Stragi xenofobe e omicidi: anche in Italia troppe leggerezze sulle armi. Intervista a Giorgio Beretta

 

La strage del 20 febbraio scorso in Germania, in cui Tobias Rathien, un “lupo solitario” tedesco di 43 anni, ha ucciso nove persone e ne ha ferite quattro nel quartiere frequentato da immigrati turchi e curdi di Hanau, ha riportato all’attenzione il problema delle stragi di matrice xenofoba e razzista. Nell’intervista al giornalista Giovanni Tizian, abbiamo approfondito le questioni collegate al diffondersi, in Germania ma anche in Italia, di atti di violenza da parte di gruppi neonazifascisti che inneggiano al suprematismo razziale e al clima politico che li alimenta. Per approfondire ulteriormente il tema ne parliamo con Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (OPAL) di Brescia.

Lei ha evidenziato una serie di elementi che accomunano le recenti stragi di stampo xenofobo e razzista. Quali sono?

E’ importante, innanzitutto, ricordare almeno le principali stragi degli ultimi anni. La strage di Hanau in Germania (9 morti), è stata preceduta da quelle di El Paso in Texas (22 morti), della moschea di Christchurch in Nuova Zelanda in Nuova Zelanda (51 morti), della sinagoga di Pittsburgh in Pennsylvania (11 morti), della moschea di Quebec City in Canada (6 morti) e da numerose altre fino alla strage del 2011 nell’isola di Utoya in Norvegia (69 morti). Quattro sono gli elementi che accomunano queste stragi. Innanzitutto la matrice: sono ispirate da odio razziale e religioso di stampo suprematista, da antisemitismo e antislamismo e da fascinazioni di tipo nazifascista. In secondo luogo, la tipologia dell’esecutore: sono compiute da singoli, solitamente “lupi solitari” che non sempre fanno parte di gruppi suprematisti e neonazisti, ma che si ispirano alle loro istanze ed intendono diffonderle. In terzo luogo, il messaggio: nella gran parte di queste stragi, l’esecutore ha messo in rete un testo o dei video per diffondere la sua ideologia, il suo credo e i suoi ideali. Al riguardo va segnalato, positivamente, che la “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza” pubblicata qualche giorno fa, riporta per la prima volta l’elenco dei gravissimi attentati del neonazismo globalizzato. La relazione evidenzia al riguardo anche in Italia “l’emergere di insidiosi rigurgiti neonazisti, favorito da una strisciante, ma pervasiva propaganda virtuale attraverso dedicate piattaforme online, impiegate per veicolare documenti, immagini e video di stampo suprematista, razzista e xenofobo”. E’ un fenomeno, quindi, che viene giustamente attenzionato.

Diceva anche di un quarto elemento. Qual è?

Si tratta delle modalità di esecuzione. Queste stragi sono state compiute con armi regolarmente detenute e i perpetratori erano tutti dei legali detentori di armi. I primi tre elementi pongono all’attenzione il problema della diffusione dell’odio razzista anche da parte di partiti politici, delle ideologie di tipo nazifascita e suprematista, del controllo dei gruppi che le propagandano e dei loro simpatizzanti. La quarta dovrebbe porre all’attenzione il problema dell’accesso legale alle armi.

Perché la questione delle armi è così rilevante?

Per tre motivi. Innanzitutto per il tipo di obiettivo di queste stragi: l’utilizzo di armi da fuoco consente di fare una strage non solo all’aperto ma anche in luoghi chiusi, in spazi prestabiliti, in ambienti prescelti come una chiesa, una moschea, una sinagoga. In secondo luogo per l’efficacia: l’arma a fuoco, anche quella cosiddetta “comune” di non di tipo militare, permette di ammazzare un gran numero di persone in breve tempo, consente cioè al killer di compiere una vera e propria strage. La differenza si è notata, ad esempio, nell’attentato dello scorso ottobre nei pressi della sinagoga di Halle in Germania: il simpatizzate neonazista tedesco, Stephan Balliet, ha utilizzato armi che si era fabbricato artigianalmente che si sono inceppate e l’attentatore, che aveva ucciso due passanti, ha dovuto desistere. In terzo luogo per il significato, il simbolismo che veicolano le armi legalmente detenute. Compiere una strage con un’arma legalmente detenuta significa, per lo stragista, non solo differenziarsi da altri terroristi che usano armi illegali e strumenti impropri, ma ribadire di essere nella legalità e anzi contribuire a ristabilire quella legalità e quell’ordine che sente minacciato da fattori estranei alla “vera cultura”, alla “vera tradizione” della sua nazione e dell’Occidente.

