Nuova legislatura: le incognite delle consultazioni. Intervista a Fabio Martini

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (ANSA/UFFICIO STAMPA QUIRINALE/PAOLO GIANDOTTI)

La prossima settimana incominceranno le consultazioni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non sarà facile per il Presidente sciogliere i nodi del risultato politico delle elezioni. Quali le incognite e quali scenari? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini giornalista parlamentare della Stampa.

 Fabio Martini, l’inizio della  XVIII Legislatura, com’era prevedibile
dai risultati elettorali, ci consegna, al momento, una situazione di
stallo. abbiamo assistito al dialogo tra 5stelle e Salvini
(considerato il player principale del Centrodestra), e la sensazione è
che la convergenza su alcuni temi sia “fittizia”. Insomma abbiamo
assistito al “ballo delle maschere”?

Nella infinità quantità di messaggi  spesso  contradditori che arrivano all’opinione pubblica da parte di tutti i protagonisti del dopo-voto, ce n’è uno – meno esplicito – ma significativo: i due vincitori delle elezioni al momento sembrano fortemente motivati a farlo un governo insieme. Vogliono trasformare il voto in un governo. Di solito quando si esprime una volontà molto forte, questa prevale su una volontà più debole. Di solito, anche se non sempre.

Dalla prossima settimana, però, si dovrebbe fare sul serio. I nodi
politici sono chiari: Salvini, l’azionista di maggioranza del
centrodestra, non vuole spezzare l’unità della sua coalizione
(coalizione dove Berlusconi ha ancora un ruolo), Di Maio rivendica la
sua premiership a tutti i costi. L’impressione che si ha è che sia più
debole rispetto a Salvini. Per te?

Di Maio è il leader del partito (nettamente) di maggioranza relativa, di gruppi parlamentari irregimentati con un regolamento dai tratti autoritari e soprattutto ha una ipotesi principale (io governo con Salvini) e tre subordinate: un tripartito comprendente anche Forza Italia; un governissimo con tutti dentro; un governo col Pd. Alla fine questa varietà di opzioni farà la differenza: qualsiasi combinazione di governo non lo potrà escludere.

Veniamo ai 5Stelle. Hanno occupato come una falange ogni incarico alla
Camera, e manifestano una fame di potere impressionante.  una bulimia
“infantile” , non è segno di maturità politica. Insomma citano, a
sproposito, De Gasperi senza capirne la prassi. A me sembrano dei
vetero trotzkisti ….. Potranno eliminare il “vitalizIo” e il resto?

Effettivamente nell’”en plein” che ha caratterizzato l’approccio dei Cinque Stelle agli uffici di presidenza delle Camere c’è qualcosa di anomalo, un di più che è importante capire.  C’è una certa “fame” di poltroncine, è vero, magari per soddisfare la piccola ambizione di qualche esponente della nomenclatura; c’è la speranza genuina che occupando quelle postazioni si possano ottenere in modo più rapido legittimi obiettivi, come l’abolizione dei vitalizi, anche di quelli già ottenuti. Ma c’è pure una pulsione più impalpabile: l’idea che prendersi tutto sia un “diritto” dei vincitori, un risarcimento per torti, presunti o reali, subiti nella precedente legislatura. Qualcosa che somiglia ad una non matura cultura istituzionale.

Un altro segno inquietante è il PD. L’immobilismo è davvero
impressionante. Un maestro di saggezza politica come  Pierluigi
Castagnetti ha scritto in questi giorni sull’alta dignità di essere
opposizione. E i renziani lo stracitano a sproposito…”L’opposizione
ci fa bene”.Ma dimenticano le ultime righe dello scritto di
Castagnetti: ” si fa politica anche dal l’opposizione. Se si ha
dignità. E si hanno idee. Se non si ha nè l’una nè le altre, allora si
deve semplicemente cambiare “mestiere”.” Quello che si è visto è stato
quello di un partito immobile, paralizzato dalla presenza di Renzi.

Matteo Renzi ha già dimostrato di essere un leader molto autocentrato, che fatica a pensare la politica come qualcosa che abbia protagonisti diversi da lui e per questo continuerà a dire la sua, ad interferire.  Ma si è dimesso in modo irrevocabile. Come fece Bersani nel 2013. In un grande partito, quando si lascia, si lascia. Quelle di Renzi non sono dimissioni finte, come continuano a scrivere autorevoli commentatori. Sono dimissioni vere, quelle che non hanno dato né Roberto Speranza (nel suo Mdp) e neppure Nicola Fratoianni, le cui dimissioni sono durate tre ore. Gli avversari di Renzi sembrano “vedovi” inconsolabili, ma devono “rassegnarsi” a ripensarsi senza di lui. Certo, Renzi resta presente, è ingombrante ma ora i notabili del Pd devono dimostrare di non essere, come qualcuno sospetta, degli abatini. Il futuro del Pd è nelle loro mani, anzi nelle loro teste: devono inventarsi una nuova ragione sociale per il Pd, per una sinistra di governo. Come ha scritto uno degli ultimi maestri della precedente generazione, Pierluigi Castagnetti, c’è una grandezza anche nel fare opposizione. Ma occorre farla con dignità e idee. Per preparare una nuova stagione di governo.

Insomma un partito sofferente, che rischia l’ennesima devastante
spaccatura. Altro che forza di opposizione….
Certo, una spaccatura non si può del tutto escludere. Se la maggioranza del Pd dovesse “convertirsi” ad un governo con i Cinque stelle, questo aprirebbe un nuovo spazio politico a Renzi, libero di congiungersi con i liberal di Forza Italia. Ma stiamo parlando di scenari improbabili. La postazione che salvaguarda l’unità del Pd è una sola: l’opposizione.

Veniamo a Silvio Berlusconi. Pensi che si rassegni al
ruolo di comprimario?

Nel 1993 Berlusconi entrò in politica per salvaguardare le proprie aziende davanti ad una probabile vittoria del fronte progressista. Lo fece, innovando il linguaggio e anche il modo di far politica, virtù che si sono via via appannate, mentre, 25 anni dopo,  è rimasto intatto l’obiettivo iniziale. Se questo obiettivo fosse messo in forse dalla nascita di un governo anti-sistema, farà di tutto per entrare nella partita, anche mettendosi di lato, non pretendendo più di essere “legittimato” dai nuovi “padroni” a Cinque stelle, ma contentandosi di una presenza laterale in un governo

Ultima domanda: alcuni osservatori prospettano un governo del “Terzo
Uomo” (tra Salvini e Di Maio)…è credibile questo?

Di Maio ha bisogno di guidare il governo per dare un senso alla propria impresa “salvifica” e dare un trofeo ai propri elettori. A  Salvini, che viene da una scuola politica più pragmatica, interessa governare e lasciare subito un segno, anche non da palazzo Chigi. Al terzo uomo si arriverà, se si arriverà, per sfinimento. O per effetto di traumi esterni, che è meglio non ipotizzare. Senza fattori esogeni, un premier politico resta l’ipotesi meno improbabile, dunque un governo Di Maio, con forte presenza leghista  e simbolica presenza forzista. Ma con una avvertenza che è soprattutto una sensazione:  a decidere, in un senso o nell’altro questa complicata vicenda sarà uno scarto emotivo>

Popolarismo, populismo e opinione pubblica. Un testo di Maria Chiara Mattesini

Spesso nel dibattito politico contemporaneo si fa confusione tra “popolarismo” e “populismo”. In questo testo della storica Maria Chiara Mattesini, ricercatrice dell’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma,  fa chiarezza sui termini. La relazione, che pubblichiamo per gentile concessione dell’autrice, è stata tenuta la scorsa settimana nell’ambito del Ciclo di seminari 2018: “Popolarismo e Populismo”, organizzato dall’Istituto Luigi Sturzo di Roma.

