“L’Enciclica Laudato sì è una nuova speranza per il Pianeta”.
Intervista a Leonardo Boff

cms-image-000384037L’Enciclica di Papa Francesco dedicata all’ ecologia , ovvero alla “madre terra”, non ha deluso le aspettative. Sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale. Per andare alle “radici” dell’Enciclica abbiamo intervistato il teologo brasiliano Leonardo Boff, uno dei padri della teologia liberazione.  Boff è tra gli ispiratori dell’Enciclica.

 

 

 

Leonardo Boff, per prima cosa partiamo dalle reazioni all’Enciclica in America latina: come è stata accolta?

 

Finora è stata accolta molto bene, persino con una certa perplessità perché nessuno sperava un testo cosi positivo e dentro il nuovo paradigma ecologico. Il Papa ha innovato la discussione proponendo l’ecologia integrale che va ben oltre l’ecologia ambientale dominante.

 

Sicuramente, per lei, questa Enciclica segna la piena riabilitazione del suo lavoro teologico. In particolare quello dedicato all’ecologia. Infatti, nel documento, c’è l’espressione “grido della terra, grido dei poveri” che è sua. Qual è la novità teologica dell’Enciclica?

 

A richiesta dello stesso Papa gli ho inviato molto materiale sull’ecologia, visto che è da 30 anni che lavoro su questo tema. Molto mi ha aiutato la partecipazione alla redazione della “Carta della Terra”, sotto l’egida di Michail Gorbaciov. Questo documento molto simile con l’enciclica è per me l’unico grande documento, assunto dall’UNESCO, che sia stato elaborato totalmente dentro il nuovo paradigma, fondato nelle scienze della vita e della Terra. Io ho insistito insieme al Papa attraverso l’ambasciatore argentino nella Santa Sede che l’enciclica avrebbe tutto da guadagnare, mostrandosi contemporanea del migliore pensiero ecologico, se avesse assunto tale paradigma. Secondo questo paradigma tutte le cose stanno interconnesse formando un grande tutto. Tutto sta in relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa prospettiva aiuta a mostrare che tutti i problemi stanno interconnessi e devono essere affrontati simultaneamente, specie il riscaldamento globale e la povertà delle moltitudini. Sono felice che questa prospettiva sia stata assunta, conferendo grande coerenza e unità al testo. Ciò è una novità nella tradizione del magistero della Chiesa. Il Papa Francesco ha innovato e collocato la Chiesa nel punto più avanzato della discussione ecologica.

 

Le piace il termine “Ecologia integrale”?

 

Il tema “ecologia integrale” è presente in tutti i miei libri e articoli. É la forma di come superiamo il discorso convenzionale che si restringe all’ecologia ambientale, secondo la quale s’immagina che l’essere umano stia al di fuori dell’ambiente e della natura, ma al di sopra dominandola e che non bisogna riconoscere il valore intrinseco di ciascun essere, indipendentemente dall’uso umano. Io ho lavorato di forma coordinata l’ecologia ambientale, politico-sociale, mentale e integrale. Specie ultimamente elaboro un’etica, una spiritualità ecologica e una cultura della cura per la Casa Comune, l’unica che abbiamo per abitare. L’ecologia integrale ha incluso le diverse forme di ecologia, dimostrando però che tutte si articolano tra loro a servizio di una cultura bio-centrata e di una Terra, che molti chiamano “Terra di Buona Speranza”.

 

Quali sono i concetti più belli dell’Enciclica?

 

I concetti centrali, che articolano tutto il testo, sono la concezione  che tutto sta in relazione con tutto. Tutto è relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa è la convinzione della fisica quantistica e della nuova cosmologia. Questa comprensione è teologicamente ben fondata perché si afferma che il Dio cristiano non è la solitudine dell’Uno ma la comunione e la relazione della Santissima Trinità, sempre ed eternamente interconnessi. Se Dio-Trinità sono cosi, relazione, allora tutta la creazione rispecchia la natura relazionale di tutte le cose. Da questo concetto ne deriva un altro, quello dell’interdipendenza tra tutti e della corresponsabilità collettiva per il destino comune, della Terra e dell’umanità. Un altro concetto chiave è quello della cura. Significa una relazione amorosa e non dominatrice con la natura e si oppone frontalmente al paradigma della modernità che e la dominazione dell’altro, dei popoli e della natura. Il Papa denuncia l’espressione maggiore di questa dominazione che è la tecnocrazia. La distingue bene dalla tecnica che ci ha portato tanti benefici. La tecnocrazia rappresenta la dittatura della tecnica, come se tutti i problemi ecologici e umani potessero essere risolti solo per la tecnica. Devono essere presenti la politica, l’etica e una scienza fatta con coscienza, non prioritariamente per il mercato, ma per la vita. Altro concetto importante è il termine “casa comune” per designare la Terra. Cosi è più facile ricordare che tutti abitano lo stesso spazio e che tutti sono fratelli e sorelle gli uni degli altri e anche fratelli del fratello Sole, della sorella Luna e figli della Madre Terra. Questa visione che esiste una fratellanza universale è derivata dalla mistica cosmica di San Francesco, una fonte d’ispirazione per tutta l’enciclica. Essa permette espressioni di grande bellezza, sentimenti di rispetto e di venerazione per tutto quello che esiste e vive. Qui il Papa innova di fronte ai suoi predecessori, in quanto nel suo testo coltiva l’eleganza, la lievità e la poesia.

 

Come verrà declinata, dopo questa Enciclica, la parola “Liberazione”?

 

La teologia della liberazione nacque ascoltando il grido degli oppressi, o nella versione argentina, del popolo messo a tacere e della cultura popolare oppressa. Il “marchio registrato” di questo tipo di teologia è l’opzione per i poveri, contro la povertà e in favore della loro liberazione e della giustizia sociale. A partire dagli anni’80 del secolo passato, alcuni teologi percepirono che all’interno di quest’opzione si sarebbe dovuto collocare il Grande Povero che è la Terra crocefissa, devastata e oppressa. Fu in questo senso che io scrissi nel 1995 il libro “Dignitas Terrae”, ecologia: grido della Terra – grido dei poveri”. Questa espressione è stata coerentemente assunta dall’enciclica. Nacque cosi un’eco-teologia della liberazione. Non fu assunta da tutti, perché questa eco-teologia incorpora i dati delle nuove scienze, come la nuova cosmologia, la fisica quantistica, la nuova biologia. La teologia della liberazione classica dialogava con le scienze sociali, con l’antropologia e con la cultura. Tutti fummo formati dentro questo paradigma. Pochi si sono arrischiati a dialogare con le nuove scienze. Ciò rappresentava una vera rivoluzione intellettuale. Io stesso, feci un grande sforzo per incorporare il nuovo paradigma. Non si tratta di parlare su questo, ma da questo. E da lì tutto cambia e mi resi conto che era più facile fare teologia con questo paradigma che con quello classico. Insieme con il cosmologo nord-americano Mark Hathaway elaborammo tutta una visione nuova in un libro dal titolo “Tao da Libertação” che fu tradotto in italiano nel 2014 da Fazi Editore. Negli USA il libro, nel 2010, ha vinto la medaglia d’oro per la “nuova scienza e cosmologia”. Penso che sia il passo più avanzato della teologia della liberazione.

 

Con questo documento pontificio si mette radicalmente in discussione il “pensiero unico” neoliberista. E’ davvero alternativo al neoliberismo. Le chiedo: l’enciclica potrà avere degli effetti politici?

 

Sicuramente l’enciclica avrà effetti politici. Primariamente perché non è diretta ai cristiani, ma a tutti gli abitanti della Casa Comune. Essa fa severe critiche agli incontri dell’ONU sul riscaldamento globale perché non possiede una visione integrale ma atomizzata e focalizzata solo nell’ecologia ambientale che favorisce l’antropocentrismo, dove si vede appena la relazione dell’essere umano con l’ambiente e la natura, dimenticando che questo essere umano è parte della natura e tra entrambi esistono relazioni inclusive e reciproche. Non mi meraviglierei se nell’incontro in dicembre a Parigi – organizzato dall’ONU, quando si tratterà nuovamente dei cambiamenti climatici, queste questioni fondamentali siano sollevate e cambi il corso delle discussioni. La questione non è appena il riscaldamento globale. Ma il tipo di produzione, distribuzione e consumo che la nostra società ha elaborato negli ultimi secoli, il quale ha richiesto alti costi alla natura e hanno prodotto un’iniqua disuguaglianza sociale, altro nome, dell’ingiustizia sociale mondiale. I cambiamenti climatici sono la conseguenza di questo modo di abitare la Terra, devastandola in vista di un’accumulazione illimitata. Dobbiamo cambiare, altrimenti conosceremo catastrofi ecologico-sociali mai viste prima.

