È stato un settimanale straordinario. Un vera palestra di giornalismo politico per un generazione di giovani, democristiani e non, che successivamente hanno fatto un percorso significativo nel giornalismo e nella politica italiana . Ma non c’erano solo giovani, c’erano anche prestigiosi collaboratori (Franco Rodano, Emanuele Severino, Adriana Zarri, per ricordarne alcuni). Una rivista che ha fatto cultura politica, rinnovandola, e che ha contribuito, in quegli anni pieni di fermenti e difficili, a consolidare la democrazia italiana. Vogliamo ricostruire la storia di quella esperienza con questa intervista al giornalista Ruggero Orfei. Orfei è stato il direttore del settimanale fino alla fine della pubblicazione.
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Ruggero, sono passati quasi cinquant’anni da quel lontano 18 giugno del 1967 quando uscì un settimanale, “Settegiorni” appunto, davvero unico nel panorama del giornalismo politico italiano. Cosa rendeva unico il settimanale?
Non è facile rispondere perché il settimanale non fu mai unico. Unicità ci fu forse all’inizio nella definizione dell’impresa: si avvertiva in molti ambienti (circoli culturali, sezioni di partito e di associazioni nazionali, redazioni di giornali culturali anche di piccolo ambito), la necessità di un organo che comunicasse quello che sembrava un comune sentire tra i cattolici intesi come “di sinistra”.
Doveva avere un’ispirazione cristiana, ma senza pretese di rappresentanza confessionale. Avrebbe dovuto trovare nella politica le ragioni di una presenza, senza mandato e neppure senza riferimenti di scuola. Ovviamente la cultura politica di fondo – lo spazio vitale – era democratica e aveva riferimenti in alcuni maestri molto noti.
Quali sono le ragioni sociali che sono alla base della nascita di “Settegiorni”?
Le ragioni sociali alla base di “Settegiorni” rimangono tuttavia evanescenti mancando un ambito sociale definito e definibile. Da un punto di vista antropologico si dovrebbe parlare di un coagulo di istanze politiche, sindacali, associative, con un fondamento che rimaneva insistentemente “cattolico”.
Come nasce l’idea di “Settegiorni”? Da chi è partita l’idea? Puoi darci qualche “retroscena”? Quali erano i collaboratori più prestigiosi?
L’idea di dare vita a un giornale era ricorrente ed era messa in agenda da settori politici e sindacali dopo la crisi del 1960 in aree tra loro diverse e talora anche distanti. Si trattava delle correnti di sinistra nella Dc, di certe sedi culturali rappresentate da riviste e anche di un orientamento di una “sezione” della Chiesa che a Milano, col cardinale Montini, ebbe una speciale coltivazione. All’inizio degli anni sessanta a Milano, proprio per propulsione di Montini, fu fondato il quindicinale “Relazioni Sociali”, (nel quale ero inserito), per iniziativa di Lazzati, Giancarlo Brasca, mons, Enrico Manfredini, Emanuele Ranci Ortigosa. Vittorino Colombo, Filippo Hazon, Sergio Zaninelli, Luigi Covatta, Mario Dosi e molti altri. Al quindicinale partecipavano Pippo Ranci, Franco Bassanini, Valerio Onida, Pino di Salvo, Sandro Magister, Antonio Miniutti, Pippo Torri e altri.
A posteriori mi pare di poter dire che fu un’iniziativa decisiva per il coagulo di intenzioni e attività comunicative nuove, prive di qualunque ufficialità. Personalmente, data la mia posizione di direttore della Biblioteca della Cattolica, potevo fare utili incontri e scambi di idee molto proficui per il crescere di un’idea che non poteva essere personale ma di un vasto ambiente.
Non è possibile indicare una spinta personale prevalente. L’idea di un giornale stava nascendo per generazione spontanea.
Negli anni sessanta ci furono iniziative per la creazione di un giornale e avvennero sul tema, a Firenze intorno a padre Balducci, ma del tutto al di fuori di quello che facevamo e pensavamo a Milano.
Dovrei ricordare – ai fini di una ricostruzione di un ambiente – che in quel periodo si costituì una commissione per lo studio del comunismo su un desiderio di papa Montini che ne parlò a mons. Pagani. Tale iniziativa fu “accollata” alle Acli con Labor e monsignor Pagani ,il quale nel frattempo era giunto a Roma come assistente centrale aclista , e presentò lui il progetto sull’indagine, già predisposto a Milano.
