Dalla negazione dei diritti alla negazione delle vite: le leggi razziali e il loro seguito. Un testo di Valerio di Porto

2008-11-191Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’intervento di Valerio Di Porto, Consigliere Parlamentare, al Convegno dell’UCEI su Legge e legalità – le armi della democrazia. Dalla memoria della Shoah ad una integrazione dei diritti dell’uomo nell’Unione europea, che si è svolto a Roma, giovedì scorso, in occasione della “Giornata della Memoria”.

Vorrei partire da due coincidenze temporali:

questa primavera, oltre ai sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, ricorre anche l’ottantesimo anniversario del primo provvedimento francamente razzista del regime fascista: il regio decreto-legge 19 aprile 1937, n. 880, Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Ugualmente, ricorrono ottanta anni da un altro decreto-legge, forse meno conosciuto, che si muove tra tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli e la loro discriminazione per rispetto delle tradizioni e consuetudini religiose musulmane: l’articolo 6 del decreto-legge 3 aprile 1937, n. 1253, autorizza infatti il Governatore generale della Libia a “disciplinare nelle aziende con personale musulmano, il lavoro notturno delle donne e dei fanciulli in determinati periodi e ricorrenze, secondo le tradizioni e consuetudini religiose”;

il 5 settembre 1938 è la data di emanazione non soltanto dei primi due decreti-legge di persecuzione dei diritti degli ebre, ma di ben altri 81 provvedimenti d’urgenza. Attraverso la lente di questi provvedimenti, emanati in un solo giorno, si ha un vivido spaccato del regime fascista, dello Stato etico cui si ispira, dell’attenzione per l’esercito, delle politiche che oggi chiameremmo di welfare. Due in particolare hanno richiamato la mia attenzione: il n. 1449, che esenta i grandi invalidi del lavoro dall’imposta sui celibi; il n. 1514, che disciplina l’assunzione di personale femminile agli impieghi pubblici e privati. Il primo è un curioso ma certo non infrequente incrocio tra discriminazione (l’imposta sui celibi) e welfare (l’esenzione per i grandi invalidi del lavoro). Il secondo limita drasticamente l’assunzione delle donne agli impieghi sia pubblici sia privati “alla proporzione massima, del dieci per cento del numero dei posti”. In più, dà ampia discrezionalità alle pubbliche Amministrazioni, cui è riservata “la facoltà di stabilire una percentuale minore nei bandi di concorso per nomine ed impieghi”; “gli ordinamenti delle singole Amministrazioni stabiliranno l’esclusione della donna da quei pubblici impieghi ai quali sia ritenuta inadatta, per ragioni di inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi”.

Da questi esempi si evincono alcune cose, note e al limite del banale, che pure vale la pena evidenziare:

– le prime leggi razziste investono l’Africa italiana e denotano la stretta connessione tra conquista dell’Impero e politiche di discriminazione e persecuzione razziale;

– in un regime come quello fascista che tende all’assolutezza e allo Stato etico le discriminazioni sono funzionali agli obiettivi del regime stesso: dapprima, discriminare i celibi per favorire la crescita della popolazione e quindi la potenza della nazione; poi, discriminare le donne, per favorire l’occupazione maschile, in periodo di grave crisi economica; quindi discriminare gli indigeni africani e gli ebrei, con durezza e pervicacia. Negli ultimi anni diversi studiosi si sono dedicati alle leggi razziste anche con riguardo al vero e proprio regime di segregazione razziale istituito nell’Africa italiana;

– infine, vi sono vaste zone grigie, classificabili in due tipologie: le previsioni della legislazione razzista tese a mitigarne le conseguenze o addirittura a offrire una via di fuga; le aree della legislazione ove disposizioni più o meno apertamente discriminatorie si miscelano con tutele e riconoscimento dei diritti: la prima che ho citato va a scapito di donne e fanciulli per garantire agli uomini musulmani di osservare al meglio il Ramadan; la seconda immette in una politica discriminatoria (la tassa sui celibi) una misura di welfare.

Sono proprio queste aree grigie su cui vorrei soffermarmi, richiamando solo per titoli la prima tipologia e soffermandomi un po’ di più sulla seconda. Infine accennerò alle aree grigio-nere dell’oggi, per una conclusiva proiezione sul presente.

Riguardo alla prima tipologia, la legislazione razzista offre due possibilità agli ebrei che intendano sottrarvisi o per lo meno attutirne gli effetti. La seconda consiste nella discriminazione, che assume un significato positivo: l’ebreo discriminato per particolari meriti ha almeno in teoria qualche possibilità in più. La via di fuga dà luogo ad umiliazioni ed arbìtri: con la legge 13 luglio 1939, n. 1024, si riconosce la possibilità al Ministro dell’interno di dichiarare, su conforme parere di una Commissione composta di magistrati e funzionari del Ministero dell’interno, “la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile”. Il parere della Commissione è motivato ma resta segreto; il conseguente decreto del Ministro dell’interno non è motivato ed è insindacabile. Si apre un conflitto più o meno sotterraneo con la magistratura, cui viene sottratta ogni decisione in materia razziale. La Commissione, nota come tribunale della razza, rivendicherà di aver fatto il possibile per sottrarre molte persone alla persecuzione; il prezzo per sottrarsi, però, è la propria dignità, in aggiunta alla necessità di trovare le idonee raccomandazioni, anche di alti gerarchi fascisti, e, quasi sempre, in aggiunta alla necessità di corrompere. Il giudizio annotato da Piero Calamandrei nel suo taccuino, il 2 marzo 1940, è crudo al limite della volgarità: “il prof. Redenti mi diceva ieri gli sconci che succedono per il Tribunale della razza. Più di 50 domande di ebrei che chiedono di dimostrare di essere figli di puttane, cioè figli adulterini di padre ariano. E ci sono avvocati e funzionari che guadagnano fior di quattrini da queste speculazioni”.

