
Nel pomeriggio, presso il Cnel, si svolgerà un convegno, organizzato dall’associazione Koiné e dalle fondazioni sindacali, sulle prospettive del sindacato confederale italiano. La data scelta non è casuale: oggi sono trascorsi trent’anni dal referendum sulla “scala mobile” . Un evento che provocò lacerazione tra i sindacati. All’incontro parteciperanno alcuni protagonisti storici del sindacalismo italiano e della controparte confindustriale , economisti, sociologi. Interverranno anche gli attuali segretari generali di Cgil, Cisl e Uil (Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo).
Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, Raffaele Morese (Presidente dell’Associazione Koiné), il testo della relazione al Convegno.
Trent’anni fa, in questo giorno, si consumò un evento finora rimasto unico. Un referendum chiamava gli italiani a validare o non il decreto di S. Valentino (febbraio 1984) che dava forza di legge (perché nel frattempo convertito) ad un accordo tra il Governo Craxi e tutte le sigle confederali degli imprenditori e dei lavoratori, tranne la CGIL. Un referendum voluto con determinazione quasi testarda dal PCI di Berlinguer, nonostante i tentativi, intrapresi da più parti e dallo stesso Craxi, di trovare un compromesso che lo evitasse. Allora come adesso, pochi hanno creduto che la contesa riguardasse la predeterminazione dell’inflazione al 10,6% (pari a 9 scatti di scala mobile), anche perché l’inflazione, nel frattempo, scese all’8%, proprio per effetto dell’accordo.
Tanti, invece, si resero conto che in ballo c’era molto di più. C’era la necessità di un’inversione di tendenza dalla stagflation; c’era l’esigenza di una concreta politica dei redditi; c’era l’urgenza di non frantumare ulteriormente la coesione sociale. Ma soprattutto c’era in ballo l’equilibrio dei rapporti tra politica e sociale, tra partito e sindacato, tra Governo, opposizioni e parti sociali.
Il risultato è noto. Nonostante il clima arroventato dalle polemiche, gran parte dei protagonisti fece in modo che non si buttasse ancora benzina sul fuoco delle lacerazioni che si erano protratte tra il 1984 e l’85. Non va nascosto, però, che le divergenze di merito formarono lo zoccolo duro delle “diversità” tra le organizzazioni sindacali che tuttora perdura e che sono la ragione che indusse a pensare che un pluralismo virtuoso fosse meglio che un logoro processo unitario. In ogni caso, l’ effetto di quel referendum fu storico.
Si suggellò il definitivo superamento sia dell’egemonia della politica sul sociale, sia dei residui condizionamenti del partito sul sindacato e sia, conseguentemente, della reciproca autonomia nei rapporti tra Governo, opposizione e parti sociali. Una fase nuova si apriva nello scenario delle relazioni tra i vari protagonisti della politica e del sociale, anche perché – contemporaneamente – perdeva vigore ogni velleità pansindacale (il “salario, variabile indipendente”) che pure aveva caratterizzato un bel pezzo del periodo precedente quell’evento.
L’idea di una diversa e più consistente assunzione di responsabilità stava prendendo corpo attorno alla costruzione di un sistema di partecipazione che venne chiamata concertazione e che trovò la sua formalizzazione negli accordi del 1992 (Governo Amato) e 1993 (Governo Ciampi) sul superamento della scala mobile e la creazione di un nuovo sistema di regole contrattuali che Giugni definì “la nuova costituzione delle relazioni sindacali”. Fu un decennio (perché in realtà tutto incominciò con il “lodo Scotti”, Ministro del lavoro del Governo Spadolini nel 1983) di forte anche se dolorosa iniziativa riformistica del sindacato confederale.
Ma che senso ha rievocare quegli eventi, oggi? Il mondo è cambiato tantissimo. I problemi e le soluzioni non possono trovare nel passato ispirazione operativa. I protagonisti collettivi hanno subito mutazioni culturali e politiche profonde, finanche sul piano rappresentativo e nominalistico (la più recente aggregazione politica si chiama nientedimeno “conservatori e riformisti”). Soprattutto, c’è stato un progressivo svuotamento del concetto di massa, della compattezza culturale e di status degli strati sociali. La società si è fatta liquida, come ci hanno convinto le argomentazioni di Zygmunt Bauman e le condizioni di vita, di benessere, di lavoro, di espressione sociale e politica si sono sventagliate su un fronte vasto di identità.