 

Papa Francesco, con l’Enciclica, porta nettamente la Chiesa cattolica sulla frontiera profetica della lotta per la “liberazione dei poveri”. Riuscirà l’intera comunità ecclesiale a reggere il passo di Papa Francesco? Vi saranno conflitti all’interno dell’episcopato?

 

Il problema del Papa non si concentra nella Chiesa, ma nell’umanità. La sua questione non è domandare: che futuro avrà il cristianesimo? Ma la sua preoccupazione risiede in questo: in quale misura il cristianesimo, le altre chiese e cammini spirituali, possono e devono contribuire a salvare la vita sulla Terra e garantire un futuro per la nostra civiltà? Lui ha percepito nubi nere che si annunciano all’orizzonte, anticipando grandi catastrofi, nel caso non facessimo nulla. Ma sempre da’ l’ultima parola alla speranza e alla creatività umana, capace di dare un salto quantistico e conferire un altro corso alla nostra forma di abitare la Casa Comune. Esistono molti cristiani e vescovi che ancora non si sono svegliati di fronte alla gravità dell’attuale situazione che richiede un “cambio di direzione” e, citando la Carta della Terra “cercare un nuovo inizio”. Forse con l’aggravarsi della situazione mondiale, tutti si sveglieranno, poiché – nel caso contrario – potremmo conoscere il cammino già percorso dai dinosauri.

 

Ultima domanda: con Papa Francesco i martiri dell’America Latina tornano a parlare alla Chiesa Universale. Qual è il “seme” di futuro che questi martiri portano all’intera comunità ecclesiale?

 

Il Papa Francesco ha accolto la riflessione che si è fatta in America Latina secondo cui il martire non è appena quello che sacrifica la vita per fedeltà alla fede cristiana. Questo è un martire della Chiesa. Ma esiste anche un altro tipo di martire che sacrifica la vita nella difesa della dignità delle persone e dei loro diritti contro la violenza dei regimi dittatoriali. Questi sono i martiri, come diciamo noi, del Regno di Dio. Il Regno di Dio, il messaggio centrale di Gesù, è fatto di giustizia, d’amore incondizionato, di consegna della propria vita per difendere i violentati, specie i poveri. Questo è un atto d’amore e costituisce il contenuto concreto del grande sogno di Gesù: un Regno di giustizia, di compassione, d’amore, di pace e di totale apertura a Dio. Tutti questi martiri possiedono una connotazione politica. Proprio i Papi hanno definito la politica come una forma mai alta di amore verso il prossimo e di servizio alla giustizia del Regno. In questo senso abbiamo molti martiri nella Chiesa dell’America Latina, poiché molti cristiani, laici e laiche, preti, religiosi e religiose e per lo meno due vescovi, Oscar Romero in San Salvador ed Enrique Angelelli in Argentina furono assassinati per difendere questi valori del Regno di Dio. E anche molti colleghi teologi e teologhe furono sequestrati, barbaramente torturati e assassinati per difendere i poveri e per essersi impegnati nell’osservanza, da parte dello Stato, dei diritti umani universali. Tutti questi sono martiri del Regno di Dio, del quale la Chiesa è segno e sacramento.

 

 

(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)

“L’enciclica di Bergoglio è un atto di accusa contro la codardia della politica”.
Intervista a Massimo Faggioli

 

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Ieri è uscita l’attesa Enciclica di Papa Francesco:   Laudato Sì. Il documento sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale.  Dedicheremo al documento Pontificio una serie di interviste di approfondimento. Oggi ne parliamo con Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas (USA).

 

 

 

 

Professor Faggioli, ieri è uscita la tanto attesa Enciclica di Papa Francesco Laudato sì.  L’Enciclica, molto densa, si presenta come un vero trattato teologico sulla Ecologia. Il Papa propone una “Ecologia integrale”. Quali sono i “pilastri” teologici dell’Enciclica?
L’idea che la vera ecologia ha in mente una antropologia non antropocentrica, ma che si riferisce a Dio come creatore e a tutte le creature come un sistema da rispettare. In questo senso e’ un testo che ha una parte di analisi sociale-politica ma anche una parte mistica e poetica come essenziale a comprendere il creato.
Molti sono i riferimenti a Romano Guardini sulla “fine dell’epoca moderna” (vedi in particolare i cenni sul potere e la tecnologia). Quindi è Una enciclica post-moderna?
E’ post-moderna ma non anti-moderna. Papa Francesco e’ un papa che ha accettato la modernità, non l’ha rigettata, ma ne vede le storture e suggerisce come correggerle. Sarebbe sbagliato (come certi neo-conservatori americani stanno tentando di fare) presentarlo come un anti-moderno, non c’e’ nessuna nostalgia del passato in Francesco.
Nell’enciclica è presente un “misticismo cosmologico”. Una rivincita del gesuita scienziato Teilhard de Chardin
E’ da tempo che i teologi hanno ripreso a leggere Teilhard, ma per molti anni fu un teologo considerato sospetto. Ma e’ uno dei pensatori cattolici più’ importanti del secolo XX e questo suo ritorno e’ uno dei ritorni che caratterizzano il pontificato di Francesco.
Al di là di questi paradigmi teologici e di pensiero, lei ha affermato che il vero messaggio dell’Enciclica è politico. Perché?  Qual’è questo messaggio?
Laudato Si’ e’ anche un documento dal contenuto politico perché’ denuncia la latitanza della politica sulla scena mondiale, messa da parte dall’economia finanziaria e dai grandi interessi dei gruppi industriali e dei paesi ricchi. Il papa afferma che il mercato ha creato delle situazioni di ingiustizia che solo la politica può’ sanare. Quello del papa e’ un atto d’accusa contro la codardia dei politici oggi.
Il documento di Papa Bergoglio si presenta come una critica radicale al sistema finanziario attuale. Lei che vive negli Usa non gli sarà certamente sfuggita la reazione stizzita dei repubblicani americani, e in genere del mondo conservatore. Secondo lei questo avrà degli effetti politici?
E’ presto per dirlo: di sicuro un documento del genere potrà’ difficilmente essere ignorato e mette in imbarazzo i candidati repubblicani alla presidenza, alcuni dei quali sono cattolici molto religiosi.
Ultima domanda: quale impatto avrà nel cattolicesimo mondiale?
Questo documento rende chiara e ufficiale la posizione della chiesa sulla questione. Certamente i cattolici europei, quelli nordamericani, e quelli in Asia sono in condizioni molto diverse tra loro ed e’ solo l’inizio di quello che il papa vuole essere un cammino di conversione.

 

Il sindacato ieri e domani. A trent’ anni dal referendum sulla scala mobile. Una riflessione di Raffaele Morese.

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Nel pomeriggio, presso il Cnel, si svolgerà un convegno, organizzato dall’associazione Koiné e dalle fondazioni sindacali, sulle prospettive del sindacato confederale italiano. La data scelta non è casuale: oggi sono trascorsi trent’anni dal referendum sulla “scala mobile” . Un evento che provocò lacerazione tra i sindacati. All’incontro parteciperanno alcuni protagonisti storici del sindacalismo italiano e della controparte confindustriale , economisti, sociologi. Interverranno anche gli attuali segretari generali di Cgil, Cisl e Uil (Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo).

Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, Raffaele Morese (Presidente dell’Associazione Koiné), il testo della relazione al Convegno.

Trent’anni fa, in questo giorno, si consumò un evento finora rimasto unico. Un referendum chiamava gli italiani a validare o non il decreto di S. Valentino (febbraio 1984) che dava forza di legge (perché nel frattempo convertito) ad un accordo tra il Governo Craxi e tutte le sigle confederali degli imprenditori e dei lavoratori, tranne la CGIL. Un referendum voluto con determinazione quasi testarda dal PCI di Berlinguer, nonostante i tentativi, intrapresi da più parti e dallo stesso Craxi, di trovare un compromesso che lo evitasse. Allora come adesso, pochi hanno creduto che la contesa riguardasse la predeterminazione dell’inflazione al 10,6% (pari a 9 scatti di scala mobile), anche perché l’inflazione, nel frattempo, scese all’8%, proprio per effetto dell’accordo.

Tanti, invece, si resero conto che in ballo c’era molto di più. C’era la necessità di un’inversione di tendenza dalla stagflation; c’era l’esigenza di una concreta politica dei redditi; c’era l’urgenza di non frantumare ulteriormente la coesione sociale. Ma soprattutto c’era in ballo l’equilibrio dei rapporti tra politica e sociale, tra partito e sindacato, tra Governo, opposizioni e parti sociali.