1) Dopo l’inutile strage

Quando fonda il Partito popolare, nel 1919, Sturzo ha di fronte a sé grandi masse escluse dalle decisioni politiche, che per la stragrande maggioranza sono analfabete. Dopo la prima guerra mondiale, la psicologia collettiva è fortemente connotata da un senso di isolamento, sradicamento, estraniazione, causato, soprattutto, dagli alti livelli di disoccupazione. Tutto questo crea masse amorfe, atomizzate. Sturzo si trova ad affrontare masse di reduci, di poveri, di spostati, di gente senza più casa nè patria, ad affrontare una situazione psicologica di disperazione e di sfiducia, un clima di odio di tutto e di tutti. Un odio che non ha un oggetto definito, che non può addossare la colpa a qualcuno, che sia il governo, la borghesia o una potenza straniera. Si pensi soltanto al fatto che la maggior parte degli uomini che andarono al fronte non sapevano perché e contro chi combattevano. Sono masse che non hanno qualcuno che li rappresenti e li protegga sono quindi disorganizzate. Quella con cui Sturzo ha a che fare, dunque, è una folla di apolidi, sovrastata dal senso della superfluità. Ma, pur tendendo a cancellare le differenze individuali in un generale risentimento, questa amarezza egocentrica non crea un vincolo comune, perché non è basata su una comunanza di interessi, economici, sociali o politici: «L’abnegazione, non come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità, divenne un fenomeno di massa che non aveva più a che vedere con l’idealismo individuale. Le principali caratteristiche dell’uomo di massa erano l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. Essere sradicati, infatti, significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo»1. Sono parole, queste, di Hannah Arendt. Sturzo definisce questa umanità con un linguaggio non dissimile: «disgregata, atomizzata in uno stato permanente di sofferenze sociali»2. Il fascismo trovò, così, un terreno favorevole: un terreno caratterizzato dalla passione e non dalla razionalità. Esso, scrive Sturzo con parole molto efficaci che colgono l’essenza dei regimi dittatoriali ed anche della cultura populista, fu un «movimento convulso ed espressione sentimentale di stati d’animo e di interessi contrastanti, non poteva fare altro che fissare nella sua lastra fotografica le impressioni esterne del momento e ingrandirle sullo schermo di proiezione, per determinare la folla a suo favore»3. E poi, ancora, scrive: «Ci sono in ciascuno di noi dei motivi fondamentali, ai quali consciamente o inconsciamente, si riducono i valori dei fatti o delle impressioni, per un complesso di tradizioni, convinzioni, interessi ed affetti; dei quali è molto difficile fare un’analisi completa e esatta: noi li chiamiamo stati d’animo. Questi influiscono potentemente anche sui giudizi dell’intelletto, e possono arrivare, se non corretti da un esercizio critico di se stesso molto sviluppato, a turbare l’esatta percezione della realtà. Io credo di vedere nel fenomeno che sto esaminando [l’adesione al fascismo], uno di questi stati d’animo, di queste oscure sintesi psicologiche, le quali, di certo, attenuano la responsabilità degli errori di fatto, e danno le spiegazioni di certe inversioni spirituali che altrimenti sarebbero inafferrabili»4. La crisi degli stati europei, con la successiva affermazione dei fascismi o, comunque, di regimi antiliberali, viene da lui intesa come l’esito estremo di una democrazia “individualista”, che esclude, cioè, qualsiasi organismo intermedio generatore di una democrazia collegiale, per fondarsi, invece, sui rapporti diretti tra il cittadino e le istituzioni. All’origine delle esperienze totalitarie degli anni Trenta, vi sono l’alterazione e la successiva soppressione delle autonomie locali, tanto care a Sturzo, e delle libertà politiche, con la conseguente manifestazione dello Stato come “primo etico”, fondato non sul consenso ma sulla forza. «Gli stati totalitari – afferma Sturzo – sopprimono la libertà politica e diminuiscono la libertà personale con l’ingerenza statale nell’atteggiamento del pensiero, nel dominio della morale e della religione… Gli individui non sono più considerati né come cittadini né come sudditi, ma solo come membri di un gregge, come unità di una collettività di ferro i cui atti morali si integrano nei fini dello stato… La persona si perde, assorbita nella pan-collettività, designata coi nomi simbolici di nazione, classe o razza»5. Così si presenta la società, all’indomani della prima guerra mondiale; una società, però, che già era stata travolta, a inizio del XIX secolo, dalla prima industrializzazione con tutti gli effettieb che questa comportò. Ma per Sturzo il popolo chi è? Che significato ha questa parola?

2) Il popolo nella concezione di Sturzo

Sturzo non considera il popolo solo morfologicamente, ma anche come espressione concreta di società, come esperienza che il popolo fa nella società. Il concetto di popolo si innesta su quello di libertà. La democrazia per Sturzo è un sistema politico e sociale che comprende tutto il popolo organizzato su una base di libertà. «Popolo e libertà è il motto di Savonarola; popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai per l’intero popolo»6. Questo è uno dei motti adottati dal “People and Freedom Group”, sorto nel 1936 per iniziativa di Sturzo. Per Sturzo il popolo non è una massa amorfa e non è una massa arrabbiata mossa solo dalle passioni. Il popolo è una cittadinanza critica e la democrazia è partecipazione associativa e individuale, irriducibile alla primazia della politica. Inoltre il popolo non è, come per Rousseau e Robespierre, una volontà unica ed ha anch’esso dei limiti. Il popolo è sovrano, ma sono sovrani anche il parlamento, le regioni. Vi è una pluralità di sovranità che rimanda al valore dell’autolimitazione in democrazia: «La sovranità popolare esprime un valore morale indicativo e direttivo, quello che i corpi eletti tradurranno in politica economica e leggi. Così il popolo stesso è limitato nella sua azione di autogoverno, e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere… Il principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare»7. 

