L’Italia è matta? Intervista a Vittorino Andreoli

Vittorino Andreoli, tra i più noti psichiatri italiani, in questo suo ultimo libro, Ma Siamo Matti (Ed. Rizzoli) , cerca di analizzare, in quanto psichiatra, lo stato “mentale” degli italiani. Impresa assai complicata. Insomma porta nel “lettino” dell’analista gli italiani. Di quale malattia soffrono gli italiani? Quali sono le radici del malessere italiano? In questa intervista il professore ci offre un quadro, intercalando rigore scientifico e bonaria ironia, del nostro stato di salute profondo.

 Professore incominciamo ad analizzare, sinteticamente, i “sintomi” del nostro “mal d’essere” . Il primo sintomo è il “masochismo mascherato”, ovvero lei vede gli italiani come dei masochisti mascherati da esibizionisti. In che senso siamo dei masochisti “mascherati”?

Vittorino AndreoliDevo fare una premessa: io come psichiatra sono abituato ad occuparmi di una singola persona e ogni uomo rappresenta per me un mondo, un mondo intero, questo è il mio mestiere. È chiaro che vedere il mio nome su un libro che visita un popolo fa un certo scalpore. Sempre più spesso, in questi ultimi periodi, mi sono trovato di fronte a casi di patologia, da me come sa vengono casi gravi. Casi in cui sempre di più viene riferito all’origine del proprio disturbo, non qualcosa di interno, ma di esterno; è come se sui singoli casi ci si riflettesse una situazione esterna, familiare o sociale ecc. Allora io ho studiato, in quella lunga appendice, la mente del popolo italiano e mi sono convinto di questo: che in certe situazioni storiche tutti noi italiani, perché io sono dentro, questa volta parlo anche di me, in certe situazioni di crisi, che non è solo una crisi economica, ma una crisi dove i sentimenti crollano ecc, c’è un comportamento o dei comportamenti dominanti in tutto il popolo, la questione sarà più o meno intensa, ma c’è in tutti.

Detto questo – era una premessa –, per definire se un popolo è malato o no bisogna vedere se ci sono i sintomi. Primo sintomo: noi soffriamo di masochismo, il masochista, che è stato descritto in quel libro di Masoch “La venere con la pelliccia”, è uno che gode venendo maltrattato o facendosi del male. Noi siamo un popolo che in questo periodo ama farsi del male. Questo lo si vede, per esempio, dal fatto che stiamo distruggendo il nostro patrimonio culturale, che quando uno applica la legge muore Sansone e tutti i filistei. C’è quella che chiamo la distruttività, che è distinta dalla violenza. La violenza è un atteggiamento aggressivo per raggiungere l’obiettivo; la distruttività è una piccola apocalisse. Si ammazza la moglie e poi ci si ammazza. Una delle espressioni di questo masochismo è proprio quello della distruttività. C’è anche un ritorno della “danza macabra”, morire non ha poi tanto senso, uccidere è banale, si invita la morte a ballare. È un po’ questo atteggiamento che porta a distruggere. Il 47% sono giovani che non hanno nulla da fare, i vecchi vanno buttati via, abbiamo raggiunto la longevità e ora ci siamo accorti che costa troppo e quindi interrompiamo le terapie, buttiamo via gli anziani. C’è anche un masochismo politico che distrugge la democrazia.

Questo masochismo io lo chiamo con maschera perché è esibito, si vuole che si veda. Pensi che una volta vendevano gli oggetti falsi come veri. Adesso è successo che vendono l’originale e poi al posto dell’originale mettono la copia, il falso. C’è proprio un senso di distruzione della storia che credo sia evidente, si continua a rubare. Rubano anche quelli che sono entrati in politica su chiamata del Padre Eterno. Il masochista individuale è uno, in Masock lui fa un contratto con la moglie affinché questa verghi più volte al giorno, ma fa parte della vita individuale e privata. Qui è un esibizionista perché si mostra. Lei vada ad una riunione di condominio, si sente gente che dice: “se viene giù una goccia d’acqua io le spacco la testa, io la denuncio”. Esisto perché spacco, esisto perché spavento. È il masochismo come atteggiamento di tutti un po’. Questo non è pessimismo, lei sa che sono un pessimista attivo.

L’altro sintomo, molto grave, è che c’è un individualismo spietato. Ovvero un popolo senza un “noi”, ma solo con un grande “io”. Come si manifesta questa spietatezza ?

Il secondo sintomo è l’individualismo spietato: c’è l’io in famiglia, c’è l’io dappertutto. Siamo dei narcisi spaventosi, tutto io, faccio io. Se il narcisismo è maschile, la seduzione è femminile. E tutte si mostrano, mostrano tutto, ha visto Madonna? Se ai miei tempi una ragazza faceva un gesto cosi – tirandosi su le vesti e mostrando il didietro – la portavano dallo psichiatra. Pur di essere “io” faccio qualsiasi cosa, è un narcisismo fondato sull’io e sul mio. Quello che è del “noi” non importa, lo roviniamo. Questo, in un momento in cui si dovrebbe costruire qualcosa insieme, ognuno suona il proprio strumento, come se lei ascoltasse un’orchestra dove ognuno suona per conto suo. È un delirio dell’io. È una grave malattia, perché non siamo più capaci di relazioni, c’è il consumo dei sentimenti, uno si sposa e dopo cinque giorni si stufa e va via. I figli non contano più nulla. Uno parla e non ha pensato cosa dire, si ascolta, scopre anche di dire qualcosa che ritiene meraviglioso, siamo un popolo che non sa e continua a parlare. L’importante è dire, non fare. Inoltre, questo paese è facilissimo a risolvere le cose, tutti sanno come risolvere la crisi, però non fanno niente. È tutto un grande teatro.