Il risultato è noto. Nonostante il clima arroventato dalle polemiche, gran parte dei protagonisti fece in modo che non si buttasse ancora benzina sul fuoco delle lacerazioni che si erano protratte tra il 1984 e l’85. Non va nascosto, però, che le divergenze di merito formarono lo zoccolo duro delle “diversità” tra le organizzazioni sindacali che tuttora perdura e che sono la ragione che indusse a pensare che un pluralismo virtuoso fosse meglio che un logoro processo unitario. In ogni caso, l’ effetto di quel referendum fu storico.

Si suggellò il definitivo superamento sia dell’egemonia della politica sul sociale, sia dei residui condizionamenti del partito sul sindacato e sia, conseguentemente, della reciproca autonomia nei rapporti tra Governo, opposizione e parti sociali. Una fase nuova si apriva nello scenario delle relazioni tra i vari protagonisti della politica e del sociale, anche perché – contemporaneamente – perdeva vigore ogni velleità pansindacale (il “salario, variabile indipendente”) che pure aveva caratterizzato un bel pezzo del periodo precedente quell’evento.

L’idea di una diversa e più consistente assunzione di responsabilità stava prendendo corpo attorno alla costruzione di un sistema di partecipazione che venne chiamata concertazione e che trovò la sua formalizzazione negli accordi del 1992 (Governo Amato) e 1993 (Governo Ciampi) sul superamento della scala mobile e la creazione di un nuovo sistema di regole contrattuali che Giugni definì “la nuova costituzione delle relazioni sindacali”. Fu un decennio (perché in realtà tutto incominciò con il “lodo Scotti”, Ministro del lavoro del Governo Spadolini nel 1983) di forte anche se dolorosa iniziativa riformistica del sindacato confederale.

Ma che senso ha rievocare quegli eventi, oggi? Il mondo è cambiato tantissimo. I problemi e le soluzioni non possono trovare nel passato ispirazione operativa. I protagonisti collettivi hanno subito mutazioni culturali e politiche profonde, finanche sul piano rappresentativo e nominalistico (la più recente aggregazione politica si chiama nientedimeno “conservatori e riformisti”). Soprattutto, c’è stato un progressivo svuotamento del concetto di massa, della compattezza culturale e di status degli strati sociali. La società si è fatta liquida, come ci hanno convinto le argomentazioni di Zygmunt Bauman e le condizioni di vita, di benessere, di lavoro, di espressione sociale e politica si sono sventagliate su un fronte vasto di identità.
Se così è, le cose si complicano non poco. E la rievocazione potrebbe essere archiviata a memoria storica. Il fatto, però, è che quell’evento non fu provocato da banali interessi e spicciole convenienze ma da scelte valoriali che anche nella nuova situazione mantengono intatto il loro influsso e la loro incidenza. Allora come oggi, la solidarietà emergeva come collante non effimero e predicatorio di una società impaurita dagli eventi, a disagio di fronte al futuro, incollerita per le disuguaglianze montanti e per una morale politica degenerata.

Allora ma ancora di più oggi, il conflitto è fra il capitale che è global e si dispiega con una disinvoltura spesso cinica nel cogliere le migliori opportunità nel mondo, mentre il lavoro è local, meno mobile e soprattutto è sottoposto a carichi di dolore e sofferenza e di travolgimenti personali e collettivi che i detentori di capitali né conoscono e né riconoscono.
E infine, allora e anche oggi, il valore della rappresentanza politica e sociale viene scosso anche violentemente ma non negato e la questione che si ripropone è la necessità di visioni convincenti e di soggetti che le sappiano trasformare in obiettivi praticabili e praticati. Ricondurre la soggettività dei singoli ad una identità collettiva è fatica molto più grande che nel passato, è la stessa fatica che occorre mettere in campo per ridefinire destra e sinistra.

E’ quanto mai urgente affrontare questo groviglio di questioni. Non tifando ma discutendo, senza pregiudizi, possibilmente. Con una premessa. La società nella quale ci riconosciamo è quella disegnata dalla Costituzione, con istituzioni, partiti e corpi intermedi che possano agire – ciascuno per il proprio ruolo – per migliorare la vita degli italiani.
In particolare, i corpi intermedi della società e le organizzazioni di rappresentanza, in particolare, non possono essere considerati da nessuno come un intralcio, un fastidio, un’ inutilità da parte delle istituzioni o dei partiti. Si può non essere d’accordo con le loro scelte, ma non si possono considerare degli ectoplasmi di una società.
Specie quando la questione centrale di una società come la nostra è il lavoro, il suo futuro, la sua capacità di far realizzare le persone, la sua ragione di sempre: la dignità. Ma è meglio essere più precisi. All’ordine del giorno si sta imponendo l’esigenza della ricomposizione del mondo del lavoro. Senza un’opera di lunga lena che riconnetta ciò che in questi anni è stato frantumato, è veramente difficile dare centralità al lavoro.

Il che vuol dire dare lavoro dignitoso a chi non ce l’ha. Dare stabilità a chi un lavoro ce l’ha ma è segnato dalla “cattiva flessibilità”. Fare in modo che chi un lavoro stabile ce l’ha, non corra il rischio di perderlo e di non trovarne un altro. In questi anni, queste varie sfaccettature del lavoro non hanno avuto la stessa importanza, attenzione, visibilità.
C’è bisogno di discontinuità nell’azione di tutti i soggetti che intervengono intorno a questo tema. Troppi anni sono stati spesi inseguendo una crescita della produttività agendo prevalentemente sulla componente costo del lavoro, in special modo forzando le maglie di una pur necessaria flessibilità dei contratti, usabili dalle aziende e dalle istituzioni pubbliche.
Infatti, in questi ultimi trenta anni, il salario reale è stato sostanzialmente e mediamente tutelato dalla contrattazione (smentendo quanti vedevano nell’abbandono della scala mobile l’inizio della fine della difesa del salario dall’inflazione). Il sindacato, come autorità salariale, ne esce vincente, anche se una buona quota della crescita è stata assorbita dal prelievo fiscale e para fiscale.
Ma è un successo zoppo. In questi trenta anni, la quota del salario rispetto ai profitti e alle rendite ha subito una compressione. Inoltre, l’azione salariale del sindacato non è stata sufficiente a stimolare la crescita della produttività industriale e di sistema, come avvenne negli anni 70 del secolo scorso. Infatti, non solo la contrattazione di secondo livello non si è estesa come auspicava l’accordo del 92/93 specie quella sull’organizzazione del lavoro, ma si è allargata in modo strutturale la fascia dell’occupazione non standard. Questa, assieme al persistere del lavoro nero e delle produzioni irregolari, hanno contribuito – ma, ovviamente, la responsabilità maggiore è di un’imprenditoria dimostratasi non lungimirante – ad infiacchire la spinta agli investimenti innovativi e quindi a mantenere bassa l’ efficienza delle produzioni di beni e servizi.

