
FABIO MARTINI
Tra la prudenza degli scienziati, le pressioni delle categorie economiche e di qualcheregione, il governo sta cercando di programmare la “fase 2”. Ovvero l’inizio di una ripartenza. Anche nella politica italiana ci sarà una “ fase 2”? Ne parliamo, in questa intervista, con Fabio Martini cronista parlamentare della “Stampa”.
Fabio Martini, ci stiamo avviando, tra molti dubbi e contraddizioni, verso la fase 2. Possiamo fare un piccolo bilancio, parzialissimo, sulla gestione comunicativa del governo. Rispetto all’inizio ti pare migliorata oppure ha ancora lacune?
«Nel primo mese di crisi, a partire dal 3 marzo, il presidente del Consiglio italiano è stato il capo di governo che ha comunicato più di tutti al mondo: undici “occasioni”. Se limitiamo la nostra analisi all’efficacia e alla chiarezza delle comunicazioni, dobbiamo riconoscere che l’ansia di apparire ha prevalso su qualsiasi altra motivazione. Per non parlare della notte in cui l’imminente chiusura della Lombardia fu fatta trapelare, non smentita e diventata operativa 19 ore dopo la prima fuga di notizie. Sicuramente ci sono rami nell’attività di governo che sono risultati più efficaci. A cominciare dal lockdown: ex post possiamo dire che è stata una decisione tempestiva. Rimasta quasi isolata, ma sicuramente tempestiva ed efficace»
Veniamo ai nodi politici che questa quarantena ha prodotto nello scenario italiano. Cominciamo dalla partita europea. Sappiamo quanto sia strategica e vitale per l'”Italia questa partita. Il risultato raggiunto dall’ultimo vertice è comunque importante. Il “recovery fund”, sui quali resta ancora aperta la discussione, sono diventati imprescindibili per l’ Europa. Indubbiamente questo fatto è merito di Conte e dei suoi alleati ma soprattutto di Angela Merkel. Insomma la temporeggiatrice Merkel sta salvando l’UE?
«La connessione stretta tra il sistema produttivo tedesco e quello della componentistica italiana ha spinto la Confindustria tedesca a premere sulla temporeggiatrice Merkel. Che, da par suo, ha capito che un infarto prolungato dell’Italia rischiava di nuocere alla sua Germania. Ma non c’è solo questo. Nel frastuono di notizie, è sfuggita ai media italiani una signora notizia: Merkel ha annunciato davanti al suo Parlamento di essere pronta a conferire una quota più alta di euro al bilancio comunitario, ma procedendo ad una maggiore integrazioni delle politiche fiscali. In altre parole: più soldi in comune ma anche una maggiore condivisione di informazioni sugli sprechi di ogni Paese. Più risorse significa più politiche fiscali comuni. Se si va avanti nella costruzione europea, il prezzo da pagare sarà questo».
Ma c’è un altro giocatore in questa partita europea: Papa Francesco. Un Pontefice che viene “dalla fine del mondo”, come disse lui all’inizio del suo pontificato. Eppure, da raffinato gesuita, si è fatto trovare puntuale nella partita europea. Del resto la recente indagine di Report ha, ancora una volta, confermato l’intreccio che tra i nemici religiosi del Papa ci sono anche i nemici politici dell’Europa. È così?
«Certamente sì e d’altra parte Santa Romana Chiesa è sempre stata, per così dire, europeista. Non mi pare però che l’appello sulla riduzione del debito per i Paesi più poveri sia stato recepito».
Per qualche osservatore la crisi, scatenata dalla Pandemia, ha indebolito il sovranismo. Qual è la tua opinione?
«Presto per dirlo. In questi primi mesi sembrerebbe che solidarismo e statalismo siano trascinanti rispetto ad individualismo e liberismo. I sovranisti giocano di rimessa, il risveglio dell’Europa li ha spiazzati e, dove possono, cavalcano solidarismo e statalismo, “valori” che tradizionalmente appartengono alla sinistra. Sembrerebbero esserci le premesse per un futuro ciclo politico progressista, ma gli umori collettivi, come si è visto, cambiano in fretta. Come sempre nel passato la risposta sul come stia reagendo lo spirito pubblico in Occidente, verranno dalle elezioni americane. Non sembra, ma oramai mancano soltanto sei mesi».
Veniamo all’Italia. Il quadro politico ci offre alcuni aspetti interessanti. Mi riferisco alla Lega salviniana. Salvini dalla crisi dello scorso agosto si sta avvitando su se stesso, la sua propaganda è ripetitiva. E la sua ostilità all’Europa gli sta creando non pochi problemi al suo interno. Voci giornalistiche riferiscono di una spaccatura tra Giorgetti e Salvini. Hanno un fondamento?
«La Lega ha sempre saputo mantenere un riserbo quasi impenetrabile sul suo dibattito interno. Nel passato soltanto il Pci ci riuscì. Che dentro la Lega ci sia una doppia anima: quella e quella pragmatica di Giorgetti, oramai è evidente. Il consenso popolare acquisito da Salvini in così poco tempo, prima alle Politiche 2018 e poi alle Europee 2019 (quasi un raddoppio in percentuale) gli consente di dare lui l’impronta alla politica della Lega. Certo, il clamoroso autogol della caduta del Conte-1, lo ha indebolito, ma finchè prosegue il consenso popolare, il “padrone” resta lui»
Un altro elemento è Luca Zaia. Il governatore leghista del Veneto pare in forte ascesa. E’ preoccupante per Salvini?