3) Il popolarismo e il fine della politica

Riandando con la memoria agli eventi fondativi del Partito popolare, Sturzo scrive: «Occorre adunque un principio distinto, che possa essere come il centro di sistemazione di una teoria e prassi politica, che sia comune e specifica insieme ai partiti popolari o simili, quali ne siano le denominazioni storiche nei vari paesi. Questo principio sarebbe la democrazia, ma abbiamo notato come questa parola si presti a confusione, sì da esigere da sè una specificazione. A me sembra che questa specificazione possa essere indicata dalla parola popolare… da questo aggettivo può bene dedursi, come uso specificativo, la parola astratta teorizzante di popolarismo»8. La parola popolarismo fu usata per la prima volta da Sturzo nel suo volume “Riforma statale e indirizzi politici”: «Esiste pertanto una dottrina politica che si chiama popolarismo e dalla quale il partito, come concretizzazione organizzativa ha la sua ragion d’essere, la sua ispirazione, la sua finalità?… La domanda serve a precisare i contorni e i presupposti teorici del movimento politico popolare. In quello e in altri volumi mi sforzavo di chiarire la portata storica di questo sistema che ho chiamato popolarismo, non per vano desiderio di creare una parola nuova, ma per obbligo di dare un nome a un movimento di idee politico e sociale, che aveva le sue concrete realizzazioni sul terreno dell’azione, in modo da opporlo ai sistemi, oggi predominanti, che si chiamano liberalismo, radicalismo, socialismo, fascismo, nazionalismo, comunismo, bolscevismo e simili. Il problema fondamentale su cui poggiare una simile teorizzazione è e non può essere che politico: tutto il resto dei problemi viene visto sotto l’angolo visuale politico, proprio perché si tratta di una teoria dello stato»9. Volendo ragionare sulla parola “popolarismo”, è utile soffermarsi sul suffisso “-ismo” che indica un parossismo, una esasperazione. Esasperazione di cosa? Se il populismo è stato definito una variante radicale della democrazia, come ha sostenuto Ernesto Laclau, più a buon diritto, allora, si può definire anche il popolarismo una variante radicale della democrazia. Questo “-ismo” significa, cioè, realizzare appieno, portare a massimo compimento le potenzialità e le funzioni dei così detti corpi intermedi. L’attributo “popolare” sta ad indicare, infatti, questo metodo di partecipazione alla vita civile. Il popolarismo, dunque, è una forza di integrazione istituzionale e di inclusione di ampi strati di cittadinanza in una prospettiva non identitaria, laddove, invece, il populismo è una forma di omogeneizzazione non finalizzata all’integrazione, ma è anti-istituzionale e antipolitico, in una prospettiva fortemente ideologizzata e identitaria. Il paragone tra popolarismo e populismo è interessante, perché attraverso di esso si possono rintracciare gli elementi “sani” del populismo nello stesso Sturzo. Si pensi allo “stare in mezzo alla gente”: ha una valenza negativa e vuol dire omologazione, massificazione e, ad uso dei politici, significa assecondare le passioni più basse in nome del consenso. Ma ha anche una valenza positiva e allora diventa rompere l’isolamento elitario, tendere all’incontro con la diversità, come nel caso di Sturzo. Ricordiamo, in particolare, la sua più che decennale attività politica comunale, che lo ha collocato nell’agorà, come organizzatore di cooperative di operai e contadini, casse rurali, come membro del Consiglio provinciale di Catania, come prosindaco di Caltagirone, come vice presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia. Proprio a partire da queste esperienze Sturzo elabora il suo pensiero sociologico e politico. Si consideri, inoltre, l’insistenza con cui Sturzo chiede l’attuazione del referendum. Anch’egli, infine, usa un linguaggio forte e, potremmo dire, populista, quando, ad esempio, definisce lo Stato come «è un’enorme piovra, che assorbe la vita comunale… sovverte le ragioni municipali, paralizza le attività paesane o le travolge nell’agitarsi scomposto dei partiti»10. Un’affermazione affatto inusitata per quei tempi. Negli anni 1919-1922, dopo la prima guerra mondiale e mentre imperversavano drammatiche turbolenze sociali, si produsse, infatti, una violenta ondata populista contro i liberali al potere. Populismo e popolarismo, però, pur essendo entrambi espressione di ansie e di rabbie e delle parti più isolate della società, si differenziano nei mezzi e nelle finalità, fino a divenire l’uno negatore dell’altro. Non sono populistici i valori della razionalità, della prudenza e del pragmatismo, che portano Sturzo a non avere una visione messianica della politica e a non promettere una società felice. «Per noi il centrismo è lo stesso che dire popolarismo, in quanto il nostro programma è un programma temperato, e non estremo – siamo democratici, ma escludiamo le esagerazioni dei demagoghi; vogliamo la libertà, ma non cediamo alla tentazione di volere la licenza… e così via. Ogni affermazione del nostro programma non è mai assoluta ma relativa, non è per sé stante ma condizionata, non arriva agli estremi ma tiene la via del centro… noi neghiamo che nella vita presente si possa arrivare ad uno stato perfetto, ad una conquista definitiva, ad un assoluto di bene… Nel movimento popolare invece non c’è la futura età di Saturno, la città del sole, il 2000, la repubblica di Platone e simili ottimismi; perché la nostra fede cristiana e il nostro senso storico ci portano a valutare la vita presente come un relativo di fronte ad un assoluto, e quindi diamo valore fondamentale, anche nella vita pubblica, all’etica, che è per noi norma insopprimibile, e superiore a quella che si chiama ragion politica o ragione economica; e questo ci dà il senso di relatività, che incentra i problemi, e non li fa come per sé stanti, come fini assoluti da dover raggiungere per un logico predominio e per una ferrea legge»11. Pragmatismo, quindi, e praticabilità storica delle proprie idee che, tra l’altro, hanno fatto di Sturzo uno dei politici più coerentemente e coraggiosamente laici. Caratteristiche proprie del popolarismo, inoltre, sono quella comunalista e regionalista: «Queste due parole in Italia indicano il movimento che tende a rivendicare la tradizione italiana dei comuni liberi e del self-government locale, e a dare autonomia amministrativa e sotto certi aspetti politica alle diverse regioni di cui si compone l’Italia… Ecco pertanto i tre punti specifici che danno il carattere proprio a questo partito: la rivendicazione della libertà (religiosa, scolastica, economica, amministrativa); la difesa morale e sociale delle classi operaie; il decentramento statale e il self-government locale, anche nelle regioni… la base sociale del nuovo partito poggiava sulle classi rurali, sui piccoli proprietari, sui piccoli redditieri, sull’artigianato, su parte degli operai delle fabbriche, sulla classe media e professionista. Il partito popolare sorgeva come partito non di una sola classe, ma inter-classista, non per agitare la lotta di classe, ma per arrivare a forme parziali e concrete di armonizzazione delle classi»12. Da questa sintetica analisi del popolarismo, si può dedurre quale sia il senso della politica per Sturzo. Il senso della politica è la libertà, è aprire, il più possibile, gli spazi dell’agire pubblico. Si parla molto, e non può essere altrimenti, dell’importanza della limitazione dei poteri nel pensiero di Sturzo, ma occorre porre l’accento anche su un altro punto fermo della sua concezione: la politica come strumento, appunto, per ampliare gli spazi pubblici da realizzarsi, in modo particolare, con la creazione dei corpi intermedi.

 

5) La funzione dei corpi intermedi

Le caratteristiche più evidenti ed essenziali di questi organismi, che fanno da tramite tra le persone e lo stato e fanno sì che il popolo esista, si possono individuare nella spontaneità (come nel caso della famiglia) e nella imprevedibilità (si pensi alla nascita dei comitati di quartiere a metà degli anni Sessanta in Italia). Si possono definire come una sorta di rigenerazione creativa della democrazia. Servono ad allargare il campo della rappresentanza, poiché i partiti, come ritiene Sturzo, non sono sufficienti, in quanto non rappresentano tutti. La sovranità è partecipazione e le istituzioni sociali debbono essere inclusive. Quando, invece, si prende la scorciatoia del modello di democrazia diretta si tende a scavalcare queste mediazioni, la cui esclusione genera una democrazia illusoria (la promessa di una futura società felice) e una politica senza società (masse disorganizzate e atomizzate). Sturzo, invece, procede nella direzione opposta: ridare spazio alla realtà sociale e ai corpi intermedi, soprattutto laddove la dinamica di sviluppo delle società moderne è caratterizza dall’incertezza e dal crescente bisogno di prevedibilità che privilegiava le forme statali e sociali preordinate e statiche. Incoraggia l’autogoverno di questi enti, che hanno la funzione di garantire lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi, in quanto forme autonome di organizzazione, di democrazia e di potere, dove si stabiliscono legami e linee comuni e si forma l’opinione pubblica. Se libertà e democazia sono elementi prepolitici, grazie ai quali si può parlare di politica, grazie ai quali la politica esiste, lo stesso si può dire, allora, a proposito dei corpi intermedi: anche essi sono prepolitici e prepartitici, sono anche essi elemento indispensabile perché la politica esista. In questo senso, possiamo definire i corpi intermedi come “cosigli permanenti”, che ricordano le “repubbliche elementari” di Thomas Jefferson, la cui ragion d’essere aveva spiegato così: «Le repubbliche elementari delle circoscrizioni, le repubbliche-contee, le repubbliche-stato e la repubblica dell’Unione dovrebbero formare una gradazione di autorità, ciascuna in base alla legge, ciascuna in possesso della propria porzione delegata di potere e costituire veramente un sistema di freni e contrappesi fondamentali per il governo»13. Ossia: l’equilibrio tra la libertà e l’autorità di cui spesso parla Sturzo. Proprio come le repubbliche elementari di Jefferson, i corpi intermedi offrono un modo di raccogliere la voce del popolo migliore dei meccanismi del governo rappresentativo. Alla domanda sul perché delle repubbliche elementari, Jefferson non seppe fornire una risposta precisa, ma disse: «cominciate a farle, anche solo per un singolo scopo: e ben presto mostreranno per quali altri scopi sono i migliori strumenti»14. La società civile così intesa, e come la intende anche Sturzo, diviene l’unica sede tangibile in cui ciascuno può essere libero e questo è il fine dello Stato, il cui scopo principale negli affari di politica interna, appunto, è quello di offrire ai cittadini tali sedi di libertà e di proteggerle. Il principio basilare di questo sistema è che nessuno si può dire felice senza possedere la sua parte di felicità pubblica e che nessuno può essere considerato né felice né libero senza partecipare, avendone una parte, al pubblico potere. Questa tipo di partecipazione rimanda alla duplice eredità di ragione e democrazia che il diciottesimo secolo ci ha tramandato e che non ha mancato du influenzare, tramite Locke, anche il pensiero di Sturzo. Ragione significa fiducia nella capacità della mente di cogliere gli ordinati processi della natura e della società rendendoli intellegibili. Democrazia significa fiducia nella capacità di autogoverno della gente comune; essa presuppone in tutti gli individui capacità di ragionamento, affinchè questo elemento democratico sia incoraggiato, “esapserato” fino al massimo della sua attuazione pratica. Per Sturzo, infatti, la società è composta di diversi organismi sociali specifici, armonici e concentrici; la società non è un’accozzaglia di atomi, ma una condizione di forze e di finalità.