Ora che il Governo, indipendentemente dal giudizio che possiamo avere sul Jobs Act, dimostra di voler favorire la riduzione dell’area del lavoro non standard ben oltre il settore privato, come sembra di perseguire nella scuola, bisognerebbe smettere di fare nuove norme sul mercato del lavoro. Bisognerebbe dissuadere quanti vogliono mettere le mani sui contratti con regole lombrosiane (nel decreto per il riordino dei contratti gli articoli sono 57 di cui 11 riguardano soltanto il contratto a tempo determinato). Bisognerebbe convincere quelli che vorrebbero introdurre per legge il salario minimo che così non si tutelano i nuovi mestieri e le nuove professionalità, ma si favoriscono soltanto quegli imprenditori che vogliono uscire dalla cornice protettiva dei contratti collettivi nazionali.
L’impegno maggiore dovrebbe essere spostato sulle misure per far crescere la produttività e l’occupazione. E per praticare questa strategia, non servono scelte lineari, ma mirate a dare risposte a situazioni che sono oggettivamente articolate. Si insiste molto sulla stretta correlazione tra occupazione e crescita del sistema produttivo. Ma non si discute molto su come realizzarla.
Alla parte produttiva che vive di esportazioni, il basso costo del petrolio, l’euro premiato rispetto al dollaro, le iniezioni di liquidità della Bce bastano ed avanzano per rendere competitivi i loro beni sui mercati del mondo. Anzi, per alcune aziende va aggiunto che anche il costo del lavoro è fattore di vantaggio rispetto ai loro concorrenti. I dati lo confermano: nel 2014, l’export italiano della meccanica ha superato gli 80 miliardi di euro contro i 50 del 2002 (Istat).
Di conseguenza, le risorse pubbliche andrebbero mirate alla riattivare della produzione di beni e servizi destinati alla domanda interna. Ma anche su questo fronte, sarebbe inutile agire sul lato delle incentivazioni alle aziende. Al netto della stabilizzazione strutturale della decontribuzione dei nuovi assunti, per favorire la ripresa dei consumi, va privilegiata la riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi, obiettivo per il quale ci sono molte ragioni a favore, tante aspettative maturate ma scarse volontà a trasformarle in certezza.
Infine, investimenti pubblici ed incentivi per quelli privati andrebbero spinti per coprire il vuoto lasciato dal quel 25% della produzione industriale persa definitivamente nel corso degli ultimi 7 anni. Industrie e servizi efficienti e tecnologicamente avanzati dovrebbe essere la priorità per non perdere i contatti con il futuro e per allargare gli spazi occupazionali. Se bisogna sostituire la parte distrutta e sostenere quella sopravvissuta del tessuto produttivo italiano, la politica industriale che si deve affermare non può che essere “ricostruttiva” e muoversi su due livelli.
Quello della dotazione di progetti e di risorse. Hanno ragione quanti sostengono che non basta inondare di liquidità le banche. Il Quantitative easing della Bce è importante, sarà utile ma la risposta soltanto monetaria – specie con i vincoli che l’accompagnano – non è sufficiente per garantire la ricostruzione. Ci vogliono piani di investimenti pensati per il medio e lungo periodo, a redditività differita, riguardanti beni “reali” sulla falsa riga di quanto previsto dal Piano Juncker. Il quale, ha un serio tallone d’Achille: la sua dotazione finanziaria. All’Italia, ha scritto Vaciago, “i mancati investimenti (pubblici e privati) degli ultimi dieci anni (in molti casi, non sono state fatte neppure le manutenzioni, cioè si è mangiato il capitale) e la stessa capacità di sostituire il capitale che la crisi ha reso obsoleto, ci dicono che nei prossimi anni abbiamo bisogno di un volume d’investimenti dell’ordine di quanto il Presidente Juncker ha proposto per l’intera Unione europea “ (Il sole24 ore 18/04/2015).
Il secondo livello è quello della governance. Senza “Eta Beta” che guidano la pratica attuazione di una politica per l’economia della conoscenza, fatta di progetti e risorse, si rischia di fare la fine dei “tagli lineari”: dare corpo all’irrilevanza dei fini. Le erogazioni a pioggia hanno l’effetto di allocare risorse a caso. Può andare bene, ma anche male. Un sistema di regie è necessario. Specie ora che le grandi famiglie industriali, quelle del miracolo economico della metà degli anni 60 dello scorso secolo, sono praticamente sparite o trasferitesi altrove. Nessuno è nostalgico dell’IRI (specie quello dell’ultimo periodo), ma qualcuno che faccia da “pivot”, in una squadra di imprenditori privati e pubblici di media e piccola stazza ci deve pur essere. Di fatto è in campo soltanto la Cassa Depositi e Prestiti, ma non è un soggetto imprenditoriale, neanche se si fa un cambio della guardia al suo vertice in chiave industrialista. Gestendo il risparmio degli italiani che si affidano alle Poste, non può che camminare con un passo felpato lungo il sentiero, in parte imprevedibile, del futuro dell’industria italiana.
Soluzioni preconfezionate non ce ne sono. Esempi interessanti soprattutto negli Stati Uniti o in Germania sono a disposizione. L’importante è che si formino uno o più sistemi di governance capaci di rieducare i cicli economici e finanziari, abituandoli all’idea della redditività differita nel tempo e consentendo di mettere in sinergia l’imprenditorialità privata, le risorse delle università e i centri di ricerca pubblici e privati.
Anche se si pensa al Mezzogiorno, l’attuale economia della sopravvivenza può essere soppiantata dall’economia dell’innovazione se si riempie il vuoto di governance strategica. Le Regioni hanno dimostrato di non esserne capaci. Restituiscono soldi a Bruxelles. E quelli che riescono a spendere, se sottoposti a criteri di costi/benefici, molto spesso farebbero una cattiva figura. Sarebbe necessaria la creazione di tante “Fondazioni con il Sud”, capaci di orientare e sviluppare iniziative che nascano dal territorio e che devono essere sostenute nel loro progresso verso l’ampliamento dei mercati.
Come non bisogna escludere di utilizzare le potenzialità finanziarie dei Fondi Pensione contrattati, da orientare verso gli investimenti bisognosi di capitali pazienti, piuttosto che continuare a delegare ad altri soggetti finanziari, per quanto seri e affidabili, le strategie di allocazione delle risorse, che finiscono, semmai, per sostenere aziende estere e in alcuni casi anche eticamente discutibili (produttori di armi).
Ma nessun economista obiettivo può garantire che la piena occupazione, specie giovanile, possa essere soddisfatta, anche se si dovessero realizzare tutte queste condizioni. Essa resterà sempre sullo sfondo, lontano da visibilità normali. A meno che non si proceda verso una diffusa e strutturale ripartizione del tempo di lavoro. Ciò si potrebbe attuare finanziando i contratti di solidarietà passivi ma soprattutto attivi. La legge c’è già, ma allo stato, soltanto i primi dispongono di risorse, abbastanza risicate. Resta scoperta la possibilità di attivare contratti di solidarietà attivi, quelli che possono riguardare aziende che utilizzano al massimo gli impianti ma intendono ridistribuire il lavoro al fine di realizzare nuove assunzioni, possibilmente di giovani.
Ovviamente, questa ipotesi non può essere confusa con un surrettizio “imponibile di manodopera”; l’obiettivo è quello di non modificare il costo del lavoro complessivo e la sua realizzazione è lasciata alla libera volontà delle aziende e dei lavoratori. A tal fine, sarebbe un significativo segnale verso i giovani in cerca di lavoro se si pervenisse ad un’intesa tra Governo e parti sociali per definire la cornice negoziale per attivare l’utilizzazione delle risorse disponibili, fermo restando che la reale concretizzazione delle finalità della riduzione dell’orario di lavoro è affidata alla gestione contrattata della riorganizzazione aziendale del lavoro.
Un progetto come questo sarebbe ancora più apprezzabile se non si limitasse a prevedere soltanto la riduzione dell’orario di lavoro e le sue modalità decentrate ed articolate, ma anche e soprattutto se disegnasse un nuovo paradigma tra tempo di lavoro e tempo di vita per ciascuna persona, in relazione alle proprie necessità, interessi e persino desideri. Non riguarda soltanto la dimensione del tempo libero ma l’attivazione di servizi al lavoro, tra cui spicca con sempre maggiore importanza la formazione continua. Questo capitolo del futuro del lavoro lo devono proporre prioritariamente i sindacati confederali, senza attendere l’iniziativa delle aziende o del Governo. E lo devono fare partendo dalle esigenze e dalle aspettative sia di chi lavora che di chi è disoccupato.
Questo riferimento all’azione dal basso, consente di aprire una finestra su un altro aspetto della produttività: quello dell’organizzazione aziendale. Le imprese che si stanno impegnando per uscire indenni dalla crisi e quelle che stanno emergendo nella crisi puntano su forti innovazioni tecnologiche e organizzative per le quali la qualità del lavoro è condizione fondamentale e non facilmente fungibile. Anzi, scelgono con convinzione la strada della partecipazione dei lavoratori al miglioramento e alla gestione del lavoro quotidiano. Tutto questo è presente in molti accordi, quasi sempre unitari, che si sono succeduti in questi anni, ai margini delle cronache, giustamente infittite dalle vicende drammatiche e complesse riguardanti la perdita del lavoro.
Dove il lavoro c’era ancora, imprese e sindacati, management e lavoratori hanno imboccato la strada dello scambio tra miglioramento della produttività e ridistribuzione del valore aggiunto ai lavoratori. E spesso non solo in termini di salario ma anche in termini di partecipazione organizzata al cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Inoltre, non mancano accordi dove lo scambio ha riguardato servizi e prestazioni più corrispondenti alle aspettative delle persone. Si badi, non c’è niente di paternalistico da parte delle aziende in fatto di welfare aziendale. Lo dichiarano esplicitamente. Sono disponibili a venire incontro ad esigenze che il sistema pubblico non è più in condizioni di assicurare o che è in ritardo nel recepirle, individuando le risorse nei mutamenti efficientistici dell’organizzazione del lavoro.