Il poeta romano Carlo Albero Salustri, in arte Trilussa, gioca sul filo dell’ironia per descrivere “L’affare della razza”:

“C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò

ma dato ch’era un nome un po’ giudìo,

agnedi da un prefetto amico mio

pe’ domannaje se potevo o no:

volevo sta’ tranquillo, tantoppiù

ch’ero disposto de chiamallo Ajù.

“Bisognerà studia'”, disse er prefetto

“la vera provenienza de la madre”.

Dico: la madre è un’angora, ma er padre

era siamese e bazzicava er Ghetto.

Er gatto mio, però, sarebbe nato

tre mesi doppo a casa der Curato.

“Se veramente ciai ‘ste prove in mano

– me rispose l’amico – se fa presto.

La posizzione è chiara”. E detto questo

firmò ‘na carta e me lo fece ariano.

“Però – me disse – pe’ tranquillità

è forse mejo che lo chiami Ajà”.

Per qualche esempio della seconda tipologia di area grigia attingo ancora alla politica razzista italiana in Africa: l’anima di più spiccato stampo razziale di tutta la legislazione coloniale inizia a emergereiv nel regio decreto-legge 1° giugno 1936, n. 1019, recante “Amministrazione e ordinamento dell’Africa Orientale Italiana” che precede di un anno il primo provvedimento palesemente razzista del regime, già richiamato,v e che presenta un doppio volto: da un lato marca la differenza tra sudditi e cittadini; dall’altro, forse anche strumentalmente alla volontà discriminatoria sul piano razziale, mostra rispetto per la babele linguistica dell’Africa Orientale Italiana e per le religioni ivi praticate. Mi sembrano sintomatiche, soprattutto, tre disposizioni:

– l’articolo 30, primo comma stabilisce che “Il nato nel territorio dell’Africa Orientale Italiana da genitori ignoti, quando i caratteri somatici ed altri eventuali indizi facciano fondatamente ritenere che entrambi i genitori siano di razza bianca, è dichiarato cittadino italiano”;

– l’articolo 31, oltre ad usare una espressione (sorprendentemente) garantista nei confronti di tutte le religioni, pone particolare attenzione ai sudditi musulmanivi:

“Nell’Africa Orientale Italiana è garantito l’assoluto rispetto delle religioni.

Le istituzioni religiose dei cristiani monofisiti saranno regolate da leggi speciali e da accordi con le gerarchie ecclesiastiche.

Ai musulmani è data piena facoltà in tutto il territorio dell’Africa Orientale Italiana di ripristinare i loro luoghi di culto, le loro antiche istituzioni pie e le loro scuole religiose. Le controversie fra sudditi musulmani saranno giudicate dai cadi secondo la legge islamica e le consuetudini locali delle popolazioni musulmane.

È garantito a tutti il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali della civiltà”;

– l’articolo 32 dispone che:

“Gli atti ufficiali, che per disposizione di legge debbano essere redatti o pubblicati nelle lingue scritte di sudditi dell’africa Orientale Italiana, saranno compilati nei seguenti linguaggi”: tigrino, amarico e arabo, a seconda delle zone.

“L’insegnamento delle lingue locali è impartito in tigrino, amarico, galla, harari, caffino e somalo, a seconda delle zone.

È obbligatorio in tutti i territori musulmani dell’Africa Orientale Italiana l’insegnamento della lingua araba nelle scuole per i sudditi.

Il Governatore Generale Vice Re, con suo decreto, può stabilire che l’insegnamento in alcune regioni sia impartito anche in una lingua non compresa in quelle su elencate”.

La legge è interessante: da un lato sono presenti germi razzisti (il riferimento ai caratteri somatici e alla razza), dall’altro garantisce “l’assoluto rispetto delle religioni” e “il rispetto delle tradizioni locali in quanto non contrastino con l’ordine pubblico e coi principi generali di civiltà”. Proclamando l’assoluto rispetto delle religioni il legislatore fascista va ben oltre la “tolleranza” cui fa riferimento lo Statuto albertino e la legislazione sui “culti ammessi”; nel contempo, si prepara a discriminare e segregare, in Italia e in Africa.

Una seconda area grigia è presente nell’articolo 36 della legge n. 1045 del 1939, recante condizioni per l’igiene e l’abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi mercantili nazionali, finora sfuggito ad ogni tentativo di abrogazionei.