L’accesso alle armi è un problema che riguarda solo gli Stati Uniti o anche l’Europa e l’Italia?

Riguarda tutti i paesi, Italia compresa. Come noto, la questione è fortemente dibattuta negli Stati Uniti dove le stragi e i mass-shooting sono stati commessi con armi legalmente detenute e dove la lobby delle armi, ed in particolare la National Rifle Association (NRA), si oppone tenacemente a politiche di controllo sull’accesso e la diffusione delle armi. Ma riguarda anche l’Europa: la direttiva europea che, dopo le stragi di Charlie Ebdo e del Bataclan, avrebbe dovuto mettere al bando i fucili d’assalto (tipo Ak-47 e  AR-15, quelli più usati nelle stragi negli Stati Uniti), di fatto ha messo al bando quasi niente. Anzi, dirò di più: in Italia è stata utilizzata per allargare le maglie sulla detenzione di armi. Nell’estate del 2018, il governo Conte, su pressione della Lega e con il consenso del M5s, ha recepito, unico in Europa, in senso estensivo la direttiva europea 853/2017: il numero di “armi sportive” (tra cui i fucili semiautomatici tipo AK-47 o AR-15) è stato raddoppiato portandolo da sei a dodici ed è stata raddoppiata anche la capacità dei caricatori acquistabili senza denuncia (da cinque a dieci colpi). Un autentico regalo ai produttori di armi che, come noto, sono molto vicini alla Lega e ai partiti di destra. Così, oggi, con una semplice licenza per il tiro sportivo, per la caccia o per mera detenzione (nulla osta), è possibile tenersi in casa tre pistole con caricatori fino a 20 colpi, dodici “armi sportive” (cioè fucili semiautomatici) con caricatori da 10 colpi e un numero illimitato di fucili da caccia. Un autentico arsenale, perfetto per fare una strage.

In Italia, però, a parte Macerata, non vi sono stati attentati di matrice xenofoba e razzista. Significa che da noi le norme sulle armi e i controlli sono efficaci?

Ha fatto bene a ricordare l’attentato di Macerata innanzitutto perché quella compiuta da Luca Traini è stata – come ha riconosciuto la Corte d’Assise di Macerata e ha confermato la Corte d’Appello di Ancona – una “strage aggravata dall’odio razziale”: la matrice xenofoba e razzista è quindi evidente ed è accertata. In secondo luogo perché, come noto, il suprematista bianco autore della strage di Christchurch, Brenton Tarrant, si è ispirato anche all’attentato di Macerata scrivendo il nome di Luca Traini su uno dei suoi caricatori. Ma soprattutto perché il militante nazifascista Luca Traini deteneva le armi legalmente. E’ vero che in Italia non siamo negli Stati Uniti dove le armi si possono acquistare al supermercato. Ma anche da noi non è affatto difficile prendere una licenza per armi. Oggi in Italia, a qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è infatti generalmente consentito di ottenere una licenza dopo aver superato un breve esame di maneggio delle armi. Questa facilità sommata ai controlli troppo blandi sui legali detentori di armi è all’origine di un problema spesso sottovalutato.

A cosa si riferisce?

Mi riferisco al problema degli omicidi familiari e dei femminicidi. Tutti gli studi – tra cui il rapporto Istat pubblicato ieri evidenziano una costante contrazione dagli anni novanta del numero di omicidi attribuibili sia alla criminalità organizzata di tipo mafioso sia alla criminalità comune. Diminuiscono molto meno e anzi sono sostanzialmente costanti gli omicidi di tipo familiare e i femminicidi: lo evidenzia un dettagliato rapporto diffuso l’estate scorsa dal Centro di Ricerche Economiche e Sociali Eures dal titolo “Omicidi in famiglia” (qui una mia recensione). C’è un aspetto particolarmente preoccupante. Nel 2018 quattro vittime su dieci in famiglia sono state uccise con armi da fuoco e, in almeno 42 casi (pari al 64,6%), negli omicidi familiari l’assassino risultava in possesso di un regolare porto d’armi, in 10 casi per motivi di lavoro. Il confronto con il numero di omicidi di tipo mafioso (19 nel 2018, dati Istat) e per “furti e rapine” (12 nel 2018) mette in luce un’evidenza inequivocabile: oggi in Italia le armi nelle mani dei legali detentori uccidono più dei rapinatori e della mafia. E ammazzano soprattutto le donne.

