“Occorre contrapporre al sovranismo un europeismo riformato”. Intervista a Guido Formigoni

Quali sono le radici del “manifesto” dei sovranisti? Quale idea di Europa è alla base del “manifesto”? La presa di posizione della estrema destra europea ha fatto e continua a  far discuttere l’opinione pubblica europea. In questa intervista, con lo storico Guido Formigoni, approfondiamo alcuni punti del documento. Guido Formigoni è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano, dove è prorettore. Coordina il Comitato scientifico per la pubblicazione delle «Opere del card. Carlo Maria Martini». Partecipa alle direzioni delle riviste «Ricerche di storia politica» (di cui è stato condirettore tra 2013 e 2018), «Modernism» e «Il Mulino». Fa parte del Comitato scientifico internazionale di Civitas – Forum of Archives and Research on Christian Democracy (Roma-Berlin-Leuven). Tra i suoi libri recenti: Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (Il Mulino, 2016); Storia d’Italia nella guerra fredda 1943-1978 (Il Mulino, 2016); Storia della politica internazionale nell’età contemporanea (Il Mulino, 20183); I cattolici italiani nella prima guerra mondiale. Nazione, religione, violenza e politica (Morcelliana 2021).

Professore, lo scorso 2 luglio Matteo Salvini, Giorgia Meloni hanno firmato, insieme ad altri leader dell’estrema destra europea (tra cui Orban e Marine Le Pen) un manifesto sovranista. In questo manifesto si prende di mira, tra l’altro, la creazione di un superstato europeo (il termine usato è da autentici complottisti) che vorrebbe imporre, attraverso un “iperattivismo moralista”, un “monopolio ideologico”. Le chiedo: quali sono, secondo lei, le radicali politiche “culturali” di queste posizioni? 

 

Il manifesto è un prodotto di Marine Le Pen, da lei è stato firmato e presentato, e poi ha raccolto le firme di altri partiti. Lo sfondo culturale è chiaramente legato a una volontà di contrapporre l’esistenza di libere nazioni (intese a quanto sembra un po’ illusoriamente come corpi organici coesi e compatti) a un presunto cosmopolitismo europeo che appiattisce le diversità e crea difficoltà ai piccoli Stati. Lo spetto del «superstato» è quanto di più ideologico si possa mettere in campo: la comunità e poi l’Unione non sono mai state qualcosa di questo tipo. Si è sempre trattato di uno strumento gestito in un negoziato continuo dalle classi politiche nazionali, per ottenere alcuni risultati di vantaggi comuni. Lo sperimentalismo del modello integrazionista non ha mai messo in discussione l’aspetto inter-statuale dell’Ue (una sovranità messa in comune), ottenendo bensì livelli crescenti di interdipendenza (e costruendo anche istituzioni che esprimono una sovranità condivisa) senza (per fortuna) coercizioni di sorta. Lamentarsi per qualcosa di inesistente è tipico di uno schema ideologico nazionalista abbastanza tradizionale, non molto originale.

Nel loro mettersi di traverso alla evoluzione della UE come Stati Uniti d’Europa, il sogno federalista di Spinelli, propugnano, addirittura qualcuno di loro cita De Gaulle, la Confederazione tra stati. Le chiedo è corretto, da parte degli estremisti sovranisti, “arruolare” il Generale De Gaulle (antifascista e combattente contro il collaborazionismo di Vichy)? 

 

Mah, certo, de Gaulle avrebbe sempre conservato una barriera a destra in senso antifascista. E qui c’è un rassemblement di forze di varia ispirazione, con più di una punta fascisteggiante, anche se mascherata e nascosta. Attualmente, tra l’altro, i 14 firmatari – tra cui Fidesz di Orban, gli spagnoli di Vox, il Vlaams Belang, il partito Diritto e giustizia polacco – sono divisi in diversi gruppi politici europei. La novità che traspare dall’uso di una retorica «confederale» anti-federalista è però chiara: non c’è più un attacco frontale all’Unione, né all’euro, né una rivendicazione di uscita di qualche paese. Insomma, sembra quasi che il sovranismo si sia fatta una ragione sulla necessità di combattere una battaglia dentro un’Unione che probabilmente si percepisce abbia superato la sua crisi più radicale. E questa in fondo non è una notizia banale.

Nel manifesto si propone una “lettura” dell’Europa contemporanea sconcertante: “La turbolenta storia della Europa, in particolare nell’ultimo secolo, ha prodotto molte sventure. Nazioni che difendevano la loro integrità territoriale hanno sofferto al di là di ogni immaginazione. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei hanno dovuto combattere per decenni il dominio del totalitarismo sovietico prima di riottenere la loro indipendenza”. E il fascismo e il nazismo dove sono? A cosai mira questa manipolazione della Storia?

Beh, è indubbiamente molto ambiguo il riferimento al totalitarismo sovietico senza ricordare che l’Urss ha potuto dilagare nell’Europa centro-orientale solo a seguito della vittoriosa controffensiva contro l’espansionismo nazifascista. Alla radici c’è il fallimento del sovranismo di allora. Un mondo imperniato su imperi militari chiusi e contrapposti costruiti dagli Stati nazionali, a seguito della crisi degli anni ’30, è stato proprio il tentativo fallito dei regimi autoritari di destra. Su quel fallimento si è costituito il duopolio sovietico-americano. Si tratta ancora una volta di una lettura della storia strumentale, mirata a sollecitare un certo senso nazionale contro la memoria del comunismo, che paradossalmente dimentica proprio il sovranismo fallimentare del passato. E poi si traduce a volte in buoni rapporti con l’autocratico governo di Putin, che in quanto a logica soggettivamente imperiale (peraltro limitata dagli scarsi mezzi) non è secondo a nessuno.

 

Anche il Cristianesimo viene tirato in ballo come fattore unificante di questa “nuova” Europa. Ma che cristianesimo è? 

 

La retorica delle radici giudaico-cristiane dell’Europa serve a dare un tocco tradizionalista. Ci siamo abituati anche in Italia all’uso disinvolto dei simboli religiosi da parte di partiti di destra laica, estranei allo spirito evangelico. Del resto, qui non possiamo dimenticarci che abbiamo alle spalle un dibattito nato malissimo, ai tempi del trattato costituzionale del 2003: il laicismo europeo rifiutò la semplice menzione delle radici cristiane dell’Europa rischiando un controsenso storico (è del tutto evidente che l’Europa è stata unificata dal cristianesimo, che ha permesso l’incontro di diverse matrici fondanti, dal diritto romano alle potenzialità dei nuovi arrivati germanici). Ma questa chiusura era speculare a un uso, da parte dello stesso Giovanni Paolo II ma soprattutto di alcuni suoi seguaci, di questa rivendicazione in un modo rischiosamente esposto all’accusa di voler fissare un principio che si estendesse a motivare una sorta di primato nell’attualità. Primato che non ha senso rivendicare da parte della fede cristiana: oggi la sua influenza è ridotta a una minoranza tra le altre, ma la sua vivacità può e deve esprimersi ancora nel dialogo aperto con tutte le altre componenti religiose e culturali del continente.

 

Un’altra cosa che colpisce è che si parla di famiglia, ” unità fondamentale delle nostre nazioni”,non dei diritti umani della persona. La “famiglia” strumento di crescita demografica per contrastare l’immigrazione di massa. Sono affermazioni che ricordano pagine cupe dell’Europa. È così professore? 