6) Popolo come opinione pubblica

«In via generale il popolo, come opinione pubblica, riesce ad essere una forza di controllo e di limitazione dello stato o meglio degli organi statali che si presume eseguano la sua volontà. Ciò avviene per una fondamentale esigenza della società politica, quella della limitazione dei poteri… “popolo”, preso come la somma degl’individui di una collettività politica, è potenzialmente la forza sociale di controllo; ma non diviene effettivamente tale se non si organizza a questo fine. Il semplice elettorato individualistico raramente riesce organico. Le circoscrizioni elettorali come tali non sono organismi viventi. I partiti politici sono già un inizio di organizzazione delle masse elettorali, quando rispondono alle esigenze, alle tradizioni e alla psicologia del popolo… In conclusione, la nozione di popolo non s’identifica con quella di stato; il popolo come tale influisce sulla struttura e funzionalità dello stato in quanto può organizzarsi spontaneamente come elettorato, inquadrarsi nei partiti liberi, partecipare alle espressioni della pubblica opinione, provocare la formazione e deformazione dei nuclei dirigenti»15. Il popolo per Sturzo può divenire opinione pubblica e forza morale come freno al cattivo potere e agli egoismi, come luogo di resistenza etica, mediante la sua articolazione in partiti, sindacati, mass-media, società civile e come forza motrice capace di mutamento e di civilizzazione: «Il metodo di libertà e il metodo di autorità dovrebbero essere usati in modo che, dove l’uno ecceda, l’altro serva a ristabilire l’equilibrio. E poiché è più facile che l’eccesso venga dall’autorità anziché dalla libertà – perché l’autorità ha dal suo la legge e la forza – occorre che il popolo sia chiamato con i referendum, con le elezioni locali e generali, amministrative e politiche a pronunziarsi sull’andamento degli affari del proprio paese. Occorre che i portavoce della pubblica opinione, stampa quotidiana e periodica, “meetings” e riunioni, associazioni permanenti o temporanee, siano aperti a tutti», La democrazia «consiste anzitutto nella libertà della vita pubblica»16. Per Sturzo quanto più è sviluppata e diffusa tale consapevolezza, insieme al sentimento di solidarietà, maggiore sarà la partecipazione popolare al governo della cosa pubblica, più stimati i valori etici legati al buon governo, più progredita la nazione, meglio organizzati i poteri dello stato e meglio soddisfatte le aspettative dei cittadini. «Si tratta di rendere edotto il popolo della sua funzione perenne e fondamentale in democrazia, sia come elettorato, sia come opinione pubblica, dell’economia, della cultura, della tecnica; sia per lo spirito di riforma che deve sempre animare le correnti ideali o mistiche, sia per il carattere di stabilità che si deve dare agli istituti politici, sia per la formazione delle tradizioni locali e nazionali, che tengono legate le nuove generazioni alle precedenti in una spirituale continuità della democrazia di oggi con quella di ieri, nonostante i dovuti cambiamenti e sviluppi»17. Il popolo, perciò, deve avere i caratteri della spontaneità, della creatività e lo deve ispirare, sempre, uno spirito di riforma. Agli istituti politici si chiede, invece, solidità e stabilità, che in Sturzo non sono sinonimi di fissità e staticità. Le opinioni, quindi, si formano in un processo di discussione aperta e di pubblico dibattito e, là dove non esiste alcuna possibilità che si formino le opinioni, possono esistere stati d’animo, ma non può esistere opinione.

7) Il popolarismo è diventato fenomeno storico?

Il popolarismo è rimasto una teoria o è diventato anche un fenomeno storico? In un certo senso se lo domanda anche Sturzo: «la parola popolarismo non ha il corso che ha quella di socialismo, di liberalismo e di nazionalismo, cioè di un sistema o di una concezione che crea un partito; ai popolari è toccata la strana avventura di essere contemporaneamente presi per clericali o demagoghi»18. Interessante questa affermazione di Sturzo, che ci dà anche notizia di come i popolari sono considerati, come clericali o demagoghi appunto. Queste parole sembrano implicitamente rispondere ed anche accogliere le critiche di due suoi contemporanei, Gobetti e Gramsci. Secondo loro, infatti, a Sturzo sarebbe sfuggito il problema centrale della politica italiana che condiziona tutti gli altri problemi: quello delle forze capaci di creare e sostenere una classe dirigente. Gobetti e Gramsci addebita al Partito popolare l’intento di puntare soprattutto alla riforma degli apparati statali, piuttosto che far avanzare una politica alternativa per preparare l’avvento delle masse alla guida dello stato. Questa critica non è priva di fondamento, ma non ci deve indurre a pensare che il popolarismo sia passato invano, tutt’altro. Possiamo, infatti, vedere tracce di questa cultura nella storia dell’Italia repubblicana, di come essa, anzi, si sia felicemente dispiegata ed abbia ottenuto i suoi frutti migliori quando ne ha avuta l’occasione, in un contesto politico democratico e caratterizzato da maggiore consapevolezza e partecipazione. Ad esempio, ritroviamo queste tracce nel nuovo Diritto di Famiglia che fu promulgato nel 1975 ad opera, tra le altre, di una parlamentare democristiana, Maria Eletta Martini: una riforma che andava proprio nella direzione indicata da Sturzo, nel senso di una maggiore valorizzazione degli organismi intermedi, primo fra tutti la famiglia. È probabile che Sturzo avrebbe salutato con favore questa rivoluzione nei rapporti marito-moglie, che dette luogo, inoltre, a quel felice fenomeno della piccola e media imprenditoria a carattere familiare, particolarmente sviluppato nel Nord-Est. Troviamo tracce di questa cultura anche nei già citati comitati di quartiere che sorsero dal basso, imprevedibilmente e spontaneamente nella metà degli anni Sessanta. Tra l’altro, è utile notare come ci sia stato un crescendo di presa di consapevolezza da parte del popolo sturzianamente inteso. Particolarmente illuminante in questo senso è la legislazione in favore delle donne: di iniziativa parlamentare nei primi anni della repubblica, si caratterizzò poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, come la risposta alle domande che provenivano dal basso. Anche questa è la cultura del popolarismo, di cui, forse, non è più avvenuta, almeno in temi recenti, una discussione, una nuova sistematizzazione e teorizzazione. Se di questa cultura c’è stata una interiorizzazione, questa è avvenuta, però, senza una sufficiente consapevolezza e presa di coscienza. La mancanza di questa ratio ne ha indebolito la forza e la capacità di diventare prassi quotidiana, per rimanere fenomeno episodico e “intermittente”.

NOTE

1          H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 1999, p. 439.

2          L. Sturzo, La lotta sociale legge di progresso, conferenza tenuta al circolo universitario di Napoli il 13 giugno 1902, al salone dell’Arcivescovado di Milano il 12 maggio 1903 e al circolo universitario di Torino il 19 maggio 1903. Ora in L. Sturzo, Sintesi sociale. L’organizzazione di classe e le Unioni professionali. Scritti pubblicati su «La cultura sociale» (1900-1905), p. 52.

3          L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. II, Popolarismo e fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 235.

4          L. Sturzo, Per lo studio di un fenomeno etico-psicologico, in «Rassegna nazionale», n. 2, febbraio 1925. Ora in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. III, Pensiero antifascista (1924-1925), La libertà in Italia (1925), Scritti critici e bibliografici (1923-1926), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, p. 85.

5          L. Sturzo, Politica e morale (1938), Zanichelli, Bologna 1972, p. 34-36.

6          L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, Zanichelli, Bologna 1972, p. 108.

7          L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., p. 311-312.

8          L. Sturzo, Il popolarismo, in «Politique», Paris, 15 agosto 1928 e in «Il Pungolo», Paris, 1-15 giugno 1929. Ora in L. Sturzo, Scritti politici 1926-1949, pp. 34-35.