Ritiene, quindi, che l’accesso alle armi sia un problema sottovalutato in Italia?

Sì, fortemente sottovalutato e anzi volutamente e abilmente messo ai margini. Mi riferisco, innanzitutto, al tipo di informazione che viene divulgata soprattutto dai organi specializzati del settore armiero dai quali ci si aspetterebbe una sensibilizzazione adeguata circa i problemi relativi al possesso di armi in riferimento alla sicurezza pubblica. Ma c’è anche una propaganda mirata a minimizzare il problema ed anzi a legittimare la diffusione delle armi. E’ ciò che ha fatto, ad esempio, Matteo Salvini mostrandosi ripetutamente con armi in mano quando era ministro degli Interni e anche di recente: durante la visita alla fiera delle armi HIT Show di Vicenza, Salvini non ha mancato infatti di dire che “le armi ad uso sportivo e per le persone perbene non devono far paura a nessuno” (qui il video). Si tratta non solo di un’evidente sottovalutazione del problema gravissimo delle armi da fuoco negli omicidi in famiglia e nei femminicidi, ma rappresenta una pericolosa legittimazione della detenzione di armi nelle case e nelle famiglie. Le stragi di matrice razzista, il diffondersi di pulsioni xenofobe e l’espandersi di gruppi di ispirazione nazifascista dovrebbero indurre, invece, ad un’ampia revisione delle norme introducendo maggiori restrizioni sulle armi che si possono detenere e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. L’Osservatorio Opal ha da tempo avanzato varie proposte ed alcune iniziative di legge sono depositate in Parlamento: mi auguro che vengano presto esaminate.

 

 

 

 

Ma la difesa è “sempre legittima”? Una riflessione dalla parte delle vittime. Intervista a Elisabetta Aldrovandi  e Gabriella Neri

 

Il Senato ha approvato, nei giorni scorsi,  la nuova legge sulla legittima difesa. Il provvedimento passa ora all’esame della Camera. Il testo è passato con 195 favorevoli, 52 contrari e un astenuto. Il provvedimento è stato approvato grazie ai voti della maggioranza Lega-M5s a cui si sono aggiunti quelli dei senatori di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Contrari gli esponenti del Pd (che però approva l’articolo 2 su chi “agisce in stato di grave turbamento”) e di LeU.  Il testo approvato pone non pochi problemi di etica-politica Il testo allarma, tra gli altri, l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Altri osservatori pongono l’accento sulla regolamentazione dell’uso delle armi. I due temi sono correlati.  Infatti, secondo quanto evidenzia il “Primo Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia” del CENSIS, «Il rischio – scrive il CENSIS –  è di un aumento non controllato dei cittadini armati che, a fronte della presenza di una forte insicurezza tra la popolazione, potrebbe portare ad una pericolosa “americanizzazione” della società civile, con un aumento esponenziale di quanti sparano e di quanti uccidono». Il CENSIS avverte: «Con il cambio delle regole e un allentamento delle prescrizioni, ci dovremmo abituare ad avere tassi di omicidi volontari con l’utilizzo di armi da fuoco più alti e simili a quelli che si verificano oltre Oceano. Le vittime da arma da fuoco potrebbero salire in Italia fino a 2.700 ogni anno, contro le 150 attuali, per un totale di 2.550 morti in più». Un dato su cui a cui si dovrebbe prestare particolare attenzione prima di modificare la legge sulla legittima difesa.

Su questo tema, della regolamentazione, torneremo prossimamente. Oggi vogliamo offrirvi alcuni spunti di riflessione sulla legge a partire dalle vittime. Lo facciamo con due donne impegnate, sia pure da prospettive diverse, su questa frontiera. Si tratta di due donne che sono Presidenti di associazioni per le vittime (Aldrovandi per vittime di omicidi per rapine ecc,, Neri per le vittime di omicidi con armi da fuoco legalmente detenute). 

Avvocato Elisabetta Aldrovandi (Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime)

Avvocato, Può presentarci in breve l’Osservatorio: Come nasce e quali sono le finalità?