Se così è, le cose si complicano non poco. E la rievocazione potrebbe essere archiviata a memoria storica. Il fatto, però, è che quell’evento non fu provocato da banali interessi e spicciole convenienze ma da scelte valoriali che anche nella nuova situazione mantengono intatto il loro influsso e la loro incidenza. Allora come oggi, la solidarietà emergeva come collante non effimero e predicatorio di una società impaurita dagli eventi, a disagio di fronte al futuro, incollerita per le disuguaglianze montanti e per una morale politica degenerata.
Allora ma ancora di più oggi, il conflitto è fra il capitale che è global e si dispiega con una disinvoltura spesso cinica nel cogliere le migliori opportunità nel mondo, mentre il lavoro è local, meno mobile e soprattutto è sottoposto a carichi di dolore e sofferenza e di travolgimenti personali e collettivi che i detentori di capitali né conoscono e né riconoscono.
E infine, allora e anche oggi, il valore della rappresentanza politica e sociale viene scosso anche violentemente ma non negato e la questione che si ripropone è la necessità di visioni convincenti e di soggetti che le sappiano trasformare in obiettivi praticabili e praticati. Ricondurre la soggettività dei singoli ad una identità collettiva è fatica molto più grande che nel passato, è la stessa fatica che occorre mettere in campo per ridefinire destra e sinistra.
E’ quanto mai urgente affrontare questo groviglio di questioni. Non tifando ma discutendo, senza pregiudizi, possibilmente. Con una premessa. La società nella quale ci riconosciamo è quella disegnata dalla Costituzione, con istituzioni, partiti e corpi intermedi che possano agire – ciascuno per il proprio ruolo – per migliorare la vita degli italiani.
In particolare, i corpi intermedi della società e le organizzazioni di rappresentanza, in particolare, non possono essere considerati da nessuno come un intralcio, un fastidio, un’ inutilità da parte delle istituzioni o dei partiti. Si può non essere d’accordo con le loro scelte, ma non si possono considerare degli ectoplasmi di una società.
Specie quando la questione centrale di una società come la nostra è il lavoro, il suo futuro, la sua capacità di far realizzare le persone, la sua ragione di sempre: la dignità. Ma è meglio essere più precisi. All’ordine del giorno si sta imponendo l’esigenza della ricomposizione del mondo del lavoro. Senza un’opera di lunga lena che riconnetta ciò che in questi anni è stato frantumato, è veramente difficile dare centralità al lavoro.
Il che vuol dire dare lavoro dignitoso a chi non ce l’ha. Dare stabilità a chi un lavoro ce l’ha ma è segnato dalla “cattiva flessibilità”. Fare in modo che chi un lavoro stabile ce l’ha, non corra il rischio di perderlo e di non trovarne un altro. In questi anni, queste varie sfaccettature del lavoro non hanno avuto la stessa importanza, attenzione, visibilità.
C’è bisogno di discontinuità nell’azione di tutti i soggetti che intervengono intorno a questo tema. Troppi anni sono stati spesi inseguendo una crescita della produttività agendo prevalentemente sulla componente costo del lavoro, in special modo forzando le maglie di una pur necessaria flessibilità dei contratti, usabili dalle aziende e dalle istituzioni pubbliche.
Infatti, in questi ultimi trenta anni, il salario reale è stato sostanzialmente e mediamente tutelato dalla contrattazione (smentendo quanti vedevano nell’abbandono della scala mobile l’inizio della fine della difesa del salario dall’inflazione). Il sindacato, come autorità salariale, ne esce vincente, anche se una buona quota della crescita è stata assorbita dal prelievo fiscale e para fiscale.
Ma è un successo zoppo. In questi trenta anni, la quota del salario rispetto ai profitti e alle rendite ha subito una compressione. Inoltre, l’azione salariale del sindacato non è stata sufficiente a stimolare la crescita della produttività industriale e di sistema, come avvenne negli anni 70 del secolo scorso. Infatti, non solo la contrattazione di secondo livello non si è estesa come auspicava l’accordo del 92/93 specie quella sull’organizzazione del lavoro, ma si è allargata in modo strutturale la fascia dell’occupazione non standard. Questa, assieme al persistere del lavoro nero e delle produzioni irregolari, hanno contribuito – ma, ovviamente, la responsabilità maggiore è di un’imprenditoria dimostratasi non lungimirante – ad infiacchire la spinta agli investimenti innovativi e quindi a mantenere bassa l’ efficienza delle produzioni di beni e servizi.