L’articolo 36 presenta un contenuto particolare in relazione al contesto storico nel quale si colloca la sua approvazione: il primo periodo ha intenti chiaramente discriminatori (“Qualora tra i componenti l’equipaggio vi siano persone di colore, a queste dovranno essere riservate sistemazioni di alloggio, di lavanda e igieniche, separate da quelle del restante personale e rispondenti ai loro usi e costumi”) ma non ricorre ad espressioni dispregiative o al termine “razza”, usando un’espressione di derivazione anglosassonex. Il secondo periodo presenta un contenuto che potrebbe apparire perfino garantista (“Per tale personale di colore dovrà altresì esservi a bordo il modo di confezionare il vitto secondo le sue abitudini e i suoi costumi”).

Per inciso, il riferimento a persone “di colore” non ricorre soltanto qui: l’articolo 2 del decreto-legge 16 giugno 1938, n. 1192, Proroga delle norme contenute nel R. decreto-legge 10 febbraio 1937-XV, n. 210, relativo ai finanziamenti per gli assuntori di opere pubbliche nell’Africa Orientale Italiana, nel novellare integralmente l’articolo 2 del citato decreto n. 210 del 1937, si riferisce all’invio nell’Africa Orientale Italiana “di operai nazionali e di operai stranieri di colore”.

In una lettera inviata dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia all’Ufficio centrale demografico nel 1937 si usa invece l’espressione più dispregiativa “individui appartenenti a razze di colore”.

Ebbene, la legge n. 1045 del 1939 è datata 16 giugno e precede quindi di sole due settimane la legge 29 giugno 1939, n. 1004, recante sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana. Passando dall’igiene delle navi mercantili al contesto razziale anche il linguaggio si fa netto, in un’ottica decisamente segregazionista, confermata e brutalmente incrudelita, l’anno successivo, con la legge 13 maggio 1940, n. 822, recante norme relative ai meticci. Qui la volontà di separazione razziale è elevata all’ennesima potenza: il figlio nato da coppia mista cittadino italiano-nativo dell’africa Orientale (la cui formazione era già impedita dal decreto-legge n. 880 del 1937) non può essere riconosciuto dal genitore italiano né può assumerne il cognome; può essere accolto soltanto “negli istituti, nelle scuole, nei collegi, nei pensionati e negli internati per i nativi” (art. 6); non può essere adottato da cittadini. È una legge le cui conseguenze, pesantissime per tanti figli di coppie miste, si cercherà di sanare anche con iniziative legislative. L’ultima che mi risulta è del deputato Pasquale Giuliano e risale alla XIII legislatura (A. C. 5634): “Disposizioni per l’acquisizione della cittadinanza da parte degli italo-eritrei nati anteriormente al 1° gennaio 1953”.

A tutt’oggi, la ferita non è sanata.

Nel mondo attuale – e vengo alla conclusione – la creazione e l’utilizzo di aree grigie a fini discriminatori è relativamente semplice perché sono sempre più complessi i bilanciamenti tra interessi in gioco e soggetti coinvolti, nuovi diritti e valori affermati, anche strumentalmente, a scapito di altri. Mi limito a qualche esempio che porterebbe molto lontano e che interroga le coscienze di tutti prima che il diritto: la proibizione della macellazione kosher o hallal in asserita difesa dei diritti degli animali; la proibizione della circoncisione per tutelare la salute dei bambini; la sostanziale proibizione di costruire nuove moschee in nome del governo del territorio. In questi ambiti il confine è chiaro ma talora può essere scivoloso (pensiamo ai temi della bioetica) o può essere strumentalizzato: occorre allora massimo discernimento ed equilibrio, per esempio tra la civile proibizione delle mutazioni genitali femminili e il discriminatorio divieto della ben diversa e superficiale (e talora medicalmente consigliata) circoncisione.

A queste aree grigie si aggiunge una questione che già si poneva negli anni Trenta: l’atteggiamento delle liberaldemocrazie verso le persecuzioni e i tentativi di genocidio compiuti in tante parti del mondo per motivi etnici e religiosi.

Dopo la notte dei cristalli, gli ebrei intenzionati a scappare dalla Germania e dall’Austria e dai paesi via via occupati trovarono molte barriere, alzate anche da Stati Uniti e Inghilterra. In più, il libro bianco inglese precluse la strada della Palestina, che avrebbe consentito la salvezza di molti. Il regime nazista, nei primi anni, aveva pensato all’emigrazione ebraica come possibile soluzione: la sua impraticabilità accelerò il genocidio di un popolo orami privato di tutti i diritti, segregato anche in patria, impossibilitato a mantenersi, ridotto a feccia della terra per poter essere più facilmente sterminato.

Nella sezione intitolata “Ridere per non piangere” Elena Loewenthal riporta questa “storia tremendamente, infinitamente triste:

Parigi sotto occupazione nazista. Un vecchio ebreo entra a capo chino in un’agenzia di viaggi: vuole comprare un biglietto d’imbarco per una delle navi che partono dal porto di Le Havre.

“Non c’è problema signore”, risponde la cortese impiegata, “per quale destinazione?”

“Destinazione…ah, già…scusi, ha per caso un mappamondo?” domanda il vecchio signore.

“Non c’è problema signore, signore. Ecco a lei”.