L’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime è una grande famiglia, formata da decine di vittime di reati violenti, donne stuprate, familiari di persone uccise durante aggressioni o da ex compagni, vittime di lesioni gravissime.Il nostro scopo è cambiare il sistema normativo, modificandolo in quelle parti in cui non fornisce adeguata tutela ai diritti delle Vittime, le quali troppo spesso, oltre a subire il fatto di reato, subiscono anche la beffa dell’ingiustizia nelle aule dei tribunali. E questo per una stratificazione legislativa che nel corso degli anni ha concesso molteplici benefici a pioggia a imputati e condannati, assottigliando sempre più i diritti delle Vittime di reato. Scriviamo, pertanto, disegni di legge, che sottoponiamo all’attenzione di parlamentari disposti a sostenerci, e che vengono depositati alla Camera e al Senato, perché crediamo fermamente che le battaglie per le Vittime si vincano partendo non dal basso, con manifestazioni e cortei, ma dall’alto, andando a modificare ciò che a livello legislativo non funziona.

 La vostra associazione si è fatta promotrice di varie proposte di modifica della legge sulla “legittima difesa”. Per quali motivi? E quali sono i punti più importanti che avete proposto? 

Sosteniamo questo disegno di legge di modifica della legittima difesa e del furto in abitazione e con destrezza perché nella nostra associazione abbiamo Franco Birolo, Francesco Sicignano, Mario Cattaneo, Graziano Stacchio, tutte persone che, per essersi difese da aggressioni di malintenzionati entrati in casa loro, hanno subìto mesi o anni di gogne processuali e mediatiche, con conseguente gravissimo turbamento emotivo, psicologico, familiare, e ingente danno economico per le spese legali affrontate, e quindi conosciamo da vicino le storie di persone che, per essere state costrette a difendersi dal pericolo di essere uccise, si sono difese e per questo hanno avuto, di fatto, l’esistenza rovinata. In agosto 2018 sono stata audita assieme ad alcuni di loro in Commissione Giustizia al Senato in merito al disegno di legge di modifica dell’art. 52 del Codice Penale, proponendo, tra gli altri suggerimenti, il patrocinio a carico dello stato indipendentemente dal reddito in caso di proscioglimento o assoluzione, l’impossibilità per l’aggressore ferito o per i suoi familiari, se ucciso, di chiedere i danni in sede civile, e, per il furto in abitazione e lo scippo, la sospensione della pena subordinata al risarcimento del danno alla persona offesa. Tutte proposte accolte e inserite nel testo di legge approvato in Senato.

La legge prevede che “…sussiste sempre il rapporto di proporzione quando qualcuno “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Pensa che possa esserci il pericolo che questa legge possa indurre i cittadini ad armarsi, con la conseguenza di avere ancora più vittime anche tra le persone che intendono difendersi da furti o rapine? Se sì, quali attenzioni andrebbero prese? 

Non ritengo che possa sussistere questo pericolo, poiché, se è vero che i casi principali di legittima difesa hanno visto l’uso da parte di chi si è difeso delle armi da fuoco, è altrettanto vero che in casa tutti noi possediamo armi atte a offendere, dai coltelli, alle forbici, a suppellettili di vario genere. In ogni caso, credo che si potrebbe pensare a una normativa che preveda l’introduzione di armi cosiddette da difesa “abitativa”, magari più leggere, meno offensive di quelle a uso sportivo o da caccia, seppure forse questa soluzione potrebbe, in realtà, avere l’effetto di aumentare considerevolmente il ricorso alle armi, anche da parte di chi, come per esempio le donne, nella maggior parte dei casi non le utilizza soprattutto per difficoltà nel maneggiarle e per il timore che un’arma da fuoco “classica” certamente provoca.

Gabriella Neri (“Ognivolta” onlus)

Signora Neri, ci può presentare in breve la vostra onlus? Come è nata e qual è l’impegno principale?

L’associazione “ognivolta – familiari e amici di Luca e Jan – Onlus” nasce nel 2012 in seguito ad un evento drammatico e luttuoso accaduto il 23 Luglio 2010 a Massarosa in provincia di Lucca, presso la Gifas Electric: mio marito Luca Ceragioli, direttore generale dell’azienda, e il suo collaboratore Jan Hilmer vennero uccisi a colpi di arma da fuoco dall’ex collega Paolo Iacconi, che poi si suicidò a sua volta nei bagni dell’azienda.

Quest’ultimo aveva alle spalle diversi tentativi di suicidio con psicofarmaci e altrettanti TSO e, nonostante questo, deteneva regolarmente un porto d’armi per uso sportivo e una pistola che quel giorno portò con sé per compiere quell’efferato omicidio.