 

Anche in questo caso niente di nuovo: la retorica sulla famiglia di tipo tradizionale serve a collocarsi di fronte a una tendenza della sinistra presunta moderna che ha fatto del pluralismo di modelli, dei diritti individuali e del rispetto delle differenze il suo nuovo ubi consistam. E poi viene utilizzato, ancora una volta piuttosto rozzamente, nella polemica contro l’immigrazione straniera, che resta invece una risorsa e non solo un problema. Vorrei però completare questo ragionamento con un’altra osservazione. Può non piacerci un richiamo al «Dio, patria e famiglia». Ma mi parrebbe un gioco suicida cedere a questa destra una considerazione seria della questione dell’invecchiamento e del declino demografico del nostro continente. Se l’Europa si chiude al futuro rinunciando a fare figli, perché non c’è fiducia basilare nella convivenza umana e nelle sue possibilità, questo è un problema di tutti, non certo dei sovranisti.

 

Il manifesto ha una sua pesante valenza politica. Basti pensare alla Polonia e all’Ungheria. Sono regimi illiberali. Non è preoccupante che l’abbiano firmato due forze politiche italiane?  

 

L’illiberalismo del manifesto è più nel non detto che nell’esplicito: ad esempio, nel parlare appunto dei diritti delle nazioni e non di quelli delle persone e del pluralismo interno alle società. Una concezione omogeneizzante e chiusa delle nazioni è senz’altro un rischio. D’altro canto, che i partiti di Salvini e Meloni si ispirassero a queste retoriche non è una novità. Se vogliamo, pur su questo sfondo preoccupante, emergono però nel manifesto alcuni accenti nuovi, favorevoli al progetto europeo e all’amicizia tra i popoli, pur ridimensionati dall’attacco ideologico al modello federalista.

 

Il futuro conflitto politico europeo, ormai è chiaro, sarà sempre più tra europeisti e sovranisti. Quale potrebbe essere una risposta efficace al manifesto sovranista? 

Il conflitto è nei fatti. Però, vorrei obiettare che c’è un modo sbagliato di intenderlo. A me pare – non da oggi – che non sia una buona strategia quella di contrapporre al sovranismo semplicemente un qualsiasi appello europeista. Infatti, il sovranismo degli ultimi anni è prosperato proprio sui limiti e i contraccolpi di un europeismo miope, tutto giocato sulla difesa del mercato, sull’austerità imposta dalla Germania e sulla mancanza di reale solidarietà. L’europeismo del Fiscal Compact, potremmo dire, che ha eroso il capitale di benevola convergenza tra i popoli costruito nei decenni. Occorre invece contrapporre al sovranismo un europeismo riformato, che tenga assieme l’idea di istituzioni democratiche favorevoli alla crescita, con la costruzione di legami sociali più forti tra i popoli. E questo per la banale ragione che nell’epoca dei giganti (Usa-Cina) nessun paese europeo, per quanto sia sovranista il suo governo, può far veramente da solo. Non a caso, i sovranisti riescono ad accrescere i consensi, ma faticano a esprimere a valle di questi consensi una linea di governo realistica ed efficace. L’Europa è una necessità: per farla amare, però, deve anche essere molto attenta al modo con cui la si presenta.

IL TRADIMENTO DEL VERTICE ONU SUI SISTEMI ALIMENTARI. INTERVISTA A NICOLETTA DENTICO

Cresce in tutto il mondo la critica contro il Vertice ONU sui Sistemi Alimentari indetto dal Segretario Generale Antonio Guterres e previsto a New York il prossimo settembre.  Vertice in cui il ruolo delle multinazionali dell’agroindustria risulta pericolosamente pervasivo e dominante.

Sono ormai circa 1000 le organizzazioni internazionali e regionali della società civile, le associazioni di piccoli produttori e allevatori, le comunità indigene, gli esperti internazionali, oltre ii rappresentanti del mondo scientifico ed accademico che si preparano a una Contro-Mobilitazione virtuale  e in presenza per formulare domande competenti sul futuro del cibo e per esprimere  il loro dissenso in occasione del pre-Vertice sui Sistemi Alimentari che si terrà a Roma presso la FAO, dal 26 al 28 luglio. Tra le numerose mobilitazioni globali – il  programma delle tre giornate di Contro-Mobilitazione  si trova online: Call to action | Peoples’ Counter-Mobilization to Transform Corporate Food Systems – CSM (csm4cfs.org)si inquadra la azione di Flash-Mob nella capitale internazionale del cibo, Roma, che sarà organizzata davanti alla sede della FAO , oggi, dalle ore 11.00 alle 13.00.  Per approfondire qual è la posta in gioco, nel “Pre-Summit” della prossima settimana, abbiamo intervistato Nicoletta Dentico. Nicoletta Dentico è giornalista professionista e responsabile del programma di salute globale di Society for International Development.

Nicoletta Dentico, tra pochi giorni si svolgerà a Roma (26-28 luglio) il Pre-Summit ONU sui “Sistemi Alimentari”. Prima di parlare di questo evento, vorrei chiederti: il Covid 19 quali vulnerabilità ha colpito nei “Sistemi Alimentari”?

Anche prima dell’arrivo di COVID-19, i sistemi alimentari presentavano tutti gli ingredienti di una tempesta perfetta. La ricetta di un fallimento sistemico che crea nello stesso tempo obesità e sottoalimentazione. Veniamo da decenni di “rivoluzione verde” a base di fertilizzanti e di nuove verità ibride in grado di incrementare considerevolmente la produzione, ma il problema della nutrizione nel mondo non è stato affatto risolto e anzi è in aumento, da qualche anno a questa parte. La rivoluzione verde ha aperto un vasto mercato per le operazioni delle grandi multinazionali, e intanto il cibo è diventato un prodotto di consumo soggetto a feroci speculazioni finanziarie.  La strategia della rivoluzione verde insomma è stata un disastro tanto ecologico quanto economico e oggi, a causa di questa specie di colonizzazione agricola su scala globale, un numero crescente di persone non ha accesso a una dieta sana, autodeterminata. Si registra ovunque un impoverimento delle risorse naturali (le varietà ibride consumano più acqua), una distruzione dei suoli a causa dell’uso crescente di fertilizzanti chimici e pesticidi, una perdita considerevole di  biodiversità. Nel contempo, nei paesi ricchi, lo spreco del cibo è la regola anche a causa di una iper-produzione scellerata e insostenibile. La pandemia ha fatto deflagrare queste disfunzioni strutturali. Ma ce ne sono altre, legate alle guerre, alle instabilità e violenze interne ai paesi (basti pensare al Tigray). Che dire? L’impennata statistica della fame documentata nell’ultimo rapporto SOFI 2021 sullo stato della sicurezza alimentare e nutrizione nel mondo, pubblicato il 12 luglio, definisce gli estremi di uno scandalo di proporzioni storiche. I numeri parlano chiaro: quasi una persona su tre non ha avuto accesso a un’alimentazione adeguata nel 2020 – un incremento di 320 milioni di persone affamate in un solo anno, da 2,05 a 2,37 miliardi.

Quali sono nell’agricoltura le vittime causate dalla pandemia?