Il vecchio gira e rigira il mappamondo, studia, legge i nomi, e pensa. Passa un bel po’ di tempo, e alla fine, sospirando, domanda:

“Mi scusi, non ne ha per caso un altro, da vedere?”.

Quella del vecchio ebreo fu la situazione di tanti disperati che, pur potendo permettersi di pagarsi un viaggio, trovarono quasi tutte le strade sbarrate.

Oggi il compito cui sono chiamati gli Stati liberal-democratici è davvero improbo, con una pressione migratoria fortissima dovuta a motivi economici ma anche a tante, diffuse persecuzioni. Occorre allora volgere lo sguardo con equilibrio e fermezza a quel periodo cruciale tra fine anni Trenta e inizio anni Quaranta, in cui maturarono le condizioni dell’Olocausto, per evitare quello che purtroppo già accade, su scala più o meno ridotta, in tanti posti. L’obiettivo, prima ancora dell’accoglienza, dovrebbe essere quello di garantire a tutti una vita serena nei propri luoghi: difficile, ma forse non impossibile, visto che i focolai dell’odio e dei potenziali genocidi sono ben noti e circoscritti, anche se tante volte preferiamo non guardare e tacere, con lo stesso, terribile silenzio che avvolse dapprima la persecuzione dei diritti degli ebrei (e non solo loro) e poi la persecuzione delle vite.

Non c’è confusione nella Chiesa di Francesco. Intervista ad Andrea Tornielli

Andrea Tornielli (Contrasto)

In certi circoli tradizionalisti e autoreferenziali si alimenta nel web e su alcuni quotidiani di destra , con molta spregiudicatezza, una propaganda mirata a screditare l’opera di riforma di Papa Francesco. Opera di riforma che, secondo il loro giudizio, porta “confusione” nella Chiesa di Roma. Le cose stanno così? Oppure è solo propaganda ? Ne parliamo, in questa intervista, con Andrea Tornielli vaticanista della Stampa e coordinatore del sito d’informazione religiosa “Vatican Insider”.

Partiamo dal tuo ultimo libro, “In Viaggio”,  presentato pochi giorni fa a Roma. Il libro parla dei viaggi apostolici di Papa Francesco. In quattro anni di pontificato ne ha fatti molti, e altri ne farà. Quale è stato il viaggio di Francesco che più ti ha colpito, quello dove il carisma e la parola di Francesco hanno impresso una svolta nel luogo visitato?

Risponderei in due passaggi. Il viaggio che mi ha più colpito è stato quello a Tacloban, nelle Filippine: Francesco nel gennaio 2015 ha sfidato un mini-tifone – comunque pericoloso per il volo – andando a trovare i sopravvissuti del tremendo tifone Yolanda, che nel dicembre di due anni prima aveva fatto migliaia di vittime. A colpirmi è stata l’omelia, bellissima e commovente, che il Papa ha fatto a braccio, mentre celebrava la messa indossando un impermeabile giallo su un piccolo palco squassato dalla pioggia e dal vento. Il viaggio nel quale la presenza e la parola di Francesco hanno impresso una svolta è per me quello nella Repubblica Centrafricana, novembre 2015, quando il Papa ha voluto aprire con l’anticipo di una settimana il Giubileo della misericordia, in un Paese dimenticato da tutti, sfruttatissimo e poverissimo, nonostante sia tra i più ricchi per risorse naturali. Bangui, la capitale, quel giorno è diventata la «capitale spirituale» del mondo e le fazioni che si combattevano hanno siglato una tregua per permettere l’attesa visita di Bergoglio.

Tu hai seguito anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Anche loro, in particolare Wojtyla, amavano i viaggi apostolici. C’è continuità o noti in Francesco un approccio diverso?

Ogni Papa apporta le sue peculiarità, ma certamente a caratterizzare i viaggi è la continuità. Giovanni Paolo II continuando sulla via aperta da Paolo VI, ha girato il mondo in lungo e in largo, con una serie infinita di record e di «prime volte». Benedetto si è messo umilmente sulla sua scia, prediligendo la parola e puntando – da teologo qual è – sulla profondità dei suoi discorsi. Francesco è capace di mostrare prossimità e tenerezza, insiste particolarmente sui gesti. E sembra prediligere Paesi periferici nei quali ritiene che la sua presenza possa aiutare processi positivi in atto.

Veniamo al “viaggio” più complicato per Papa Francesco: quello all’interno della Chiesa. Dopo il Sinodo sulla Famiglia e la pubblicazione dell’Amoris Laetitia, abbiamo assistito, sul piano mediatico, ad una offensiva degli oppositori del Papa. Clamorosa è stata quella lettera dei 4 Cardinali, con protagonisti principali Burke e Caffarra, che esprimevano “dubbi” sull’esortazione apostolica, che erano poi critiche pesanti al documento pontificio. Il Cardinale Burke aveva minacciato di correggere pubblicamente il Papa se non fossero chiariti i dubbi. C’è stato poi l’intervento del Cardinale Muller,prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, per riaffermare che non c’è  nessun pericolo per la dottrina. Basterà l’intervento del Cardinale Muller, o pensi che l’offensiva tradizionalista continuerà?