Ora che il Governo, indipendentemente dal giudizio che possiamo avere sul Jobs Act, dimostra di voler favorire la riduzione dell’area del lavoro non standard ben oltre il settore privato, come sembra di perseguire nella scuola, bisognerebbe smettere di fare nuove norme sul mercato del lavoro. Bisognerebbe dissuadere quanti vogliono mettere le mani sui contratti con regole lombrosiane (nel decreto per il riordino dei contratti gli articoli sono 57 di cui 11 riguardano soltanto il contratto a tempo determinato). Bisognerebbe convincere quelli che vorrebbero introdurre per legge il salario minimo che così non si tutelano i nuovi mestieri e le nuove professionalità, ma si favoriscono soltanto quegli imprenditori che vogliono uscire dalla cornice protettiva dei contratti collettivi nazionali.
L’impegno maggiore dovrebbe essere spostato sulle misure per far crescere la produttività e l’occupazione. E per praticare questa strategia, non servono scelte lineari, ma mirate a dare risposte a situazioni che sono oggettivamente articolate. Si insiste molto sulla stretta correlazione tra occupazione e crescita del sistema produttivo. Ma non si discute molto su come realizzarla.
Alla parte produttiva che vive di esportazioni, il basso costo del petrolio, l’euro premiato rispetto al dollaro, le iniezioni di liquidità della Bce bastano ed avanzano per rendere competitivi i loro beni sui mercati del mondo. Anzi, per alcune aziende va aggiunto che anche il costo del lavoro è fattore di vantaggio rispetto ai loro concorrenti. I dati lo confermano: nel 2014, l’export italiano della meccanica ha superato gli 80 miliardi di euro contro i 50 del 2002 (Istat).
Di conseguenza, le risorse pubbliche andrebbero mirate alla riattivare della produzione di beni e servizi destinati alla domanda interna. Ma anche su questo fronte, sarebbe inutile agire sul lato delle incentivazioni alle aziende. Al netto della stabilizzazione strutturale della decontribuzione dei nuovi assunti, per favorire la ripresa dei consumi, va privilegiata la riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi, obiettivo per il quale ci sono molte ragioni a favore, tante aspettative maturate ma scarse volontà a trasformarle in certezza.
Infine, investimenti pubblici ed incentivi per quelli privati andrebbero spinti per coprire il vuoto lasciato dal quel 25% della produzione industriale persa definitivamente nel corso degli ultimi 7 anni. Industrie e servizi efficienti e tecnologicamente avanzati dovrebbe essere la priorità per non perdere i contatti con il futuro e per allargare gli spazi occupazionali. Se bisogna sostituire la parte distrutta e sostenere quella sopravvissuta del tessuto produttivo italiano, la politica industriale che si deve affermare non può che essere “ricostruttiva” e muoversi su due livelli.
Quello della dotazione di progetti e di risorse. Hanno ragione quanti sostengono che non basta inondare di liquidità le banche. Il Quantitative easing della Bce è importante, sarà utile ma la risposta soltanto monetaria – specie con i vincoli che l’accompagnano – non è sufficiente per garantire la ricostruzione. Ci vogliono piani di investimenti pensati per il medio e lungo periodo, a redditività differita, riguardanti beni “reali” sulla falsa riga di quanto previsto dal Piano Juncker. Il quale, ha un serio tallone d’Achille: la sua dotazione finanziaria. All’Italia, ha scritto Vaciago, “i mancati investimenti (pubblici e privati) degli ultimi dieci anni (in molti casi, non sono state fatte neppure le manutenzioni, cioè si è mangiato il capitale) e la stessa capacità di sostituire il capitale che la crisi ha reso obsoleto, ci dicono che nei prossimi anni abbiamo bisogno di un volume d’investimenti dell’ordine di quanto il Presidente Juncker ha proposto per l’intera Unione europea “ (Il sole24 ore 18/04/2015).