9          L. Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici, Vallecchi, Firenze 1923. Ora in L. Sturzo. Il Partito popolare italiano, v. I, Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), pp. 101 e ss..

10        L. Sturzo, Il programma municipale dei cattolici italiani, relazione e proposte al 1° Convegno dei consiglieri cattolici siciliani, tenuto a Caltanissetta il 5, 6 e 7 novembre 1901. Ora in L. Sturzo, in L. Sturzo, La Croce di Costantino, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1958, p. 273.

11        L. Sturzo, Il nostro centrismo, in «Il Popolo nuovo di Roma», 26 agosto 1923. Ora in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. II, cit., pp. 166-167.

12        L. Sturzo, I precedenti del partito popolare italiano, articolo pubblicato nel 1926 su tre riviste: «Abendlnad», Kôln 1 maggio; «Contemporay Review», giugno; «La Vita nuova», New York, agosto. Ora in L. Sturzo, Scritti politici 1926-1949, Ed. Cinque Lune, Roma, 1984, pp. 29 e ss..

13        H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., 294.

14        Idem.

15        L. Sturzo, Presupposti e caratteri della Democrazia cristiana, in «Piccola Biblioteca di Cultura Politica», Roma SELI 1947. Ora in L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo, cit., pp. 301-302.

16        L. Sturzo, La società sua natura e leggi. Sociologia storicista, Zanichelli, bologna 1960, p. 228.

17        L. Sturzo, Autogoverno e suoi limiti. Note sulla democrazia, in «Il Ponte», Firenze, ottobre 1946. Ora in L. Sturzo, Politica e morale, cit., p. 363.

18        L. Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici 1920-1922, in L. Sturzo, Il partito popolare italiano, v. I, cit.,  cit., p. 101.

Francesco: il Papa della riconciliazione degli opposti. Intervista a Massimo Borghesi

Jorge Bergoglio, Una biografia intellettuale (Ed. Jaca book). Un libro denso, questo di Massimo Borghesi (Ordinario di Filosofia Morale all’Università di Perugia). La formazione intellettuale di papa Bergoglio viene analizzata e ripercorsa nella sua poliedrica ricchezza. Un libro che smentisce i pregiudizi dei denigratori di Papa Francesco.  Con Massimo Borghesi, in questa intervista, ripercorriamo, in sintesi, la riflessione originale di Papa Francesco.

 

 

 

 

Professor Borghesi, questa nostra intervista avviene in un contesto di forte polemica, inscenata dagli avversari integralisti, contro Papa Francesco accusandolo di essere debole “teologicamente e filosoficamente”. A lui , gli integralisti, contrappongono il Papa emerito (lui, per loro, vero teologo). Tutto questo è una manipolazione assurda e fatta in malafede. Il suo libro è la smentita a queste assurdità. Vuole dire una parola su questo pregiudizio.
La lettera di Benedetto indirizzata a Mons. Viganò era, per quanto possiamo capire, una lettera riservata. Essa contiene delle valutazioni che sono state poi messe in secondo piano grazie ad un vero e proprio polverone mediatico suscitato ad arte. Due i giudizi di rilievo. Nel primo Benedetto scrive che si tratta di uno <<stolto pregiudizio [quello] per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica>>.  <<Papa Francesco – afferma Benedetto –  è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica>>. Nel secondo parla di  <<continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento>>.  Si tratta di valutazioni di grande significato. In altre occasioni Benedetto aveva espresso pubblicamente la sua stima e la sua sintonia con Francesco. Nella sua intervista con il gesuita Jacques Servais, del marzo 2016, aveva messo in luce il filo rosso che legava gli ultimi pontificati, compreso quello di Giovanni Paolo II: la concezione di Dio inteso come Misericordia. <<Papa Francesco – affermava Benedetto –  si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto>>. Già allora la continuità manifesta mirava a sconfessare quanti, dentro la Chiesa, tentavano di mettere in contrapposizione papa Wojtyla, e lui stesso, con il nuovo Pontefice. Una linea che ha visto il tradizionalismo cattolico superare di gran lunga il Rubicone con accuse fuori da ogni misura ed intelligenza. Ora, con la sua lettera indirizzata a Viganò, Benedetto torna a confermare questa “continuità interiore”, che non vuol dire psicologica ma ideale.  Personalmente non posso che essere profondamente contento di questi giudizi del Papa emerito. Essi confermano le tesi del mio volume: quella sulla profonda formazione intellettuale di Bergoglio e l’altra, sulla continuità ideale dei pontificati pur nella differenza di stile e di temperamento.

Veniamo al suo libro. Il suo saggio è  molto ricco di spunti e di approfondimenti. Una vera miniera. Il titolo è indicativo: “Jorge Bergoglio. Una biografia intellettuale”. Lei scava alla ricerca dei filoni di pensiero presenti nelle parole e nell’opera pastorale di Papa Francesco. L’idea che ne traggo, con la Lettura del suo libro, è quello di un Papa “dialettico” (e qui c’è una radice moderna e antica al tempo stesso ), di un uomo che si fa “ponte” tra la modernità latinoamericana, o più specificamente argentina, e quella europea. E’ così?
La scoperta del pensiero “dialettico”, antinomico, di Jorge Mario Bergoglio è, certamente, il nucleo fondamentale del volume. Le radici provengono dalla lettura de La dialectique des “Execices spirituels” d’Ignace de Loyola, un’opera del 1956 di Gaston Fessard che il giovane studente Bergoglio conosce attraverso il suo professore di filosofia, Miguel Angel Fiorito. Nel suo commento agli “Esercizi” di Ignazio, Fessard mostrava l’intima tensione polare, dialettica, che sta al centro della spiritualità ignaziana: quella tra il grande e il piccolo, tra la grazia e la libertà. Il cattolicesimo, dirà de Lubac, costituisce una sintesi paradossale che unifica gli opposti che, sul piano della natura, risultano inesorabilmente divisi. E’ l’idea della Chiesa come coincidentia oppositorum che sta al centro del pensiero di Bergoglio. Da qui deriva un modello sociale, agonico, per cui il bene comune risiede nel perseguire una una conciliazione che non elimina i poli opposti ma ne impedisce la contraddizione e la guerra. Il pensiero di Bergoglio è un pensiero antinomico, proprio di una dialettica cattolica, non hegeliana, che ha i suoi autori di riferimento in Adam Möhler, Erich Przywara, Romano Guardini, Henri de Lubac, Gaston Fessard. Il pensiero antinomico spiega quello che lei chiede, e cioè la concezione integratrice che Francesco ha, nel rapporto tra Europa e America Latina. Tutta la sua formazione, sul modello dei gesuiti, si muove “tra” Argentina  ed Europa. Bergoglio non è semplicemente un Papa “argentino”, come vogliono i suoi detrattori. E’ un Papa che intende il vero come tensione tra globalizzazione universalizzante e particolarità. L’immagine che egli suggerisce è quella del poliedro, del tutto che valorizza le parti.

Tra i cosiddetti opinionisti,”liberali” del nostro Paese, penso a Pera, Panebianco, e a storici come Zanatta, il difetto maggiore del Papa, tra gli altri, è quello di essere, secondo loro, un populista. E per questo di esprimere un anticapitalismo peronista. Non mi sembra che siffatti personaggi abbiano colto la radice,  mi scuso per il gioco di parole, del radicalismo di Bergoglio. Quali radici profonde ha la critica al capitalismo di Papa Francesco?
Coloro che vogliono colpire Francesco lo dipingono come un pericoloso sostenitore della teologia della liberazione latinoamericana degli anni ’70. un filo-marxista. In realtà il futuro Pontefice non ha mai appoggiato questa corrente. La sua Teologia del popolo è la riformulazione argentina, operata dalla Scuola del Rio de la Plata, della teologia della liberazione. L’opzione per i poveri implica il rifiuto del marxismo e della violenza. Il suo non è un populismo ideologico. Lo stesso rapporto con il peronismo è un rapporto critico. Queste distinzioni, vengono sistematicamente ignorate, non bastano agli avversari del Papa.  Così Panebianco, Zanatta, Pera, esprimono, con toni perentori, la distanza con cui l’area laica, liberal, guarda a Bergoglio. L’ideologia occidentalista, capitalista, liberista, vede nel Papa “argentino” un freno al pensiero unico che ha dominato nell’era della globalizzazione. Il Pontefice è un avversario e come tale va trattato. Zanatta ha scritto un articolo per “Il Mulino” in cui afferma che Bergoglio «è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina». È la critica che troviamo nel filosofo liberal Marcello Pera, il quale, da parte sua, afferma che  <<il Papa riflette tutti i pregiudizi del sudamericano verso l’America del Nord, verso il mercato, le libertà, il capitalismo». Secondo Pera «la sua visione è quella sudamericana del giustizialismo peronista, che non ha nulla a che vedere con la tradizione occidentale delle libertà politiche e con la sua matrice cristiana».  A questi critici vanno sommati i cattolici  conservatori di orientamento teocon, analoghi, nella mentalità a tanta parte del cattolicesimo USA. Torna, in essi, l’opposizione Occidente – America del Sud tipica della destra liberale laica. Questi cattolici, che pensano di combattere per l’intransigenza della dottrina morale,  sono, in realtà, gli strumenti inconsapevoli  di poteri che, a livello mondiale, non amano questo Pontefice.