Lavoratori e sindacati hanno risposto in maniera esemplare. Non parti uguali, ma selezione delle priorità. Non i soliti “pochi, maledetti e subito”(con riferimento ai soldi), ma individuazione degli interventi più efficaci per far star meglio quelli che hanno esigenze più pressanti. E’ significativo che bambini e anziani sono le preoccupazioni che spingono a definire tante forme di sostegno a quelle famiglie che li hanno semmai entrambi in casa, senza distinguere sui destinatari, perché si parla sempre di lavoratori e non di uomini o donne. Soluzioni che vanno oltre le agevolazioni di legge. Misure che travalicano le prescrizioni del contratto nazionale. Mezzi e strumenti che nascono dal confronto tra le parti, vengono riadattati sulla scorta dell’esperienza e si proiettano nel territorio, provocando, spesso, anche lì, un salto di qualità. Specie dove prevale la piccola azienda.
La contrattazione decentrata, piuttosto che il contratto nazionale, si sta rivelando la fucina dell’innovazione contrattuale e della misurazione dell’efficacia del ruolo del sindacato. Ed è ad essa che va affidata la migliore combinazione tra le esigenze di produttività, la massimizzazione dell’occupazione e i bisogni dei lavoratori. Questo non significa buttare a mare il contratto nazionale. Carsicamente, fa capolino il mantra del livello unico contrattuale. Piuttosto occorrerebbe ripensare ruolo, tempi di vigenza e poteri regolatori del contratto nazionale in una fase inedita ma non di breve periodo. Quella che mischia inflazione bassa, disomogeneità forti delle condizioni delle aziende, interessi convergenti o accentuati più sulla filiera della crescita del valore o del distretto produttivo che di quella settoriale e territoriale.
Ricomporre le tante facce del lavoro non standard con quello standard, significa scongiurare la radicalizzazione del carattere dualistico e diseguale del mercato del lavoro e la solidificazione di una tremenda faglia che può terremotare definitivamente il rapporto tra le generazioni: tra chi ha rappresentanza sociale e chi non ce l’ha; tra chi ha tutele decenti se non forti e chi non ce l’ha; tra chi ha avuto la possibilità di costruirsi un futuro dove passare decorosamente la sua vecchiaia e chi questa possibilità di “futuro” non ce l’ha.
Significa anche interrompere il vero ”accerchiamento”, per dirla con Guido Baglioni, che il sindacalismo confederale sta subendo da un tempo non breve. Premesso che questo non può essere ragione di frustrazione – ma la notevole adesione organizzativa fa da antidoto, nei gruppi dirigenti, a questa inclinazione – né che valga la pena di rintuzzare quanti vorrebbero amplificare il fenomeno a fini denigratori, la questione è sul tavolo.
Basta tener presente, tra i tanti elementi oggettivi dell’”accerchiamento”, il dato della proliferazione dei contratti collettivi nazionali. Non è il più eclatante, ma proprio per questo, significativo di una tendenza opposta a quella che si proclama: la loro semplificazione e riduzione. Infatti, se nel 2011 i CCNL depositati al Cnel per obbligo di legge erano 509, alla fine del 2014 erano diventati ben 708. Alcuni sono gestiti dai tradizionali soggetti contrattuali ma parecchi riguardano associazioni datoriali e sindacati dei lavoratori, non certificati sul piano della loro rappresentatività, che hanno firmano uno o più contratti fotocopia e hanno costruiscono attorno ad essi un’organizzazione, centri servizi, patronati, caaf, formazione, presenze istituzionali; in definitiva, si sono assicurati la possibilità di essere sul “mercato” a prescindere dalla consistenza rappresentativa.
Può darsi che una legge di sostegno agli accordi tra le parti sociali sulla rappresentanza possa dare una mano ad evitare le degenerazioni rappresentative. Ma la questione è politica ed espone il sindacalismo confederale alla riqualificazione della propria identità. Il passaggio decisivo è quello della rimessa assieme dei cocci, della necessità che i deboli siano tutelati come i forti del mercato del lavoro, della inclusione dei nuovi lavori nella rappresentanza consolidata di quelli di più lunga data.
Optare per questa non facile ma possibile prospettiva implica dare il giusto peso ad altre ragioni dell’”accerchiamento” che pur ci sono. Basti pensare al risorgente attrito tra il primato della politica e quello del sociale. La nostra società è talmente complessa – e le recenti elezioni regionali aggiungono indizio ad indizi, prefigurando una certezza – che è impensabile riprodurre uno schema di relazioni per cui i corpi intermedi siano subalterni alla politica o che le istituzioni sono per principio organizzatrici di consenso. L’autonomia propositiva e rappresentativa delle istituzioni, dei partiti e dei sindacati – ciascuno per proprio conto – è un dato costituente delle dinamiche sociali e politiche. Almeno dal quel referendum dell’85.
Nessuna forzatura reale è possibile. Certo, non è tempo per applicare a questi tre soggetti la teoria dei giochi del matematico Nash, recentemente scomparso. Ma neanche che, in alternativa ad un sistema a somma zero, si possa sostituire un’egemonia schiacciante di uno di essi. Ovviamente, il rischio è maggiore se il sindacalismo confederale si presenta in ordine sparso, specie in un momento in cui sembra che, soprattutto per ragioni politiche, gli accordi separati sono meno perseguiti che in altre fasi più recenti. Però non sembrano esserci motivi sufficienti per enfatizzare lo scontro tra politica e sociale.
C’è un altro tema che può risultare deviante: quello di un conflitto tra decisionismo e partecipazione. Ha avuto un’accelerazione sin dal Governo Monti ma ora è ancora più pressante, come se la necessità di assumere decisioni “toste” dovesse sempre avere la precedenza sulle ragioni della partecipazione. La realtà è che, per una lunga stagione, il pendolo non ha oscillato tra questi due poli, ma è rimasto drammaticamente fermo nella zona di nessuno della toppa, dell’aggiustamento, del rinvio, del veto incrociato, del dialogo ridotto a rito. Bisogna prendere atto che la gente vuole decisioni definitive e preferibilmente sensate. Le persone diventano sempre più intolleranti verso soluzioni blande e inefficaci.
La partecipazione, la creazione del consenso, però, non sono un fatto di forma. Decidere soluzioni robuste e in tempi rapidi e costruire un consenso il più vasto possibile devono per forza trovare le condizioni per convivere. La partecipazione è un processo di coinvolgimento necessario perché le soluzioni adottate resistano nel tempo. Gli accordi del 92/93 sul nuovo sistema contrattuale ha retto per un paio di decenni proprio perché fu largamente partecipato. Tutti i protagonisti, quindi, dovrebbero convenire su questo equilibrio e trovare le modalità per renderlo efficace, senza rinfacciarsi volontà di prevaricazione.
Né, infine, va data soverchia cittadinanza alla ventilata sfida tra conservatorismo e riformismo nella dialettica politica e sociale attuale. Il sindacato confederale è costituzionalmente riformista. Forse può indulgere in atteggiamenti para corporativi e sarebbe meglio che non scivolasse in chiusure controproducenti. Ma anche in queste circostanze, la negoziazione è sostanzialmente modalità di gestione del cambiamento, sia nei luoghi di lavoro che nella società, sia che riguardi il salario o il welfare o servizi fondamentali, come la scuola.
Inoltre, il sindacalismo confederale, ha dimostrato sempre di non essere ideologico, di non voler fare battaglie dottrinarie. Da Buozzi, Di Vittorio e Pastore in avanti, la storia del sindacato ha avuto sempre, come minimo, la stella polare del “marciare divisi, colpire uniti”. E allora, a dividere non il sindacato ma il mondo era lo scontro tra democrazia e comunismo, era la “guerra fredda”. Se si rimanesse sul solco di quel riferimento dei “padri”, le derive estremistiche o i tentativi di mettere nell’angolo dell’irrilevanza il sindacato potrebbero essere meglio evitati.
Ma occorre capacità di elaborazione e costruzione di una opinione diffusa che semmai anticipino e non subiscano gli eventi. Tarantelli aiutò tantissimo il sindacato ad affrontare con tempismo e sicurezza la drammaticità dell’alta inflazione e a costruire un nuovo sistema di relazioni sindacali. In un contesto del tutto diverso ma altrettanto difficile, com’è quello attuale, saper scegliere cosa conservare e cosa cambiare è il miglior modo per non essere sopraffatti dalle circostanze.
La questione vera, quindi, resta quella di una strategia di superamento del dualismo nel mercato del lavoro e di pieno coinvolgimento di tutti i lavoratori nella vita del sindacato. Per i gruppi dirigenti del sindacato la sfida di smantellare l’”accerchiamento” è aperta e sotto certi aspetti è inedita, investendo anche le caratteristiche della vita interna alle organizzazioni. Le difficoltà non mancano, ma sono affrontabili, se prevale la voglia di osare, piuttosto che quella di non sporcarsi le mani. “Il meglio che si può ottenere nella vita è di evitare il peggio”, scriveva Calvino ( Se una notte d’inverno un viaggiatore).
L’ottimismo sulla praticabilità di questo disegno a più livelli potrebbe sempre essere smentito dai fatti. Ma si fonda sul convincimento che non si può vivere a lungo spaesati. Non servirebbe a niente; anzi, farebbe prevalere la sfiducia. La ricomposizione del lavoro e di una visione comune del futuro del Paese, oltre che necessaria, deve diventare possibile. Ci vuole, quindi, un’impronta riformista nella quale si riconoscano le forze vitali del Paese. Ed essa non può che lievitare dalla concretezza delle situazioni di vita della gente.
D’altra parte, come è successo in altri momenti della storia del sindacato, è stato sempre nella “nottata” e non quando le cose andavano bene per l’economia e per l’occupazione, che il sindacalismo confederale ha dato il meglio di sé nel fornire ai lavoratori e al Paese certezze, prospettive, spinte al progresso. Anche con scelte costose, poco comprese da alcuni ma assunte con grande visione del futuro dai dirigenti sindacati dell’epoca. Penso, per citarne alcuni, all’accordo sui licenziamenti dell’inizio degli anni 50, a quello di San Valentino del 1984, al superamento della scala mobile del 1992/3. Furono grandi momenti di assunzione di responsabilità, apprezzate da gran parte dei lavoratori e non solo da essi. Una nuova occasione si sta profilando, una nuova fase si può aprire. Bisogna soltanto fare in modo che siano colte, da tutti, con determinazione.