Vorrei premettere che dialettica, discussioni, polemiche anche forti e critiche anche fortissime al Papa e al suo magistero non sono affatto delle novità. Basta guardare agli ultimi Pontefici per rendersene conto: Paolo VI fu messo in croce dopo l’Humanae vitae, ad esempio. Presentare dei «dubia» è legittimo. Porre delle domande vere, sincere, che siano realmente domande e non siano pensate per mettere in difficoltà l’interlocutore o pretendere che affermi ciò che noi pensiamo, è sempre utile e positivo. I quattro cardinali hanno anche scelto di rendere pubblici i «dubia» dopo poche settimane che li avevano presentati. Il cardinale Müller, in un’intervista televisiva, è sembrato non essere d’accordo con questa pubblicazione. La questione della «correzione formale» al Papa, invece, è tutt’altra cosa: finora ne ha parlato quasi esclusivamente soltanto il cardinale Raymond Leo Burke, senza peraltro spiegare in che modo essa dovrebbe avvenire. Mi ha colpito che il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, in una lunghissima intervista pubblicata sul quotidiano Il Foglio, non abbia speso nemmeno una parola su questa eventuale «correzione». In ogni caso non credo proprio che le affermazioni di Müller siano bastate per pacificare gli animi. Basta leggere i giornali e navigare un po’ in Internet per rendersene conto.

Hanno colpito molto, in questi giorni, le vicende dell’Ordine di Malta. Una vicenda brutta per l’Ordine. Pensi che il Cardinale Burke abbia giocato un ruolo negativo nell’iniziale ribellione del Gran Maestro dell’Ordine alla Santa Sede? Cosa c’è in gioco in tutta questa vicenda?

Nonostante la cortina fumogena che certi siti web, certi blog e certi commentatori tentano di sollevare – sono in servizio permanente effettivo nell’accusare il Papa qualsiasi cosa faccia o dica – non ci sono collegamenti con la questione dei «dubia». La Santa Sede è stata chiamata in causa della vicenda della defenestrazione del Gran Cancelliere von Boeselager, perché il cardinale Burke ha chiesto l’avvallo del Papa. Ma Francesco, pur invitando a vigilare sul rispetto della morale cattolica, aveva invitato a risolvere la contesa con il dialogo interno, non tagliando delle teste, come invece è avvenuto. La commissione d’inchiesta guidata dal vescovo Silvano Tomasi ha indagato sulla vicenda e le risultanze sono state tali da indurre il Gran Maestro Matthew Festing a dimettersi. Ora si spera che nell’Ordine di Malta, che compie tanto bene per i poveri, i migranti e i rifugiati, ritrovi serenità. Non c’è stato alcun commissariamento.

La propaganda tradizionalista, ormai da diverso tempo, non fa altro che alimentare, anche con l’apporto di giornalisti spregiudicati, un atteggiamento di ostilità nei confronti del Papa. Tra questi giornalisti c’è addirittura chi parla di clima di terrore in Vaticano sotto Francesco. Qual è la ricaduta di tutto questo sulla comunità ecclesiale?

Sulla comunità ecclesiale mi sembra che la ricaduta sia praticamente nulla. Ho letto anch’io con il sorriso sulle labbra i sedicenti reportage con fonti anonime sul «clima di terrore» in Vaticano. Hanno letto troppo Dan Brown! Nelle parrocchie e nelle comunità tutto questo non arriva. Certi circoli che alimentano in tutti i modi possibili e immaginabili l’ostilità e in molti casi anche l’odio e lo scherno verso il Papa sono molto autoreferenziali. Credo sia un errore pensare che se c’è chiasso sui blog o su Facebook, questo sia un riflesso della situazione reale in termini quantitativi. Peraltro devo aggiungere che non mi sembra di vedere nemmeno tutta quella «confusione» che molti circoli continuano ad affermare – come un mantra – regnerebbe nella Chiesa oggi.

I Diritti dell’Uomo e il dovere di rispettare la vita: tradizione ed esperienza ebraica. Un testo di Haim Baharier

Oggi è il “Giorno della Memoria”, molte iniziative sono in corso, e son avvenute in questa settimana, nel nostro Paese per ricordare le vittime dell’Olocausto. L’UCEI, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, nell’ambito delle Celebrazioni del Giorno della Memoria ha dedicato un Convegno, che si è svolto ieri a Roma al “Palazzo Mattei di Paganica”, dedicato al tema : “Legge e legalità – le armi della democrazia dalla Memoria della Shoah ad una integrazione dei Diritti dell’Uomo nell’Unione Europea”.
Per gentile concessione pubblichiamo la riflessione di Haim Baharier, studioso della Torà, al Convegno dell’UCEI.