Torniamo alla “dialettica” bergogliana. Un aspetto fondamentale è quella dialettica tra “centro” e “periferia”. Nella pubblicistica si è semplificato così: Bergoglio è il Papa delle periferie. E’ questo è vero però c’è una riflessione più profonda che sfugge alla semplificazione. Il Papa argentino non fa una operazione sociologica, nemmeno economica, ma compie un salto filosofico, sulla scia della filosofa argentina Amelia Podetti, quello dell’affermare la centralità dell’America Latina nella storia del mondo. Perché è importante questa centralità?
La reazione agli effetti negativi della globalizzazione sorge non da una ideologia ma dalla difesa del pueblo fiel, dalla lotta per conservare quei valori di solidarietà, di sacrificio, di dedizione che il relativismo individualistico e l’ateismo libertino irridono e dissolvono. Per questo il mondo va visto dalla “periferia”. Visto dal “centro” si è come dentro una bolla che non permette di vedere “fuori”, si è parte di una “sfera” in cui tutto è uniforme, senza smagliature. Solo dalla periferia appare il “poliedro”, la diversità dei valori e dei disvalori. Il cardinal Bergoglio ne parlerà nella messa celebrata nel santuario di Aparecida, nel maggio 2007 in Brasile,  durante la Conferenza della Chiesa latinoamericana. Qui ricorse a una straordinaria metafora quando parlò per la prima volta (almeno in un’importante arena pubblica) delle periferias existenciales, le periferie esistenziali. Quasi tutti i vescovi che parteciparono ad Aparecida vivevano in una città nelle cui periferie arrivavano costantemente masse di migranti, e la frase toccò molte corde: evocava non solo le bidonville, ma anche un mondo di vulnerabilità e fragilità, un luogo di sofferenza, brama e povertà, ma anche di gioia e speranza, il luogo dove Cristo aveva scelto di rivelarsi nell’America latina contemporanea. Bergoglio aveva imparato da Amelia Podetti la categoria delle “periferie”. Da lei aveva intuito che il mondo, visto dai suoi luoghi di “fragilità”, assumeva una prospettiva diversa. Era questa la direzione di Aparecida fatta propria da Bergoglio il quale, da vescovo di Buenos Aires, evangelizzò la città a partire dalle periferie. Da qui l’idea di un Vicariato, nato nell’agosto 2009 e coordinato dal P. José Maria Di Paola, padre Pepe, addetto all’impegno pastorale e sociale nelle baraccopoli. L’idea non sorgeva da un’ideologia pauperistica, che Bergoglio non ha mai avuto, ma dalla percezione di un’umanità intrisa di religiosità che costituiva una lezione anche per i quartieri alti della città. E questo anche se nelle villas miseria si rischiava la vita, come accadrà a P. Pepe per la sua opposizione ai trafficanti di droga.

Nel libro viene affrontato, in parte, il rapporto di Bergoglio con la teologia della liberazione, o meglio, con un parte di essa. Che tipo di rapporto è? E’ chiaro che Bergoglio non è un intellettuale astratto . E’ un mistico nell’azione. In questo ambito gioca un ruolo importante il “pueblo fiel”. E’ così?
Come accennavo prima, La “Teologia del pueblo” argentina accoglie, al pari di tutta la Chiesa latinoamericana, l’opzione preferenziale per i poveri. Rifiuta però, in modo categorico, il primato della prassi che la teologia della liberazione mutua dal marxismo. L’unione che il gesuita Bergoglio richiede tra contemplazione e azione è una unione antinomica. E’ la sintesi tra evangelizzazione e promozione umana che sta al centro della dottrina sociale di Paolo VI.  In Bergoglio il “pueblo” è, innanzitutto, il “pueblo fiel”, il popolo credente. In esso la lotta per la giustizia non è separabile dalla sua religiosità, dalla sua fede cristiana. Questo non è un residuo arcaico che deve essere, illuministicamente, spazzato via. E’ il terreno dove germoglia la giustizia, l’impegno comune, il senso di solidarietà. Lo stesso Gustavo Gutierrez, che è il padre della teologia della liberazione latinoamericana, riconoscerà, nel 1988, la verità della Teologia del pueblo. Questo lo porterà ad una autocritica della primitiva versione della teologia della liberazione, dipendente dal marxismo. Bergoglio, da parte sua, dipende dalla Teologia del pueblo, dai suoi maestri: Lucio Gera, Rafael Tello, Juan Carlos Scannone.

Un ruolo fondamentale nel pensiero e nell’azione di Bergoglio, ovviamente, c’è il suo ordine, quello dei gesuiti. Al di là del lato intellettuale, importantissimo, c’è anche la dialettica che l’ordine sviluppa con la modernità E in questo il Papa incoraggia la Compagnia ad essere al largo, in navigazione aperta. Ovvero ad avere un pensiero mai compiuto…Una bella sfida davvero…E questo fa paura alle cittadelle del pensiero unico….E’ così?
Alla conferenza di Aparecida, nel 2007, l’idea di fondo era data da una formula che Bergoglio trovava esemplarmente descritta nella Deus caritas est di Benedetto XVI: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». E’ la formula riportata  nella lntroduzione del documento conclusivo di Aparecida. Essa verrà ripresa da Francesco nella Evangelii gaudium, al & 7.  Indica il punto d’inizio della fede, ieri come oggi, e, insieme, un giudizio storico sulla deriva “eticistica” che caratterizza il cattolicesimo nell’era della globalizzazione.  Terminata la stagione calda dell’impegno storico di sinistra, tipico degli anni ’70 caratterizzato dalle teologie politiche, della rivoluzione, della speranza, ecc., si assiste, a partire dagli anni ’80, ad una sorta di riflusso, di ripiegamento in un recinto protetto. L’impegno nel mondo è affidato alla difesa di un insieme, definito e selezionato, di valori discendenti dall’etica e dall’antropologia cristiana minacciati dall’onda relativistica che caratterizza il tempo nuovo. In parallelo viene meno l’attenzione per la questione sociale e si attenua fortemente la percezione di una Chiesa missionaria, proiettata, oltre i propri confini, nella dimensione dell’ “incontro”. Il processo di secolarizzazione determina, nel mondo cristiano, una reazione etica, la chiusura nella cittadella ecclesiale, l’indurirsi di un pensiero centrato sulle regole e timoroso di ogni confronto.  Con ciò l’idea di Alberto Methol Ferré, condivisa da Bergoglio,  sulla testimonianza cristiana vissuta come risposta adeguata all’ateismo libertino veniva a perdersi. La Chiesa si oppone ma non è in grado, positivamente, di porsi, di affermare una tipologia umana nella quale l ‘ “attrattiva Gesù” sia più forte dell’attrattiva estetica della società opulenta.  La deriva etica della Chiesa indica una strategia di resistenza, non un’era di rinascita. Questo sbilanciamento etico, per cui l’incontro cristiano cade in secondo piano, permette di chiarire la correzione che ne apporta Francesco nella Evangelii gaudium. Si tratta di rimettere in evidenza ciò che primerea: la grazia di un annuncio trasmessa da una testimonianza umanamente credibile.

