Con Papa Francesco gli antichi schemi del cattolicesimo politico italiano sono spiazzati. Quali nuovi paradigmi per i cattolici italiani impegnati in politica? Ne parliamo con il Senatore Domenico Rosati, ex Presidente Nazionale delle Acli, autore del recente saggio, appena uscito per la casa editrice Dehoniane di Bologna, “I cattolici e la politica. Potere e servizio nello spazio pubblico”. “Senza la sfida di Francesco”, ammette Rosati, “il mio libro non sarebbe mai stato scritto: sarei rimasto nel limbo della rassegnazione“. Proprio nell’insegnamento di Francesco -da prendere sul serio- c’è invece la spinta a esplorare inedite vie di presenza e responsabilità dei cittadini cristiani. Non più con le paure da cittadella assediata ma con la fiducia di una nuova profezia.
Senatore Rosati, Lei è un testimone autorevole delle vicende del cattolicesimo democratico italiano, nel suo ultimo libro ripercorre la storia dei “paradigmi” con cui i cattolici italiani ci sono confrontati con l’azione: quella della “mediazione” e quella della “presenza”. Ora con Papa Francesco questi schemi saltano. Che tipo di paradigma sta creando la predicazione e la testimonianza di Papa Bergoglio nei confronti della politica?
Quello che salta davvero con Papa Francesco è il paradigma della chiesa come “soggetto politico” che in varia misura ha accompagnato le diverse stagioni dell’esperienza cattolica in Italia. Voglio dire che la chiesa ha sempre immaginato se stessa come detentrice di una sorta di rappresentanza politica diretta o indiretta sia quando, dopo Porta Pia, predicava il non expedit, l’astensione dal voto, sia quando patrocinava l’alleanza con i moderati giolittiani (patto Gentiloni), sia quando autorizzava (e condizionava) l’esperimento del partito Popolare di Don Sturzo, sia quando realizzava il compromesso concordatario con il fascismo, sia infine quando affidava alla Democrazia Cristiana il compito di dare sfigura politica, nelle forme delle conquiste democratiche, alle elaborazioni della sociologia cattolica. Il Concilio, per la verità, aveva già rotto questi schemi, che però non hanno mai abbandonato il campo anche nelle fasi successive.
Guardando alla storia degli ultimi vent’anni emergono debolezze e gravi limiti del “ruinismo”, ovvero il protagonismo pesante del Cardinale Ruini sul cattolicesimo politico italiano. La gestione centralizzata della Cei, la proposta sui “valori non negoziabili”, il velleitarismo del “Progetto culturale” , hanno fatto perdere il protagonismo creativo dei laici cattolici in politica. Quanto è costata ai laici cattolici la logica “clericale” in politica? L’impressione che si ha è che si faccia fatica a uscire dall’incubo notturno del ruinismo… Insomma non c’è una vera autocritica del passato, sembra che tutto scorra…Anzi in alcuni settori cattolici, anche della gerarchia, c’è resistenza al nuovo corso di Francesco. E’ così?
Il libro non è reticente sulle responsabilità del “ruinismo” e sulle conseguenze che causa in termini di clericalizzazione complessiva del comportamento ecclesiale. Ma, attenzione, il clericalismo è sempre un “peccato a due mani”, come ha detto papa Bergoglio: anzi io ritengo che mentre non stupisce un chierico che si dimostra…clericale, fa impressione un fedele laico che parla soltanto dopo che ha parlato il vescovo. In questo senso ho voluto offrire, ragionando sui fatti accaduti e sulla loro sequenza, una traccia per una riflessione critica necessaria per tutti, vescovi e fedeli. Senza questo passaggio in chiaro lo stesso applauso per le “novità” bergogliane è esposto ai rischi del conformismo clericale.
Ora attraverso quali percorsi si può ricostruire un protagonismo dei laici cattolici italiani?