Quella commissione, al di là dei risultati culturali, ebbe il merito di far conoscere persone culturalmente attive in un quadro cattolico molto impegnato e culturalmente preparato. Si creò allora un ambiente che poi fu di riferimento a chi l’iniziativa l’avrebbe presa concretamente: Donat Cattin, leader di Forze nuove, di Livio Labor presidente delle Acli e Vittorino Colombo, leader del gruppo di sinistra sociale milanese “Rinnovamento” che si rifaceva alla tradizione milanese di Achille Grandi. Tra i collaboratori “maturi” che si ritrovano nell’impresa, ricordo Emanuele Ranci Ortrigosa, Umberto Segre, Morando Morandini, Giovanni Gozzer, Antonio Marzotto, Giorgio Girardet, Emanuele Severino, Lidia Menapace, padre David Turoldo, Arturo Chiodi, Claudio Napoleoni, Adriana Zarri, Italo Moscati, Franco Rodano (Ignazio Saveri) e altri.
La direzione e la redazione di “Settegiorni” era in via della colonna Antonina, a Roma, sede della corrente DC di Forze Nuove.. Questo non ha mai limitato l’autonomia di analisi politica e culturale della rivista. Ed è lo stesso leader della sinistra sociale dc, Carlo Donat-Cattin , a ricordare questa caratteristica , qualche anno dopo, in una intervista: “La vita di Settegiorni – affermava Donat-Cattin- fu sempre autonoma rispetto al gruppo di Forze Nuove. Sviluppò una linea che sembrò voler stabilire tra il pensiero di Aldo Moro (…) e il pensiero di Franco Rodano e dei suoi amici, provenienti dal partito della sinistra cristiana e poi inseriti nel PCI”. Insomma moroteismo, integrato dai contenuti duella sinistra sociale, e rodanismo agirono da propulsori "ideologici" tale da consentire alla rivista di esercitare una egemonia culturale e politica in quel periodo. Si può dire che la rivista anticipò la strategia morotea dell’attenzione al PCI?
Sull’autonomia di “Settegiorni” non ci furono problemi. Le differenze potevano venire ma come opinabili punti di vista peraltro in un contesto amicale. Per certi particolari rinvio alla memoria recentemente pubblicata da Giorgio Merlo (Orfei fa riferimento al libro: Cattolici democratici in Settegiorni.Ndr) . Indubbiamente il settimanale fu sempre autonomo e respingeva a occasione data ogni tentativo di manomissione.
Una precisazione storica occorre in merito alla ricordata dichiarazione di Donat Cattin per quel che riguarda Franco Rodano. Il peso di questi fu esiguo in termini non solo genericamente ideologici, ma anche di un indirizzo politico.
Devo precisare su questo argomento che a mio parere il Comunismo che Rodano pensava non era correttamente quello di Marx. Il fondatore della concezione materialistica della storia ebbe a dichiarare in cinque (se ricordo bene) occasioni, che egli non era marxista. Non solo, ma il marxismo – come sistema – sul quale mi ero persino laureato, a mio parere non esisteva, perché il povero Marx pubblicò solo una piccola parte, della sua produzione scientifica e letteraria. Gli arricchimenti “teorici” erano di scuola e soprattutto erano impostati su un lavoro editoriale di Engels. Nel giornale il punto di vista di Rodano, non ebbe un vero peso, tanto è vero che non fu tra gli autori per così dire ufficiali, e adottò quasi sempre uno pseudonimo.
Per quanto riguarda la strategia morotea, questa fu un’elaborazione storica del passato e come tale andrebbe sempre evocata. Tuttavia sempre al di fuori di pasticci ideologici, e fuori di un mitico grande incontro tra cristiani e marxisti. Moro aveva certamente un’idea di un possibile rapporto nuovo con i comunisti, ma il suo disegno era sempre basato su una reiterata volontà di mantenere unita la Dc proprio, e magari, in vista di incontri anche di ordinaria vita politica. Non mi pare che Moro anticipasse una “strategia”, ma immaginava solo una linea di condotta di ammorbidimento dei rapporti entro il sistema politico italiano. Pensava a un disegno complesso che avrebbe dovuto rivelarsi come politica di unità nazionale ma con un esito che non avrebbe mai dovuto rompere i vincoli di “confine” col Pci. La linea vera marciava su altri binari. Tra l’altro la stessa prospettiva del “compromesso storico” all’inizio del 1974 era stata abbandonata o lasciata appassire dallo stesso Berlinguer che ebbe a dirmelo.
Tu e Piero Pratesi eravate le teste pensanti della rivista. Com’era il tuo rapporto con Pratesi? Tu provenivi dalla realtà milanese dell’Università Cattolica, lui era stato vice-direttore del Popolo (quotidiano della DC). Lui cosa “portava” a Settegiorni?
I ruoli di Pratesi e mio nel settimanale erano molto equilibrati. Piero aveva una percezione che direi quasi istintiva degli eventi politici. Rifuggiva dagli inquadramenti complessi, ma riusciva a vedere le conseguenze di ogni atto politico, senza però indicare grandi disegni. Il commento politico per lui era una vera meditazione e l’analisi si trasformava sempre in un’indicazione concretamente sperimentabile. Insieme avevamo intensi rapporti esterni per così dire diplomatici e con il mondo cattolico.