Siamo alla fine, Professore, dell’intervista. Concludiamo con un autore caro a Papa Bergoglio: Romano Guardini. L’autore caro a Paolo VI, Benedetto XVI. Guardini è il filosofo dell’opposizione polare.  E la Chiesa è una complexio oppositorun. Se è così, nel tempo del fallimento della globalizzazione, la Chiesa si pone come luogo di riconciliazione. Papa Francesco allora si può definire come il pontefice della riconciliazione della famiglia umana. In fondo questa è la “dialettica” del Verbo…
La sua osservazione è assolutamente pertinente. La predilezione di Bergoglio per Romano Guardini, come dimostro nel mio libro, sorge dal fatto che la dialettica polare guardiniana è il modello che trova la sua manifestazione nella Chiesa come complexio oppositorum. Qui risiede il fulcro del pensiero di Bergoglio. Il Papa  è “strutturalmente” uomo di pace. Lo ha dimostrato in molteplici occasioni anche per il ruolo svolto a livello internazionale. La sua geopolitica della Misericordia è dettata da una concezione che vede nel dialogo, nel confronto, il metodo affinché le polarità odierne non degenerino in contraddizione. Il Papa non è irenico, ha una visione drammatica del tempo odierno segnato da una terza guerra mondiale a pezzi. Noi assistiamo al frantumarsi del disegno della globalizzazione. Il suo universalismo astratto, egemonico, portato avanti da una economia sacrificale, sta suscitando  reazioni di difesa che si chiudono nella particolarità. Per Francesco la vera universalità valorizza la particolarità e la vera particolarità non può  non aprirsi all’universale. Questa è la formula di Guardini, la formula della Chiesa, il modello di pace. Francesco è il testimone instancabile di questo modello in un mondo che torna alle grandi divisioni del passato.

Cinque anni di Francesco, il Papa del Kerigma. Intervista a Massimo Faggioli

 

Roma, Piazza San Pietro: Elezioni Papa Francesco (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Siamo nel quinto anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Jorge Bergoglio. Cinque anni intensi e rivoluzionari. Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Massimo Faggioli, Professor of Historical Theology alla Villanova University (USA).

 

Professor Faggioli, lei ha appena pubblicato un libro, Cattolicesimo, nazionalismo, cosmopolitismo (Armando Editore) che arriva nel quinto anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio. Quel cardinale, che veniva dalla “fine del mondo”, sorprese tutti. Non era dato tra i papabili, non in quel Conclave dove venne eletto. Proviamo ad offrire, in modo sintetico, alcune chiavi di lettura per comprendere il pontificato e vedere il suo sviluppo. Papa Francesco è un papa “kerigmatico”, cioè molto più legato all’annuncio del kerygma evangelico che alla dottrina. Questo gli ha creato non pochi problemi.

Certamente è così, anche perché Francesco viene eletto in un momento in cui in alcune zone del cattolicesimo mondiale, come gli Stati Uniti in cui vivo e lavoro dal 2008, c’erano segnali dell’inizio di un ritorno del tradizionalismo anti-conciliare, secondo il quale i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano la parola finale e definitiva sul cattolicesimo ed erano pontificati di “correzione” del Vaticano II e del post-concilio. Francesco è figlio del concilio come del post-concilio, ed è la prova che il cattolicesimo continua sulle traiettorie indicate dal concilio Vaticano II: la pastoralità della dottrina e la centralità dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo.

Il kerygma si annuncia con la misericordia. Ma la visione di Francesco non è solo spirituale è anche sociale. Come si sviluppa questo aspetto?

Francesco si oppone al rigetto della teologia della liberazione come rigetto dell’incarnazione dell’annuncio: la fede cristiana non è disincarnata e indifferente rispetto alle condizioni materiali ed esistenziali di chi riceve l’annuncio. Francesco riprende il magistero di Paolo VI sull’evangelizzazione nel senso di una evangelizzazione che non scarta l’importanza dell’umanizzazione dell’umano. Predicare il Vangelo agli uomini e donne del nostro tempo fingendo di non vedere i fenomeni sociali ed economici di disumanizzazione è blasfemo.

L’onda della misericordia di Francesco “investe” la Chiesa. Secondo lei questa logica è stata recepita nella struttura viva della Chiesa? Ovvero il “volto” della Chiesa è questo?

Non è ancora stata recepita in pieno dalla chiesa, ma questo non stupisce. Francesco non ha mai avuto un piano di riforma istituzionale della chiesa, ma ha una idea di riforma in senso congariano (da Yves Congar, il teologo più importante al Vaticano II) che prevede tempi lunghi, una conversione delle mentalità e della cultura. Dalla chiesa della misericordia non credo che si torni indietro: Francesco ha sviluppato un discorso che parte da Giovanni XXIII.

 

Questo è un Papa “politico”, e questo non è in contrasto con la sua figura kerigmatica che ha cercato di abbattere i muri per costruire “ponti”. Qual è   stato il risultato più bello di questa diplomazia della misericordia?

Direi il contributo dato alla fine dell’embargo americano contro Cuba. È stato il risultato di sforzi diplomatici durati molti anni, con un ruolo della chiesa cattolica molto delicato politicamente, non solo a Cuba ma anche negli Stati Uniti. Ma ci sono tante altre aree del mondo in cui la diplomazia vaticana gioca un ruolo importante e nascosto.

 

La prossima grande sfida per la diplomazia della misericordia sarà la Cina. È d’accordo su questo punto?

Credo di sì. La sfida più importante per la chiesa cattolica non è la dirigenza cinese o il partito comunista cinese, ma la Cina come paese e l’Asia come continente. Certamente le riforme costituzionali in corso in Cina (il presidente eletto a vita) potrebbe complicare i prossimi passi, ma la sfida è quella e credo che si faranno passi in avanti nel prossimo futuro.

Francesco è il Papa della critica al capitalismo. Oggi nemmeno nella Sinistra cosiddetta storica si sente parlare di critica al capitalismo. Invece è presente, come elemento antimoderno, nella destra populista. Tanto che tra i detrattori del Papa lo si accusa di pauperismo populistico. Qual è il   suo pensiero?

Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno criticato il capitalismo, ma la critica di Francesco è più radicale perché viene da un’area del mondo che vede il capitalismo globale in modo diverso e meno positivo da come lo si vede in Europa o negli Stati Uniti. In questo Francesco parla una lingua che è quella della maggioranza dei cattolici al mondo, che non vivono in Europa o negli Stati Uniti. L’enciclica Laudato Si’, nella sua analisi dei rapporti tra politica ed economia oggi, è una delle pagine più interessanti e coraggiose del pontificato.

In quale ambito l’azione di riforma del papa ha incontrato e manifestato limiti?

La chiesa deve dare qualche tipo di risposta alla questione del ruolo delle donne nella chiesa: il diaconato femminile è una questione ormai matura sul piano teologico e da questa dipende molto del futuro della chiesa. Non c’è un piano di riforma istituzionale della Curia romana, perché non risponde alla visione bergogliana di riforma spirituale, ma anche per la difficoltà di riformare il governo della chiesa. All’inizio del pontificato c’era il progetto per una nuova “costituzione apostolica” che sostituisse la Pastor Bonus di Giovanni Paolo II (1988), ma poi, qualche mese fa, questo progetto è stato abbandonato. La riforma dei media vaticani lascia a desiderare: che il papa non abbia più un vero portavoce (e non per colpa dei direttori della Sala Stampa vaticana) è una cosa grave e pericolosa, come si è visto durante il viaggio in Cile per esempio.

 

Sull’ecumenismo ho la sensazione che il Papa sia più avanti del popolo di Dio. Esagero?

Non saprei: sull’ecumenismo verso l’oriente cristiano certamente sì, ma questo era vero anche per i suoi predecessori. Francesco ha meno familiarità con le chiese della Riforma e lo si vede da alcuni suoi documenti, dal modo in cui cita documenti di fonte non cattolico romana. Quello che è nuovo in Francesco è che il papa vede e sperimenta che ci sono dei “confini” e delle divisioni interne alla chiesa cattolica non meno dolorose che tra chiese diverse.