Poi c’è il sintomo della “recita”, ovvero un popolo di “maschere” che nascondono il loro volto. Ricordiamo che Il termine persona deriva dal greco “prosopon”, la “maschera” dell’attore. Insomma la dialettica “persona” – “maschera” è assai antica e complessa. Comunque noi italiani cosa nascondiamo?

In fondo, siamo un popolo di poveri cani. Ognuno racconta di sé cose che non esistono, ognuno si “inventa”, è come l’attore nella Grecia antica. Persona deriva dal greco che significa maschera, ma nel senso greco la maschera significa diventare un altro: è una trasformazione rituale di valore, mentre quello che avviene adesso è diventare tutto, ci si racconta in positivo e in negativo, basta raccontare menzogne. La menzogna domina. Basta pensare ad un fatto di questi giorni: ci sono le registrazioni che dicono che uno ha telefonato per far assumere il proprio figlio in un appalto, che questo padre ha dato a quello che sarebbe diventato il datore di lavoro. Lei sente questo e c’è quell’altro che dice: “io non ho mani fatto nulla!”, la menzogna che diventa lapalissiana. Poi abbiamo avuto nel passato uomini, che lei sa, hanno mentito. Qualche anno fa le avrei detto che questa è una caratteristica di alcuni, in questo momento le dico che questa caratteristica è di tutti noi. La corruzione: siamo un po’ tutti corrotti, racconto un piccolo fatto. Una volta vado a cena con la famiglia di un amico e mi racconta la moglie che ha chiamato l’idraulico. Lei chiede quant’è, e l’idraulico le dice: “io l’IVA non gliela faccio e se lei vuole l’Iva non vengo più”, lei alla fine ha pagato in nero. Tutti noi abbiamo la piccola furberia, è un momento in cui non ci importa più della corruzione, tanto un pochino lo siamo tutti e tutti neghiamo, siamo persone tutte onestissime nelle nostre parole. È una recita menzognera.

L’ultimo sintomo è che siamo un popolo di creduloni, che aspettano il “miracolo” che risolverà i nostri problemi. E, quindi, siamo un popolo che s’affida all’uomo della Provvidenza, qualunque sia il suo nome. E’ Così?

Si crede che tutto si risolverà siccome siamo arrivati al fondo. Ma il fondo del barile si può anche raschiare! E poi siamo un popolo che ha la fortuna, il destino, l’oroscopo, i maghi, i gratta e vinci. Poi siamo pieni di patroni, si nomina sempre San Gennaro, ma a Verona c’è San Zeno, siamo pieni di questi patroni che ci fanno andare bene le cose. Non c’è posto di lavoro, però bisogna avere la raccomandazione, per cui ormai siamo all’assurdo che c’è la raccomandazione ma non c’è il posto di lavoro. Siamo arrivati all’assurda.

La sua diagnosi è spietata: siamo un popolo che è affetto da “amenza”. Una malattia grave. Può spiegarcela?

Questo termine è stato introdotto da Theodor Meynert e poi ripreso nella psichiatria italiana da Tanzi. L’amenza va distinta dalla demenza, che è una forma di degenerazione o delle fibre del cervello o delle cellule. L’amenza è il non uso della mente: l’amente è quello che non usa il cervello, ma se lo usasse funzionerebbe. Il cervello è una grande macchina, ma se lei non la usa; quindi l’amenza è una patologia che sovente si risolve completamente e quindi che si passa da un comportamento malato ad uno positivo ed equilibrato perché è come se quella macchina venisse messa in funzione. Il libro non è tragico, devono tutti mettere in azione questa macchina. Bisogna rendersi conto di essere malati.

Lei resta, però, nonostante tutto “ottimista” sugli italiani. Perché? Su quali basi lei vede una possibile “resurrezione” degli italiani ?

Io ho potuto mettere su un lettino un popolo, però alla fine dichiaro che uno psichiatra non può guarire un popolo, anche perché dovrebbe guarire se stesso come parte di questo popolo. Ci vuole un risveglio di questo popolo e in questa consapevolezza bisogna fare affidamento, nel mettersi insieme, sul noi, nel frenare questo masochismo. La terapia è la presa di coscienza di tutti, non si può aspettare che arrivi uno. Sta finendo una civiltà, i nostri figli cosa faranno? Siamo un popolo malato e ognuno deve contribuire ad uscire dal proprio individualismo. Questo bisogno di far sopravvivere le generazioni, che tutto questo possa risvegliare. In quel decalogo ho indicato alcuni punti necessari per far ripartire. Il primo punto è togliere al denaro il potere che gli abbiamo dato, come misura di tutte le cose, il denaro ha assunto una dimensione enorme; un secondo aspetto l’Europa, se crediamo nell’Europa non può essere quella del più forte, bisogna che ci sia l’Europa dell’insieme, della comprensione, del sostegno comune, altrimenti diventiamo tutti alle dipendenze di una certa Merker. Poi bisogna fare in modo che si eviti la povertà che è considerata una colpa, c’è gente che si suicida quando non riesce a lavorare, in Veneto è stata una strage di questi suicidi. Bisogna diminuire il concetto di voler essere il paese industriale. Rientriamo dentro una concezione che è legata al nostro popolo, che è la storia, la creatività, non dobbiamo essere la grande potenza che decide di fare le guerre agli altri. Appena abbiamo un amico che è portiere al ministero delle poste, andiamo a chiedere la raccomandazione. Questi atteggiamenti nuovi, sono la benzina per far ripartire il cervello .