Il riferimento obbligato è il Concilio e, con esso, l’autonomia e la responsabilità dei laici nelle cose del mondo. Per riscoprirlo bisogna però affrancarsi dall’ossessione che sin qui ha dominato la gerarchia cattolica in Italia: quella di un’idea di chiesa che ha bisogno, per esistere, di un potere politico vicino, possibilmente amico, comunque funzionale. E’ il grande assillo dalla perdita del potere temporale in poi: il timore cioè di rimanere priva di una protezione politica e spinta, perciò, cercarne una sul mercato, con conseguenze traumatiche ogni volta che l’”agenzia” prescelta non era più in grado di offrire garanzie. Il nuovo cammino può cominciare solo da una consapevolezza di questo genere.
Lei, nel suo libro, parla della “vecchia miniera” dove si possono estrarre ancora materiali preziosi per il presente. Quali?
Io maneggio gli utensili di cui dispongo, che sono, per ragioni anagrafiche, quelli del mio tempo. Ma ultimamente ho avuto la sorpresa di scoprire che una delle più recenti elaborazioni giovanili di area cattolica, la “carta del coraggio” del mondo scaut, cerca un’idea di sintesi che ripercorre in modo originale itinerari già seguiti in passato. D’altra parte vi sono stati filoni di scavo appena aperti e subito richiusi a causa di quella che Giuseppe Lazzati chiamava “l’inutile paura del nuovo”. Penso al modo con cui in Italia si sono liquidate le ricerche e le esperienze attorno alla gestione del pluralismo delle culture e delle scelte politiche dei credenti. Fino al punto da…censurare i testi che ne parlavano.
Invece, a partire dalla “vecchia miniera” , quali sono i nuovi punti fermi per un rinnovato, se ha ancora un senso, “cattolicesimo politico” italiano?
Eviterei di parlare di punti fermi, una formula che richiama una pratica disciplinare (la gerarchia comanda, i laici obbediscono) che andrebbe anche concettualmente superata. Indicherei invece, come esempi, una scelta di contenuto ed una di metodo. Il contenuto da mettere a fuoco, in compagnia di Francesco, è quello della “economia dello scarto”, che comporta l’abbandono di quel di più di benevolenza in favore delle virtù del capitalismo post-comunista che ha caratterizzato certe letture della dottrina, a scapito della radicalità evangelica.Il metodo è quello del dibattito a servizio di una esplorazione libera del terreno come condizione preliminare di ogni enunciato precettivo. Si chiama ance lettura dei segni dei tempi e comporta, se autentica, il dispiegarsi di un’opinione pubblica nella chiesa con il protagonismo dei laici come esperti delle questioni concrete, dal lavoro alla famiglia; e rimanda pure al metodo induttivo che va in crisi quando la dottrina avvolge e e vela la Parola.
Ultima domanda: Qualche giorno fa’ il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rispondendo ad un editoriale di “Repubblica” che lo invitava a chiarire la sua visione di società, affermava che nel suo Pantheon c’è, tra gli altri, Giorgio La Pira. Non vedo, in Renzi, un riverbero di La Pira…Lei che ne pensa?
Nell’occasione ho notato un certo affollamento. Ma resto fiducioso. Perché il richiamo a figure come La Pira, se c’è ed è autentico, lascia davvero poche scappatoie. Certe icone, se appena escono dalle teche dei Pantheon, mettono in crisi chiunque le utilizzi in modo strumentale e impongono una misura di verità da cui è impossibile svicolare. Semmai varrebbe la pena di non lasciare La Pira in solitudine. Vi sono altre figure che, nel tempo, hanno subito la condanna dell’oblio per essersi trovate in contrasto con le linee politico-pastorali dei tempi in cui hanno vissuto. Chi si ricorda ad esempio di Livio Labor? Rileggerne la lezione sarebbe un esercizio istruttivo nel quale potrebbero misurarsi con profitto associazioni e movimenti. Non per rimpiangere ma per costruire.