Le Acli e l’affaire Moro. Un testo di Domenico Rosati

caso Moro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel giorno fulminato, il 9 maggio del 1978, le Brigate Rosse compirono uno degli omicidi più efferati della loro criminale e sanguinosa storia: quello di Aldo Moro. L’assassinio di Moro fu il tragico “sigillo”di una agonia, iniziata il 16 marzo a Via Fani,  durata quaranta giorni. Quell’omicidio segnò per sempre la storia della nostra Repubblica. A quasi quarant’anni da quell’evento le ACLI nazionali organizzano, a Roma nel pomeriggio un Convegno “Via Caetani, 1978. Quale verità?”. L’incontro si svolgerà, alle ore 17, presso una sala dell’ISTITUTO DELL’ENCICLOPEDIA ITALIANA. Relatori del Convegno saranno, tra gli altri: Domenico Rosati (che è stato presidente nazionale delle Acli durante quei tragici eventi), Giuseppe Fioroni (Presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro), Paolo Cucchiarelli (giornalista Ansa e autore del libro “Morte di un Presidente” ) e Roberto Rossini (attuale Presidente Nazionale).

 

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo dell’intervento che terrà al Convegno.

se Moro è vissuto da solo

e lontano da tutti,

è morto da solo,

ma davanti a tutti

Carlo Bo. Delitto di Abbandono. 

(9 maggio 1979)

            Penso che la mia presenza qui sia da attribuire essenzialmente ad una ragione anagrafica oltre che al fatto di essere stato presidente dell’organizzazione che promuove  questo incontro sul tempo in cui il delitto Moro venne consumato e la sua verità inabissata nel sommerso della repubblica.

         Il mio contributo allo svolgimento del tema di questo incontro – la ricerca della verità sulla vicenda – sarà perciò contenuto nei termini e nei limiti di una testimonianza personale che non riesce a liberarsi dall’emozione anche se si riattiva a distanza di decenni dai fatti.

         Ritengo, tra l’altro, che anche un ricordo non lineare ma autentico possa integrarsi tra le incognite di una ricerca che ripropone atmosfere che vanno da “Rashomon” a “Blow up” ed è resa ancor più ardua dalla compresenza con le tante manifestazioni di post-verità che ci assediano.

         Questa mia esplorazione delle retrovie della memoria esigerebbe  ora una ricostruzione puntuale del rapporto di Moro con una grande organizzazione di lavoratori come le Acli, considerata, negli anni della sua affermazione politica, come un riferimento importante per i cattolici in politica.

         Due fotogrammi di sintesi, corrispondenti a due congressi delle Acli. 1963, Moro viene al Congresso subito dopo che il suo primo governo organico di centrosinistra ha prestato giuramento. E’ accolto da una platea entusiasta che vede coronato un disegno di progresso che ha condiviso e sostenuto. 1966: Moro viene al  congresso molto provato dalle traversie del suo governo: l’assemblea è nervosa; ha appena fischiato il segretario della DC, Rumor e rumoreggiato il segretario della Cisl

Storti. Moro riceve un applauso dignitoso, come di riconoscimento alla fatica, e riesce a farsi ascoltare quando spiega la differenza tra i desideri e la realtà. Ma un rapporto essenziale si incrina.

         Comincia a prendere corpo, in quegli anni, il disegno di un’operazione di sganciamento dalla Dc che all’inizio aveva tra i protagonisti non solo il nostro presidente Livio Labor, ma anche Carlo Donat Cattin e la sua corrente di Forze Nuove. Il suo luogo propositivo era il settimanale “Sette Giorni” guidato da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. 

         Moro, che pure era in dissidio con la maggioranza dorotea del suo partito, non condivideva un simile disegno. Già dal Convegno di Lucca del 1967 sui “tempi nuovi della cristianità” aveva assegnato alla Dc l’obbiettivo di realizzare il compimento della democrazia, ciò che lo distingueva, ad esempio dalla posizione di Rumor il quale insisteva su una mission essenzialmente anticomunista. Ma per perseguire il suo obbiettivoMoro aveva bisogno di avere con sé l’”intatta forza” della Dc e quindi non vedeva bene i tentativi in atto nel mondo cattolico per superare le gabbie del “collateralismo”, in cui si erano distinte le stesse Acli.

