“Una lunga trattativa” un libro, del giornalista d’inchiesta Giovanni Fasanella, appena uscito in libreria, pubblicato dalla Casa Editrice “Chiare Lettere” che susciterà discussioni. Infatti non basta la verità giudiziaria. Nel mare di accuse e veleni che continuano a inquinare i processi in corso sulla trattativa Stato-mafia, con particolare riferimento alle morti di Falcone e Borsellino, e che hanno addirittura coinvolto indirettamente il presidente della Repubblica, è necessario provare a spostare il nostro angolo visuale e fare un passo indietro. La storia ci viene in aiuto per capire che cosa sta succedendo. La partita è troppo grossa perché possa rimanere nelle aule di un tribunale. In gioco è la Repubblica italiana, il nostro Stato. Entrambi nati con l’appoggio fondamentale della mafia. L’autore spiega come e perché.
Dalla vittoriosa cavalcata di Garibaldi aiutato dai picciotti siciliani durante la spedizione del 1860 agli omicidi impuniti d’inizio secolo che contaminano il tessuto economico-finanziario, all’alleanza col fascismo che si limitò a contrastare la manovalanza armata. Poi il patto di sangue con gli angloamericani nel 1943 per indirizzare la pace, seguito dagli omicidi e dalle stragi del dopoguerra perché la sinistra non avesse il sopravvento al Sud, fino alle tragiche vicende oggetto degli attuali processi.
Difficile ammetterlo, però è così: la mafia è stata una risorsa decisiva per lo Stato italiano sin dai suoi albori unitari offrendo appoggio anche militare a chi vigilava sul controllo “democratico” del paese e talora a chi sosteneva veri e propri disegni eversivi.
La magistratura non ce la può fare da sola a spaccare questa crosta spessa di bugie, inganni e depistaggi pilotati. In nome della pace e di una ragione che di Stato ha ben poco. Una pace insanguinata. Per la difesa di interessi internazionali, per il controllo del Mediterraneo. Una partita a scacchi che ci vede di volta in volta spettatori fragili e passivi, collaboratori interessati o eroi coraggiosi, fino alla morte.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Editore, l’introduzione dell’autore.
La fragilità della verità giudiziaria
Un’avvertenza, innanzitutto. Questo non è un libro di storia, ma
una ricostruzione giornalistica basata su testimonianze raccolte
dall’autore in vari periodi della sua attività e poi incrociate con
informazioni provenienti da fonti archivistiche, bibliografiche
e giudiziarie.
Il tema è la cosiddetta «trattativa Stato-mafia» che avrebbe
avuto luogo tra il 1992 e il 1993, nel traumatico passaggio dalla
Prima alla Seconda repubblica, quando le istituzioni sarebbero
scese a patti con le cosche concedendo benefici ai boss per indurli
ad abbandonare la strategia stragista. Da allora, ciò che accadde
in quella fase tra le più tragiche della nostra storia è argomento
al centro dell’attenzione pubblica. Riempie i fascicoli delle
inchieste della magistratura e le pagine della cronaca giudiziaria.
Alimenta i talk show televisivi. Arroventa le polemiche politicomediatiche.
Provoca durissimi scontri istituzionali. Ma non si è
mai riusciti a venirne a capo: si trattò davvero? e chi trattò con
chi? Né la giustizia né la politica hanno saputo o voluto dare
una risposta. Almeno una risposta soddisfacente: non parziale,
lacunosa o, peggio, di parte. Così, a molti anni di distanza dai
fatti, resta un vuoto di verità.
L’idea di scrivere il libro è nata – e non a caso – subito dopo
la clamorosa decisione della magistratura siciliana di chiedere la
revisione dei processi per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino
perché le undici sentenze di condanna che erano state emesse
contro boss e killer mafiosi si basavano su false dichiarazioni
di un finto pentito. Insomma, erano il frutto di un «colossale
depistaggio». Poi, man mano che procedevamo nel nostro lavoro
di ricostruzione, sono accadute tante altre cose che meritano di
essere perlomeno citate, perché confermano quanto sia difficile
districare sul piano giudiziario una matassa così complessa e
sensibile qual è il rapporto Stato-mafia.
Mentre crollava il castello processuale sulla morte di Borsellino,
il presidente della Commissione parlamentare antimafia, l’onorevole
Giuseppe Pisanu, già ministro dell’Interno, consegnava
alle Camere e all’opinione pubblica la sua verità: non vi furono
vere e proprie trattative, ma «parziali intese» tra boss mafiosi e
ufficiali del Ros dei carabinieri, delle quali nulla sapevano gli alti
vertici delle istituzioni, ha scritto nella sua relazione assolvendo
la politica e scaricando l’intera colpa sulle solite «mele marce»
degli apparati.