Le prime vittime della pandemia in materia di accesso al cibo sono tutte quelle persone che vivono “hand-to-mouth”, cioè quanti dipendono dalla economia informale, quotidiana e di strada, di padri e madri che ogni giorno si giocano il tutto e per tutto per racimolare il poco che serve per nutrire la famiglia. Le misure di lockdown, spesso attuate a poche ore dal loro annuncio, hanno prodotto un trauma per centinaia di milioni di uomini e donne che nel mondo vivono, letteralmente, di questa economia del “pane quotidiano”. Nella agricoltura hanno pagato un prezzo enorme anche le frange più esposte della filiera agroindustriale del cibo, contadini e non solo, che hanno perso il lavoro nel momento in cui la globalizzazione si è fermata con l’arrivo di COVID-19. Ma COVID-19 ha d’altro canto permesso la germinazione di molte esperienze locali di beni comuni del cibo (food-commons), spesso con l’intento di rispondere ai bisogni immediati delle persone nelle diverse comunità, che oggi permettono di ri-immaginare i sistemi della agricoltura e di ricollocarli come elementi di una nuova socialità per il bene comune post-capitalista. Ci sono moltissime ombre, ma non mancano affatto le luci.

Parliamo del Pre-Summit. Perché è importante? Quali obiettivi si prefigge?

Il pre-summit sui sistemi alimentari dell’ONU previsto a Roma alla fine di luglio – di cui RAI parla incessantemente da qualche settimana come media-partner dell’evento –  è una anticipazione del summit vero e proprio che avrà luogo a New York a settembre, in concomitanza con la Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il summit è stato indetto dal Segretario Generale dell’ONU e mira a definire una governance globale sulla agricoltura e l’alimentazione per fronteggiare l’emergenza della malnutrizione mondiale, e in generale gli squilibri alimentari, puntando alla trasformazione dei sistemi alimentari con soluzioni innovative che potranno servire, così si dice, a raggiungere gli obiettivi dello sviluppo sostenibile – zero fame entro il 2030. Ma il diavolo sta nei dettagli. 

Il Vertice sui Sistemi Alimentari a New York dovrebbe essere una vera buona notizia, visto che si occupa dei “sistemi del cibo” appunto. Dopo decenni di palese fallimento, potrebbe tracciare un appuntamento decisivo per discutere di politiche di contrasto alla fame e per promuove approcci agro-ecologici, in grado di rispettare i diritti dellambiente e della salute. Vale la pena di ricordare che il settore agroindustriale globalizzato produce un impatto immenso sulla distruzione delle foreste e l’accaparramento delle terre, fenomeni che mettono in pericolo il pianeta, e anche l’umanità. Purtroppo si tratta di un’occasione mancata, o peggio, di un treno che marcia in direzione del tutto sbagliata.

Cosa c’è di sbagliato nel “Food System Summit” dell’ONU?

Molte cose non tornano nella organizzazione di questo vertice, sin dall’avvio dei lavori. Il summit nasce come abbiamo detto come evento convocato dal Segretario Generale dell’ONU, ma non sotto il controllo degli Stati. Il percorso organizzativo che ha dato forma al vertice è caratterizzato da una opacità senza precedenti. Una mancanza di trasparenza che ha destato molta sorpresa e anche vivaci preoccupazioni, man mano che si è fatto strada il folgorante protagonismo del Forum Economico Mondiale (World Economic Forum, WEF) di Davos – lelitario circolo privato che riunisce le 1000 più grandi corporations globali – come co-organizzare del vertice. I centri di interesse riuniti nel WEF, dal primo momento, hanno indirizzato i contenuti e strutturato l’agenda. La narrazione ufficiale parla di sostenibilità, di contadini e comunità indigene, persino di diritti. Ma la realtà è che il Vertice sui Sistemi Alimentari ha del tutto marginalizzato l’impianto istituzionale costituito in seno alla FAO dal 2009, nella fattispecie il Comitato per la Sicurezza Alimentare Mondiale (CFS) che prevede la partecipazione delle organizzazioni di produttori, dei popoli indigeni, dei lavoratori agricoli, dei pastori e pescatori. Per questo molte organizzazioni e associazioni internazionali storicamente impegnate sui questi temi  si sono dissociate da questo evento, in esplicito dissenso dalla cosiddetta “corporate capture”, l’incontrollata influenza da parte delle multinazionali dell’agroindustria. E’ la prima volta che succede, proprio perché il CFS è l’istituzione integovernativa più inclusiva che si occupa di politica globale del cibo.

Quanto conteranno i popoli in questo Summit?

Nella vulgata ufficiale, come ho già detto, prevale una narrazione molto rassicurante, l’idea del cibo come elemento che non rappresenta solo un alimento, ma le nostre tradizioni e relazioni sociali. La narrazione ufficiale parla di coinvolgimento e partecipazione, di mobilitazione delle cittadinanze e delle comunità. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che non è così. Dopo svariati tentativi di dialogo per correggere il tiro, per capire almeno la ratio della nuova impostazione, a dicembre 550 entità dei piccoli produttori e associazioni dei popoli indigeni e Organizzazioni non governative (ONG), hanno scritto una lettera al Segretario Generale per invocare il ricorso ad un multilateralismo degno di questo nome, ad un vero percorso democratico. A queste prese di posizioni ne hanno fatto seguito altre, provenienti dal mondo accademico internazionale (https://www.csm4cfs.org) . Queste iniziative si stanno moltiplicando, in uno scontro quasi insanabile tra chi considera il cibo come un diritto e un crinale di tutela dell’ecosistema, e chi lo considera come una merce da scambiare sul mercato. Posizioni critiche sono state espresse in forma scritta persino dai rappresentanti del mondo politico e scientifico direttamente coinvolti nel lavoro del Vertice, alcuni dei quali hanno denunciato il processo in itinere (ocs.google.com/document/d/1fGP9mMdu-_bqsEGfUc6EbRN8LWdN-l7jt8ih9iGGejc/edit https://agroecologyresearchaction.org/scientists-boycott-the-2021-un-food-systems-summit/). Per le 380 milioni di persone rappresentate dalle organizzazioni della società civile non esistono le condizioni perché il summit, così concepito, possa garantire inclusività, né tantomeno la trasformazione integrale dei sistemi alimentari necessaria ad arginare la crisi montante della fame nel mondo, l’emergenza climatica e ambientale.

Al Pre-Summit ci sarà anche Agnes Kalibata. Una personalità che sta facendo discutere, perché?

Sì, il segnale emblematico della profonda distorsione della governance del cibo che questo summit interpreta e promuove è la designazione di Agnes Kalibata, presidente della Alliance for a Green Revolution for Africa (AGRA)1 , come inviata speciale del Segretario Generale dell’ONU per questo vertice. Qual è il problema? Kalibata sta completamente fuori dal sistema ONU, e presiede un’iniziativa creata nel 2006 dalla Fondazione Rockefeller e dalla Fondazione Bill & Melinda Gates per risolvere i problemi della fame in Africa con la introduzione di monoculture, di produzione agricola per la esportazione e la immissione di nuove tecnologie e sistemi agricoli nel continente disegnati da multinazionali come Monsanto, Syngenta, Microsoft. La presenza di AGRA in Africa si associa ad una sostanziale ridefinizione della agenda scientifica in campo agricolo e la creazione di nuovi mercati, come ho cercato di raccontare nel mio libro sul filantrocapitalismo, con grave danno per le realtà contadine che hanno a cuore un sistema alimentare autoctono e sostenibile. A parte il fatto che AGRA in Africa è solo l’ultima fattispecie dello stesso fallimento, come racconta lo studioso Tim Wise (https://www.iatp.org/throwing-good-money-after-bad), la presenza di Kalibata come inviata speciale del Vertice crea seri problemi di governance del cibo. Vogliamo dire che Kalibata è la prima rappresentazione plastica della decisione del Segretario Generale dell’ONU di firmare un’alleanza con il Forum Economico Mondiale nel giugno 2019. Una decisione sconsiderata che potrebbe avere implicazioni di portata tragica, non ancora pienamente comprese, per il futuro della funzione pubblica a livello globale.