         Così al congresso Dc del 1969 Moro operò una rottura clamorosa con il gruppo dominante del partito e cominciò ad esplorare un orizzonte di sinistra che offriva in primo luogo alla corrente di “Forze Nuove” l’opportunità di continuare a giocare le proprie chances all’interno piuttosto che correre rischi all’esterno. L’isolamento e la sconfitta di Labor nelle elezioni del 1972 si spiegano anche alla luce di questa circostanza.

         Si delineò così un contesto nuovo nel quale le Acli, anche per governare il pluralismo politico che ormai le caratterizzava, orientarono la propria analisi verso un obbiettivo – l’unità delle forze popolari – che convergeva con le prospettive esplorate nel frattempo dallo stesso Moro (strategia dell’attenzione) e da Berlinguer(compromesso storico).

         Questa tendenza si consolida con la mia presidenza (1976) che si esercita nello stabilire o ristabilire una pluralità di rapporti diretti cioè non mediati dalle correnti, sia con la Dc, dove la sensibilità di Zaccagnini facilitava l’impresa, sia con il Psi appena espugnato da Craxi, sia con il Pci dove Berlinguer forzava i tempi per la nuova alleanza.

         Per dare e ricevere chiarimenti avevo chiesto un incontro ad alcuni dei principali protagonisti di quella fase. Il presidente del Consiglio, Andreotti, la cui giornata lavorativa cominciava alle sette del mattino, miaccordò un colloquio la cui sostanza annotò nei suoi diari, nel senso di una convergenza di intenti sulla necessità di realizzare  il massimo di collaborazione tra le principali forze democratiche.

         Anche a Moro avevo chiesto un colloquio che immaginavo più difficoltoso per via dei nostritrascorsi. Mi avrebbe visto volentieri – così  mi comunicò la sua segreteria – ma solo dopo la conclusione della crisi di governo. Cioè dopo il 16 marzo…  Un dopo che non c’è mai stato.

         La notizia dell’eccidio di Via Fani e del rapimento di Moro ci sembrò appartenere al regno della finzione anziché a quello della realtà. Col terrorismo si conviveva da tempo ma non si immaginava che potesse giungere a tanto. E c’era pure una reazione istintiva da fronteggiare: quella che ai funerali degli agenti della scorta caduti portava la gente a invocare la pena di morte. Ad un giornalista che mi domandava seppi solo rispondere, quasi d’istinto: “hanno eliminato il timoniere”. 

         Nei cinquantacinque giorni della prigionia si instaurò il regno delle confusione.

Sedute spiritiche rivelatrici, covi scoperti per caso, annunci di esecuzione fasulli, e poi l’incrociarsi di appelli contrastanti ai quali era arduo sottrarsi. Accadeva pure che un testo letto al telefono esprimesse una posizione e, ottenuta la tua firma, venisse cambiato per sostenere quella esattamente contraria. E poi le lettere dal carcere del popolo dove la forma dell’analisi politica non nasconde la sostanza di un tormento intimo che interpella le coscienze oltre il concludersi degli eventi. 

         Io scelsi di stare vicino a Zaccagnini che mi pareva drammaticamente provato dalla impossibilità di dare affidamenti alla famiglia di Moro e, nel contempo, sbalordito per l’inconsistenza delle indagini. Mi resi conto della schematicità delle due tesi in campo – fermezza e trattativa – nel senso che tutti sarebbero stati disponibili ad esaminare proposte di soluzione che risultassero plausibili per la salvezza di Moro. Ma quali proposte?

         Personalmente fui coinvolto nella iniziativa che Craxi – correggendo l’intransigenza dei primi giorni – assunse a sostegno del così detto “scambio uno contro uno”: la vita di Moro salva per la liberazione di un terrorista. 