Nel 2012 abbiamo fondato “ognivolta”, la cui mission è principalmente quella di fare pressione a livello parlamentare affinché la legislazione preveda controlli più efficaci in materia di rilascio e rinnovo delle licenze per porto d’armi, perché un’arma in mano a un soggetto disturbato psichicamente può essere fatale, come lo è stato per noi.

 In questi giorni il Senato ha approvato la modifica della legge sulla “legittima difesa” che ora passerà all’esame della Camera. Come valuta le modifiche alla legge? Pensa che siano possibili miglioramenti?

Quello che percepisco dal testo di questa legge, che va a modificare e “allargare” maglie di una normativa già esistente, è un’eccessiva autonomia nella difesa in situazioni di pericolo di persone o beni (categorie associate in modo evidentemente improprio), che a mio parere può andare a scapito della fiducia nelle Istituzioni che operano per la sicurezza dei cittadini. Mi crea perplessità che in una situazione di “grave turbamento” che cita la legge, si autorizzi una reazione anche con un’arma da fuoco,  perché proprio in uno stato emotivo alterato sorge il pericolo di reazioni incontrollate e di incapacità a gestire atti di difesa.

Nel disegno di legge è prevista l’assistenza legale a carico dello Stato per gli imputati che invocano la legittima difesa a seguito di un fatto di sangue nel proprio domicilio. Se questo nuovo provvedimento è ragionevole, devo però ricordare che lo Stato italiano non risarcisce in modo adeguato le vittime di reati violenti, tra cui le vittime di omicidi compiuti da legali detentori di armi. Sarebbe perciò necessario uniformare i diritti, o forse il “capitale umano” è vittima anch’esso di ideologie politiche?

C’è il pericolo che questa legge possa indurre i cittadini ad armarsi con la conseguenza di avere ancora più vittime, anche tra le persone che intendono difendersi da furti o rapine? Se sì, quali attenzioni andrebbero prese? 

Anche se i mezzi per difendersi possono essere di diversa natura, è innegabile che la “pistola sul comodino” sembra dare più sicurezza a chi vive in uno stato di paura nella propria abitazione o posto di lavoro. Paura spesso dettata dal condizionamento mediatico che non di rado mette in secondo piano le conseguenze che possono devastare la coscienza di una persona che toglie la vita ad un’altra, qualsiasi sia il motivo. Dico questo con convinzione, nonostante la mia vicenda personale. Non posso pensare che le nostre case, i nostri posti di lavoro, i luoghi dove condividiamo affetti, amori, fatiche, progetti e princìpi etici, siano minati da oggetti che per loro natura possono togliere la vita a un essere umano.

In ogni caso, le leggi dovrebbero garantire che quanto meno chi sceglie di avere con sé un’arma sia monitorato più di frequente e qualora insorgano problemi psichiatrici vi sia un collegamento in tempo reale fra strutture sanitarie e forze dell’ordine per provvedere ad un ritiro cautelativo del porto d’armi e dell’arma stessa, per evitare un uso che esploda in tragedie come la nostra.

 

 

 

L’ITALIA DEI RANCORI E HIT SHOW, LA FIERA DELLE ARMI. Interviste a: Piergiulio Biatta, Andrea Gnassi, Isabella Sala e Francesco Vignarca

Hit Show (Facebook/@HITShoeIEG)

Il terribile attentato di Macerata, in cui il giovane simpatizzante nazifascista, Luca Traini, ha scaricato dalla sua auto in corsa due caricatori di munizioni dalla sua pistola, legalmente detenuta per uso sportivo, contro le persone di colore ha riportato all’attenzione pubblica due temi: il diffondersi di sentimenti razzisti e xenofobi, alimentati dai veleni diffusi dagli “imprenditori della paura” e spesso accompagnati da manifestazioni di stampo fascista, e il controllo della diffusione delle armi.

Oggi, ad una settimana dall’attentato di Macerata, apre i battenti HIT Show (Hunting, Individual Protection and Target Sports), la manifestazione fieristica e salone delle “armi comuni” che da quattro anni si svolge a Vicenza. Le Amministrazioni comunali e provinciali di Rimini e di Vicenza sono tra i principali soci azionisti pubblici di Italian Exhibition Group (IEG), la società nata nel 2016 dalla fusione tra Rimini Fiere e Fiera di Vicenza, che insieme ad ANPAM (Associazione nazionale produttori di armi e munizioni) promuove la manifestazione fieristica.