Il secondo livello è quello della governance. Senza “Eta Beta” che guidano la pratica attuazione di una politica per l’economia della conoscenza, fatta di progetti e risorse, si rischia di fare la fine dei “tagli lineari”: dare corpo all’irrilevanza dei fini. Le erogazioni a pioggia hanno l’effetto di allocare risorse a caso. Può andare bene, ma anche male. Un sistema di regie è necessario. Specie ora che le grandi famiglie industriali, quelle del miracolo economico della metà degli anni 60 dello scorso secolo, sono praticamente sparite o trasferitesi altrove. Nessuno è nostalgico dell’IRI (specie quello dell’ultimo periodo), ma qualcuno che faccia da “pivot”, in una squadra di imprenditori privati e pubblici di media e piccola stazza ci deve pur essere. Di fatto è in campo soltanto la Cassa Depositi e Prestiti, ma non è un soggetto imprenditoriale, neanche se si fa un cambio della guardia al suo vertice in chiave industrialista. Gestendo il risparmio degli italiani che si affidano alle Poste, non può che camminare con un passo felpato lungo il sentiero, in parte imprevedibile, del futuro dell’industria italiana.
Soluzioni preconfezionate non ce ne sono. Esempi interessanti soprattutto negli Stati Uniti o in Germania sono a disposizione. L’importante è che si formino uno o più sistemi di governance capaci di rieducare i cicli economici e finanziari, abituandoli all’idea della redditività differita nel tempo e consentendo di mettere in sinergia l’imprenditorialità privata, le risorse delle università e i centri di ricerca pubblici e privati.
Anche se si pensa al Mezzogiorno, l’attuale economia della sopravvivenza può essere soppiantata dall’economia dell’innovazione se si riempie il vuoto di governance strategica. Le Regioni hanno dimostrato di non esserne capaci. Restituiscono soldi a Bruxelles. E quelli che riescono a spendere, se sottoposti a criteri di costi/benefici, molto spesso farebbero una cattiva figura. Sarebbe necessaria la creazione di tante “Fondazioni con il Sud”, capaci di orientare e sviluppare iniziative che nascano dal territorio e che devono essere sostenute nel loro progresso verso l’ampliamento dei mercati.
Come non bisogna escludere di utilizzare le potenzialità finanziarie dei Fondi Pensione contrattati, da orientare verso gli investimenti bisognosi di capitali pazienti, piuttosto che continuare a delegare ad altri soggetti finanziari, per quanto seri e affidabili, le strategie di allocazione delle risorse, che finiscono, semmai, per sostenere aziende estere e in alcuni casi anche eticamente discutibili (produttori di armi).
Ma nessun economista obiettivo può garantire che la piena occupazione, specie giovanile, possa essere soddisfatta, anche se si dovessero realizzare tutte queste condizioni. Essa resterà sempre sullo sfondo, lontano da visibilità normali. A meno che non si proceda verso una diffusa e strutturale ripartizione del tempo di lavoro. Ciò si potrebbe attuare finanziando i contratti di solidarietà passivi ma soprattutto attivi. La legge c’è già, ma allo stato, soltanto i primi dispongono di risorse, abbastanza risicate. Resta scoperta la possibilità di attivare contratti di solidarietà attivi, quelli che possono riguardare aziende che utilizzano al massimo gli impianti ma intendono ridistribuire il lavoro al fine di realizzare nuove assunzioni, possibilmente di giovani.
Ovviamente, questa ipotesi non può essere confusa con un surrettizio “imponibile di manodopera”; l’obiettivo è quello di non modificare il costo del lavoro complessivo e la sua realizzazione è lasciata alla libera volontà delle aziende e dei lavoratori. A tal fine, sarebbe un significativo segnale verso i giovani in cerca di lavoro se si pervenisse ad un’intesa tra Governo e parti sociali per definire la cornice negoziale per attivare l’utilizzazione delle risorse disponibili, fermo restando che la reale concretizzazione delle finalità della riduzione dell’orario di lavoro è affidata alla gestione contrattata della riorganizzazione aziendale del lavoro.