         Il leader socialista mi invitò a Via del Corso. Dopo un ampio preambolo che magnificava l’importanza e i meriti delle Acli, mi espose con grande enfasi la sua tesi,ma alla domanda: “Non ti chiedo di dirmi da parte di chi, ma puoi assicurarmi di avere la certezza morale di una probabilità di buon esito dell’operazione”? non dette risposta. Ebbe ad insistere molto, invece, sul fatto che Zaccagnini era d’accordo con lui. Circostanza che la sera stessa verificai non essere vera: una misura bastante per non farne nulla.

         Del 9 maggio ho un ricordo banale ma vivissimo: la forchetta rimasta infilata nel risotto che una gentile signora ci aveva preparato al termine di una mattinata che con il Padre Pio Parisi avevamo dedicato, in un appartamento in via Marco Polo, ad una delle meditazioni bibliche in cui ci esercitavamo con continuità Era stato il nostro capo ufficio stampa, Giorgio Bonelli, a entrare sconvolto con la notizia: “Lo hanno  ammazzato. E’ in via Caetani. 

         Corremmo a via Caetani, che però era sbarrata. Allora ci spostammo a Piazza del  Gesù, sede della Dc, percorrendo via delle Botteghe Oscure, sede del Pci. La piazza era gremita e silenziosa. Sofferente. Mi sentii chiamare e poi abbracciare. Era Giovanni Berlinguer. Piangemmo insieme.

         Così come la commozione ci prese alla gola quando, giorni appresso, di fronte al tumulo vuoto in San Giovanni in Laterano, Paolo VI pianse il suo amico e discepolo con un accento di accoramento biblico che ricordava il lamento di Giobbe.  Poi quando tutto fu compiuto sono andato anch’io a Torrita Tiberina a pregare sulla tomba che domina una luminosa valle del Tevere.

         Qui termina la cronaca del mio vissuto in quel tempo. Ora mi avventuro in qualche congettura non su una verità che mi sfugge ma su un’idea dell’accaduto che mi pare plausibile.

         Nessun dubbio che l’impresa sia stata pensate e interamente compiuta dalle BR, un’entità ideologica, politica e militare totalmente autoreferenziale ancorché disposta  a cercare supporti esterni.

         Nessun dubbio che scegliere Moro come obbiettivo avesse lo scopo di paralizzare e mettere in crisi il tentativo di dar vita ad un governo che recuperasse al livello direzionale il Pci di Berlinguer.

         Dunque un bersaglio doppio. Uno fisico, il leader della Dc, in quanto artefice e dominus (il timoniere) del nuovo corso politico, e uno politico, il Pci di Berlinguer accusato di tradimento della causa rivoluzionaria; una contestazione che semmai andava rivolta al Togliatti del 1944, ma che nell’analisi brigatista era il riflesso della convinzione che dopo il ’68 francese, l’autunno operaio italiano, le gesta dell’”autonomia” e dei gruppi d’estrema fossero maturate le condizioni per l’assalto finale al cuore dello Stato.

         Un progetto, dunque tutto made in Italy (pensiero,organizzazione, esecuzione), attorno al quale le singole forze politiche hanno preso posizioni differenziate e in qualche caso lo hanno sfruttato per convenienza propria. 

         Tutto questo in un habitat che, nell’insieme,rivelava una serie di lacune, di incompetenze, nei comparti preposti alla ricerca della “prigione del popolo” e con essa  dei colpevoli, dei loro rifugi e spostamenti. Ricordo lo sfogo di un bresciano rigoroso e di poche parole come  Franco Salvi: “Al Viminale non sanno fare il loro mestiere”. Al Viminale c’era Cossiga, 

         C’è da considerare anche una dimensione internazionale? Rispondo con l’immagine di una riga tracciata su una tovaglia con il manico di una forchetta. Eravamo a cena dall’ambasciatore di Bulgaria, che intratteneva rapporti frequenti con le Acli-terra. Il discorso cadde sul caso Moro e uno di noi riportò l’opinione largamente diffusa che “erano stati gli americani”. “Un momento”, interruppe il diplomatico; e tracciò la riga sulla tovaglia. Poi spiegò: “vedete, qui c’è l’Ovest e qui c’è l’Est. Ogni squilibrio da una parte destabilizza l’altra parte”. “Dunque -chiedemmo-  l’andata al governo del Pci in Italia sarebbe una causa di squilibrio nel campo sovietico”? “Vedo che avete capito”, rispose. 

