditoriale più che al primato del lavoratori. E’ così?

No, non è così. Renzi ha denunciato, in modo anche aspro e urticante, la crisi di rappresentatività e dunque di legittimazione, prima dei partiti politici e poi anche delle organizzazioni sociali ed economiche, dei sindacati come delle organizzazioni imprenditoriali. Poi, certamente, Renzi non crede alla cultura del conflitto di classe, tradizionalmente egemone nella cultura marxista in generale e comunista in particolare, ma si riconosce piuttosto in una versione moderna di quel filone cristiano-sociale, ma anche liberal-socialista, che valorizza un approccio cooperativo e partecipativo delle relazioni industriali: un filone per il quale l’imprenditore non è il nemico di classe, ma una risorsa imprescindibile per la crescita e lo sviluppo. Nel corso della direzione di lunedì scorso, Renato Soru ha tenuto un appassionato e assai applaudito intervento in questo senso, ricordando il discorso di Veltroni al Lingotto, che aveva aperto una fase nuova su questo punto decisivo. Queste nuove relazioni sindacali hanno bisogno di regole nuove della rappresentanza e della contrattazione, compresa una norma di legge sul salario minimo. Su questo, lunedì in direzione Renzi ha detto cose nuove e assi interessanti, quando ha annunciato che riaprirà la sala verde di Palazzo Chigi, ma non per riprendere lo stanco rituale della vecchia concertazione, bensì per concordare nuove regole che consentano di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, l’unico nel quale si può apprezzare, incentivare e distribuire la produttività. Anche per questa via si rilanciano la crescita e l’occupazione.

Come sarà, secondo lei, il cammino del Job act?

Tutto è difficile e faticoso, in questo parlamento, segnato dal vizio d’origine della mancanza, almeno al Senato, di una chiara maggioranza uscita dalle urne. Ma entro l’anno il Jobs Act sarà legge. E ci saranno, nella legge di stabilità, risorse aggiuntive per i nuovi ammortizzatori sociali.

Cosa succederà alla minoranza del PD ?

Non credo si possa parlare di minoranza al singolare. C’è piuttosto un arcipelago di minoranze, alcune delle quali assai vicine alla linea politica del segretario, altre più inclini  alla nostalgia per la vecchia “ditta rossa”, altre ancora molto affini, per contenuti e linguaggi, al piccolo mondo della sinistra critica. Tutte queste componenti devono avere ed hanno piena cittadinanza in un grande partito democratico a vocazione maggioritaria. Alla sola condizione che il pluralismo interno al partito sappia poi trasformarsi in unità nel voto in parlamento. Fu l’incapacità o l’impossibilità di fare questo passaggio che impedì, prima all’Ulivo e poi all’Unione, di dar vita a governi stabili e credibili. Ma chi fece cadere i governi Prodi, sia a sinistra che al centro, non è stato premiato dagli elettori.

Dopo questi mesi di governo, come definirebbe il “renzismo”?

Lo definirei come la consapevolezza della necessità ineludibile, per l’Italia e per l’Europa, di riforme profonde e coraggiose. A cominciare dal cambiamento radicale della politica: delle istituzioni, dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, e soprattutto della cultura politica. E come il tentativo di fare le riforme con il popolo e non senza o magari contro il popolo.