Un progetto come questo sarebbe ancora più apprezzabile se non si limitasse a prevedere soltanto la riduzione dell’orario di lavoro e le sue modalità decentrate ed articolate, ma anche e soprattutto se disegnasse un nuovo paradigma tra tempo di lavoro e tempo di vita per ciascuna persona, in relazione alle proprie necessità, interessi e persino desideri. Non riguarda soltanto la dimensione del tempo libero ma l’attivazione di servizi al lavoro, tra cui spicca con sempre maggiore importanza la formazione continua. Questo capitolo del futuro del lavoro lo devono proporre prioritariamente i sindacati confederali, senza attendere l’iniziativa delle aziende o del Governo. E lo devono fare partendo dalle esigenze e dalle aspettative sia di chi lavora che di chi è disoccupato.
Questo riferimento all’azione dal basso, consente di aprire una finestra su un altro aspetto della produttività: quello dell’organizzazione aziendale. Le imprese che si stanno impegnando per uscire indenni dalla crisi e quelle che stanno emergendo nella crisi puntano su forti innovazioni tecnologiche e organizzative per le quali la qualità del lavoro è condizione fondamentale e non facilmente fungibile. Anzi, scelgono con convinzione la strada della partecipazione dei lavoratori al miglioramento e alla gestione del lavoro quotidiano. Tutto questo è presente in molti accordi, quasi sempre unitari, che si sono succeduti in questi anni, ai margini delle cronache, giustamente infittite dalle vicende drammatiche e complesse riguardanti la perdita del lavoro.
Dove il lavoro c’era ancora, imprese e sindacati, management e lavoratori hanno imboccato la strada dello scambio tra miglioramento della produttività e ridistribuzione del valore aggiunto ai lavoratori. E spesso non solo in termini di salario ma anche in termini di partecipazione organizzata al cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Inoltre, non mancano accordi dove lo scambio ha riguardato servizi e prestazioni più corrispondenti alle aspettative delle persone. Si badi, non c’è niente di paternalistico da parte delle aziende in fatto di welfare aziendale. Lo dichiarano esplicitamente. Sono disponibili a venire incontro ad esigenze che il sistema pubblico non è più in condizioni di assicurare o che è in ritardo nel recepirle, individuando le risorse nei mutamenti efficientistici dell’organizzazione del lavoro.
Lavoratori e sindacati hanno risposto in maniera esemplare. Non parti uguali, ma selezione delle priorità. Non i soliti “pochi, maledetti e subito”(con riferimento ai soldi), ma individuazione degli interventi più efficaci per far star meglio quelli che hanno esigenze più pressanti. E’ significativo che bambini e anziani sono le preoccupazioni che spingono a definire tante forme di sostegno a quelle famiglie che li hanno semmai entrambi in casa, senza distinguere sui destinatari, perché si parla sempre di lavoratori e non di uomini o donne. Soluzioni che vanno oltre le agevolazioni di legge. Misure che travalicano le prescrizioni del contratto nazionale. Mezzi e strumenti che nascono dal confronto tra le parti, vengono riadattati sulla scorta dell’esperienza e si proiettano nel territorio, provocando, spesso, anche lì, un salto di qualità. Specie dove prevale la piccola azienda.
La contrattazione decentrata, piuttosto che il contratto nazionale, si sta rivelando la fucina dell’innovazione contrattuale e della misurazione dell’efficacia del ruolo del sindacato. Ed è ad essa che va affidata la migliore combinazione tra le esigenze di produttività, la massimizzazione dell’occupazione e i bisogni dei lavoratori. Questo non significa buttare a mare il contratto nazionale. Carsicamente, fa capolino il mantra del livello unico contrattuale. Piuttosto occorrerebbe ripensare ruolo, tempi di vigenza e poteri regolatori del contratto nazionale in una fase inedita ma non di breve periodo. Quella che mischia inflazione bassa, disomogeneità forti delle condizioni delle aziende, interessi convergenti o accentuati più sulla filiera della crescita del valore o del distretto produttivo che di quella settoriale e territoriale.
Ricomporre le tante facce del lavoro non standard con quello standard, significa scongiurare la radicalizzazione del carattere dualistico e diseguale del mercato del lavoro e la solidificazione di una tremenda faglia che può terremotare definitivamente il rapporto tra le generazioni: tra chi ha rappresentanza sociale e chi non ce l’ha; tra chi ha tutele decenti se non forti e chi non ce l’ha; tra chi ha avuto la possibilità di costruirsi un futuro dove passare decorosamente la sua vecchiaia e chi questa possibilità di “futuro” non ce l’ha.