        

         Un riscontro di questo episodio si può trovare a pag.186 del libro di Paolo  Cucchiarelli, là dove si riferisce una valutazione di Elio Rosati,uno degli amici più fedeli di Moro, sull’esito di un sondaggio affidato  ad Ugo La Malfa negli ambienti diplomatici sovietici: “Tonino (Maccanico, che ne era il tramite) tornò giorni dopo e mi disse: ci sono interessi convergenti di apparati diversi, sarà molto difficile salvare Moro”

         Più tardi mi accadde di evocare la circostanza che mi riguardava  in un discorso pubblico che venne ripreso dal “Manifesto”. Fui convocato dai pubblici ministeri Jonta e Santapaola che conducevano una delle indagini sul caso Moro. Detti ogni elemento in mio possesso. Ma la cosa, che io sappia, non ebbe seguito.

         Di qualche interesse mi sembrano poi le considerazioni che si possono fare sui riverberi italiani della vicenda. Se l’obbiettivo delle BR era di bloccare la fase della solidarietà nazionale, bisogna riconoscere che esso è stato conseguito.

         Le due forze che tentavano di convergere si sono ritirate sulle linee di partenza. La Dc all’inizio del 1980 con il congresso detto del “preambolo” che sancì l’alleanza  di  quasi tutte le componenti di centro e di destra sulla necessità allinearsi per  ridare vigore all’impegno di contrasto al comunismo.

         Da parte sua il Pci stabilì il proprio recesso dalla solidarietà nazionale, nel loro linguaggio il compromesso storico, con una “svolta di Salerno” che rilanciava la linea dell’alternativa democratica verso una Dc tornata avversaria. 

         La tenaglia si chiude con il primo governo a guida socialista affidato a Bettino Craxi, il più severo critico delle grandi intese di quell’epoca triste. E il “pentapartito” la prolunga nelle sue diverse inconcludenti versioni, fino all’esaurimento della vitalità dei partiti che ne erano partecipi.

         La riprova? Quando nel 1989 avvenne il tracollo del comunismo, nessuna delle  forze del pentapartito si rivelò in grado di sollevare la bandiera della giustizia sociale  prima sventolata dai comunisti che  a stento riuscivano essi stessi a sopravvivere.

         Ciò che più mi colpisce nella rilettura di questa fase è l’assenza di un forte presidio del lascito ideale ed etico-politico di Moro da parte dei suoi presunti eredi. Si direbbe che quell’eredità non è stata neppure rivendicata. Nessuno comunque ha riproposto, finchè c’era tempo, un rilancio della solidarietà nazionale come via per archiviare uno scontro storico e di realizzare una cooperazione vitale nell’interesse dal paese.

         Il ritorno all’autosufficienza del ceto di governo, incarnata nel pentapartito ma non solo, ha reso rigidi i rapporti ed ha ridotto il confronto politico ad una colluttazione continua per la conquista e il mantenimento di frazioni di potere.

         Si sono bloccati così tutti i processi che la fase morotea sembrava aver aperto anche tra i cattolici, dove alla “scelta religiosa” di un’altra vittima del terrorismo, Vittorio Bachelet, subentrò la lunga stagione di una “presenza” di matrice integralistica, rivelatasi fattore di divisione anche tra i credenti.

         In quegli anni, lo dico con nostalgico orgoglio, le Acli furono tra le poche agenzie sociopolitiche che tentarono di tenere aperto un dialogo a sinistra sui temi della pace, del lavoro e della democrazia come presupposti di una solidarietà popolare supportata anche da iniziative unitarie come, ad esempio quella per lo smantellamento delle rampe missilistiche ad Est e d Ovest, richiesta a Stati Uniti e Unione Sovietica nella sede delle loro trattative a Givevra.