Abbiamo detto della Fondazione Gates, Che ruolo gioca il filantropocapitalismo in questo ambito?

Agnes Kalibata docet. Il filantrocapitalismo sta al cuore di tutta questa operazione intorno all’impegno di Davos sui sistemi alimentari del futuro. Il filantrocapitalismo è il tessitore primigenio della idea di introdurre le grandi imprese nel sistema della governance globale, il cavallo di Troia del capitalismo dentro le Nazioni Unite. Si tratta di una reazione del capitale alle mobilitazioni politiche altermondiste di Genova nel luglio 2001. Un fenomeno che sottrae legittimità democratica alle Nazioni Unite tout court, e oggi a questo vertice sui sistemi alimentari, venti anni esatti dopo il G8 di Genova. 

Quali sono i conflitti di interesse dei suoi organizzatori?

I conflitti di interessi sono cosi stipati in questo paradigma….che si fa finta che non esistano! Nellimpianto del summit non ci sono meccanismi di gestione del conflitto di interessi. Nella filosofia politica del summit non esiste la minima attenzione ai nodi geopolitici che determinano la fame, tipo le espropriazioni della terra ai piccoli produttori per la creazione di piantagioni e monocolture, le pratiche di accaparramento ai fini estrattivi, le violenze ed i conflitti che determinano un impoverimento diffuso, ora aggravato dalla pandemia. La depoliticizzazione dei nodi strutturali della fame è del resto l’obiettivo primario degli organizzatori-imprenditori del vertice.

Sappiamo che a Papa Francesco sta molto a cuore il dell’agricoltura, da declinare nel senso della ecologia integrale. Che ruolo sta giocando il Vaticano?

Il Vaticano sarà presente al pre-vertice – del resto non è possibile chiamarsi fuori da un evento delle Nazioni Unite che si tiene a Roma. Ma Papa Francesco non andrà al pre-vertice, anche se gli organizzatori ci contavano molto, da informazioni che ho ricevuto negli ultimi mesi. 

Ultima domanda : L’Italia come si sta comportando? 

L’Italia, presidente del G20, mostra anche nell’ambito del cibo – su cui pure declama una tradizione unica al mondo, giustamente – tutta la sua incapacità di visione, di lucidità, di comprensione strategica di quello che sta avvenendo. I governi di ogni colore hanno sempre sostenuto il modello di agricoltura industriale e di allevamente intensivo che ha devastato la Pianura Padana, tanto per fare un esempio, rendendola l’area più inquinata d’Europa. Il sistema agricolo e alimentare italiano ha molto da perdere da un approccio così incentrato sul valore nutrizionale delle diete, che privilegia i cibi fortificati alla varietà delle diete tradizionali, e delle filiere culturali del cibo. LItalia ha molto da perdere anche da una trasformazione dei sistemi alimentari orientata alla innovazione tecnologica e digitale. Infine, l’Italia ha da perdere geopoliticamente come stato membro del polo romano delle Nazioni Unite per le politiche del cibo. Se Davos prende il sopravvento, la tradizionale primazia di Roma sarà un ricordo del passato. Per questo abbiamo chiesto al Parlamento italiano di chieder conto di quanto sta accadendo, nella totale ignoranza da parte del mondo della politica.

 

100 anni di Pax Romana, imparando che l’unità politica dei cattolici era transeunte e che la teologia morale da ripensare. Intervista a Stefano Ceccanti

Proprio oggi,  cento anni fa, nacque a Friburgo l’associazione cattolica “Pax Romana”. Con Stefano Ceccanti, ex Presidente nazionale della FUCI e attualmente costituzionalista e deputato del PD, cerchiamo di capire che cosa ha significato la nascita di “Pax Romana” per il laicato cattolico.

Professor Ceccanti, in un recente articolo del Riformista, ed anche oggi su Avvenire, lei ha ricordato che nel luglio del 1921, esattamente cento anni fa, dopo la prima guerra mondiale e all’esplosione dei nazionalismi esasperati, nacque a Friburgo l’associazione internazionale degli universitari cattolici Pax Romana che poi funzionò fino al Concilio Vaticano II come un grande network montiniano e maritainiano, fornendo la gran parte degli uditori laici al Concilio. Ha anche ricordato che analogamente a quanto era successo in Italia dove dalla Fuci era germogliato il Movimento Laureati di Azione Cattolica (oggi Meic), nel 1947 era poi sorto anche il secondo ramo di Pax Romana, quello appunto dei laureati. Un anno prima era sorta la Jec internazionale, coinvolgendo gli studenti delle secondarie, a cui corrisponde in Italia il Movimento Studenti dell’Azione Cattolica. Forse però vale la pena ora di concentrarci su quello che è successo dopo, nel post-Concilio, a cominciare dagli aspetti ecclesiali: le intuizioni di Pax Romana sono state sostanzialmente fatte proprie dalla Chiesa oppure anche problematizzate?

Un’esperienza di frontiera quale è quella di associazioni di ambiente, per di più inviate in ambienti che si erano separati dall’influenza della Chiesa in modo anche polemico, è sempre per sua natura sperimentale. La realtà ecclesiale pone domande all’ambiente ed anche viceversa. In questo senso il Concilio ha fatto proprio il metodo, per così dire, sperimentale, tra Chiesa e mondo ed ancor più puntualmente il documento montiniano del 1971, la Lettera Octogesima Adveniens del 1971, specie al suo paragrafo 4. Altra cosa sono i le sperimentazioni concrete, che sono destinate ad essere superate. Paradossalmente, siccome il metodo è confermato, i punti provvisori di arrivo vengono problematizzati. Nei movimenti di ambiente il post-concilio determina anzitutto un nuovo protagonismo delle periferie ed in particolare dell’America Latina. Quel movimento composito che chiamiamo teologia della liberazione parte dal movimento universitario brasiliano e da quello peruviano, il cui assistente è per molti anni Gustavo Gutierrez. Però non possiamo dire esattamente che Gutierrez viene a sostituire Maritain perché in realtà, come spiega per l’appunto Paolo Vi nel testo del 1971, la Chiesa riscopre non solo la propria dimensione internazionale, ma anche policentrica. Mentre i vari filoni conciliari in America Latina, con risonanza globale, cercano di declinare il tema dell’opzione per i poveri, in realtà negli altri continenti soprattutto nel Nord del mondo le priorità non potevano essere le stesse. Devo dire che poi la situazione si è molto evoluta anche in America Latina, ad esempio con le riflessioni sulla teologia della rigenerazione dell’attuale arcivescovo di Lima Carlos Castillo, che è sttao anche lui assistente del movimento peruviano

Ma in Europa e nel Nord del Mondo quali sono stati quindi gli specifici problemi e le specifiche priorità?