Il principio della legge quale difesa della vita mi evoca immediatamente l’istituzione delle Città Rifugio (Deuteronomio 19,1-14) in terra di Israele, preoccupazione quasi ossessiva del profeta Mosè. Cosa dovevano essere queste città rifugio? Poste geograficamente in modo tale da poter essere raggiunte velocemente, da qualsiasi punto del territorio, da chi doveva rifugiarvisi, costituivano i luoghi dove i colpevoli inconsapevoli di omicidio avevano l’obbligo di andare a dimorare. Chi è il colpevole inconsapevole? E colui che “tagliando la legna si vede sfuggire la lama della scure che uccide qualcuno nei paraggi”. Le città rifugio offrivano a costui il riparo dalla vendetta del goel haDam, il vendicatore del sangue. Lì primeggiava il diritto della città sui diritti individuali, tutelando la vita dell’omicida colposo. Questo dimostrava l’estrema attenzione del legislatore alla tutela della vita comunque e quantunque. Il dovere di rispettare la vita iscritto nel Pentateuco è indissolubilmente legato alla scelta tra il bene e il male. “La vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30,15) menzionati in questo ordine nel testo, possono essere lette sia quali coppie consequenziali sia contrapposte. “Sceglierai la vita affinché tu e il tuo seme possiate continuare a vivere” (Deuteronomio 30,19) conclude il testo. Il seme rappresenta l’altro da te e anche il futuro. La vita è la tua e anche quella dell’altro. Scegliere la vita in questo modo costituisce il superamento del semplice istinto di sopravvivenza. E’ portare al rispetto della vita secondo una scelta squisitamente etica. Lo stesso Pentateuco in un suo paragrafo fondamentale, da ripetersi ritualmente due volte al giorno, prescrive un immane sforzo educativo da una parte, e dall’altra il dovere di discutere e ridiscutere costantemente i contenuti degli insegnamenti da trasmettere. La legge nella tradizione biblica è rappresentata da un piccolo armadietto contenente le famose tavole, con le stanghe per il trasporto sempre inserite nei loro anelli. La simbolica non è che la legge deve essere sempre pronta per il viaggio, bensì che la legge ebraica è viaggio. I diritti dell’uomo nella tradizione e nell’esperienza ebraica sono sempre e comunque ricondotti all’uscita dalla schiavitù d’Egitto. Non si tratta soltanto di ricordare l’esperienza della negazione dei diritti, ma di interiorizzare e elaborare i principi di un’uscita definitiva dalla condizione di schiavo e dalla schiavitù psicologica e mentale. Questo risulta chiaramente dall’economia del Seder di Pésach, poche righe sulle condizioni della schiavitù e un dilungarsi preciso e profondo sul percorso verso la libertà. Infine, il diritto dell’uomo, il dovere di rispettare la vita, a mio parere oggi più che mai, passa per una lotta senza quartiere al pregiudizio, poiché esso è destruente in quanto giudizio che non è stato oggetto né di discussioni né di dibattiti. Il suo equivalente positivo nel processo conoscitivo sarebbe il postulato che non va dimostrato. Prendiamo nel testo del Decalogo (Esodo 20,5) l’esempio di una parola sulla quale è stato costruito un pregiudizio tuttora intonso: la parola ebraica qanò. La traduzione in vigore, il dio “scrupoloso”, quando l’espressione del pregiudizio è lieve, oppure il dio “zelante” o il dio “geloso”, ha trovato terreno fertile anche tra i traduttori più attenti, grazie all’assunzione di una connotazione vagamente positiva. Il dio di Israele sarebbe così un dio serio, rigoroso, severo che non scorda mai, anzi ricorda alle generazioni successive i peccati degli antenati. Ma forse siamo in presenza di uno dei più antichi e più radicati pregiudizi biblicamente fondati. Il dio di Israele è definito qanò, etimologicamente, il dio che “acquisisce”, in quanto questo termine esprime la realtà giuridica della reciprocità ossia la legalità. Il verbo poqèd che è stato tradotto con “ricorda” significa originariamente “verifica”. A questo punto possiamo rendere per esteso l’espressione del Decalogo: il dio della “legalità” non reagisce d’impulso, bensì verifica la presenza o meno della colpa lungo le generazioni. Tendo molto a pensare che la difesa della vita, secondo la tradizione ebraica, si svolga essenzialmente sul terreno della legalità concepita come reciprocità giuridica. Esiste un Midrash che attribuisce in toto la distruzione del focolare del popolo di Israele alla mancanza della solidarietà. Preme aggiungere che la solidarietà di cui si parla comprende l’accoglienza dell’altro.

“Papa Francesco è l’unico leader alternativo a Trump”. Intervista a Massimo Faggioli.

Massimo FaggioliI primi segnali dati da Donald Trump, all’inizio della sua presidenza, non promettono nulla di buono. Lo stanno a dimostrare le manifestazioni di protesta che vi sono state in questi giorni negli Usa. Quello che appare all’orizzonte è che l’unico leader, di caratura mondiale, capace di rappresentare una alternativa al populismo ipernazionalista del magnate americano è Papa Francesco. In una intervista, rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, ha manifestato la sua preoccupazione, con parole ferme, per il populismo dilagante, ricordando l’avvento al potere di Hitler. Su Trump il Pontefice giudicherà dai fatti : “Vedremo quello che farà e valuteremo. Sempre in concreto”. Ma l’impressione è che nei prossimi mesi, e anni, assisteremo ad un confronto assai forte tra queste personalità. Come si svilupperà? Ne parliamo, in questa intervista, con Massimo Faggioli. Faggioli è Professor of Historical Theology alla Villanova University (USA).