        

                  Qualche corollario nei dintorni della verità. A me è accaduto, dopo la parentesi parlamentare, di avere un incarico di consulente presso la Commissione Stragi che si stava occupando, tra l’altro anche del caso Moro.

         Confesso che mi sarebbe piaciuta una maggiore solennità nelle procedure. Ad esempio che si chiedesse agli “auditi” di prestare giuramento. E mi sorprendeva negativamente vedere noti terroristi seduti accanto al presidente anziché davanti a lui: trattati cioè da esperti anziché da testimoni.

         Ammetto inoltre che, pure nell’incertezza dei comportamenti, avrei considerato ragionevole che quanti avevano svolto ruoli di rilievo nella vicenda Moro, si astenessero dal rimanere o dal  reimmettersi nel circuito delle responsabilità politiche. 

         A quel che ne so, per testimonianza del cardinale Ersilio Tonini, Benigno Zaccagnini fu in grado di rifiutare la candidatura a presidente della repubblica: “Non posso farlo al posto di Aldo”, aveva detto a chi lo sollecitava. 

         Infine un accenno ad una proposta che giudico importante e significativa: quella a suo tempo formulata da Giovanni Moro di chiamare tutti i protagonisti dei fatti del 1978 a dichiarare pubblicamente in una sede deputata se e dove e quando ritenevano di aver commesso errori di valutazione, o trasgressioni o mancanze o rilevanti omissioni. Se ne sarebbe giovata la verità: non quella storica o quella giudiziaria o quella politica. Più semplicemente, la verità umana.

“Settegiorni”, quando i cattolici non erano moderati. Intervista a Ruggero Orfei

È stato un settimanale straordinario. Un vera palestra di giornalismo politico per un generazione di giovani, democristiani e non, che successivamente hanno fatto un percorso significativo nel giornalismo e nella politica italiana . Ma non c’erano solo giovani, c’erano anche prestigiosi collaboratori (Franco Rodano, Emanuele Severino, Adriana Zarri, per ricordarne alcuni). Una rivista che ha fatto cultura politica, rinnovandola, e che ha contribuito, in quegli anni pieni di fermenti e difficili, a consolidare la democrazia italiana. Vogliamo ricostruire la storia di quella esperienza con questa intervista al giornalista Ruggero Orfei. Orfei è stato il direttore del settimanale fino alla fine della pubblicazione.






Ruggero, sono passati quasi cinquant’anni da quel lontano 18 giugno del 1967 quando uscì un settimanale, “Settegiorni” appunto, davvero unico nel panorama del giornalismo politico italiano. Cosa rendeva unico il settimanale?
Non è facile rispondere perché il settimanale non fu mai unico. Unicità ci fu forse all’inizio nella definizione dell’impresa: si avvertiva in molti ambienti (circoli culturali, sezioni di partito e di associazioni nazionali, redazioni di giornali culturali anche di piccolo ambito), la necessità di un organo che comunicasse quello che sembrava un comune sentire tra i cattolici intesi come “di sinistra”.
Doveva avere un’ispirazione cristiana, ma senza pretese di rappresentanza confessionale. Avrebbe dovuto trovare nella politica le ragioni di una presenza, senza mandato e neppure senza riferimenti di scuola. Ovviamente la cultura politica di fondo – lo spazio vitale – era democratica e aveva riferimenti in alcuni maestri molto noti.

Quali sono le ragioni sociali che sono alla base della nascita di “Settegiorni”?
Le ragioni sociali alla base di “Settegiorni” rimangono tuttavia evanescenti mancando un ambito sociale definito e definibile. Da un punto di vista antropologico si dovrebbe parlare di un coagulo di istanze politiche, sindacali, associative, con un fondamento che rimaneva insistentemente “cattolico”.