Un’Europa da ricostruire. un testo di Giacomo Vaciago

Giacomo VaciagoGrazie agli sforzi di tante persone di buona volontà (non solo Mario Draghi, ma anche tanti altri del Governo nostro e degli altri Paesi dell’Eurozona), sta lentamente cambiando l’atteggiamento di Bruxelles nei confronti della crisi che – iniziata nel 2009 – è ancora tra noi. E’ una crisi non solo di debito, ma anche economica e sociale. E’ soprattutto una crisi di fiducia: tra cittadini; di cittadini nei confronti dei loro Governi; e (ancor peggio) è sfiducia reciproca tra Paesi che hanno già da molti anni una comune sovranità monetaria. Non sarà facile uscirne, anche perché una diagnosi condivisa della crisi stenta a emergere.
    Mi limito ad alcune osservazioni sulle cause e sulle conseguenze della crisi; per poi concentrarmi sui rimedi già decisi e in corso di realizzazione.
 
Una crisi imprevista, ma prevedibile
    Come Jacques Delors – un cattolico socialista che è stato Presidente della Commissione UE negli anni in cui l’Euro fu deciso – non si stanca di ripetere, la forza dell’Unione economica e monetaria dipende dal mercato che seleziona, ma anche dalla solidarietà che accomuna, e dalla cooperazione cha rafforza. E’ questa triplice dimensione che consente al progetto Euro di riuscire a produrre sia integrazione economica (ciascun Paese si specializza nelle sue virtù) sia integrazione politica. Senza accontentarsi di ciò che dall’altro lato dell’Atlantico chiamano “Stati Uniti”: il progetto della nostra Unione è molto più ambizioso, e tiene conto di un passato che per più di 2000 anni ha già visto noi europei capaci di lavorare assieme, e di imparare ciascuno dall’altrui meglio.
    Una crisi di fiducia di cui tanti cercano altrove un qualche “capro espiatorio”, che eviti di dover dire la verità: iniziata l’unione economica e monetaria, il 1° gennaio  1999, ci siamo dimenticati che quello era solo l’inizio di un progetto politico – senza precedenti nella storia dell’umanità – molto ambizioso, che richiedeva lungimiranza e dedizione al bene comune. Una lunga “luna di miele”, durata 10 anni, è terminata in un disastro. Non solo perché adesso siamo pieni di debiti (privati e/o pubblici) inutili – e quindi, per definizione, eccessivi – ma perché abbiamo: meno capacità di crescita; meno reddito; e meno occupazione di 10 anni fa. Si sono aggravati i passati divari e si dubita che si possa presto recuperare il benessere che già avevamo conseguito in passato.
 
Le novità del 2015
    Merita considerare una serie di fattori positivi, che certo non bastano a ridurre subito la sofferenza dei tanti che hanno perso lavoro e/o reddito, ma che possono già nei prossimi mesi ridare un po’ di speranza. Tre in particolare vanno sottolineati.
1) Il progetto della Commissione Juncker
    E’ un progetto di investimenti pubblici (cofinanziati con fondi privati) esclusi dai limiti del “Patto di stabilità”, in grado di rilanciare infrastrutture anche di interesse comune. L’idea e il metodo proposti sono buoni, le dimensioni sono finora modeste. Ma se il progetto decollasse presto, non sarebbe poi difficile aumentarne le dimensioni, e far evolvere lo strumento in un modo intelligente per gestire – a livello comune, anche politiche di stabilizzazione, di cui l’Unione è per ora priva. Non saranno subito gli eurobonds di cui si parla da anni, né avremo presto un ufficio di grado non solo di predicare austerità, ma anche di praticare (quando serve) il suo contrario.
A volte, un “nuovo inizio” può anche essere di dimensioni modeste, se poi la cosa si dimostra utile ed entra nelle consuetudini della “macchina di Bruxelles”.
2) La “monetizzazione” del debito
    Si preferisce copiare l’America e parlare di Quantitative Easing (QE) con riferimento ai 1000 e più miliardi di euro di titoli (privati e pubblici) che nel giro di un anno e mezzo la BCE (in proprio, e tramite le Banche centrali nazionali) ha deciso di immettere nel sistema monetario e finanziario europeo. Che fine faranno tutti questi soldi? Una parte si investirà nel resto del mondo e questa uscita di fondi farà scendere il cambio dell’Euro: un cambio più favorevole sosterrà le esportazioni (e la profittabilità) delle nostre imprese migliori, e quindi produzione e occupazione anche in Italia. Un’altra parte di quella nuova liquidità si investirà in titoli (privati e pubblici) italiani: arricchendo i loro possessori e tenendo bassi i tassi pagati sul nuovo debito. Una terza parte infine alimenterà nuovo credito alle nostre imprese, riducendo il passato razionamento e favorendo così nuovi investimenti. Anche qui con un effetto positivo su reddito e occupazione. 60 miliardi di euro di nuova liquidità creata ogni mese dalla BCE e poi lasciata nel sistema finanziario per qualche anno (fino a quando i titoli comprati non scadono e non vengono più rinnovati) fa la differenza rispetto alla situazione prevalsa negli ultimi anni, quando il bilancio della BCE si era man mano ridotto perché le banche rimborsavano la liquidità prima ottenuta da Francoforte, senza chiederne di nuova.
3) Le tante riforme del Governo Renzi
    Un primo anno di vita del Governo è terminato, e si incominciano a tracciare più o meno esaurienti bilanci dei risultati ottenuti. Alcune osservazioni sono abbastanza condivisibili. La quantità di riforme avviate, più o meno prossime all’arrivo sulla Gazzetta Ufficiale, è semplicemente enorme. Ogni aspetto significativo del chi-decide-come e del chi-fa-cosa è in corso di revisione. L’elenco è noto: si va dal ridimensionamento (politico) del Senato e delle Province, alla riforma del Titolo V della Costituzione, alla nuova legge elettorale volta a garantire – più che in passato – la governabilità. Ma si riformano, anche in modo radicale, le regole di funzionamento del mercato del lavoro, la giustizia, il fisco, la scuola, la pubblica amministrazione, le banche, e così via. Disegni di legge, o se appena possibile decreti legge oppure leggi delega con successivi decreti attuativi: ogni strumento disponibile è utilizzato per accelerare i tempi di approvazione dei provvedimenti elaborati e/o proposti dal Governo.
    L’anomalia – da più punti di vista – di questa situazione è evidente: anzitutto, il programma del Governo non è fondato sui programmi elettorali dei partiti che si sono presentati alle elezioni politiche del febbraio 2013. Ne risulta un Parlamento spesso forzato ad approvare leggi che non aveva affatto ritenuto prioritarie o in cui non sempre si riconosce. E’ peraltro anche vero l’argomento spesso usato dal Governo che è da tempo elevato il consenso, nell’opinione pubblica prima ancora che nella classe politica, che quelle riforme fossero in qualche modo indispensabili, se non altro perché se ne discute da molti (troppi!!) anni.
 