Sempre a Vicenza, oggi, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia insieme alla Rete Italiana per il Disarmo terranno un incontro pubblico, organizzato già da tempo, dal titolo Insicurezza, rancore, farsi giustizia: dentro l’Italia che si arma“ (ore 15.00 presso la sala conferenze dell’Istituto Missionari Saveriani in viale Trento, 119)

Abbiamo intervistato, inviando domande scritte, gli amministratori locali di Vicenza e Rimini e i rappresentanti di OPAL Brescia e di Rete Disarmo : Andrea Gnassi è il Sindaco di Rimini; Isabella Sala è Assessore alla Comunità e alle famiglie di Vicenza; Piergiulio Biatta è presidente dell’Osservatorio OPAL di Brescia e Francesco Vignarca è coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo.

Sabato scorso, un giovane simpatizzante nazifascista, ha sparato dalla sua auto per le vie del centro di Macerata a tutte le persone di colore che incrociava. Il sindaco di Macerata ha commentato dicendo che “Non è un fatto isolato, c’è un fermento che dobbiamo essere in grado, in maniera esplicita e non ambigua, di fermare e combattere”. Qual è il suo pensiero in proposito? 

Andrea Gnassi
Io penso questo: il razzismo, la violenza, le discriminazioni di ogni tipo, vanno contrastate senza se e senza ma. Quello che è avvenuto nei giorni scorsi a Macerata è un atto terribile, tragico, che non deve essere derubricato a ‘follia di un singolo’ né ridotto nelle cause e negli effetti da qualsivoglia tipo di giustificazione. Che non c’è, non esiste: questo va detto chiaramente. Non si può rinunciare ad affermare la natura terrorista e fascista di quanto avvenuto nei giorni scorsi, ed è folle e letale anche il solo pensare a un nesso con altre situazioni. Sono d’accordo con il Ministro Del Rio: in Italia, e purtroppo non solo in Italia, c’è un evidente ritorno a evocare e a riferirsi a idee e a ideologie che sono state messe al bando dalla nostra Costituzione e sono state respinte nel momento in cui abbiamo deciso di essere uno stato libero e democratico. Il clima non è dei migliori, e spaventa perfino la leggerezza, l’inconsapevolezza, la superficialità, l’ignoranza, con cui certi simboli, certe parole di morte, di dolore, vengono riesumate. Non per questo dobbiamo stare zitti, in attesa che ‘passi la nottata’. Anzi, questo è il momento per evidenziare con determinazione e ostinazione l’anima stessa di un Paese che è nato perché ha scelto collettivamente di rifiutare la logica del terrore, della violenza, del razzismo

Isabella Sala
Il risveglio di una sottocultura razzista e fascista, in certi casi addirittura nazifascista, trova linfa nella paura del diverso in un contesto in cui tutti viviamo l’emergenza del problema immigrazione e dell’accoglienza profughi; ma non possiamo trasformare problemi mondiali, con cause complesse e strutturali, in semplificazioni e soluzioni urlate dalla politica per facili consensi quanto impraticabili nei fatti. Ci sono responsabilità politiche in capo ad ogni persona che ricopra ruoli di leadership. Gli amministratori e i politici hanno il dovere di aumentare la coesione sociale e diminuire, non certo fomentare, la tensione sociale. Impossibile in poche righe cercare di chiarire le responsabilità di ognuno: dalle cause dell’immigrazione forzata, ai Paesi in Europa che non fanno la propria parte, ai sindaci che accolgono o non accolgono pochi richiedenti asilo per comunità, al ruolo fondamentale dei media e di ogni cittadino, a una legge, la Bossi Fini, che va modificata. Prendere atto di un mondo cambiato è un dato di realtà, sapere cogliere l’opportunità che questo porta è la sfida dell’alta politica. De Gasperi diceva che lo statista guarda alla prossima generazione, il politico alle prossime elezioni. Io oso sognare ancora una politica che unisca i due concetti.

Qualcuno ha definito Luca Traini un “folle”, un “pazzo”, ma non sembra fosse in cura e anzi deteneva armi e munizioni con regolare licenza di tiro sportivo. Ciò dimostra, come rilevano in molti tra cui alcuni sindacati di Polizia, la troppa facilità con cui viene concessa questa licenza che oggi è quella più richiesta perché permette di detenere armi anche a chi non pratica alcuna disciplina sportiva. Come valuta la corsa alle armi che sta avvenendo nel nostro paese? 