Come nasce l’idea di “Settegiorni”? Da chi è partita l’idea? Puoi darci qualche “retroscena”? Quali erano i collaboratori più prestigiosi?
L’idea di dare vita a un giornale era ricorrente ed era messa in agenda da settori politici e sindacali dopo la crisi del 1960 in aree tra loro diverse e talora anche distanti. Si trattava delle correnti di sinistra nella Dc, di certe sedi culturali rappresentate da riviste e anche di un orientamento di una “sezione” della Chiesa che a Milano, col cardinale Montini, ebbe una speciale coltivazione. All’inizio degli anni sessanta a Milano, proprio per propulsione di Montini, fu fondato il quindicinale “Relazioni Sociali”, (nel quale ero inserito), per iniziativa di Lazzati, Giancarlo Brasca, mons, Enrico Manfredini, Emanuele Ranci Ortigosa. Vittorino Colombo, Filippo Hazon, Sergio Zaninelli, Luigi Covatta, Mario Dosi e molti altri. Al quindicinale partecipavano Pippo Ranci, Franco Bassanini, Valerio Onida, Pino di Salvo, Sandro Magister, Antonio Miniutti, Pippo Torri e altri.
A posteriori mi pare di poter dire che fu un’iniziativa decisiva per il coagulo di intenzioni e attività comunicative nuove, prive di qualunque ufficialità. Personalmente, data la mia posizione di direttore della Biblioteca della Cattolica, potevo fare utili incontri e scambi di idee molto proficui per il crescere di un’idea che non poteva essere personale ma di un vasto ambiente.
Non è possibile indicare una spinta personale prevalente. L’idea di un giornale stava nascendo per generazione spontanea.
Negli anni sessanta ci furono iniziative per la creazione di un giornale e avvennero sul tema, a Firenze intorno a padre Balducci, ma del tutto al di fuori di quello che facevamo e pensavamo a Milano.
Dovrei ricordare – ai fini di una ricostruzione di un ambiente – che in quel periodo si costituì una commissione per lo studio del comunismo su un desiderio di papa Montini che ne parlò a mons. Pagani. Tale iniziativa fu “accollata” alle Acli con Labor e monsignor Pagani ,il quale nel frattempo era giunto a Roma come assistente centrale aclista , e presentò lui il progetto sull’indagine, già predisposto a Milano.
Quella commissione, al di là dei risultati culturali, ebbe il merito di far conoscere persone culturalmente attive in un quadro cattolico  molto impegnato e culturalmente preparato. Si creò allora un ambiente che poi fu di riferimento a chi l’iniziativa l’avrebbe presa concretamente: Donat Cattin, leader di Forze nuove, di Livio Labor presidente delle Acli e Vittorino Colombo, leader del gruppo di sinistra sociale milanese “Rinnovamento” che si rifaceva alla tradizione milanese di Achille Grandi. Tra i collaboratori “maturi” che si ritrovano nell’impresa, ricordo Emanuele Ranci Ortrigosa, Umberto Segre, Morando Morandini, Giovanni Gozzer, Antonio Marzotto, Giorgio Girardet, Emanuele Severino, Lidia Menapace, padre David Turoldo, Arturo Chiodi, Claudio Napoleoni, Adriana Zarri, Italo Moscati, Franco Rodano (Ignazio Saveri) e altri.