Prof. Faggioli, Donald Trump ha giurato ed è a tutti gli effetti il 45° Presidente degli Stati Uniti. Il suo discorso ipernazionalista non promette nulla di buono. Insomma lei come immigrato come si è sentito durante il discorso del Presidente?

Prima di tutto paura per il modo in cui l’America è rappresentata oggi dal suo presidente. Come immigrato, poi, un senso di disagio, per due motivi: il primo motivo è che Trump ha ridefinito cosa sia “America” in un senso di America nazionalista, bianca, giudeo-cristiana in modo esclusivo e non includente. Il secondo motivo è un certo senso di colpa perché io sono uno degli immigrati privilegiati: non tanto perché con la “green card” e un lavoro all’università, ma perché bianco e cristiano.

Lei insegna Storia del Cristianesimo in una Facoltà di teologia in una università cattolica. A quanto si sa, per il momento, non sono giunte voci critiche cattoliche al discorso di Trump, possibile questo? 

Sono giunte molte voci critiche, ma non dalla chiesa istituzionale in America, cioè i vescovi e quel mondo fatto di think tank e riviste neo-conservatrici e reazionarie. Il mondo cattolico e intellettuale americano è diviso, e una parte di esso è molto preoccupata. Dai vescovi ci si aspettava nel corso del 2016 una presa di posizione su una serie di questioni, ma hanno parlato solo di immigrazione che è da sempre una questione-chiave per la sociologia della chiesa cattolica negli USA. Quindi la posizione dei vescovi sull’immigrazione non dice molto della capacità dei vescovi di capire cosa è successo e cosa sta per succedere negli USA.

Quello di Trump è un “cristianesimo” razziale, basata sulla supremazia della razza bianca. La Chiesa cattolica Usa come può accettare simili posizioni? 

Trump articola in modo sottile uno degli elementi chiave della cultura cristiana in America. Il “suprematismo bianco” ha fatto sempre parte della cultura nascosta ma profonda del cristianesimo in America: la guerra civile di Lincoln contro lo schiavismo ebbe profonde motivazioni teologiche, con le due parti animate da teologie cristiane diverse tra loro su razzismo e schiavismo. L’esito della guerra civile risolse la questione dal punto di vista costituzionale, ma non della legislazione dei singoli stati, e certamente non risolse la questione teologica del razzismo giustificato teologicamente. La chiesa cattolica istituzionale si sveglia un secolo dopo, sulla questione razzismo, solo negli anni sessanta del “civil rights movement” e del Vaticano II. Trump e il trumpismo in sostanza vogliono riportare l’orologio indietro ad un’epoca precedente a quella svolta politico-sociale. Trump risveglia le nostalgie di coloro secondo cui la chiesa negli ultimi cinquanta anni si è impegnata troppo nel sociale, è diventata troppo umana e poco divina. È uno dei modi sottili per giustificare il razzismo religioso americano, che non è solo un problema cattolico.

Della visita di Francesco negli USA cosa è rimasto?

Oggi papa Francesco è molto popolare tra i cattolici e non cattolici in America: questo è l’effetto principale. Ma sulla cultura dell’episcopato e del cattolicesimo reazionario in America la visita ha avuto pochi effetti, almeno per ora.

Come si svilupperanno le relazioni tra cattolicesimo Usa e Trump?

Temo che accentueranno le spaccature tra i due diversi tipi di cattolicesimo, una spaccatura che in buona parte coincide con la divisione tra cattolicesimo bianco e ricco da una parte, e cattolicesimo degli immigrati e poveri dall’altra parte. È chiaro quale di questi due cattolicesimi stia con Francesco e quale sia contro Francesco. Quello che si spera per i prossimi mesi è un sussulto di umanità da parte di chi finora ha ignorato il significato profondo del fenomeno Trump, pensando di poterlo usare in chiave antiabortista. L’appello dei vescovi a Trump affinché non smantelli la riforma sanitaria di Obama suona patetico, dopo anni in cui la riforma sanitaria è stata la questione su cui i vescovi hanno lottato contro l’amministrazione Obama. Anche perché si sa bene che quando in America viene tagliata la spesa sociale (come accade durante le amministrazioni repubblicane che si vogliono “pro life”), il numero degli aborti cresce invece di diminuire.

Papa Francesco resta l’unico leader mondiale ad essere alternativo alle chiusure di Trump. È così anche per lei?

Credo di sì. Da questo punto di vista il ruolo di papa Francesco nella situazione mondiale oggi è ancora più importante di quello di Giovanni Paolo II, che sullo scenario geopolitico del suo pontificato non era solo come oggi è Francesco. Ma dalla situazione attuale potrebbero scaturire aperture inaspettate che nessuno si aspetta, tanto meno Trump.

I tradizionalisti cattolici hanno eletto Trump loro paladino. Anche qui tutto è fatto per andare contro Papa Francesco. Quanto è forte negli USA questa posizione?