Andrea Gnassi
Innanzitutto, rifiuto la motivazione del “pazzo” perché suona come una minimizzazione di qualcosa di più grave e strutturale. Certo, la componente individuale della follia ricorre sempre in episodi criminali, estremi ma senza dubbio il contesto socioculturale in cui l’aspetto del singolo sfocia in violenza non è secondario, anzi. Sul tema delle armi vedo una pericolosa, e anche in questo caso, superficiale rincorsa italiana a “mettere mano alla pistola” senza considerarne effetti e soprattutto esempi. Ci sono Paesi dove è acclarata la correlazione tra numero di omicidi, episodi di violenza e possibilità di accedere liberamente al possesso di armi da fuoco. La nostra Costituzione, le costituzioni dei Paesi europei, rifiutano da sempre la logica del “giustiziere fai da te” ponendo nella comunità, nello Stato, il compito e la responsabilità di garantire città e paesi sicuri e liberi. La risposta ai problemi, che ci sono ma come ci sono sempre stati, non può essere l’autodifesa, il fucile sotto il letto. Quello che accade dove ciò è consentito, dovrebbe essere portato come esempio di scuola. Non vogliamo vivere nel terrore di Columbine quotidiane. Ed è sorprendente, e mi si permetta anche spaventoso, che troppi partiti dell’arco cosiddetto “democratico” alimentino questa rincorsa o esplicitamente con la demagogia utile a un presunto “guadagno” elettorale o implicitamente con il silenzio.

Isabella Sala
Traini non è un “pazzo” ma un prodotto di una sottocultura che sogna il ritorno del fascismo e una idea di società che è antistorica. La sfida di oggi è la convivenza fra le differenze, ed è dimostrato che le società si sono arricchite da molti punti di vista praticando scambi economici, culturali, sociali; ciò oggi deve avvenire in una migrazione regolamentata, con quote e meccanismi che sono saltati da molti anni. Venendo alla domanda, certamente il tema della detenzione e dell’utilizzo delle armi è cruciale. Sei anni di licenza per il tiro sportivo, mi pare di capire senza la garanzia che la persona lo pratichi veramente, la possibilità di detenere varie armi, l’idoneità psicofisica, sono tutte situazioni che vanno vagliate e verificate. Se il mondo cambia, e i segnali non ci dicono che cambi con una maggiore consapevolezza individuale e sociale, devono essere modificate anche le regole, deve alzarsi la soglia di attenzione. La gravità del fatto di Macerata dal mio punto di vista è enorme; è la prima volta, da quanto mi risulta, che in Italia vi sia un atto del genere. Urliamo sempre, a gran voce, che siamo in una società diversa da quella della cultura delle armi degli Stati Uniti, è tempo di dimostrarlo con legislazione e fatti. E’ un segnale, che per fortuna non ha avuto esiti tragici, che deve servirci. Deve portare ad azioni concrete, che devono essere nella prossima agenda politica. Dobbiamo chiedere più Stato, più pubblica sicurezza, più giustizia, non più armi e più potere di detenerle e usarle.

Piergiulio Biatta
Il tentativo di catalogare l’attentatore e lo stragista come uno squilibrato, un malato di mente o come una persona instabile è una tipica tecnica che viene adottata dalle lobby delle armi negli USA per cercare di dimostrare che non vi sarebbe alcun legame tra i legali detentori di armi e il “folle” attentatore. Nelle stragi in USA, la maggior parte delle volte l’attentatore non è affatto un malato di mente o, per lo meno, non al punto da non permettergli di detenere legalmente le armi. Squilibrato lo diventa sempre dopo la strage: fino a cinque minuti prima era, per tutti, un cittadino onesto, incensurato, di condotta specchiata e possedeva armi ovviamente solo per le sue passioni sportive e per difendere sé stesso e i suoi cari “da aggressioni criminali e tiranniche”: così recita il mantra dei legali possessori di armi. La facilità con cui anche in Italia si può ottenere una licenza per armi è un grosso problema che abbiamo ripetutamente evidenziato e anche nei mesi scorsi con un comunicato stampa molto dettagliato che invito a leggere. Contrariamente al diffuso luogo comune, la legislazione italiana è di fatto sostanzialmente permissiva in materia di armi. Succede così che – come hanno messo in evidenza numerose inchieste giornalistiche – negli ultimi anni sempre più persone hanno fatto ricorso alla licenza per “uso sportivo”: questa licenza sta diventando il modo più semplice per avere armi in casa anche da parte di tutti coloro che non hanno alcuna intenzione di praticare le discipline sportive. Luca Traini, l’attentatore nazifascista di Macerata, era una di queste.