La direzione e la redazione di “Settegiorni” era in via della colonna Antonina, a Roma, sede della corrente DC di Forze Nuove.. Questo non ha mai limitato l’autonomia di analisi politica e culturale della rivista. Ed è lo stesso leader della sinistra sociale dc, Carlo Donat-Cattin , a ricordare questa caratteristica , qualche anno dopo, in una intervista: “La vita di Settegiorni – affermava Donat-Cattin- fu sempre autonoma rispetto al gruppo di Forze Nuove. Sviluppò una linea che sembrò voler stabilire tra il pensiero di Aldo Moro (…) e il pensiero di Franco Rodano e dei suoi amici, provenienti dal partito della sinistra cristiana e poi inseriti nel PCI”. Insomma moroteismo, integrato dai contenuti duella sinistra sociale, e rodanismo agirono da propulsori "ideologici" tale da consentire alla rivista di esercitare una egemonia culturale e politica in quel periodo. Si può dire che la rivista anticipò la strategia morotea dell’attenzione al PCI?
Sull’autonomia di “Settegiorni” non ci furono problemi. Le differenze potevano venire ma come opinabili punti di vista peraltro in un contesto amicale. Per certi particolari rinvio alla memoria recentemente pubblicata da Giorgio Merlo (Orfei fa riferimento al libro: Cattolici democratici in Settegiorni.Ndr) . Indubbiamente il settimanale fu sempre autonomo e respingeva a occasione data ogni tentativo di manomissione.
Una precisazione storica occorre in merito alla ricordata dichiarazione di Donat Cattin per quel che riguarda Franco Rodano. Il peso di questi fu esiguo in termini non solo genericamente ideologici, ma anche di un indirizzo politico.
Devo precisare su questo argomento che a mio parere il Comunismo che Rodano pensava non era correttamente quello di Marx. Il fondatore della concezione materialistica della storia ebbe a dichiarare in cinque (se ricordo bene) occasioni, che egli non era marxista. Non solo, ma il marxismo – come sistema – sul quale mi ero persino laureato, a mio parere non esisteva, perché il povero Marx pubblicò solo una piccola parte, della sua produzione scientifica e letteraria. Gli arricchimenti “teorici” erano di scuola e soprattutto erano impostati su un lavoro editoriale di Engels. Nel giornale il punto di vista di Rodano, non ebbe un vero peso, tanto è vero che non fu tra gli autori per così dire ufficiali, e adottò quasi sempre uno pseudonimo.
Per quanto riguarda la strategia morotea, questa fu un’elaborazione storica del passato e come tale andrebbe sempre evocata. Tuttavia sempre al di fuori di pasticci ideologici, e fuori di un mitico grande incontro tra cristiani e marxisti. Moro aveva certamente un’idea di un possibile rapporto nuovo con i comunisti, ma il suo disegno era sempre basato su una reiterata volontà di mantenere unita la Dc proprio, e magari, in vista di incontri anche di ordinaria vita politica. Non mi pare che Moro anticipasse una “strategia”, ma immaginava solo una linea di condotta di ammorbidimento dei rapporti entro il sistema politico italiano. Pensava a un disegno complesso che avrebbe dovuto rivelarsi come politica di unità nazionale ma con un esito che non avrebbe mai dovuto rompere i vincoli di “confine” col Pci. La linea vera marciava su altri binari. Tra l’altro la stessa prospettiva del “compromesso storico” all’inizio del 1974 era stata abbandonata o lasciata appassire dallo stesso Berlinguer che ebbe a dirmelo.

Tu e Piero Pratesi eravate le teste pensanti della rivista. Com’era il tuo rapporto con Pratesi? Tu provenivi dalla realtà milanese dell’Università  Cattolica, lui era stato vice-direttore del Popolo (quotidiano della DC). Lui cosa “portava” a Settegiorni?
I ruoli di Pratesi e mio nel settimanale erano molto equilibrati. Piero aveva una percezione che direi quasi istintiva degli eventi politici. Rifuggiva dagli inquadramenti complessi, ma riusciva a vedere le conseguenze di ogni atto politico, senza però indicare grandi disegni. Il commento politico per lui era una vera meditazione e l’analisi si trasformava sempre in un’indicazione concretamente sperimentabile. Insieme avevamo intensi rapporti esterni per così dire diplomatici e con il mondo cattolico.

Torniamo alla battaglia politica del settimanale. Voi vi siete battuti contro la “doroteizzazione” della DC. Qual era l’idea della DC che aveva il settimanale?
La nostra percezione del doroteismo ci portava in realtà a vedere il cammino della Dc come segnato da un processo degenerativo. Le ragioni stesse di “Settegiorni” erano sempre segnate dalla preoccupazione di vedere una vera degenerazione che stava investendo sia la rappresentanza che la linea generale. A partire dal convegno democristiano di Lucca del 1967 (I cattolici italiani nei tempi nuovi della cristianità.Ndr), noi considerammo sempre che c’era una strada segnata proprio dal doroteismo che vedevano come una seconda natura del partito cattolico. Pensavamo che si potesse evitare e speravamo che una riforma generazionale del partito avrebbe potuto cambiare le cose. Cercavamo di mettere in evidenza la conflittualità sociale e il dibattito culturale, con aperture non solo ideologiche, ma anche di cognizione della nuova società tecnologica, con nuove indicazioni sul mondo del lavoro.