Manca ancora l’Europa
    Le riforme che “modernizzano” l’Italia, la rendono più europea?
Qui il giudizio è meno condiviso. Per alcuni aspetti, la conclusione è di certo positiva. Dal ridimensionamento del Senato (per il quale è stato citato, come modello di riferimento, il Bundesrat tedesco) alla riforma del mercato del lavoro (anche qui, si sono citate molte analogie con regole e istituti prevalenti in altri paesi dell’Europa). Per altre cose pure importanti (dalla scuola al disegno di legge sulla concorrenza) non sembra invece che la logica adottata sia stata quella di ispirarsi a standard comuni con il resto d’Europa, o di guardare alle altrui “migliori esperienze”.
In altre parole, la crisi dell’Euro che ci ha rivelato quanta “poca Europa” abbia fatto seguito all’ambiziosa condivisione della stessa moneta, rimane ancora un problema, anzitutto politico, irrisolto.
    Bisognerebbe riuscire a progredire da almeno due punti di vista: 
1) anzitutto, cercare di dire la verità. Cosa non facile e che spesso non ispira i nostri dibattiti, dove c’è ancora tanta ipocrisia. Mi limito ad un esempio eclatante. La Grecia, oggi in crisi grave, entra nell’Unione europea nel 1981 e vent’anni dopo (nel 2001) entra nell’euro. Non c’è traccia di alcun beneficio che l’economia greca abbia ricevuto dal partecipare all’integrazione europea (vedi Baldwin-Wyplosz, The economics of European Integration, 2009). Perché ha insistito – falsificando i bilanci pubblici – per entrare nell’unione monetaria, se già “non era mai entrata” nell’unione economica?  Una buona economia di mercato –  che quindi gode dei benefici della maggior integrazione prodotta dalla moneta comune – deve essere anzitutto caratterizzata dal rispetto del principio di legalità (law and order); da una ridotta evasione fiscale, da poca corruzione (come tale combattuta); da una amministrazione pubblica efficiente. Insomma, se non hai una buona economia di mercato, solo imbrogliando il prossimo potrai avere benefici dall’avere una moneta in comune con altri Paesi che invece le leggi le rispettano, le tasse le pagano e i corrotti li mettono in galera. E’ quanto più volte, negli anni scorsi, il Fondo Monetario Internazionale ha ricordato ad Atene: stupisce che oggi gli uomini (e le donne) del FMI non siano più graditi in Grecia? Se uno studia con cura le analisi sulla Grecia, scaricabili dal sito EU di Bruxelles, deve onestamente porsi la domanda: non sarebbe meglio per tutti (a cominciare dai greci) se Atene riconoscesse l’errore fatto, e uscisse dall’unione economica e monetaria?
2) il secondo aspetto riguarda la strategia con cui ogni Paese membro sta facendo le “sue” riforme. Poiché queste sarebbero le riforme necessarie per avere i benefici, e non solo i costi, dell’UEM, non sarebbe preferibile una strategia unitaria in base alla quale si converge verso il meglio in ciascun campo?
    Nello scorso mese di febbraio, Italia e Francia hanno ambedue approvato una legge (in realtà, quella francese è già legge; mentre la nostra è solo un disegno di legge) sulla concorrenza. Ma se guardate con cura i due testi, notate che non è affatto comune il punto di arrivo né simile il percorso previsto. Ciascuno fa un po’ di riforme auspicabilmente al fine di migliorare il benessere dei suoi cittadini. Però, l’impegno era che una volta fatto l’euro avremmo poi fatto anche l’Europa: quando incominciamo?