«Fìno a quando Salvini è in sella, nessuno può insidiare la sua leadership. Gli unici che possono spodestarlo sono gli elettori. Da questo punto di vista è assai significativa la data nella quale si svolgeranno le elezioni regionali che avrebbero dovuto tenersi in questa primavera. In importanti regioni del Nord-est (Veneto), del Mezzogiorno (Campania e Puglia), dell’ex zona rossa (Toscana, Liguria, Marche) saranno chiamati alle urne un numero rilevanti di elettori. Un test diffuso: da quelle elezioni potrebbero venire segnali diversi dal previsto per i leader e, con un azzardo interpretativo, si può immaginate che se si fosse votato a scadenza naturale, proprio la Lega avrebbe potuto essere il partito più “sorpreso” dal responso degli elettori».
Giorgia Meloni, che non manca qualche volta di distinguersi da Salvini, pare ancora risucchiata da un radicalismo di destra. Forse la sua maturità politica è solo propaganda?
«Giorgia Meloni e Matteo Salvini, così come Nicola Zingaretti, vengono da scuole politiche degne di questo nome e tracce di questo imprinting si possono notare in tutti e tre. Meloni in particolare viene dalla scuola del Movimento sociale che nel corso della sua storia ha espresso due leadership di peso: quelle di Almirante e di Fini. In entrambi la carica demagogica e contestativa, del tutto naturali in una forza rimasta ai margini per 48 anni, erano corroborati da una certa gravitas. Quella che sembra difettare alla leader di Fratelli d’Italia: è vero che Meloni, a differenza di Salvini, si preoccupa sempre di argomentare e documentare le proprie tesi, ma con un’indignazione permanente e un volume vocale che anche durante la crisi del coronavirus, le hanno consentito di intercettare elettori ma tutti all’interno dello stesso circuito di Salvini. Leader gagliarda di una fazione, per ora non di uno schieramento».
Anche Forza Italia ha dato segnali… .
«Da quando Berlusconi ha lasciato palazzo Chigi, nel novembre del 2011, il declino elettorale di Forza Italia è stato costante e nel corso degli anni il Cavaliere è riapparso improvvisamente sulla scena, per poi uscirne in un batter d’occhio. Una meteora ad intermittenza. Stavolta il recente posizionamento europeista potrebbe aprire uno spazio nuovo e promettente per Forza Italia ma negli ultimi anni il Berlusconi ci ha abituati a raccontare ritorni che erano quasi sempre legati ad interessi materiali da tutelare. Vedremo».
Per i 5stelle sono momenti di grande fibrillazione. È riapparso Di Battista. E questo per Conte e i governisti dei Pentastellati non è una bella notizia. Beppe Grillo difende ed esalta Conte. Però c’è la partita del Mes. Insomma reggeranno i 5 Stelle?
«La crisi del Coronavirus ha colto i Cinque stelle in una fase di crollo verticale dei consensi e parliamo di consensi reali nelle Regioni in cui si è votato e non quelli virtuali dei sondaggi. In queste settimane, a parte una presenza costante di Luigi Di Maio nei Tg, il Movimento non ha espresso una propria identità e se le prossime Regionali confermassero il declino, i Cinque stelle saranno chiamati a fare i conti con un piano inclinato che potrebbe riservare qualsiasi sorpresa».
Veniamo al PD. Pare che questo partito abbia trovato un suo ruolo. È l’egemonia nel governo?
«Sì, c’è la sensazione di una maggiore presenza del Pd. Ma è l’effetto dell’azione di singoli personaggi, collocati in snodi strategici: Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri, David Sassoli. Nel governo effettivamente, accanto al protagonismo del presidente del Consiglio, il Pd esercita una moral suasion, un’azione di contenimento, talora esprime anche un indirizzo che finisce per condizionare l’azione dell’esecutivo. Ma se a un elettore non politicizzato si chiedesse quale sia l’apporto del Pd nella vicenda coronavirus, probabilmente faticherebbe a focalizzare una risposta».
Tra le novità di questo periodo c’è Colao. Non sembra brillare molto. Per te?
«Nessuno può dirlo. Per fortuna esercita il proprio ruolo con riservatezza. Si tratta di un grande manager, oggettivamente uno dei più capaci che questo Paese abbia espresso negli ultimi 15 anni, e soltanto a lavori conclusi potremo capire se lui e gli altri “tecnici” abbiano espresso suggerimenti e linee guida capaci di incidere, ma anche se siano stati messi nelle condizioni di far pesare la propria competenza».
Ci sarà una fase 2 anche nella politica?
«No, molto difficilmente ci sarà una fase diversa nella politica italiana. O meglio. soltanto il fallimento totale della fase 2 del lockdown potrebbe aprire una fase 2 della legislatura. Nel senso che soltanto un collasso finanziario e sociale potrebbe indurre le forze politiche ad arrendersi ad un governo di solidarietà nazionale. Il carisma del suo leader, un personaggio come Mario Draghi, lascerebbe in secondo piano i capofila politici, che avrebbero tutti da perdere, in termini di vantaggi di bottega. Cinque Stelle, Pd e Renzi perderebbero posti di governo e riflettori, Salvini e Meloni la possibilità di poter contestare ogni sera il detestato Conte».