Il settimanale era piuttosto contrario ad un secondo partito cattolico, perché?
L’eventualità di un secondo partito cattolico fu in partenza presente nei primi passi del giornale. Lo stesso Donat Cattin in un convegno a Sorrento l’aveva messo sul tavolo dei nostri discorsi. Poi proprio la strategia morotea si impose come necessità di mantenere la Dc unita e possibilmente forte, proprio per andare incontro a nuove formule di vita nazionale. Di fatto quando si presentò con Labor la proposta del nuovo partito dei cattolici noi ci tenemmo fuori in pieno accordo con Donat Cattin.

Un settimanale così robusto sul piano politico culturale, con grande attenzione anche alla politica internazionale, com’era visto dal mondo della grande stampa laica?
Certamente il settimanale aveva una sua robustezza anche sulla politica internazionale. Ci servivamo della collaborazione del settimanale francese “Nouvel Observateur” che era certamente robusto sul piano delle informazioni mondiali. In buona parte condividevamo anche la prospettiva di base socialista che portava però a un severo atteggiamento critico verso l’Unione sovietica. Godevamo progressivamente della attenzione della stampa laica. Sapevamo di essere sul tavolo delle redazioni dei più importanti giornali, e alcuni settimanali indagavano sempre per sapere su quale tema avremmo impostato la copertina. Sul tema del disarmo avemmo fiere discussioni con molti giornali. Eravamo anche molto impegnati di conoscere i dati reali del momento politico. Siamo stati invitati a partecipare a molti dibattiti in tutta Italia. Insomma eravamo impegnati in un circolo di discussione-informazione più ampio di quello costituito dalla sinistra democristiana.

La tua provenienza dall’Università  Cattolica di Milano ti ha consentito di conoscere esponenti della gerarchia. Com’era vista dal Vaticano la rivista
Indubbiamente la mia provenienza dall’Università cattolica, ci mantenne canali aperti con la realtà ecclesiale e con la stessa gerarchia cattolica. Un rapporto costruttivo avemmo con Giovanni Battista Montini anche dopo che divenne papa Paolo VI. Anche molti del laicato intellettuale cattolico ci furono vicino. Resistemmo serenamente anche a una richiesta censoria dell’autorità ecclesiastica. Devo dire che il mondo ecclesiastico ci seguiva con attenzione e, in un caso, da quella sede arrivò anche un dettagliato consiglio per usare l’autorità di Tommaso d’Aquino durante la campagna referendaria per il mantenimento della legge sul divorzio. La rivista cessa le pubblicazioni nel luglio del 1974, dopo il Referendum sul divorzio.

Una chiusura che renderà  più povera la battaglia politica dei cattolici democratici italiani. Quali furono le ragioni profonde della chiusura?
La chiusura del settimanale dipese non dalla scelta referendaria per il no, in cui conservammo intera la nostra libertà, ma piuttosto da una consumazione di un tempo politico diventato diverso dal tempo della fondazione. Erano avvenuti cambiamenti profondi e la stessa politica ormai cercava altri sbocchi. La stessa prospettiva di una nuova iniziativa politica partitica era tramontata, mentre andavano irrigidendosi anche i rapporti politici.

Consideri la fine di “Settegiorni” come l’anteprima della scomparsa della Dc?
Non credo che la chiusura di “Settegiorni” possa essere considerata un’anteprima della scomparsa della Dc. Non si può scambiare un effetto con la causa e viceversa, Il fatto è che il mondo cattolico pure rimanendo vivace in molte parti, stava distaccandosi da un interesse politico, senza aver più solide premesse di analisi storica e antropologiche. Di fatto contava ormai il cambiamento economico e sociale che riusciva a identificarsi in una cultura aggiornata. La cultura nel suo insieme era entrata in piena crisi di identità storica, che dura ancora.