Torniamo alla battaglia politica del settimanale. Voi vi siete battuti contro la “doroteizzazione” della DC. Qual era l’idea della DC che aveva il settimanale?
La nostra percezione del doroteismo ci portava in realtà a vedere il cammino della Dc come segnato da un processo degenerativo. Le ragioni stesse di “Settegiorni” erano sempre segnate dalla preoccupazione di vedere una vera degenerazione che stava investendo sia la rappresentanza che la linea generale. A partire dal convegno democristiano di Lucca del 1967 (I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità.Ndr), noi considerammo sempre che c’era una strada segnata proprio dal doroteismo che vedevano come una seconda natura del partito cattolico. Pensavamo che si potesse evitare e speravamo che una riforma generazionale del partito avrebbe potuto cambiare le cose. Cercavamo di mettere in evidenza la conflittualità sociale e il dibattito culturale, con aperture non solo ideologiche, ma anche di cognizione della nuova società tecnologica, con nuove indicazioni sul mondo del lavoro.
Il settimanale era piuttosto contrario ad un secondo partito cattolico, perché?
L’eventualità di un secondo partito cattolico fu in partenza presente nei primi passi del giornale. Lo stesso Donat Cattin in un convegno a Sorrento l’aveva messo sul tavolo dei nostri discorsi. Poi proprio la strategia morotea si impose come necessità di mantenere la Dc unita e possibilmente forte, proprio per andare incontro a nuove formule di vita nazionale. Di fatto quando si presentò con Labor la proposta del nuovo partito dei cattolici noi ci tenemmo fuori in pieno accordo con Donat Cattin.
Un settimanale così robusto sul piano politico culturale, con grande attenzione anche alla politica internazionale, com’era visto dal mondo della grande stampa laica?
Certamente il settimanale aveva una sua robustezza anche sulla politica internazionale. Ci servivamo della collaborazione del settimanale francese “Nouvel Observateur” che era certamente robusto sul piano delle informazioni mondiali. In buona parte condividevamo anche la prospettiva di base socialista che portava però a un severo atteggiamento critico verso l’Unione sovietica. Godevamo progressivamente della attenzione della stampa laica. Sapevamo di essere sul tavolo delle redazioni dei più importanti giornali, e alcuni settimanali indagavano sempre per sapere su quale tema avremmo impostato la copertina. Sul tema del disarmo avemmo fiere discussioni con molti giornali. Eravamo anche molto impegnati di conoscere i dati reali del momento politico. Siamo stati invitati a partecipare a molti dibattiti in tutta Italia. Insomma eravamo impegnati in un circolo di discussione-informazione più ampio di quello costituito dalla sinistra democristiana.
La tua provenienza dall’Università Cattolica di Milano ti ha consentito di conoscere esponenti della gerarchia. Com’era vista dal Vaticano la rivista
Indubbiamente la mia provenienza dall’Università cattolica, ci mantenne canali aperti con la realtà ecclesiale e con la stessa gerarchia cattolica. Un rapporto costruttivo avemmo con Giovanni Battista Montini anche dopo che divenne papa Paolo VI. Anche molti del laicato intellettuale cattolico ci furono vicino. Resistemmo serenamente anche a una richiesta censoria dell’autorità ecclesiastica. Devo dire che il mondo ecclesiastico ci seguiva con attenzione e, in un caso, da quella sede arrivò anche un dettagliato consiglio per usare l’autorità di Tommaso d’Aquino durante la campagna referendaria per il mantenimento della legge sul divorzio. La rivista cessa le pubblicazioni nel luglio del 1974, dopo il Referendum sul divorzio.
Una chiusura che renderà più povera la battaglia politica dei cattolici democratici italiani. Quali furono le ragioni profonde della chiusura?
La chiusura del settimanale dipese non dalla scelta referendaria per il no, in cui conservammo intera la nostra libertà, ma piuttosto da una consumazione di un tempo politico diventato diverso dal tempo della fondazione. Erano avvenuti cambiamenti profondi e la stessa politica ormai cercava altri sbocchi. La stessa prospettiva di una nuova iniziativa politica partitica era tramontata, mentre andavano irrigidendosi anche i rapporti politici.
Consideri la fine di “Settegiorni” come l’anteprima della scomparsa della Dc?
Non credo che la chiusura di “Settegiorni” possa essere considerata un’anteprima della scomparsa della Dc. Non si può scambiare un effetto con la causa e viceversa, Il fatto è che il mondo cattolico pure rimanendo vivace in molte parti, stava distaccandosi da un interesse politico, senza aver più solide premesse di analisi storica e antropologiche. Di fatto contava ormai il cambiamento economico e sociale che riusciva a identificarsi in una cultura aggiornata. La cultura nel suo insieme era entrata in piena crisi di identità storica, che dura ancora.