Poi è esploso il «caso Napolitano». Cioè l’intercettazione
di conversazioni riservate tra Nicola Mancino, ex ministro
dell’Interno controllato dalla Procura di Palermo nell’ambito
dell’ennesima inchiesta sulla «trattativa», e il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, a cui Mancino si era rivolto.
L’esistenza delle bobine, rivelata proprio dall’autore di questo
libro in un articolo su «Panorama»,1 ha provocato uno scontro
violento tra il Quirinale e i pm palermitani: il capo dello Stato,
convinto che la procura avesse abusato del proprio potere ascoltando
illegalmente le sue telefonate, ha sollevato un conflitto di
attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, che gli ha dato
ragione e ha ordinato la distruzione dei nastri. Così, l’opinione
pubblica non saprà mai per quale ragione il responsabile del
Viminale all’epoca delle stragi, sentendosi nel mirino della
magistratura, si era rivolto al presidente della Repubblica: l’aveva
fatto per chiedere consigli e protezione a un amico potente o
per richiamare l’attenzione del Quirinale sull’estrema delicatezza
delle inchieste palermitane e sui rischi per la tenuta delle stesse
istituzioni, nel caso le indagini fossero proseguite?
Nell’incertezza, mentre il libro era pronto per andare in stampa,
a Palermo si stava avviando a conclusione il secondo processo
sulla «trattativa» (imputati alcuni boss mafiosi e responsabili
del Ros) e un terzo stava avendo inizio (oltre ai mafiosi e agli
ufficiali dei carabinieri, imputati anche diversi uomini politici,
tra cui Mancino). Il tempo dirà se il terzo processo sarà anche
quello definitivo o solo un episodio di un sequel infinito. Ma
intanto, un ex procuratore di Palermo, poi capo della Direzione
nazionale antimafia, Pietro Grasso, all’indomani delle elezioni
politiche del febbraio 2013, è stato eletto presidente del Senato.
Sin dal giorno del suo insediamento ha ripetuto pubblicamente
che una verità non c’è, e bisogna continuare a cercarla attraverso
una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi mafiose
e su tutte quelle compiute in Italia da piazza Fontana (1969)
in poi: «Perché ci può essere un certo filo che collega le stragi
di terrorismo politico e le stragi di terrorismo mafioso. Ci
potrebbero essere ancora tante cose gravi da scoprire. E la cosa
peggiore, per un magistrato, è intuire e non poter dimostrare,
perché la verità giudiziaria non coincide con quella storica».
Figurarsi con quella politica.
Il silenzio di Stato
Il quadro è desolante. A parte le frasi di circostanza pronunciate
in occasione della celebrazione dei morti, di fronte alla
tragedia del 1992-93 la politica appare del tutto indifferente o
interessata a proteggere solo se stessa, mentre la magistratura
e la prima carica della Repubblica si ritrovano al centro di un
duro conflitto: l’ennesimo, nella storia giudiziaria italiana, tra le
ragioni della giustizia e quelle dello Stato. Il risultato, appunto,
è che ancora una volta l’opinione pubblica non sa il perché delle
bombe e dei tanti morti e feriti. Pietro Grasso, che pure era un
magistrato impegnato in prima linea, con all’attivo la cattura
di centinaia di mafiosi, dubita fortemente che, per ricostruire
la verità, basti da solo lo strumento della giustizia. Ed è difficile
dargli torto. Il fatto è che, fra tutti i nervi scoperti, quello del
rapporto Stato-mafia è di gran lunga il più sensibile. Perché,
come ha lasciato intendere lo stesso presidente del Senato, è
soltanto la punta di un iceberg, la cui parte sommersa si dilata
negli abissi della storia italiana.
È un rapporto antico, quasi una tara genetica. Perché nasce
e cresce con la stessa Italia. Si intreccia costantemente con le
sue vicende politiche interne e con le dinamiche geopolitiche
internazionali. Sin dal Risorgimento, entra con tutto il suo peso
nei passaggi cruciali della vicenda unitaria, condizionando la vita
pubblica e contaminando il tessuto economico-finanziario, la
cultura e persino la psicologia di una nazione. Difficile ammetterlo,
però è così: lo Stato convive con la mafia, ora in modo
conflittuale ora pacificamente, sin dai suoi albori unitari. Se
ne serviva quando occorreva, garantendole favori e impunità;
salvo poi scaricarla nelle fasi in cui diventava zavorra inutile
e ingombrante. È qui la verità, in questo rapporto perverso,
patologico. Ecco perché è così complicato, se non impossibile,
scriverla nelle sentenze giudiziarie. Eppure la si può intravedere
nitidamente se solo si prova ad allungare lo sguardo oltre le carte
processuali. Se si colloca l’epicentro geografico del fenomeno,
la Sicilia, nel suo contesto storico, politico e geopolitico. Perché
è lì la chiave per aprire quelle porte che la magistratura trova
sbarrate dal silenzio di Stato.
1 Giovanni Fasanella, Se il pm «ascolta» Napolitano, «Panorama», n.
27, 6/2012.