Il Professor Giacomo Vaciago è Ordinario di Economia Monetaria all’Università Cattolica di Milano

Dal sito: http://www.nuovi-lavori.it/index.php/sezioni/545-un-europa-da-ricostruire

Armi, finanza e conflitti: intervista ai promotori della campagna “banche armate”

QuaresimaDisarmataImageIl controllo delle transazioni finanziarie collegate alla compravendita di armi e di sistemi militari è cruciale nella lotta al terrorismo internazionale e per prevenire trasferimenti illeciti di armi. Da quindici anni è attiva in Italia la Campagna di pressione alle “banche armate”: promossa da tre riviste del mondo missionario e pacifista (Missione Oggi dei missionari saveriani, Nigrizia dei missionari comboniani e Mosaico di pace dell’associazione Pax Christi), la campagna ha portato i principali gruppi bancari italiani ad emanare precise direttive sulle attività di finanziamento all’industria militare e di sostegno all’export di armi. Ne parliamo con i direttori delle tre riviste e con Giorgio Beretta, analista della campagna.

Padre Alex Zanotelli, lei è, tra l’altro, direttore responsabile di Mosaico di pace. Come è nata e perché una campagna sulle “banche armate”? 

La Campagna è stata lanciata dalle nostre tre riviste quindici anni fa in occasione del Grande Giubileo della Chiesa cattolica e della mobilitazione internazionale per la cancellazione del debito dei paesi impoveriti del Sud del mondo. Abbiamo innanzitutto voluto evidenziare che gran parte del debito contratto da questi paesi era costituito dal “debito odioso”, quello cioè che i dittatori di diverse nazioni avevano contratto per acquistare dai nostri paesi del Nord del mondo armamenti sofisticati che spesso hanno usato per reprimere le proprie popolazioni e fomentare sanguinosi conflitti regionali. Ma, soprattutto, abbiamo voluto offrire un modo concreto per favorire un maggior controllo sulle esportazioni di armi e sistemi militari del nostro paese e sulle operazioni di finanziamento delle banche all’industria militare. Un compito che oggi ci pare ancora più urgente alla luce dei focolai di guerra nel mondo, soprattutto in Africa e nel Medio Oriente, e delle crescenti spese militari anche del nostro paese.

Padre Mario Menin è direttore della rivista Missione Oggi. Padre Mario, come avete promosso la vostra campagna e quali risultati sono stati raggiunti? 

La Campagna è partita chiedendo alle parrocchie, diocesi e a tutte le associazioni, cattoliche e laiche, di verificare se la propria banca figurava tra quelle, riportate nell’elenco della relazione annuale del Governo italiano, che svolgono operazioni in appoggio all’esportazione di sistemi militari: li abbiamo invitati a scrivere alla propria banca esplicitando che avremmo reso noto le risposte sulle nostre riviste. La campagna si è inoltre coordinata con altre iniziative simili in atto in altri paesi europei per promuovere un controllo attivo dell’attività delle banche nel settore militare e nell’export di armi. Le risposte delle banche italiane non si sono fatte attendere e, grazie alla pressione delle associazioni e dei correntisti, oggi possiamo dire che i principali gruppi bancari del nostro paese hanno emesso delle direttive restrittive, rigorose e abbastanza trasparenti, riguardo alle loro attività nel settore militare (si veda un’analisi dettagliata in questo articolo di approfondimento in .pdf ). Più difficile, invece, è il rapporto con le banche estere operative nel nostro paese, ma questo non è dipeso solo dalla nostra campagna….

Giorgio Beretta ha svolto diverse analisi in questo settore. Beretta, perché è stato più difficile coinvolgere le banche estere? Non c’è il rischio che la vostra campagna costringa le industrie militari a rivolgersi proprio a queste banche rendendo così più difficili i controlli? 

Avere l’attenzione delle banche estere è stato più difficile innanzitutto perché poche associazioni sono clienti di queste banche che spesso hanno solo una sede operativa in Italia e offrono servizi soprattutto alle imprese più che ai privati. Ma, e qui sta il nodo centrale, sull’azione della nostra campagna ha inciso pesantemente la sottrazione di informazioni operata a partire dal 2008 con l’avvento dell’ultimo governo Berlusconi che è proseguita coi governi successivi: senza alcuna giustificazione al parlamento, dalla Relazione ufficiale del governo è stato infatti sottratto il lungo elenco di dettaglio delle operazioni autorizzate e svolte dagli istituti di credito. In altre parole, dal 2008 dalla relazione governativa sappiamo solo l’ammontare complessivo delle operazioni assunte dalle banche per l’export di sistemi militari, ma non possiamo più conoscere né i paesi destinatari né i sistemi d’arma. Questo ha favorito proprio le banche estere, in particolare i gruppi Deutsche Bank e BNP Paribas: si tratta comunque di gruppi bancari che, per quanto riguarda queste operazioni, sono sottoposti agli stessi controlli delle banche italiane. Nessun allarmismo, quindi, ma il problema rimane: vedremo se il governo Renzi, che ha fatto della trasparenza un suo cavallo di battaglia, sarà in grado di ripristinare ciò che Berlusconi e i governi successivi hanno sottratto. Non stiamo parlando di alcun segreto: si tratta, infatti, di informazioni che erano presenti nelle relazioni ufficiali fin dai tempi dei governi Andreotti e Ciampi.