In Europa sono due i temi che animano maggiormente i dibattiti dopo il Concilio, molto diversi tra di loro. Il primo è quello del rapporto tra comunità cristiane e politica: l’opzione preferenziale per la democrazia finalmente sancita dalla Gaudium et Spes pone in prima fila la Chiesa nel rompere i rapporti coi precedenti regimi autoritari in Portogallo e in Spagna. A ciò, col nuovo pontificato di Giovanni Paolo II, si aggiunge il protagonismo nell’abbattimento delle cosiddette democrazie popolari. Dentro le democrazie, però, già il Concilio e poi la Octogesima Adveniens, avevano stabilito come regola il pluralismo. Può sembrare strano perché il Concilio, almeno a prima vista, era segnato dall’apogeo delle Democrazie Cristiane, almeno in Italia ed in Germania, mentre l’Mrp francese stava scomparendo. In realtà la Cdu tedesca era (ed è) un partito molto diverso dalla Dc italiana non solo perché interconfessionale con una significativa presenza evangelica e posizionato più chiaramente sul centrodestra,, ma anche perché dalla svolta della Spd di Bad Godesberg la Chiesa cattolica aveva assunto una posizione di equidistanza istituzionale tra i due maggiori partiti e c’era già una presenza significativa di cattolici nella Spd. Lo spiegò anni fa l’allora cardinale Ratzinger in una conferenza al Senato italiano causando stupore in molti che credevano erroneamente che lo schema fosse simile a quello italiano. Quindi in realtà il Concilio e poi l’Octogesima Adveniens prendono atto di una situazione di fatto, a cui l’Italia continuava a fare eccezione.

Proseguiamo su questo primo punto, ma cosa motivava l’eccezione?

Lo spiega il vescovo francese Matagrin che fu l’estensore del documento dei vescovi francesi del 1972 a favore del pluralismo politico. Paolo VI approvò il documento, che del resto era la diretta conseguenza dell’Octogesima Adveniens, ma gli spiegò che riteneva diversa la situazione politica italiana. Il testo francese era scritto per riconoscere la legittimità della presenza anche nel nuovo Partito Socialista accanto a quella più tradizionale nei partiti di centrodestra, mentre in Italia il problema era che il primo partito della sinistra si diceva ancora comunista, quindi espressione di una religione secolare. Era l’egemonia comunista sulla sinistra che comportava il mantenimento dell’opzione prudenziale per l’unità politica dei cattolici. Questo però aveva precise conseguenze sui movimenti di ambiente collocati nella scuola, nell’università e nel mondo del lavoro. Al di là delle scelte dei singoli, nello schema italiano di tipo montiniano e degasperiano, essi avevano la funzione di presidiare socialmente e culturalmente le correnti di sinistra del partito unitario. Più precisamente i movimenti intellettuali di Azione Cattolica avevano il loro referente naturale nella corrente morotea, quelli del mondo del lavoro nella corrente di Forze Nuove. Viceversa fuori dall’Italia, dove il partito più forte della sinistra non era comunista, era saldamente pro occidentale, la collocazione naturale era quella nei partiti socialisti. Non a caso Pax Romana esprime due Presidenti del Consiglio nel nuovo Portogallo democratico: prima Pintasilgo, che poi è anche la capolista socialista per le prime elezioni europee a cui partecipa il suo Paese, e quindi Guterres, l’attuale segretario generale dell’Onu. Diciamo che in Europa sulla politica al Maritain iniziale, teorico delle democrazie cristiane (che poi però sarebbe divenuto un filosofo cristiano della democrazia) per questi movimenti si sostituiva Mounier, secondo il quale la collocazione naturale di questi settori era nella sinistra non comunista.

Al di là delle diversità delle singole persone c’erano quindi per così dire delle scelte quasi naturali?

Sì, nella prima sessione europea a cui partecipai nell’aprile del 1981, in concomitanza col primo turno delle presidenziali francesi era abbastanza pacifico che la grande maggioranza dei quadri di questi movimenti votasse socialista e non solo nel Regno Unito dove c’era una classica vicinanza col Labour. Per inciso la moglie di Tony Blair faceva parte in quegli anni del movimento secondario e c’era stato un afflusso significativo di quadri nel Ps francese (più però nell’area di Delors e Rocard) ed anche il nostro presidente mondiale Carbonell era già impegnato nel Partito Socialista Catalano, di cui sarebbe poi stato parlamentare regionale.

E come leggevano la situazione italiana?

R-Noi portammo come relatrice in quella sessione Paola Gaiotti, che era stata eletta al Parlamento europeo grazie alla sinistra dc del Nord-Est. Piacque a tutti moltissimo per i contenuti, ma alla fine ci chiesero come facesse a stare nel Ppe anziché nel Pse. Non era tanto facile spiegarlo. Però da questo ci rendemmo conto che eravamo noi l’eccezione e non la regola e che quella eccezione non poteva che essere transeunte. Da lì poi partimmo con le iniziative per la democrazia dell’alternanza, compresi i referendum elettorali. Ci sembrava un modello più fecondo per la democrazia e anche per la Chiesa.

E il secondo tema?

Era quello del cosiddetto scisma sommerso, per dirla col filosofo Pietro Prini. Nelle società avanzate si era determinata una situazione nuova. Mentre nelle società tradizionali maturità fisica, entrata nel mondo del lavoro e matrimonio erano sostanzialmente allineati, viceversa già negli anni ’70 e ’80 si era già creato un ampio periodo di intervallo tra maturità fisica da una parte, stabilità lavorativa e scelta matrimoniale. Le categorie tradizionali elaborate dalla teologia morale e recepite dal Magistero non sembravano comprensibili, erano percepite come una somma di divieti, ampiamente disapplicati proprio perché non comprensibili. Era difficile individuare soluzioni, però il problema non poteva essere negato, ma a parte poche voci come in Italia il cardinal Martini non si riusciva a passare dai dibattiti informali a una vera discussione pubblica. Era però un nodo scoperto, come emerse anche in due conflitti, uno italiano ed uno europeo.

Quali furono?

Il primo fu una educata ma ferma contestazione a monsignor Carlo Caffarra alla settimana teologica della Fuci del 1980 perché aveva esposto tesi iper-rigoriste. Il secondo fu la visita di Giovanni Paolo II al campus di Lovanio. Venne scelta come oratrice Veronique Oruba, del nostro segretariato europeo Jec-Miec, che chiese con franchezza di rielaborare un insegnamento in chiave più personalistica, ma questa franchezza non fu presa tanto bene, almeno sul momento. Lei ebbe dei problemi con l’Università, poi per fortuna superati.

Una situazione spiacevole

Sì, ma sono contrario ai vittimismi. Se si sceglie un approccio sperimentale, di stare sulla frontiera, pur senza fare scelte estreme, provocatorie, ma in modo giustamente sobrio, direi moroteo, è anche inevitabile che ci possano essere incomprensioni. Come diceva il padre domenicano Maydieu ai residenti cattolici francesi contro Vichy era vero che la scelta di ribellarsi a quella che secondo alcuni era un potere legittimo non poteva poggiare su un qualche documento magisteriale pre-esistente, ma l’importante era che fosse ragionevole pensare che nell’arco di una generazione, ex post, quel documento avrebbe potuto esserci. In effetti ci fu poi la Gaudium et Spes per l’opzione preferenziale per la democrazia e la Populorum Progressio sul diritto di resistenza. Per di più, obiettivamente, abbiamo vissuto momenti privilegiati come il seminario segreto di Pax Romana convocato in fretta e furia nel maggio 1985 in Polonia sulle prospettive che si aprivano con l’arrivo di Gorbaciov alla guida del Pcus il mese precedente.

E cosa accadde?

Il seminario fu convocato dal nostro movimento polacco, il Kik, nel presupposto che prima o poi la cosiddetta democrazia popolare sarebbe caduta. Liberi dal dover essere uniti contro il Regime, ci fu una significativa maggioranza, che ovviamente noi dell’Ovest supportammo, per la creazione di una normale democrazia occidentale legata all’Europa. Però ci fu anche una consistente minoranza, proveniente dalle zone più agricole, che ipotizzava un rapporto tra Chiesa cattolica e democrazia analogo a quello della Costituzione italiana con l’Islam. Per fortuna poi nel 1989 il Presidente del Kik Mazowiecky divenne primo ministro. Però vedemmo allora che ci potevano essere dei problemi. Del resto la democrazia non si sviluppa in modo lineare.