“Inno alla vita”.
Intervista a Vito Mancuso.

1014343_371075966327323_1514365032_nquesta_vita_bigVito Mancuso, è un filosofo-teologo, per certi versi, “atipico” rispetto alla teologia ufficiale. Resta un punto interessante della sua riflessione teologica: lui vuol rendere ragione della speranza cristiana. E lo fa con la mediazione della cultura contemporanea. Come in questo suo ultimo libro, “Questa vita” (ed. Garzanti), dove ci vuole offrire una “spiritualità dell’armonia” dell’armonia della vita, che metta in discussione alcuni paradigmi contemporanei (ovvero la visione meramente strumentale della natura). 

Qual è la logica profonda della vita?

La logica profonda della vita, da come la interpreto io e come tento di riesprimerla nei libri, è quella della relazione armoniosa e generatrice di vita e che appare in modo paradigmatico nel rapporto madre-figlio. Sono consapevole che la vita oltre che armonia contiene disarmonia, oltre che generazione contiene degenerazione, oltre che vita contiene morte. Insomma il negativo mi è ben presente, però vedo che questo momento che chiamiamo negativo è in funzione di un momento più ampio, più profondo che è la generazione della vita. Se gli animali tolgono la vita ad altri animali lo fanno per nutrire se stessi e per la riproduzione della specie. È questo il vero obiettivo dell’esistenza, la vita che genera vita, l’armonia. Una armonia che si farà sempre più complessa.

Lei si schiera contro due opposte visioni: da un lato quello che vede la vita come l’espressione necessaria di un “progetto” che scende dall’alto, e dall’altro quella che la vede come una lotta selvaggia di tutti contro tutti. Propone una nuova “visione” espressa in questo “paradigma”: “Logos+caos=pathos”. Una cosa un poco complessa. Cosa significa e come , viene declinato?

Io parto dal presupposto he ho imparato da Hegel che tutte le filosofie, tutte le visioni del mondo in qualche modo sono vere e tutte sono false, perché nessuna è completa in se stessa. Io penso che ci sia effettivamente un progetto, una direzione dell’essere e in questo vedo la verità di quella parte di umanità che ragiona alla luce di un progetto intelligente, al contempo vedo la verità di chi nega tutto ciò e di chi pensa che esista una contingenza arbitraria, selvaggia, senza progetto. Sono due visioni che si contrappongono ma che sanno cogliere parte della totalità. Cosa dice questa totalità? Con quella formula logos+caos=pathos cerco di tenere insieme queste visioni. Il logos rinvia alla ragione, alla logica, una direzione o un senso nelle cose lo dimostra il fatto della mente che si interroga, mente che è scaturita dal caos primordiale. Allora o noi pensiamo ad una serie di coincidenze, combinazioni assolutamente fortuite o obiettivamente rintracciamo una direzione. Al contempo c’è il caos, il logos non domina tutto il reale, si impasta con il reale, se dominasse tutto il reale non ci sarebbe la libertà e non ci sarebbe la vita. Questi due elementi insieme danno il pathos, cioè passione, nel senso di ciò che appassiona, ma anche ciò che fa soffrire, la vita è anche sofferenza.

Da questo paradigma lei fa “discendere”  lo stare al mondo con “ottimismo   drammatico”.  Una polarità, per dirla con Romano Guardini, dinamica…è così?

È una formula che amo molto, ripresa da un grande teologo russo Pavel Florenskij, lui in realtà parlava di ottimismo tragico, io preferisco drammatico, perché dramma in greco significa “azione”, quindi rimanda ad un ottimismo processuale, qualcosa che si fa. Questa è una formula che traduce quello che dicevo.

Lei parla dell’essere come “energia”, e quindi non come “sostanza”. Eppure, direbbero i padri della metafisica senza “sostanza” non siamo. Può spiegarci, allora, la “dinamica” dell’essere-energia?

Qui ci muoviamo su livelli di cose molto complesso, posso dire quel poco che io riesco a capire è che tutto si muove, e in questo movimento tutto è a lavoro, energia dal greco significa “al lavoro, all’opera, in atto”. Questa è la comprensione più matura di quel fenomeno a cui gli antichi si sono sempre rivolti con il nome di “essere”, penando l’essere come già compiuto, il mondo come eterno, come perfetto, Aristotele da questo punto di vista è il padre di questa prospettiva. La prima categoria mediante la quale si pensa l’essere è la sostanza. Questo discende dal fatto che il mondo è un “entelechia”, una perfezione, è eterno, è compiuto, tutto è già compiuto. Oggi questa visione, che è stata alla base del pensiero cristiano, tenuto conto che Aristotele è stato il filosofo su cui Tommaso D’Aquino ha basato la sua teologia, oggi questa filosofia risulta falsa, c’è un’evoluzione della vita, un’evoluzione del cosmo, perché l’essere è al lavoro, occorre pensarlo come movimento, come energia. Naturalmente l’essere non è solo energia, ma è anche informazione, perché l’energia diventa lavoro ordinato quando viene informata, quando c’è un’intelligenza, che splama, che mette ordine all’energia.

Ed ecco che si compie la svolta del suo paradigma: la vita oltre che “curata”, conosciuta, va “nutrita” . Ci sono pagine, nel libro,  intense sul “nutrimento”. Nutrimento che tocca più livelli… Dall’emozione al cibo…Di cosa manca l’uomo contemporaneo?

A livello del discorso in cui siamo secondo me quello che manca è una comprensione integrale del fenomeno che chiamiamo vita. La vita non è solo vita fisica, ma la vita si dice in molti modi. I greci antichi avevano tre termini bios, fenomeno biologico, zoe, vita animale, vitale, psiche, vita psichica. Dobbiamo pensare la vita come formata da corpo, psiche e spirito, quindi nutrire la vita significa nutrire tutti e tre. Mentre oggi si ha ben chiaro il nutrimento del corpo e abbastanza chiaro il nutrimento della psiche, non si ha abbastanza chiaro quando si deve pensare al nutrimento dello spirito. Questo secondo me è il grande limite della contemporaneità.

Venendo al cibo, siamo nel tempo dell’Expo, lei è un sostenitore della dieta vegetariana. Perché?

Io semplicemente nel libro testimonio – non è nient’altro che testimonianza – il fatto che da qualche anno a questa parte non mangio più carne per celebrare la vita in un certo senso, per rendermi più attento alla comunione di tutti gli esseri viventi, noi siamo “created from animals”, creati a partire dagli animali, senza gli animali non saremmo qui né dal punto di vista evolutivo né come fotografia dell’esistenza. La nostra vita è intimamente connessa a quella degli altri esseri viventi. Ecco prendere consapevolezza di questo è  prendere consapevolezza del dolore che l’esserci come esistenza vitale provoca ad altri animali, prendere consapevolezza di questo significa chiedersi che cosa si può fare per diminuire questo dolore. Non ci sarà mai la possibilità finché ci sarà la vita in questo mondo, di vivere un mondo senza dolore, io sono consapevole che anche la dieta vegetariana non è tale da impedire completamente di procurare dolore ad altri esseri viventi. Quando uno mangia un pezzo di pane sembra che non faccia niente di male a nessuno, ma l’aratro quando entra nel campo per seminare è probabile che abbia ucciso diversi microrganismi. Quindi non c’è la possibilità di una zona incontaminata, però c’è la possibilità di diminuirla ed è questo il senso della dieta vegetariana.