Tutto questo, però, va ad aggiungersi alla preoccupante crescita di esportazioni di sistemi militari italiani verso le zone di maggior tensione del mondo come il Medio Oriente e i paesi dell’ex Unione Sovietica di cui abbiamo già parlato proprio con lei, Beretta, in precedenti occasioni.

Esatto. E qui siamo ad un vero paradosso. Da un lato tutte le forze politiche affermano che occorre evitare che le armi finiscano in mani indesiderate, dall’altro, però, ben pochi alzano la voce quanto è il nostro paese a fornire armi e sistemi militari ai vari dittatori e ai regimi autoritari. Il caso più interessante è quello delle forniture italiane di armi alla Libia di Gheddafi: da quanto nel settembre del 2003 è stato sollevato l’embargo di armi, l’Italia ha esportato in Libia un vero arsenale bellico che va dagli elicotteri militari AW109 di Agusta Westland all’ammodernamento di una serie di aeromobili CH47 e di una flotta di velivoli SF260W di Alenia Aermacchi fino alle componenti per i semoventi Palmaria della Oto Melara e per i missili Milan 3 della MBDA Italia. Oltre a questo c’è stata una grossa fornitura di “armi comuni”, non sottoposte cioè ai controlli della legge sulle esportazioni di sistemi militari: nel 2009, a seguito della visita di Gheddafi in Italia, sono state inviate in Libia oltre 11mila tra carabine, fucili e pistole semiautomatiche della Beretta di Gardone Val Trompia destinate proprio alla Pubblica Sicurezza del rais. Il giornalista del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, entrando nell’agosto del 2011 nel bunker di Gheddafi riportava testualmente: “Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane. Ricordano da vicino gli arsenali che avevamo trovato nella zona dei palazzi presidenziali di Saddam Hussein, dopo l’arrivo dei soldati americani, il 9 aprile del 2003”. Dove siano finite e chi stia usando adesso quelle montagne di armi italiane non è mai stato chiarito.

Torniamo alle banche. Padre Efrem Tresoldi è il direttore di Nigrizia. Padre Efrem, il papa si è ripetutamente pronunciato contro i “fabbricanti di armi” fino a definirli “imprenditori di morte”. Un messaggio al quale, però, sembra che parrocchie e diocesi non siano cosi attente…

Le parole di papa Francesco sono state chiare e forti. Anche a seguito dei suoi pronunciamenti  abbiamo deciso quest’anno di lanciare la “Quaresima disarmata”. Una proposta concreta diretta principalmente, ma non solo, alle diocesi, alle parrocchie, alle comunità religiose, alle associazioni e ai singoli credenti di accogliere l’invito a verificare se la banca di cui si servono ha emanato direttive sufficienti almeno per un’effettiva limitazione delle operazioni di finanziamento e d’appoggio alle esportazioni di armi. Se come singoli o associazioni non abbiamo il potere decisionale per limitare la produzione di armi o il loro commercio, abbiamo però la possibilità di evitare che i nostri risparmi finiscano per alimentare questo mercato. Ma, soprattutto, crediamo che la comunità cristiana debba approfittare della Quaresima, che è un periodo di conversone individuale ed ecclesiale, per fare scelte chiare e coerenti con il messaggio di pace del Vangelo.

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“Con il Giubileo della Misericordia Papa Francesco riorienta la Chiesa”. Intervista a Massimo Faggioli

Il compimento del secondo anno di pontificato di Papa Francesco si è intrecciato con l’annuncio, a sorpresa, del Giubileo Straordinario sulla Misericordia. Come si inserisce questo evento nell’opera riformatrice di Papa Francesco? Ne parliamo con Massimo Faggioli, storico della Chiesa presso la University of St. Thomas negli USA

Udienza generale del mercoledì di Papa FrancescoPapa Francesco compie il suo secondo anno di pontificato con l’annuncio dell’indizione del Giubileo straordinario sulla Misericordia. Per alcuni osservatori, questo evento, segnerà una svolta nella Chiesa contemporanea. È d’accordo su questo?

Non lo sappiamo ancora, ma di certo e’ una sorpresa: un pontificato che Francesco dice sara’ breve, ma Francesco programma nel lungo periodo… Di certo e’ una decisione che spiazza buona parte della opposizione contro di lui: uno strumento vecchio come il giubileo ma usato per un riorientamento della chiesa.

L’ ecclesiologia che sta alla base dell’opera di Papa Francesco è quella del Concilio Vaticano II. Però,  a mio modo di vedere,  porta un arricchimento teologico rispetto al Concilio: ovvero la storia dei poveri e delle periferie “esistenziali”. In questo si comprende la “Chiesa ospedale da campo”. È  così?

Direi che Francesco recupera dei nuclei del concilio che non furono sviluppati e recepiti a sufficienza, come quello della chiesa dei poveri: i latinoamericani al concilio si aspettavano di più dal concilio su questo tema. Il primo papa latinoamericano attua il concilio facendo giustizia di alcune dimenticanze del concilio e del postconcilio.