 

 

Cattolici, l’orizzonte globale tra identità e resilienza. Una riflessione di Luigi Bobba vent’anni dopo il G8 di Genova

Per ricordare il ventennale delle manifestazioni  contro il vertice del G8 di Genova e i drammatici fatti di violenza, culminati nella orribile sanguinaria repressione, da parte delle forze dell’ordine, nei confronti dei manifestanti, nella Scuola Diaz, pubblichiamo,   per gentile concessione dell’autore, questa riflessione di Luigi Bobba, all’epoca Presidente nazionale delle Acli. Una riflessione, quella di Bobba, che tocca le tematiche, ancora attuali, che portarono i cattolici a scendere in piazza per reclamare una autentica giustizia sociale nei rapporti mondiali*.

Nel luglio 2001, alla vigilia del vertice G8 di Genova, anche le associazioni della società civile di area cattolica come le ACLI, riunite sotto lo slogan “Sentinelle del mattino” lanciato da Giovanni Paolo II, fecero sentire la loro voce con una manifestazione pacifica e composta nel capoluogo ligure che appariva già in fermento nell’imminenza dell’evento politico di cui l’Italia del governo Berlusconi era il Paese organizzatore.

Non va dimenticato che il tema sul tappeto era la valutazione politica che il G8 era chiamato a dare sulla globalizzazione dell’economia e della finanza e che in quel momento storico la posizione più diffusa e prevalente tra i movimenti era quella dei cosiddetti antagonisti i “no global” il cui portavoce era allora Vittorio Agnoletto.

Ricordo benissimo che toccò proprio a me come Presidente nazionale delle Acli prendere la parola per dare voce alle Sentinelle del mattino e spiegare le ragioni della nostra originale posizione “new global” che non si limitava a condannare la globalizzazione in quanto tale, ma esprimeva la necessità di un discernimento tra gli aspetti ipositivi e negativi della globalizzazione. Tuttavia veniva rigettata senza mezzi termini una globalizzazione senza regole, non rispettosa dei diritti umani che era soltanto una forma aggiornata di colonizzazione globale. Una posizione chiara e netta sul giudizio degli effetti della globalizzazione ma con la quale, contestualmente, si prendevano le distanze dai movimenti no global per la loro posizione ambigua circa la condanna delle azioni violente perpetuate in diverse manifestazioni.

All’inizio del terzo millennio, quelle associazioni cattoliche volevano esprimere soprattutto la loro volontà di intraprendere un nuovo cammino certamente aperto alla globalità, ma da intendere sempre come pluralità culturale di valori e di colori, come convivialità delle differenze e ricchezza dei punti di vista, mai come omologazione, uniformità e conformismo.

Come denunciavo testualmente nel mio intervento di 20 anni fa, a Genova, “la globalizzazione senza regole aumenta la solitudine del cittadino, lo fa sentire ancor più inutile e impotente, lo indebolisce nella sua identità culturale e nel suo radicamento territoriale, lo rende omologato al sistema e al Pensiero Unico, riducendo la memoria collettiva e il suo legame vitale con il passato. Inoltre, rende più confuse le prospettive di futuro, rinchiudendo il suo orizzonte in un presente statico e piatto, rassegnato e in difesa.”.

Ebbene, il ventennio trascorso ha confermato non solo come la globalizzazione , insieme ad indubbi effetti positivi, quali l’uscita dall’area della poverta’ di centinaia di milioni di persone, abbia ristretto i confini del mondo ma soprattutto come abbia esasperato le sue contraddizioni, gli squilibri economici e le ingiustizie sociali, moltiplicato la crescente presenza delle periferie anche esistenziali e aumentato lo scandalo degli sprechi.

Negli anni più recenti è stato soprattutto papa Francesco a denunciare la perdita di umanità e di civiltà nel mondo attuale, dando voce ad una Chiesa sempre più consapevole di svolgere la sua missione di “ospedale da campo” dove alla già pesante pandemia sociale si è aggiunta quella sanitaria del Covid-19 che ha fatto percepire al mondo intero la minaccia del rischio planetario.

Nelle sue due encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020) ha indicato chiaramente quali siano i passi da compiere per fare spazio agli esclusi, ai non garantiti, agli emarginati, a coloro che sono considerati senza diritti, ai nuovi poveri, agli anziani abbandonati alla loro solitudine, alle donne che restano prive della parità di genere, ai giovani condannati al precariato e all’assenza di futuro, allo sfruttamento minorile e alle forme più vergognose di violenza sui bambini.

A dire il vero, non solo papa Francesco ma la stessa Onu è intervenuta con l’Agenda 2030,che contiene i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, un documento politico che è stato approvato da ben 193 Paesi, tra cui l’Italia. Tali sfide globali riguardano le persone, il pianeta, la prosperità, la pace e la partnership. Un’agenda per affrontare i drammi principali che riguardano i sette miliardi e mezzo di persone che abitano oggi sul pianeta e in particolare coloro che sono alle prese con la povertà, la fame, la salute, l’istruzione e la parità di genere.

Per intervenire e ridurre le disuguagliane di ogni tipo che impediscono all’ umanità di vivere in maniera decente e dignitosa si richiedono cambiamenti profondi e radicali. Si tratta di compiere una svolta non solo di natura economica ed ecologica, ma anche culturale e spirituale.  Il Papa stesso parla infatti di un “deterioramento etico e culturale che si accompagna a quello ecologico” (Laudato si’, 162). Ciò che più dovrebbe preoccupare è che “la gente ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida ciecamente in un domani migliore a partire dalle attuali condizioni del mondo e delle capacità tecniche” (Laudato si’, 113)

Tutti coloro che per ragioni di studio guardano al futuro ci dicono che gli spazi dell’utopia si sono assai ridotti, mentre sono aumentati, come ha spiegato bene Bauman, gli spazi della retrotopia e, ancor più, soprattutto dopo l’avvento della pandemia, le previsioni catastrofiste della distopia.

Non potrà dunque bastare la conversione economica perché “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale” (Laudato si’, 109).

È vero che papa Francesco sostiene convintamente le prospettive di tanti economisti di area cattolica impegnati da anni a promuovere una nuova e originale “economia civile” che ha il merito di coniugare insieme la cultura del dono e del bene comune con il principio del profitto e dell’interesse individuale.

Questi economisti spiegano in modo razionale che insieme alla categoria del dono e dell’azione gratuita è possibile valorizzare e fare spazio alle esperienze del non profit, ai soggetti del Terzo Settore, alle molteplici realtà dell’economia civile.

Si tratta di scoprire insieme la bellezza del dono, e contemporaneamente l’interesse per l’altro. Sta qui infatti, l’originalità dell’economia civile, ossia il valore di legame che è proprio del dono. In questo modo, oltre al valore d’uso e al valore di scambio (entrambi già noti all’economia tradizionale) acquista un ruolo di rilievo il “valore di legame” che è tipico dell’economia civile. Ed è ciò che diventa oggi prezioso per generare e rafforzare il legame comunitario.

