La “ricetta” politica del populismo europeo, oltre ad essere una risposta sbagliata ai problemi dell’Europa, mette in crisi quella, che è tra le più importanti, conquista sociale della modernità: il Welfare State. E’ la tesi del libro (“Populismo e Stato Sociale” Editori Laterza), appena uscito nelle librerie, dell’economista, Presidente dell’INPS, Tito Boeri. Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore.
Professor Boeri, nel suo saggio analizza il pericolo del populismo in Europa. Lei pensa che anche dopo le elezioni di Francia, Olanda e la vittoria, stando ai sondaggi, di Angela Merkel a quelle tedesche, il populismo costituisca ancora un pericolo per l’Europa?
Assolutamente si, la vittoria di Macron non deve far passare in secondo piano il fatto che anche al primo turno delle presidenziali francesi i partiti populisti hanno raccolto più del 40 % dei voti così come anche in Germania dove ci sono forti pulsioni in quel verso.
Non bisogna dimenticare che i populisti agiscono sulla partecipazione e il secondo turno delle presidenziali francesi, infatti, credo abbia toccato il livello più basso di partecipazione al voto della storia repubblicana. Quindi c’è un problema di disagio diffuso da cui possono fare spunto pulsioni di questo tipo.
Qual è la caratteristica più pericolosa del populismo europeo?
Credo che nel dare una lettura semplificata dei problemi tende, di fatto, ad allontanarne la soluzione, alla fine finisce per penalizzare gran parte delle persone che lo sostengono. Infatti quando li abbiamo visti alla prova (i partiti populisti) hanno fatto delle politiche che, se non nell’immediato, si sono riversate contro i ceti popolari (le persone a maggior rischio di vulnerabilità sociale).
La globalizzazione ha creato, certamente, opportunità ma ha fatto tante vittime a cominciare dal ceto medio basso. Insomma c’è un bisogno di sicurezza che porta acqua al mulino della propaganda populista. Come rispondere a questo bisogno?
Ci sono due fattori alla base del successo dei populisti: da una parte come diceva lei il disagio legato a queste sfide strutturali che provengono dalla globalizzazione: il progresso tecnologico che pongono sfide strutturali di protezione sociale a cui i nostri sistemi di protezione non sono in grado di dare delle risposte; dall’altro un problema legato alle classi dirigenti, le persone infatti da una parte sentono che non sono protette, dall’altra ritengono che le persone che potrebbero trovare i correttivi per migliorare i sistemi di protezione sociale sono corrotte e incapaci di gestire questo cambiamento. Per cui preferiscono rivolgersi a degli sconosciuti, che sono fuori dalla classe dirigente, che si presentano come figure nuove e le persone, a tal punto che, sfiduciate dalla classe dirigente, vogliono punire in tutti i modi la classe dirigente. La risposta quindi sta nel dare una risposta ai quesiti che stanno alla base dei populismi piuttosto che inseguire nelle loro posizioni, evitare di replicare perché loro saranno sempre più credibili sia come outsider che come persone che prendono una linea dura su diverse cose. Infatti la loro propaganda non ha mediazione, rifiutano la logica dei pro e dei contro e quindi è molto difficile seguirli nel loro terreno. La cosa fondamentale, quindi, è dare risposte ai problemi che stanno alle base dei disagi, questo è l’unico modo per essere efficaci.
Lei, nel suo libro, ha smascherato quello che è il vero pericolo insito nel populismo: ovvero la messa in crisi del welfare state europeo. Perché la “ricetta” populista mette in crisi lo Stato Sociale?
Perché di fatto mina alle fondamenta di molti aspetti che sono cruciali nel funzionamento del sistema di protezione sociale, il primo è quello di avere dei regimi, per esempio previdenziali, che comunque sono molto importanti nel sistema di protezione sociale che devono essere sostenibili. La propaganda populista sostiene che: ad esempio, c’è un pasto gratis tende a dire che bisogna abbassare i contributi e aumentare la generosità delle persone, e questo porta alla disgregazione di questo patto sociale. In secondo luogo perché chiudere le frontiere è qualcosa che può essere molto dannoso nella realtà a lungo andare, infatti come riportato nel rapporto annuale dell’ Inps, se non alimentiamo un flusso crescente di contribuenti di fronte all’invecchiamento della popolazione e al calo delle nascite abbiamo un problema molto serio di sostenibilità.
Immigrazione, è il punto debole dell’Europa: tante belle parole e pochi fatti. Come spiega questa assurda cecità europea?
Io non sono un commentatore politico, non è facile effettivamente coordinarsi tra paesi diversi nel gestire un problema comune, c’è sempre la tentazione da parte dei paesi che non sono periferici di scaricare su quelli che li sono il costo. È chiaro che c’è un problema che va affrontato trovando dei correttivi tra cui il fatto di prevedere delle forme di scambio tra i vari paesi con delle quote, credo, comunque, che anche l’Italia da sola possa gestire meglio questo fenomeno.
Lei fa una proposta molto interessante: quella del codice di protezione sociale che valga per tutti i paesi dell’Ue. Può spiegarci meglio la sua idea?
Significa, semplicemente, assicurare che il principio della libera circolazione dei lavoratori nell’ambito dell’Unione Europea venga rispettato e che i lavoratori si possono spostare all’interno dell’ Europa senza avere dei costi di portabilità dei diritti a livello sociale; al tempo stesso è un modo anche per impedire che ci siano abusi, per cui persone che percepiscono sussidi in un paese e lavorano in un altro. La proposta si può fare sul piano meramente amministrativo senza revisione dei trattati o consensi che a livello europeo sono molto difficili da trovare, ma semplicemente un coordinamento più forte tra le varie amministrazioni della protezione sociale a livello europeo, in altre parole questo vuol dire che quando c’è un lavoratore che arriva in un paese europeo di un’altra nazionalità e cittadino dell’unione, l’amministrazione che deve guardare al suo caso è in grado di risalire, in tempo reale, alla posizione assicurativa della persona accumulata in altri paesi. Questo consente un miglior monitoraggio dei flussi migratori all’interno dell’Unione. Il “codice di protezione sociale europeo” può diventare anche un fattore identitario, un modo di acquisire nei fatti la cittadinanza europea da parte di chi regolarmente contribuisce a finanziare lo stato sociale dei singoli paesi.