Significa anche interrompere il vero ”accerchiamento”, per dirla con Guido Baglioni, che il sindacalismo confederale sta subendo da un tempo non breve. Premesso che questo non può essere ragione di frustrazione – ma la notevole adesione organizzativa fa da antidoto, nei gruppi dirigenti, a questa inclinazione – né che valga la pena di rintuzzare quanti vorrebbero amplificare il fenomeno a fini denigratori, la questione è sul tavolo.
Basta tener presente, tra i tanti elementi oggettivi dell’”accerchiamento”, il dato della proliferazione dei contratti collettivi nazionali. Non è il più eclatante, ma proprio per questo, significativo di una tendenza opposta a quella che si proclama: la loro semplificazione e riduzione. Infatti, se nel 2011 i CCNL depositati al Cnel per obbligo di legge erano 509, alla fine del 2014 erano diventati ben 708. Alcuni sono gestiti dai tradizionali soggetti contrattuali ma parecchi riguardano associazioni datoriali e sindacati dei lavoratori, non certificati sul piano della loro rappresentatività, che hanno firmano uno o più contratti fotocopia e hanno costruiscono attorno ad essi un’organizzazione, centri servizi, patronati, caaf, formazione, presenze istituzionali; in definitiva, si sono assicurati la possibilità di essere sul “mercato” a prescindere dalla consistenza rappresentativa.
Può darsi che una legge di sostegno agli accordi tra le parti sociali sulla rappresentanza possa dare una mano ad evitare le degenerazioni rappresentative. Ma la questione è politica ed espone il sindacalismo confederale alla riqualificazione della propria identità. Il passaggio decisivo è quello della rimessa assieme dei cocci, della necessità che i deboli siano tutelati come i forti del mercato del lavoro, della inclusione dei nuovi lavori nella rappresentanza consolidata di quelli di più lunga data.
Optare per questa non facile ma possibile prospettiva implica dare il giusto peso ad altre ragioni dell’”accerchiamento” che pur ci sono. Basti pensare al risorgente attrito tra il primato della politica e quello del sociale. La nostra società è talmente complessa – e le recenti elezioni regionali aggiungono indizio ad indizi, prefigurando una certezza – che è impensabile riprodurre uno schema di relazioni per cui i corpi intermedi siano subalterni alla politica o che le istituzioni sono per principio organizzatrici di consenso. L’autonomia propositiva e rappresentativa delle istituzioni, dei partiti e dei sindacati – ciascuno per proprio conto – è un dato costituente delle dinamiche sociali e politiche. Almeno dal quel referendum dell’85.
Nessuna forzatura reale è possibile. Certo, non è tempo per applicare a questi tre soggetti la teoria dei giochi del matematico Nash, recentemente scomparso. Ma neanche che, in alternativa ad un sistema a somma zero, si possa sostituire un’egemonia schiacciante di uno di essi. Ovviamente, il rischio è maggiore se il sindacalismo confederale si presenta in ordine sparso, specie in un momento in cui sembra che, soprattutto per ragioni politiche, gli accordi separati sono meno perseguiti che in altre fasi più recenti. Però non sembrano esserci motivi sufficienti per enfatizzare lo scontro tra politica e sociale.
C’è un altro tema che può risultare deviante: quello di un conflitto tra decisionismo e partecipazione. Ha avuto un’accelerazione sin dal Governo Monti ma ora è ancora più pressante, come se la necessità di assumere decisioni “toste” dovesse sempre avere la precedenza sulle ragioni della partecipazione. La realtà è che, per una lunga stagione, il pendolo non ha oscillato tra questi due poli, ma è rimasto drammaticamente fermo nella zona di nessuno della toppa, dell’aggiustamento, del rinvio, del veto incrociato, del dialogo ridotto a rito. Bisogna prendere atto che la gente vuole decisioni definitive e preferibilmente sensate. Le persone diventano sempre più intolleranti verso soluzioni blande e inefficaci.