L’accordo storico raggiunto in questi giorni nell’ultimo vertice del G7 che si è tenuto a Londra prevede, come è noto, una “global tax” del 15% sulle grandi imprese multinazionali. Non si conoscono ancora i dettagli, ma tale decisione dimostra con evidenza che cosa sia in grado di fare la politica quando si fa valere nei confronti della finanza e dell’economia. Inoltre, questa decisione andrebbe accompagnata con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie speculative. Una proposta nota come “Tobin Tax”,che era stata sposata proprio dai movimenti e dalle organizzazioni del Terzo settore e che si rivela ancora oggi non solo giusta ma necessaria per poter disporre delle risorse necessarie per affrontare le sfide globali come quella ecologica o la mancanza di lavoro.

Alla conversione culturale si richiede poi di abbattere il predominio del paradigma tecnocratico sull’economia e sulla politica. Gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà umana e sociale si vedono chiaramente nel degrado dell’ambiente e della vita sociale in tutte le sue dimensioni. Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientare le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati e ristretti gruppi di potere.

Così pure, non è affatto sufficiente una conversione ecologica perché sarebbe soltanto una risposta parziale. “Serve uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale” (Laudato si’, 111).

Francesco invita ogni uomo a non chiudersi in se stesso o nel suo piccolo orticello, ma ad avere il cuore aperto al mondo intero. Come non bisogna separare e contrapporre globale e locale, così non bisogna separare e contrapporre l’identità e la differenza.

All’interno di ogni società, la fraternità universale e l’amicizia sociale devono essere alimentati come due poli inseparabili e coessenziali (Fratelli tutti, 144). Sta precisamente qui la conversione spirituale di cui oggi abbiamo urgente bisogno.

Dobbiamo essere leali con noi stessi e riconoscere che esistono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. In realtà ogni cultura sana è per sua natura aperta e accogliente, così che “una cultura senza valori universali non è una cultura senza” (Fratelli tutti, 146).

Senza il rapporto ed il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di se stessi e della propria terra, perché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana” (Fratelli tutti, 147).

In questa visione aperta e dialogica della cultura umana è veramente difficile comprendere le posizioni che si autodefiniscono “sovraniste”, perché non si tratta di imporsi né di contrapporsi per prevalere sugli altri. L’atteggiamento da sostenere è quello che promuove amore civile e politico, solidarietà umana e amicizia sociale.

“Nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena” (Fratelli tutti, 150)

Che tipo di mondo desideriamo tramettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda, dice papa Francesco, non riguarda solo l’ambiente in modo isolato perché non si può porre la questione in maniera parziale. Occorre rendersi conto che quello che è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra (Laudato si’, 160).

Mi avvio a concludere esprimendo questa mia convinzione che è stata rafforzata dall’esperienza collettiva che abbiamo tutti pagato di persona a caro prezzo, ma da cui stiamo forse uscendo definitivamente: la pandemia. Non è vero che per salvare dal naufragio noi stessi, l’umanità e il pianeta non ci sia più niente da fare.

L’esperienza del Covid-19 ci ha aperto gli occhi e ha dimostrato palesemente che quando tutti siamo costretti a vivere una stessa situazione collettiva di paura e- strema e di illimitata fragilità, ciò che prima tutti ritenevano impossibile realizzare, diventa inaspettatamente possibile e alla nostra portata. È appunto questa la “lezione della pandemia”. Come afferma acutamente Mauro Ceruti: “è dalla cura della fragilità che si genera la creatività umana, non dalla forza della guerra contro il nemico”.

Sappiamo bene che ci sono coloro che non credono ai valori universali, né al bene comune e tanto meno alla fraternità globale perché mettono al primo posto il sovranismo e l’ideologia del nemico. Nella società attuale serve innanzi tutto la resilienza come capacità di assorbire l’urto di un evento traumatico e luttuoso, imparando a curare la ferita o il danno psichico per non restare schiacciati dal dolore e dalla sofferenza. La resilienza è molto più della resistenza, è una risorsa necessaria e di vitale importanza per continuare a vivere e a sperare. Come scrive Papa Francesco: “D’altra parte è  grande nobiltà   essere capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce all’amore, la speranza e la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente,malgrado tutto.”(Fratelli tutti,n.196) E’ tempo anche per la nostra Italia, arrocata e ferita, di rialzarsi in piedi e tornare ad avere fiducia nella rinascita, facendo leva su un’etica dei beni comuni e della solidarietà inclusiva, in continuità con la nostra migliore e più bella tradizione civile.

*(Il testo è stato pubblicato nel numero 18 della testata genovese “la Città. Giornale di Società Civile”.  Questo numero della rivista è dedicato, in larga parte, proprio al ventennale dei fatti del G8). 

Franco Marini, il Popolare. Intervista sulla sua eredità politica con Giorgio Merlo

Sono passati più di cinque mesi dalla scomparsa di Franco Marini. Marini, come si sa, è stato un protagonista del sindacato e della vita politica italiana. Domani, Lunedì 12 luglio, alle ore 21, sulla pagina Facebook di Edizioni Lavoro, è stata riprogrammata la presentazione, rinviata lo scorso 7 giugno, del libro di Giorgio Merlo, «Franco Marini, il Popolare». Intervengono Pier Luigi Bersani, Pier Luigi Castagnetti e Domenico Tuccillo. Modera il dibattito Gennaro Sangiuliano, direttore del TG2. Sarà presente l’autore. Un confronto tra protagonisti politici che hanno accompagnato e apprezzato per molti anni la militanza e l’impegno pubblico di Franco Marini. Con Giorgio Merlo, ex deputato PD e giornalista professionista, approfondiamo alcuni punti del suo libro.

Giorgio, il tuo libro è sicuramente un testo interessante. Però, è lo dico con grande rispetto, ha il limite della fretta. Forse un pò di pazienza avrebbe giovato un pò di più alla comprensione della figura di Franco Marini. La prima domanda è questa : nel tuo libro si gustano sapori  antichi: la sinistra sociale dc, Donat Cattin, sindacato dottrina sociale della chiesa ecc. Nel tempo liquido di questa nostra contemporaneità politica cosa rimane di quei sapori antichi?
Certo, i “sapori antichi” come Tu Gigi li definisci, hanno sempre il loro fascino e il loro richiamo. Soprattutto in un’epoca dominata dalla desertificazione culturale, dal populismo, dall’opportunismo e dal trasformismo politico e parlamentare. Ma le mode, prima o poi, tramontano. E, non caso, la parabola del grillismo – il più pericoloso vulnus per la qualità e la salute della nostra democrazia negli ultimi anni – sta volgendo finalmente al termine. Ma, purtroppo, il populismo continua a scorrere nel sottosuolo della società italiana e non sarà facile rimuoverlo in fretta. Anche dopo la fine, speriamo presto, della triste e decadente parabola del grillismo. E in quel momento, non è difficile prevederlo, torneranno in campo quelle categorie politiche e culturali che sono state costitutive in altre stagioni della politica italiana: dal valore dei partiti popolari alla importanza delle culture politiche, dalla qualità della classe dirigente alla salvaguardia dei principi costituzionali, dalla credibilità delle istituzioni democratiche alla serietà e alla trasparenza del linguaggio. Categorie politiche spazzate via dall’ideologia grillina e da chi le ha tristemente assecondate. Ecco perchè il magistero politico, culturale, sociale, istituzionale di uomini come Carlo Donat-Cattin, il patrimonio della sinistra sociale della Dc o la perdurante attualità della dottrina sociale della Chiesa ritorneranno protagonisti. E lì dovremo essere pronti a raccogliere la nuova sfida che avremo di fronte dopo le macerie seminate dalla incultura devastante del grillismo.