Proprio nell’anniversario del quinto anno di pontificato arriva una lettera del papa emerito. Benedetto XVI giudica come “stolto pregiudizio” le critiche sulla preparazione di Francesco, affermando che c’è una “continuità interiore” tra i due pontificati. Come giudica questa mossa di Benedetto?

È una mossa molto importante, che dice molto dell’alto “senso della chiesa” di Joseph Ratzinger. Temo però che questa lettera non verrà ascoltata da coloro che si dicono ratzingeriani senza averne titolo.

Se dovesse scegliere una immagine emblematica di questi intensi anni, quale immagine sceglierebbe?

Il papa coi carcerati e le carcerate, che si chiede: “Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io”.

 

 

 

Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica. Intervista a Marco Damilano

 

“Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande”. Con queste parole Marco Damilano, giornalista parlamentare e Direttore del settimanale “L’Epresso”, inizia l’ intervista. Il suo libro ,pubblicato da Feltrinelli appena uscito nelle librerie, “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia” (pagg. 272, € 18,00) ci offre una memoria viva di quel giorno fulminato, come lo definisce Martinazzzoli, per la democrazia italiana. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro? Ecco le sue risposte.

Marco, il tuo libro è suggestivo, ricordi personali e la drammatica storia di quei giorni si incrociano. Ad un certo punto scrivi: “i ricordi dei bambini sono emotivi, non si muovono restano fissati lì, incastrati nella memoria. ” Ci offri appunto un libro in cui consegni al lettore una memoria viva di quella ferita indelebile nella storia Italiana. Via Fani sanguina ancora per la nostra democrazia, e forse non smetterà mai di sanguinare. E’ così?
Ti ringrazio per aver sottolineato quella frase perché è stato il punto di partenza della mia scrittura. Non è un saggio storico, come altri  miei libri, e neppure un romanzo, ho provato a fare un viaggio nella memoria che è anche un viaggio fisico, mi sposto in diversi punti d’Italia e non solo, utilizzando la parola io perché tutto comincia da una scena: sono un bambino
e passo con il mio pulmino delle scuole elementari da via Mario Fani venti minuti prima della strage del 16 marzo 1978. Quel giorno, ho scritto, sono diventato grande. Ho provato a rivivere l’emozione e lo sconvolgimento di quel giorno di guerra e i quarant’anni successivi, con la chiave del racconto. Credo così di aver dato voce agli italiani normali che non dimenticano quel giorno, quel momento. E anche, al tempo stesso, provare a uscire dalla
rimozione collettiva di quel periodo: i ragazzi di oggi non sanno niente degli anni di piombo, del terrorismo, delle vittime inermi come Moro o come – fammelo citare perché anche per lui è un anniversario, Roberto Ruffilli – e certo non è colpa loro. Noi siamo diventanti grandi come persone, ma la democrazia non è diventata più adulta, come immaginava Moro: al contrario,
ha camminato all’indietro.

Il tuo itinerario si sviluppa, lungo tutto libro, da via Fani a Torrita Tiberina, si conclude, infatti, nel piccolo cimitero di quel paesino sulla Tomba di Aldo Moro. Sembra un cammino per capire il nostro presente. Che cosa ha perso l’Italia con la morte di Aldo Moro?
Si, hai ragione, il viaggio comincia da via Mario Fani e si ferma di fronte a quella piccola tomba di Torrita Tiberina. Si è perso con Moro l’idea della politica come intelligenza degli avvenimenti e capacità di persuasione, la democrazia che è una tensione e non una conquista una volta per tutte. Dopo di lui, la politica è stata sempre di più affidata esclusivamente ai rapporti di
forza. Fammi dire: non voglio fare un santino, Moro è stato un uomo di potere, ha conosciuto il potere in tutti i suoi aspetti, anche il più crudo e il più oscuro. Nessuno come lui sapeva cosa si muove nel fondale occulto della politica e della società italiana. Ma proprio per questo immaginava la costruzione di percorsi complessi, di tempi lunghi, di non esaurire un progetto
politico nello spazio di un istante. Anche la sua ultima operazione, l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo, aveva un respiro strategico e avrebbe significato il superamento di Yalta con dieci anni di anticipo. La sua morte ha spezzato l’ultima possibilità della Repubblica dei partiti, come l’ha chiamata Pietro Scoppola, di auto-rinnovarsi. Dopo sono arrivati Mani Pulite, Tangentopoli, la fine di Dc, Pci, Psi, la fallimentare seconda Repubblica e l’impossibilità della politica di guidare i processi e dare risposte che spiega anche l’oggi. L’anniversario di Moro cade nel dopo 4 marzo, con gli elettori in rivolta e il buio pesto sulle prossime settimane. È un caso, “un’enigmatica correlazione”, avrebbe detto Sciascia.

Riecheggiano spesso nel libro le parole di Moro sull’Italia: “Un paese dalla passionalità intensa e dalla   struttura fragile”.  Dopo la morte di Moro è finita la prima repubblica, dopo  di lui è stato, come hai ricordato tu, il trionfo della visione corta della politica. E quelli che si autodefiniscono “eredi” oggi sono relegati all’opposizione. …  Eppure la voce di Moro ci parla ancora : “io ci sarò come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”… Parole terribili alla DC, ma valide anche per l’oggi…

C’è una frase in un articolo giovanile di Moro che voglio citare: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una libertà meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito…». Aveva ventotto anni, ma è significativo che le stesse cose le ha scritte prima di essere rapito, nell’ultimo articolo scritto per il “Giorno”, in cui rivendicava un ruolo per i grandi cambiamenti degli anni Sessanta, «il risveglio delle coscienze, il fiorire di atteggiamenti autonomi, la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, la riscoperta della società civile, la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare. Questa specie di rivoluzione ebbe da noi una vibrazione singolare e certi non è passato senza lasciare tracce durevoli. Ed anzi non è passato, ma resta come un modo di essere vitale della nostra società». Era un uomo di governo e di potere, ma sosteneva che i partiti dovevano essere in grado di fare «opposizione a se stessi», non esaurirsi soltanto nell’esercizio del governo. Mi colpisce che lui usasse così spesso la parola cristallizzazione. Ora abbiamo una politica che si percepisce in movimento, vuole dare questa sensazione, e invece è immobile e paralizzata.

Un altro punto che tocchi è quello dell’indagini alla ricerca della verità, con il lavoro dell’ultima Commissione di Inchiesta siamo arrivati a buoni risultati. Perché definisci la verità su Via Fani “parziale e ambigua”?
Moro va strappato alla riduzione di questi quarant’anni, va liberato dal “caso Moro” in cui è stato sequestrato per la seconda volta. Per questo mi soffermo poco sui misteri dei 55 giorni. Faccio solo notare che alcune conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni sono importanti. E che, una volta di più, le presunte rivelazioni delle Br dei decenni scorsi appaiono una colossale montagna di omissioni e di manipolazioni. Per questo, e per principio, non ho voluto sentire nel mio lavoro neppure uno degli ex terroristi: non sopporto il loro narcisismo, le loro lamentazioni, le loro bugie. Non metto in dubbio che siano stati i brigatisti a rapire Moro e che la vicenda sia tutta italiana, interna alla nostra storia e alla storia della sinistra estremista che odiava il presidente della Dc e lo considerava il simbolo del regime democristiano. Ma c’era l’altra parte, la destra profonda, che voleva eliminarlo perché rappresentava l’impossibilità per la Dc di tradire la democrazia e di allearsi con la destra. Nel sequestro queste forze interne e internazionali hanno trovato un’occasione insperata. Questo si può dire, anche se certo in modo parziale.

“Datemi da una parte milioni di voti toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente”. E’ la frase di Moro che chiude il tuo libro … Ed è quello che manca oggi alla politica. E’ così?
Verità, in politica, è una parola perfino pericolosa. In nome della verità si sono compiuti i crimini orrendi dei totalitarismi novecenteschi. Tuttavia la politica non può prescindere da un rapporto con la verità: su se stessa e sul Paese cui si rivolge. La frase di Moro mi sembra straordinariamente attuale in questa settimana post-elettorale: puoi prendere milioni di voti e poi perdere lo stesso perché non hai verità, cioè una visione, un progetto. Questo vale per gli sconfitti del 4 marzo e ancora di più per i vincitori.