La partecipazione, la creazione del consenso, però, non sono un fatto di forma. Decidere soluzioni robuste e in tempi rapidi e costruire un consenso il più vasto possibile devono per forza trovare le condizioni per convivere. La partecipazione è un processo di coinvolgimento necessario perché le soluzioni adottate resistano nel tempo. Gli accordi del 92/93 sul nuovo sistema contrattuale ha retto per un paio di decenni proprio perché fu largamente partecipato. Tutti i protagonisti, quindi, dovrebbero convenire su questo equilibrio e trovare le modalità per renderlo efficace, senza rinfacciarsi volontà di prevaricazione.
Né, infine, va data soverchia cittadinanza alla ventilata sfida tra conservatorismo e riformismo nella dialettica politica e sociale attuale. Il sindacato confederale è costituzionalmente riformista. Forse può indulgere in atteggiamenti para corporativi e sarebbe meglio che non scivolasse in chiusure controproducenti. Ma anche in queste circostanze, la negoziazione è sostanzialmente modalità di gestione del cambiamento, sia nei luoghi di lavoro che nella società, sia che riguardi il salario o il welfare o servizi fondamentali, come la scuola.
Inoltre, il sindacalismo confederale, ha dimostrato sempre di non essere ideologico, di non voler fare battaglie dottrinarie. Da Buozzi, Di Vittorio e Pastore in avanti, la storia del sindacato ha avuto sempre, come minimo, la stella polare del “marciare divisi, colpire uniti”. E allora, a dividere non il sindacato ma il mondo era lo scontro tra democrazia e comunismo, era la “guerra fredda”. Se si rimanesse sul solco di quel riferimento dei “padri”, le derive estremistiche o i tentativi di mettere nell’angolo dell’irrilevanza il sindacato potrebbero essere meglio evitati.
Ma occorre capacità di elaborazione e costruzione di una opinione diffusa che semmai anticipino e non subiscano gli eventi. Tarantelli aiutò tantissimo il sindacato ad affrontare con tempismo e sicurezza la drammaticità dell’alta inflazione e a costruire un nuovo sistema di relazioni sindacali. In un contesto del tutto diverso ma altrettanto difficile, com’è quello attuale, saper scegliere cosa conservare e cosa cambiare è il miglior modo per non essere sopraffatti dalle circostanze.
La questione vera, quindi, resta quella di una strategia di superamento del dualismo nel mercato del lavoro e di pieno coinvolgimento di tutti i lavoratori nella vita del sindacato. Per i gruppi dirigenti del sindacato la sfida di smantellare l’”accerchiamento” è aperta e sotto certi aspetti è inedita, investendo anche le caratteristiche della vita interna alle organizzazioni. Le difficoltà non mancano, ma sono affrontabili, se prevale la voglia di osare, piuttosto che quella di non sporcarsi le mani. “Il meglio che si può ottenere nella vita è di evitare il peggio”, scriveva Calvino ( Se una notte d’inverno un viaggiatore).
L’ottimismo sulla praticabilità di questo disegno a più livelli potrebbe sempre essere smentito dai fatti. Ma si fonda sul convincimento che non si può vivere a lungo spaesati. Non servirebbe a niente; anzi, farebbe prevalere la sfiducia. La ricomposizione del lavoro e di una visione comune del futuro del Paese, oltre che necessaria, deve diventare possibile. Ci vuole, quindi, un’impronta riformista nella quale si riconoscano le forze vitali del Paese. Ed essa non può che lievitare dalla concretezza delle situazioni di vita della gente.
D’altra parte, come è successo in altri momenti della storia del sindacato, è stato sempre nella “nottata” e non quando le cose andavano bene per l’economia e per l’occupazione, che il sindacalismo confederale ha dato il meglio di sé nel fornire ai lavoratori e al Paese certezze, prospettive, spinte al progresso. Anche con scelte costose, poco comprese da alcuni ma assunte con grande visione del futuro dai dirigenti sindacati dell’epoca. Penso, per citarne alcuni, all’accordo sui licenziamenti dell’inizio degli anni 50, a quello di San Valentino del 1984, al superamento della scala mobile del 1992/3. Furono grandi momenti di assunzione di responsabilità, apprezzate da gran parte dei lavoratori e non solo da essi. Una nuova occasione si sta profilando, una nuova fase si può aprire. Bisogna soltanto fare in modo che siano colte, da tutti, con determinazione.
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