Lei, nel suo libro, fa una feroce critica, come abbiamo già detto, alla visione contemporanea della natura, e propone una  spiritualità dell’armonia. Quali sono i capisaldi?

I capisaldi della spiritualità e dell’armonia sono anzitutto un desiderio chiamiamolo formale. Cosa vuol dire? Vuol dire che noi possiamo scegliere, guardando il mondo, il punto di vista. Il mondo contiene fenomeni negativi e fenomeni positivi. Qual è il punto di vista per cogliere ciò che c’è di più importante nel mondo? Il punto di vista della spiritualità come armonia è quello che privilegia il bello, la giustizia, la verità (essere veritieri), è quello che privilegia il lato positivo della vita, è sostanzialmente l’ottimismo, che non ignora tutte le dimensioni di negativo, ma che vuole fare leva sul famoso bicchiere mezzo pieno per costruire la propria visione di mondo.

In-fine, Professore, cos’è la vita?

Dipende qual è il punto di vista da cui ci mettiamo, se ragioniamo da fisici, da scienziati, da amanti. Tutte le risposte sono plausibili al riguardo. Mi viene in mente il volto sorridente di Albert Schweitzer con i suoi baffoni, lui che era un grandissimo musicista, poi filosofo e teologo che lasciò tutto, si iscrisse a medicina e poi lasciò l’Europa e andò nel centro dell’Africa e passò la vita a curare malattie incurabili. Proprio per questo ricevette il Premio Nobel per la pace. Lui diceva rispetto per la vita, questo è il fondamento per l’etica, per una libertà che responsabilmente decide come vivere. Un fenomeno incredibile, meraviglioso, di ciò che la scienza dice di noi. Pensiamo come sia complessa la vita, come sia preziosa. Forse il nostro pianeta è l’unico su cui la vita si è prodotta, forse. È un fenomeno estremamente prezioso, di rispettarlo con tutti i mezzi, avendo questo rispetto, questa reverenza.

 

Elezioni 2015 : La “brutta vittoria” del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Dopo il voto delle regionali il PD si sta interrogando, con forte tensione, sulle cause di questa “brutta vittoria”. Ne parliamo con Giorgio Tonini, vice-presidente del gruppo PD al Senato.

Senatore Tonini, il test elettorale delle regionali segna, al di là del dato numerico (5 a 2 a favore del PD), una battuta d’arresto della forza propulsiva di Renzi. La clamorosa sconfitta della Paita in Liguria e quella della Moretti in Veneto pongono problemi politici pesanti. Cosa non ha funzionato?

Lei dice “al di là del dato numerico”. E certo non possiamo fermarci al 5 a 2. Ma non possiamo neppure prescinderne. In qualunque paese del mondo, un partito di governo che, a più di un anno dal suo insediamento, a luna di miele col paese ormai dimenticata, nel pieno di riforme difficili, controverse e conflittuali, spesso proprio con la propria costituency elettorale, rafforzasse o anche solo mantenesse il suo primato nei poteri locali, verrebbe considerato un vincitore e non uno sconfitto. Il Pd oggi governa 17 regioni italiane su 20. Abbiamo perso la Liguria, ma conquistato la ben più popolosa Campania. Molti vorrebbero perdere sempre così. I nostri cugini socialisti francesi, che con Hollande e Valls governano a Parigi, si sono svegliati terzi alle elezioni amministrative, dopo il centrodestra di Sarkozy e la destra di Le Pen. Noi ci siamo svegliati con qualche livido, ma ancora primi. Detto questo, è evidente che abbiamo avuto due sconfitte, certamente gravi. La più grave in Veneto, perché lì eravamo tutti uniti, mentre la destra si era divisa, e ciò nonostante siamo andati indietro, molto indietro, rispetto alle europee. L’altra sconfitta, quella in Liguria, è invece in gran parte figlia delle nostre divisioni interne: divisi, siamo stati battuti da un centrodestra che, per quanto unito, si è fermato sotto il 35 per cento. Due sconfitte e cinque vittorie. Io la chiamo, vista nel suo complesso, una brutta vittoria, una vittoria ai punti, rispetto alla bella vittoria per ko delle europee. Ma una brutta vittoria è sempre meglio di una bella sconfitta.

Qualunque vittoria sarebbe peraltro una vittoria dimezzata, in presenza di un così elevato tasso di astensione, che ha sfiorato stavolta il 50 per cento. Non crede che il Pd abbia fin qui sottovalutato questo fenomeno? Non sarebbe ora di interrogarsi su di esso in modo meno rituale e superficiale?

Sono d’accordo con lei. Penso anche che a poco servano recriminazioni e lamentazioni. A mio modo di vedere, nell’astensione di domenica scorsa si sono saldate tre componenti. La prima, quella di fondo e di lungo periodo, ha a che fare con la secolarizzazione della politica. Su questa questione, che da decenni interroga i filosofi e i sociologi della politica, c’è poco di nuovo da dire e forse anche poco da fare. La seconda componente, più recente (in Italia la sua comparsa ha coinciso con la crisi della seconda Repubblica e della guerra civile fredda tra berlusconismo e anti-berlusconismo), ha alla base la protesta contro la “casta” dei politici, più che la politica come tale. Su questo versante i rimedi sono chiari: bisogna completare l’opera di disboscamento della gìungla dei privilegi dei politici, sapendo peraltro che neppure questo sarà sufficiente, se non si riuscirà a dimostrare che la politica può riuscire a cambiare in meglio le cose, la vita concreta dei cittadini. Il Pd e il governo Renzi su questa scommessa si giocano il futuro. Infine, la terza componente, misurabile in un buon 10-15 per cento, esprime il distacco radicale rispetto all’istituzione regione in quanto tale. Non a caso, nelle città dove si votava per i sindaci, la percentuale di partecipanti al voto è salita ben oltre il 60 per cento. E oltre il 60 era stata la partecipazione alle europee, segno che l’Europa, nel bene e nel male, coinvolge le menti e i cuori degli italiani più delle regioni. Credo che in particolare su quest’ultima componente del non voto sia urgente una riflessione e un piano d’azione, per rilanciare la credibilità dei governi locali, la loro funzione democratica, che oggi se forse non è ancora compromessa, è indubbiamente assai appannata. La riforma del Senato e del titolo V deve essere l’occasione per questo rilancio.

Quello che si è notato, prendendo i due casi emblematici (Campania e Liguria), è la distanza tra la realtà nazionale e il livello locale. Insomma il gruppo dirigente nazionale è parso debole nell’imporre i criteri della rottamazione. Così siete andati al voto da una parte (Liguria) con un candidato debole, Paita, che rappresentava la continuità con Burlando, e dall’altro con “l’impresentabile” De Luca che vi creerà, con la sua vittoria, non pochi problemi. Insomma oltre al dato politico emerge una “insipienza” politico-organizzativa. Non è venuto il tempo di superare la “cultura dell’uomo solo al comando”?

Se davvero ci fosse, nel Pd, un uomo solo al comando, Renzi avrebbe potuto scegliere i candidati a sua immagine e somiglianza. Come faceva Berlusconi. Ma il Pd non è Forza Italia. Lì, per statuto, è (o era) il leader a scegliere i candidati, tutti i candidati. Noi siamo un’altra cosa. Da noi i candidati li scelgono i cittadini con le primarie. E così è stato anche stavolta. A parte i due uscenti, che non sono stati sottoposti a primarie perché nessuno li ha sfidati, Rossi in Toscana e la Marini in Umbria (peraltro né l’uno né l’altra definibili come renziani, ma semmai lealmente e apertamente collocati nel partito su opposte sponde rispetto al segretario), tutti e cinque gli altri sono stati scelti con la partecipazione decisiva di centinaia di migliaia di nostri elettori. Neppure le primarie sono un sistema perfetto. Vincere le primarie non garantisce la vittoria alle elezioni. Ma noi non ci chiamiamo Partito democratico per finta. E Renzi, e con lui tutti noi, ha fatto campagna elettorale per sette candidati che, alle primarie nazionali del 2012, avevano tutti sostenuto Bersani e non lui. E lui li ha sostenuti, tutti e sette, perché erano i nostri candidati, i candidati del Pd, scelti dai nostri elettori con le primarie. Detto questo, è evidente che c’è un problema, grande come una casa, di rinnovamento della classe dirigente diffusa: un rinnovamento che per ora si è in gran parte fermato a Roma e ha solo lambito i territori. Bisogna dedicarsi con più energia a questo lavoro, assolutamente fondamentale. Ma nel rispetto del nostro modello di democrazia, dunque formando e selezionando una nuova generazione di dirigenti, capace di farsi valere nel confronto democratico, non imponendo o eliminando qualcuno attraverso un di più di dirigismo.