Veniamo alla figura Franco Marini. Nel tuo libro lo leghi, indissolubilmente, alla figura di Carlo Donat Cattin. Per sostenere, alla fine della tua analisi, che Marini è l’autentico erede di Donat Cattin. È una conclusione che non mi convince. La trovo un pò meccanicistica. Per quali motivi tu pensi questo? Non pensi, invece, che quella di Donat fu una scelta per la sopravvivenza di Forze Nuove?
Donat-Cattin in un memorabile e profetico intervento a Saint-Vincent nel settembre 1990 – sei mesi prima della sua prematura scomparsa – indicò proprio in Franco Marini il “naturale erede della tradizione e della esperienza della sinistra sociale democristiana”. Non credo che lo fece solo per una burocratica e protocollare sopravvivenza di quella corrente. Al contrario, egli credeva nella Dc e credeva nel suo pluralismo politico e culturale interno. E sapeva bene, come disse molte volte Aldo Moro, che senza una “sinistra sociale di ispirazione cristiana” sarebbe stata la stessa Dc a pagarne duramente le conseguenze in termini politici ed elettorali. Certo, in quei tempi era ancora possibile avere un “erede” politico. E, in quel caso specifico, Franco fu veramente l’erede naturale di Donat-Cattin per la guida di Forze Nuove. Per storia personale, per cultura politica, per la sua biografia e anche, diciamolo, per il suo temperamento e coraggio.

Rimango sul punto: il patrimonio Ideale di Donat Cattin e Marini sono simili. Declinati in tempi diversi. Però consentimi di osservare che mentre Donat aveva visione politica, pensa al rapporto con Moro, Marini era un operativo. Per questo penso che il vero erede di Donat Cattin sia Guido Bodrato. Ovviamente non sarai d’accordo…
Guido Bodrato è un “maestro” del cattolicesimo democratico e popolare nel nostro paese nonchè un grande amico. E Guido è stato per molti anni il vero “delfino” di Donat Cattin, come si diceva un tempo. Poi c’è stato il “preambolo” del congresso della Dc del 1980 e tutto ciò che lo ha preceduto e seguito. E lì i rapporti, quelli politici come ovvio e mai quelli personali, si sono interrotti. Era inevitabile che dopo molti anni, se si voleva proseguire quella straordinaria esperienza politica, culturale ed organizzativa, ci voleva un leader riconosciuto da tutti. E Marini rispondeva, in quel particolare momento storico, a quella esigenza e a quella richiesta.

Parliamo del Marini politico. Divenne segretario del PPi. Di quella stagione delicata della politica italiana fu un protagonista sicuramente importante. Qual è stato il frutto più importante che Marini portò alla politica italiana?
Molti frutti ha portato. Ne ricordo tre, secondo me i più importanti. Innanzitutto la sua “riconoscibilità” politica. Quando parlavi di Marini sapevi di chi parlavi. Sapevi chi era. Era il “Popolare” per antonomasia. E questa sua caratteristica, decisiva per la qualità e la credibilità della stessa politica, lo ha sempre accompagnato. Dalla Dc al Ppi, dalla Margherita al Pd. In secondo luogo il suo coraggio. Certo, come per il carisma, in politica “o c’è o non c’è, è inutile darselo per decreto”, per dirla con Donat-Cattin. E Franco faceva del coraggio anche un atto di lotta politica e sindacale. E proprio nel sindacato come nella politica, Marini era conosciuto ed apprezzato per il suo coraggio e per la sua determinazione. In ultimo la lealtà. Marini era un uomo leale. E l’ha pagato pure a caro prezzo. È sufficiente ricordare l’esperienza, squallida e triste, della sua mancata elezione a Capo dello Stato quando buona parte dei parlamentari del Pd – partito che lui aveva contribuito a fondare – lo cecchinarono nel segreto dell’urna dopo aver fatto una regolare votazione per indicarlo come candidato. Un comportamento talmente squallido che poi portò questi miserabili, alcuni dei quali ancora presenti nelle aule parlamentari, a vantarsi pubblicamente di quel gesto vigliacco. Come reagì Marini? Con il suo consueto costume e stile. Con poche parole. Dicendo soltanto, come ricorda l’amico Castagnetti, “bastava dirmelo prima”. Ecco la lealtà e la trasparenza dell’uomo. Altrochè la rottamazione renziana e l’onestà grillina…

Del PD è stato, come hai ricordato, uno dei padri fondatori. Come ha vissuto il PD? Che idea aveva?
Il Pd, come ho detto poc’anzi, Marini ha contribuito in modo determinante a fondarlo. Certo, non era più in prima linea come con le altre esperienze partitiche. Ma lui credeva nel Pd ad una condizione. Essenziale e decisiva. Che non rinunciasse mai alla sua anima popolare, cattolico sociale e cattolico popolare. Credeva veramente in un partito plurale e detestava tanto i partiti personali quanto i cartelli elettorali. Ma l’ultima versione del Pd non lo convinceva più anche se continuava a frequentare le sempre più sporadiche assemblee nazionali e i pochi momenti di incontro collettivi. La visibilità politica, culturale ed organizzativa dell’area popolare la riteneva quasi una precondizione per poter garantire e coltivare la natura plurale del partito. Così non è più stato e così non è più. Ormai il Pd è un’altra cosa, ha un altro profilo e un’altra identità. Ma, per restare a Franco e al Pd, non posso non pensare che dopo il comportamento squallido ed indecoroso della vicenda Quirinale/2013, avesse un altro giudizio su quel partito. E non solo per la sua vicenda personale, ma per il modo di essere e di comportarsi nella concreta dialettica politica. In sintesi, e questo lo diceva apertamente negli ultimi anni anche se con garbo e discrezione, non era più il partito che lui, con altri, aveva contribuito a fondare nel lontano 2007.

Sulla stagione renziana come si è espresso?
Non nutriva risentimenti personali. Non rientravano nella sua concezione politica e della vita politica. Ma che il renzismo rappresentasse per lui il peggio della politica italiana non aveva dubbio alcuno. Prima dell’avvento del grillismo, ugualmente detestato. Sempre a livello politico, come ovvio.

Cosa ha da dire oggi, agli attuali dirigenti del PD, la figura di Marini?
Credo che il magistero politico, culturale, istituzionale e anche organizzativo di Franco Marini possa dire ancora molto alla politica italiana ma poco al Pd. A questo Pd. E questo perchè il suo modo di far politica, la sua cultura di riferimento e la sua stessa modalità di organizzare la politica e il suo progetto sono sostanzialmente estranei alle modalità concrete con cui il Pd si muove nella società italiana. Semmai, e questo lo credo profondamente, il suo magistero possa ancora dire molto, anzi moltissimo, a tutti quei cattolici che intendono intraprendere l’impegno politico. Nel pieno rispetto della laicità dell’azione politica senza alcuna deviazione clericale o confessionale e, soprattutto, nella coerenza con quella dottrina sociale cristiana che lo ha accompagnato in tutta la sua esistenza. Dall’impegno nell’associazionismo giovanile cattolico al sindacato, dalla politica al partito, dalle istituzioni alla vita normale di tutti i giorni. Aperto al confronto e al dialogo sempre. In ogni momento e in ogni istante ma senza rinunciare mai alla sua identità e alla sua cultura.

Ultima domanda. Torniamo all’inizio: perché hai dato quel titolo al libro? Sembra schiacciare politicamente Marini…
Per un motivo molto semplice. Marini era un uomo popolare perchè amava stare in mezzo alla gente. A tutta la gente. Indimenticabili, al riguardo, i suoi appuntamenti con gli alpini. E, inoltre, perchè Franco Marini era un Popolare autentico. Per la sua cultura e per il suo progetto politico.