Veniamo a questo biennio di pontificato. Un biennio intenso, dove la Chiesa è stata attraversata da una forte dialettica. Un grande sostegno popolare al Papa, ma anche resistenze forti da parte della Corte Curia le. Riuscirà il Papa a scardinare le resistenze? Dove si annidano le resistenze fuori dalla Curia?

La scelta di convocare il giubileo e’ geniale perché’ toglie alla Curia romana e alle elite ecclesiali in genere il potere di definire il successo del pontificato della misericordia. Il pontificato di Francesco e’ puntato su altro e non può’ essere preso ostaggio da piccoli gruppi di resistenza al cambiamento.

Oltre a Misericordia,  quali sono le altre “parole chiave”  di questo primo biennio di Pontificato? 

Poveri, gioia, periferie, idolatria.

In una intervista ad una emittente messicana,  il Papa parla della “durata”  del suo Pontificato definendolo “breve”. Quale è stata la sua reazione a queste parole?

Il Papa non vuole illuderci sulla durata del pontificato e non vuole creare aspettative irrealistiche. Certamente rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II, che per molti è il paragone del pontificato post-conciliare, quello di Francesco sara’ più’ breve. Ma e’ anche un modo per gestire in modo accorto le resistenze contro di lui.

Lei è Italiano ma insegna negli Usa. Ed è molto addentro alla Chiesa italiana. Le chiedo  come stanno reagendo queste due Chiese all’opera di Francesco?

La chiesa italiana e’ molto più dominata dalle istituzioni ecclesiastiche (vescovi, clero) che in Italia mi sembra più risvegliata dall’effetto Francesco rispetto a quella americana, in cui la resistenza si annida in alcune cerchie accademiche e intellettuali neo-conservatrici o tradizionaliste – alcune delle quali arrivano persino ad accusarlo di eresia.

Ultima domanda : il Papa si batte contro i clericalismi. Com’è la situazione del laicato cattolico dopo due anni di Papa Francesco?

C’e’ qualche decennio da recuperare: il laicato si e’ in buona parte disabituato ad avere un ruolo attivo.

I “Re di Roma”. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale. Un libro di Chiarelettere

"I re di Roma" - Abbate Lillo

La triste vicenda di Mafia Capitale. Un sistema criminale senza precedenti,
Che ha dominato, per anni, su Roma con la complicità di politica e istituzioni viene raccontata in questo documentatissimo libro, appena uscito nelle librerie, di Marco Lillo e Lirio Abbate.

IL LIBRO

Una storia vera ma così incredibile che sembra creata da un’immaginazione diabolica.
Un ex terrorista finito in carcere più volte, legato alla Banda della Magliana e addestratosi in Libano durante la guerra civile. Da anni gira per Roma tranquillo con una benda sull’occhio perso durante una sparatoria. Lo chiamano il Cecato. È lui che governa politici di destra e di sinistra. Per i magistrati è il capo, Massimo Carminati.
Un omicida. Ha inferto 34 coltellate alla sua vittima ma in cella è diventato detenuto “modello”. I suoi convegni in nome della legalità raccolgono il plauso di grandi nomi come Stefano Rodotà e Miriam Mafai. In realtà ha fregato tutti. Fuori dal carcere è diventato il businessman dell’organizzazione criminale. I magistrati lo chiamano l’organizzatore, Salvatore Buzzi.
Un funzionario pubblico, già braccio destro di veltroni sindaco e poi uomo chiave del coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo del ministero dell’interno, che nasconde almeno tre false identità, le usa per coprire vari reati ma nessuno se ne accorge. È l’uomo di collegamento tra boss e politica, luca odevaine. E ancora neofascisti, ultras, soubrette, calciatori, attori. Una galleria eccezionale di personaggi, in cui compaiono perfino il capo della segreteria per l’economia del Vaticano Alfred Xuereb e il capitano giallorosso Francesco Totti. 
Tutto questo è “I re di Roma”. Abbate e Lillo hanno costruito un racconto potentissimo, con documenti inediti. La testimonianza appassionata di chi ha denunciato quel sistema criminale quando nessuno ne voleva parlare.

GLI AUTORI

Llirio Abbate, inviato de “L’espresso”, è autore di inchieste giornalistiche sulle mafie e le collusioni dei politici con i boss. Negli ultimi vent’anni si è occupato dei principali scandali italiani su criminalità organizzata, tangenti e corruzione. Nel 2014 Reporters without borders lo ha inserito fra i “100 eroi dell’informazione” e nel 2015 Index on censorship lo ha annoverato tra le 17 personalità che nel mondo lottano per la libertà di espressione. Ha scritto i complici (con Peter Gomez, fazi 2007). Il suo libro più recente è “Fimmine ribelli” (Rizzoli 2013).
Marco Lillo, giornalista investigativo, caporedattore inchieste de “Il fatto quotidiano”, ha pubblicato, tra l’altro, i documenti segreti che hanno svelato le congiure in Vaticano e i trucchi nel bilancio del Monte dei Paschi di Siena ai tempi di Giuseppe Mussari. Ha scritto inchieste dure sull’ex presidente del senato Renato Schifani, sull’ex sottosegretario Carlo Malinconico e sull’ex ministro Nunzia De Girolamo. Ha svelato la storia della pensione di matteo renzi, assunto nell’azienda di famiglia pochi mesi prima dell’elezione in provincia. È autore dei libri “Bavaglio” (2008) e “Papi” (2009) con Peter Gomez e Marco Travaglio.

PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE, PUBBLICHIAMO UN ESTRATTO DEL LIBRO

«Piano, piano… non lo vedo, non lo vedo… guida lui, guida lui…» Ancora un istante concitato, poi: «Scendi da questa cazzo di macchina… è bloccato!». La voce è di uno degli uomini del Reparto anticrimine del Ros di Roma, guidato dal colonnello Stefano Russo. Il video dei carabinieri ha invaso i media per giorni. Lui, l’ex terrorista nero, il boss della malavita romana, il punto di contatto tra manovalanza criminale e colletti bianchi, viene catturato dai militari mentre viaggia, apparentemente inerme, sulla sua Smart lungo una stradina di campagna a Sacrofano, alle porte di Roma. È il 1° dicembre 2014: l’arresto di Massimo Carminati segna un punto importante dell’inchiesta su «mafia Capitale», il terremoto giudiziario che si abbatte sui palazzi del potere travolgendo trasversalmente i principali partiti politici italiani. Un’indagine senza precedenti, che ha scoperchiato un vero sistema di corruzione, usura, estorsione, concussione, turbative d’asta e false fatturazioni. Una macchina ben rodata che lavorava per il controllo della città e degli appalti pubblici e poteva contare sulla connivenza della politica e delle istituzioni.
Carminati (C), secondo la Procura di Roma, è l’uomo chiave del «Mondo di mezzo», ha costruito un sistema di cui si vanta lui stesso in una conversazione intercettata con il suo braccio destro Riccardo Brugia (B) e con l’imprenditore Cristiano Guarnera (G):
C: «È la teoria del mondo di mezzo compa’… ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo».
B: «Embe’… certo…».
C: «E allora… e allora vuol dire che ci sta un mondo… un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi…».
B: «Certo… certo…».
C: «Cazzo è impossibile… capito come idea?… è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… cioè… hai capito?… allora le persone… le persone di un certo tipo… di qualunque cosa… si incontrano tutti là…».
B: «Di qualunque ceto…».
C: «Bravo… si incontrano tutti là no?… tu stai lì… ma non per una questione di ceto… per una questione di merito, no?… allora, nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno…».
B: «Certo…».
C: «Questa è la cosa… e tutto si mischia».
B: «E certo…».
G: «…sotto sotto, semo tutti uguali…».
La suggestiva teoria di Carminati – ispirata probabilmente dallo scrittore inglese John R.R. Tolkien, ideatore di quel luogo mitico chiamato «Terra di mezzo» in cui si svolgono le vicende de Il signore degli anelli e Lo hobbit – è la sintesi della mafia romana; quella che alle armi preferisce il denaro, che non spara ma corrompe, che i politici e gli imprenditori non deve rincorrerli per fare affari e per partecipare alla grande abbuffata degli appalti pubblici, che non si accontenta delle consuete attività criminali ma vuole dettar legge ovunque: raccolta e smaltimento dei rifiuti, accoglienza degli immigrati, campi rom, verde pubblico, mense, strade. Tutto.
Il «Mondo di mezzo» è la cerniera tra l’illegalità e la legalità, tra criminali di strada e uomini in doppiopetto. «Perché tanto… nella strada… comandiamo sempre noi…» spiega Carminati al sodale Brugia.
I magistrati della Procura di Roma definiscono il sistema Carminati una mafia «originaria e originale». I 101 indagati della prima ondata giudiziaria, accusati in base all’articolo 416 bis o con l’aggravante di aver avvantaggiato l’organizzazione criminale, sono infatti quasi tutti romani o, comunque, del Centro Italia. Ci sono pochissimi meridionali. Per questo può definirsi anche originale, perché ha caratteristiche proprie che rispecchiano in qualche modo la società in cui si è sviluppata: è una mafia che non controlla il territorio chiedendo il pizzo ai commercianti, che non lascia i morti sulle strade. Non ha una struttura rigida e piramidale, sebbene siano stati identificati dai giudici «un capo», Massimo Carminati, e altri due viceré, anche loro con un ruolo direttivo specifico: Riccardo Brugia sul fronte «militare», e Salvatore Buzzi su quello «economico e dei rapporti con la pubblica amministrazione». Tutti e tre con precedenti penali e, nonostante tutto, nuovamente presenti. Tutti e tre di nuovo sulla scena. Gli uomini di «mafia Capitale» conoscono bene però l’arte dell’omertà: «No, non deve parla’ mai, risponde’ alle domande… le domande sono lecite, le risposte non sono mai obbligatorie» dice Brugia a Guarnera riguardo la regola del silenzio imposta dal capoclan. Ed ecco Salvatore Buzzi che dà la linea a un suo collaboratore: «Bisogna essere riservati, non parla’ troppo, anzi, ‘ste cose di cui non le sa nessuno, nemmeno Alessandra [Garrone, moglie di Buzzi, nda] perché… infatti l’ho ripreso da Massimo,Massimo è bravissimo, lui non parla, parla pochissimo perché dice “meno sai, meno ti dico, meno sai e più stai sicuro”».

L’intoccabile. Il re del «Mondo di mezzo»

Lirio Abbate e Marco Lillo, I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale, Ed. Chiarelettere, Milano 2015, pagg. 272, € 14, 90