Veniamo al quadro interno al PD. Anche qui ci sono problemi a non finire. Ovvero il ruolo della minoranza interna. Non le pare che un’altra lezione di queste elezioni sia quella di recuperare il “metodo Mattarella” (ovvero la ricerca delle scelte condivise)? Ha qualcosa da dire alla minoranza?

Come è normale che sia, fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. L’albero ligure è caduto, sotto il peso delle nostre divisioni, e ha fatto molto rumore. Ma in tutte e sei le altre regioni, il Pd è stato unito, vincendo in cinque casi e perdendo in Veneto. Dunque, quello che lei giustamente chiama il “metodo Mattarella”, ovvero la ricerca delle scelte condivise, se non nel merito, almeno nel metodo (democratico), è il modo ordinario di vivere e di decidere dentro il Pd. Perché questo metodo possa funzionare, c’è però bisogno di richiamare una precondizione: tutti devono sentirsi impegnati dalle decisioni che, democraticamente, si prendono insieme. Una parte della minoranza, forse perché non le era mai capitato di non essere maggioranza, questo principio fa fatica ad accettarlo e rivendica il diritto di votare come crede nelle assemblee elettive e addirittura di presentare candidati alternativi alle elezioni. Il problema è che nessun partito democratico può funzionare così. Su questo punto, dunque, un chiarimento fra noi è necessario e urgente. Non c’è, peraltro, solo un problema di metodo. Le vicende interne al Pd hanno messo in evidenza anche un problema di sostanza, vorrei dire politico-culturale. Il mito fondativo del Partito democratico non è l’unità delle sinistre, ma l’unità, si potrebbe dire il ricongiungimento, dei riformisti, storicamente divisi in partiti e perfino in schieramenti diversi, in un riformismo nuovo, capace di confrontarsi in modo positivo con i grandi cambiamenti del nostro tempo. Per una parte della nostra minoranza, rischiare (e sottolineo la parola rischiare) un riformismo nuovo, non è adempiere alla nostra missione di democratici, ma tradire la nostra storia. Così come sfidare le pigrizie della sinistra conservatrice, politica e sindacale, è infrangere il mito, duro a morire, nonostante la nascita del Pd, la lezione di Veltroni e la rivoluzione di Renzi, dell’unità delle sinistre e del “pas d’ennemis à gauche”. Su questo crinale, per così dire “ideologico”, è raccomandabile il massimo rispetto reciproco e un modo di argomentare e discutere pacato, ma non si può chiedere a Renzi e a tutti noi di diplomatizzare le differenze, fino a ridurre un sano perché vero conflitto politico ad una questione di buone maniere.

E veniamo alla vicenda della Presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi. Lunedì sera, a “Piazzapulita”, ha chiesto le scuse da parte del PD per come è stata trattata da alcuni esponenti del suo partito. Un episodio che brucia sulla “pelle” del suo partito…

Non saprei, può darsi che qualcuno abbia usato nei suoi confronti qualche parola di troppo. Resta il fatto che Rosy ha gestito un passaggio delicato e difficile, come la prima applicazione di un codice di autoregolamentazione ad un processo elettorale, in modo assolutamente sbagliato. Non lo dico io, lo hanno detto in modo inequivoco personalità insospettabili come Saviano o Cantone. Mi permetto di aggiungere che nessuna delle vicende giudiziarie che riguardano De Luca ha a che fare con la mafia o la criminalità organizzata. E dunque la sua inclusione in quella lista di “impresentabili”, peraltro alla vigilia del voto, quindi negando di fatto a lui e al Pd, come agli altri coinvolti nella vicenda, qualunque diritto di replica efficace, è stato un colpo basso che ha inquinato in modo grave il confronto elettorale. Sarebbe stato inaccettabile nei confronti di un avversario. Nei confronti di un compagno di partito lascia senza parole.

L’idea del Partito della Nazione è uscita bocciata dall’esito elettorale. Lo sfondamento a Destra non c’è stato. E questo impone sicuramente un ripensamento verso una identità più “ulivista” del partito. E’ così per lei?

Dalle elezioni regionali il Pd esce confermato nella sua funzione di “partito del Paese”, non solo perché governa 17 regioni su 20, ma anche e soprattutto perché è l’unico partito che non si limita a dare voce alla rabbia e alla paura, magari alimentandole cinicamente, ma cerca di produrre risposte di speranza attraverso l’azione politica e di governo. È vero che, rispetto alle elezioni europee, in particolare in Veneto, ma anche, in misura minore, in Liguria e in Umbria, il centrodestra ha ripreso parte dello spazio elettorale che gli avevamo sottratto. Al contrario di tanti, anche nel Pd, che paventavano la nascita del regime del partito unico renziano, non ho mai pensato che il travaso di voti dal centrodestra verso di noi fosse irreversibile. Allo stesso modo, oggi non penso che noi democratici dobbiamo tornare a considerare irraggiungibili i voti di quel fitto tessuto produttivo, civile, sociale, culturale, che è la forza di molti nostri territori, in particolare ma non solo al Nord, e rassegnarci a rientrare nel nostro tradizionale recinto identitario. Le europee hanno dimostrato, un anno fa, che quei consensi sono contendibili. E noi democratici dobbiamo restare coi piedi ben piantati in quella contesa. Solo in questo modo, peraltro, il Pd può essere il degno erede della stagione fondativa dell’Ulivo, che fu animata proprio dallo slancio verso l’unità dei riformisti, alla conquista di consensi in tutta la società italiana.

Certamente iI vincitore politico è stata la Lega di Salvini e c’è stata anche la tenuta del movimento 5 stelle, che ha ottenuto risultati rilevanti. Chi deve temere di più Renzi?

Il politologo Salvatore Vassallo ha corretto l’analisi del voto proposta a caldo dall’Istituto Cattaneo e che confrontava le mele dei voti di lista alle regionali, con le pere di quelli alle europee. Vassallo ha ripreso la più convincente metodologia, da lui stesso elaborata nell’ambito del Cattaneo, del confronto tra le performance elettorali, non delle singole liste, ma di aree politiche omogenee (centrosinistra, centrodestra, M5S), in modo da tener conto delle diverse modalità tattiche adottate dalle forze politiche nelle diverse elezioni, regolate, come è noto, da differenti leggi elettorali. Sulla base di questo metodo di calcolo, Vassallo conclude che il Pd-centrosinistra ha avuto una flessione nazionale di circa 5 punti (più che fisiologica per una forza alle prese con difficili problemi di governo) e territorialmente concentrata in Veneto e Liguria, che lo ha portato dal 42,3 per cento delle europee al 37,1 delle regionali. Al contrario, grazie alla Lega ma non solo, il centrodestra ha riconquistato quasi 13 punti percentuali, riportandosi al 35,2 rispetto allo sprofondo del 22,4 di un anno fa. Sulla base di questi dati, è assai probabile che lo sfidante del Pd, alle prossime elezioni politiche, sia il centrodestra. Anche perché il M5S esce dalle regionali al 15,7 per cento, quasi 10 punti in meno delle politiche e quasi 20 sotto l’area di centrodestra. Naturalmente, per risultare davvero competitivo, il centrodestra deve trovare uno Zaia nazionale: un federatore capace di rappresentare una proposta di governo e di assorbire e metabolizzare la Lega di Salvini, utilizzandone la forza, ma senza cederle la guida. Un’impresa non impossibile, ma tutt’altro che facile.

Ultima domanda: la legislatura arriverà al 2018?

Non sono una chiromante e non mi avventuro in previsioni. Registro solo che il Pd ha tutto l’interesse ad arrivare al 2018 per cercare di trarre il massimo beneficio, in termini di consenso, dagli effetti delle riforme, in particolare in termini di ripresa della crescita e dell’occupazione. Ma anche il centrodestra ha bisogno di tempo, per gestire un’operazione difficile come l’uscita di scena di Berlusconi e l’individuazione di un nuovo assetto e una nuova leadership. Entrambi i principali schieramenti hanno interesse a completare la riforma costituzionale e in particolare quella del Senato, senza la quale potremmo trovarci di nuovo in un Parlamento senza un chiaro vincitore, alle prese con la formazione dell’ennesimo governo non deciso dagli elettori.