Mai come in questi ultimi tempi assistiamo, impauriti e colpevoli, sul nostro pianeta a fenomeni estremi naturali, provocati dai mutamenti climatici, con conseguenze devastanti per l’uomo e il suo ambiente. Chi ha portato l’uomo all’abuso della Terra e dunque alla sua usura? Quale è la base filosofica, culturale, su cui si basa la cultura del “dominare” la Terra (inteso qui come “dominio” assoluto, e quindi irresponsabile)?
Un’analisi interessante la svolge il filosofo, psicanalista, Umberto Galimberti in questo libretto, molto denso (in 50 pagine viene ripercorsa tutta la “storia della filosofia della natura” occidentale),
dal titolo emblematico L’Usura della terra (Ed. AlboVersorio, Milano 2014, € 6,90).
Quello di Galimberti, filosofo milanese e tra i migliori allievi di Emanuele Severino, è un percorso speculativo centrato sulla riflessione sull’uomo “che in un mondo dominato dalla tecnica si sente un “mezzo” nell'”universo dei mezzi”, senza poter trovare un senso al suo esistere” (Cf. // www.treccani.it/enciclopedia/umberto-galimberti /).
Così collocata la sua “antropologia filosofica” si coglie con maggior precisione il senso della critica all’antropocentrismo occidentale sviluppato dall’autore in questo piccolo volume.
Per Garimberti il rapporto uomo-natura è stato regolato in Occidente da due visioni del mondo: quella greca e quella giudaico-cristiana che, per quanto differenti tra loro, convenivano nell’escludere che la natura rientrasse nella sfera di pertinenza dell’etica, il cui ambito era limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura. I Greci concepivano la natura come quell’ordine immutabile che nessuna azione umana poteva violare perché, come dice un frammento di Eraclito: “Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure”. Avendo in sé la sua norma vincolata dal sigillo della necessità (anánke), la natura era quell’orizzonte inoltrepassabile, quel limite insuperabile a cui l’azione umana doveva piegarsi come alla suprema legge. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che: “La tecnica è di gran lunga più debole della necessità” (Eschilo). Quindi per i greci, nel loro “fatalismo”, l’uomo non può dominare la natura ma solo svelarla. Da qui “nasce la concezione greca della verità come svelamento (a-létheia ) della natura (phisis) , dalla cui contemplazione nascono le conoscenze che regolano l’agire e il fare umano” (L’Usura della terra, pag. 13).
Nella tradizione giudaico-cristiana siamo in presenza di un salto di prospettiva. Infatti si concepisce la natura come creatura di Dio, quindi come effetto di una volontà, della volontà di Dio che l’ha creata e dell’uomo a cui è stata consegnata. Leggiamo infatti nel Genesi: “Poi Iddio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie”. In questo modo la natura non è più espressione di un ordine immutabile, ma semplice materia da dominare al servizio dell’uomo. Su questo percorso incontriamo la nascita della scienza moderna che, come vuole il programma, nel “Novum Organum”, di Bacone: “Scientia est potentia“, conosce per dominare, e nel dominio della natura scorge l’impronta di Dio e le condizioni del riscatto umano. Scrive infatti Bacone: “In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze”.
Il dominio, dunque, caratterizza quasi tutta la riflessione sulla natura della filosofia moderna. Altro esempio in questo è la riflessione di Immanuel Kant, nella sua ottica la natura è a-morale , o pre- morale, il rispetto assoluto lo si deve solo all’uomo.
Nella riflessione contemporanea Hans Jonas (con il suo “Principio responsabilità) che riconosce la dignità “teleologica” della natura . Ma per Galimberti anche quella di Jonas rientra nell’antropocentrismo con le sue aporie.
La riflessione di Galimberti vuole colpire l’antropocentrismo di stampo teologico in quanto, secondo lui, non consente più all’uomo di conoscere i suoi limiti. E questo produce conseguenze dannose sulla Terra, provocandone così l’usura (per dirla con Heidegger) con tutto quello che ne consegue.
“L’antropocentrismo, da cui la tecnica è nata e in cui si è sviluppata, non è più il luogo in cui si possono decidere i destini dell’uomo, perché da questo luogo la tecnica già da tempo s’è congedata e, con questo congedo, anche l’uomo è diventato materiale della tecnica”.
Ora nella sua posizione Galimberti prende di mira, semplificando in maniera estrema, ed è questo il suo limite, una certa “teologia della natura”. Il suo sguardo quindi è volutamente polemico. La visione dell’uomo come Padrone della natura nella riflessione cristiana contemporanea è superata da quella della custodia del creato, e questo fa assumere all’uomo un altro tipo di etica teologica ed ecologica.
Ma l’obiettivo polemico di Galimberti è l’atteggiamento di noi uomini occidentali nei confronti della terra vista solo come materia prima da sfruttare senza limite, e di conseguenza attraverso la tecnica “denaturalizziamo” la natura. E la tecnica anche quando soccorre la natura, anche quando la “ipernaturalizza”, in realtà la “denaturalizza”, perché crea un paesaggio così poco ospitale e così poco comunicativo, che persino una grande fabbrica offre un volto più umano. Ma la tecnica per Galimberti è anche quell’orizzonte totale cui al suo “interno religione, etica e politica, e più in generale, uomo e natura sono costretti a trovare i loro punti di mediazione” per la loro reciproca salvaguardia o “salvezza”.
Il punto è proprio questo!
Allora le domande che sorgono da tutto questo sono radicali: come diventare custodi responsabili della natura (o del creato)? La tecnica, anche quella più sofisticata, è sufficiente per questo scopo?
Domande radicali che esigono risposte radicali: dall’etica politica a quella economica. In una parola: non è venuto, finalmente, il tempo di un nuovo umanesimo del “custodire” che superi l’arrogante “cultura” della “voracità”?