È molto visibile ma anche molto minoritaria. È un cattolicesimo che assomma elementi di conservatorismo perbenista (la questione del matrimonio e della famiglia), elementi di tradizionalismo teologico (il rigetto del Vaticano II), ed elementi di cultura politica reazionaria (la cultura dell’eccezionalismo e imperialismo americano). Francesco ha accentuato il suo messaggio su questi temi rispetto ai predecessori, ma il fattore chiave è la mutazione genetica avvenuta all’interno del cattolicesimo conservatore statunitense nell’ultimo trentennio e specialmente dall’11 settembre 2001 in poi.

 

Ultima domanda: Qual è la cosa che fa più paura di Trump?

Fa molta paura il fatto che la verità non esiste e che tutto può essere distorto ad arte e presentato in una maniera che smentisce le evidenze numeriche e scientifiche: non parlo delle verità filosofiche ultime, ma della verità dei fatti. Questa cultura degli “alternative facts” ha conseguenze enormi su tutte le questioni politiche, a partire dalla questione ambientale e i cambiamenti climatici. La propaganda trumpiana è l’aspetto più terrificante perché influenza tutto il resto.

 

Storie bibliche per l’oggi. Haim Baharier racconta la Torà

Davvero una bella iniziativa quella che si svilupperà, per sei domeniche, al Piccolo Eliseo a Roma. Parliamo degli incontri del maggior studioso della Torà, Haim Baharier, che inizieranno domenica prossima all’Eliseo. Durante gli incontri leggerà e commenterà, attualizzandole, storie bibliche tra le più note.

Pubblichiamo un testo di Baharier che spiega il significato dell’iniziativa a seguire il programma degli incontri.

Nel Pentateuco, la Torà, vi sono due volti che si fronteggiano, ogni tanto si sfiorano, ogni tanto si allontanano, qualche volta si baciano e si fondono, il primo è narrativo, il secondo normativo. Un immenso commentatore mistico del medioevo, il Nachmanides, asserisce che il volto narrativo costituisce il fondamento del volto normativo, previo un serio percorso intellettivo e spirituale. Questo percorso dice il Nachmanides non è evidente al lettore occasionale, necessita una seria preparazione sotto la guida di un maestro. Questo mi suggerisce che il Nachmanides ci abbia invitato all’interiorizzazione e all’elaborazione di specifiche regole ermeneutiche fondanti una lettura prospettiva e costruttiva del nostro patrimonio culturale. Soltanto in questo modo saremmo in grado di immaginare delle vie per uscire dai labirinti letali dell’attualità. Consapevole di ciò, mi immergo nella lettura di questo Libro che narra la storia della nascita e dello sviluppo, in ambienti quasi sempre ostili, dell’identità ebraica. Senza mai parlare inizialmente di un monoteismo in lotta con l’idolatria, lo sviluppo avviene in contrapposizione ad un ambiente in preda all’imperare della coscienza magica. Ma è proprio questa eccezionalità ambientale che mi frena. Anche la più complessa, la più sofisticata delle trasposizioni risulterebbe azzardata in un ambiente radicalmente diverso come forse quello odierno. Ma è poi così diverso? Nella stessa identità ebraica non vi sono forse delle frange ostaggi della più bieca coscienza magica? Come definire diversamente queste ortodossie arroccate sulle loro certezze, dimenticati e sepolti gli ammonimenti dei Maestri autentici “le buone domande non hanno risposta”… Che pensare di quella parte del del mondo cristiano adoratrice del perdono anticipato, ossia del perdono divino istituzionalizzato? Questa nuova propensione a non voler giudicare implica un pernicioso non valutare, la paura di qualsiasi percorso di pensiero… Che dire del soldato di Allah, il braccio armato, non pensante di un Dio senza uomini? E quando si prova a pensare, cosa succede? Parliamo del Creatore dei cieli e della terra. Cosa dice il Libro? “Plasmò i cieli e la terra… e tutto era caos”. La coscienza magica si uniforma e passa al giorno secondo. La coscienza ebraica nascente si rimbocca le maniche e decide di dover metter un po’ di ordine nel caos. Alcune colonne più avanti e per la coscienza magica Eva nasce da una costola asportata ad Adamo anestetizzato. E’ soltanto una parte di un tutto glorioso Adamo? La lettrice insoddisfatta decide che il sostantivo “addormentato” in ebraico ha la stessa energia numerica della parola “traduzione” e quindi legge che l’Adamo maschio unico e solitario ha rapidamente esaurito il suo significato e verrà sostituto da un Adamo plurale, Eva e Adamo. Ancora qualche colonna e l’umanità è diventata “Hamas”, si è pervertita. Vi sarà un diluvio universale dal quale un tale Noè, con la famiglia e qualche esemplare degli animali della terra, si salverà entrando nella parola. Arca in ebraico è anche parola. Il diluvio universale appartiene a tutte le culture, nella storia della coscienza ebraica il diluvio che annienta questo mondo già distrutto da un rapporto sordido con l’etica, risorgerà con l’avvento di un linguaggio nuovo fondante una lingua nuova. Per la lettura ebraica il mondo è linguaggio, la lingua è comunicazione interpersonale… Ma quando si dirà che l’identità ebraica, tutt’uno con lo stato di Israele, è parte integrante di questo Occidente, squassato dai venti e dalle tempeste delle coscienze magiche che lo assediano? Basteranno le mie sei lezioni per suscitare un desiderio di studio?

Haim Baharier

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