A Vicenza si tiene oggi la quarta edizione di HIT Show, la manifestazione fieristica e salone delle cosiddette “armi comuni”. Da anni numerose associazioni di Vicenza, insieme all’Osservatorio OPAL e a Rete Disarmo, chiedono maggior trasparenza e regole più rigorose, tra cui il divieto di accesso ai minori e di sostegno a campagne che intendono promuovere leggi meno restrittive sulle armi. Qual è la sua posizione riguardo a queste e altre criticità? Questa fiera non rischia di incentivare la diffusione delle armi?

Isabella Sala
Sono d’accordo nel regolamentare in modo il più possibile stringente le modalità espositive e di visita, nel rispetto della legge e delle autonomie e ruoli di ogni soggetto coinvolto. Come assessore alla pace, nel rispetto dell’articolo 2 dello Statuto del Comune e in linea con l’articolo 11 della Costituzione, cerco di promuovere una cultura rivolta alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, non a promuovere la produzione e la vendita di armi. In questi anni, all’interno della mia delega, in collaborazione con la Casa per la Pace, abbiamo promosso laboratori di risoluzione nonviolenta e creativa del conflitto nelle classi, formazione per i docenti, e stiamo sostenendo un corso sulla mediazione umanitaria anche rivolta ad alcuni operatori comunali. Il conflitto, i modi diversi di vedere la vita fanno parte della vita stessa: è la gestione di questi che non deve essere violenta. E’ fondamentale educare i giovani alla convivenza e alla nonviolenza, all’accoglienza, contrastando la cultura del “nemico”. La responsabilità più grande è dei genitori, di tutti gli educatori e, a sostegno della famiglia sempre più in difficoltà in una società “sciolta”, della comunità tutta. Il sindaco ha scritto che non porterebbe, da genitore, a Hit Show suo figlio. Naturalmente mi associo, e aggiungo che, da madre, ho regalato molti anni fa al mio bimbo una pistola giocattolo. Non lo farei più. Non perché lo abbia condizionato, ma perché credo ogni nostro atto sia importante, è una scelta culturale.

Piergiulio Biatta
Fin dalla prima edizione di HIT Show, quattro anni fa, abbiamo evidenziato un problema fondamentale. HIT Show è, infatti, l’unico salone fieristico che assomma tre caratteristiche che ne fanno un evento quanto mai anomalo rispetto agli altri saloni fieristici nei paesi dell’Unione europea. Innanzitutto a HIT Show sono esposti tutti i tipi di “armi comuni” (per la difesa personale, per forze dell’ordine e private securities, per il tiro sportivo, per le attività venatorie, per collezionismo, armi demilitarizzate, repliche di armi antiche, per il softair ecc., cioè di fatto tutte le armi tranne quelle propriamente definite “da guerra”) al quale è consentito l’accesso al pubblico e anche ai minori purché accompagnati da un adulto. Una notevole differenza rispetto, ad esempio, al maggiore salone europeo “IWA Outdoor Classic” di Norimberga dove, seppur siano esposte le stesse tipologie di armi, l’accesso è permesso solo agli operatori professionali accreditati ed è esplicitamente vietato l’ingresso – cito dal regolamento – “ai cacciatori, tiratori, membri di associazioni di caccia e tiro e tutte le persone che non operano a livello professionale nel settore armiero e ai minori di 18 anni”. Inoltre, e questa è un’ulteriore anomalia, a HIT Show non è esplicitamente vietata la promozione di petizioni e campagne di chiara rilevanza politica: negli anni scorsi sono state promosse iniziative a favore della modifica della legge sulla legittima difesa e finanche si sono tenute conferenze, con un esponente politico di una sola parte, volte a contrastare l’introduzione a livello europeo di normative più rigorose sulle armi. In sintesi: HIT Show non è, come i promotori intendono far credere, un mero salone espositivo per sportivi ed appassionati, ma è una chiara operazione ideologico-culturale a favore della diffusione delle armi. Ed è per questo che abbiamo chiesto alle Amministrazioni di Rimini e Vicenza, che sono i maggiori azionisti pubblici di IEG, di promuovere norme precise e rigorose: finora, di fatto, nulla è cambiato.

Lo scorso settembre, il Consiglio Comunale di Vicenza ha approvato all’unanimità una mozione che impegna l’Amministrazione comunale, in ragione della sua partecipazione azionaria in Italian Exhibition Group (IEG), ”ad esercitare la sua preziosa moral suasion nei confronti degli organizzatori di HIT Show, perché si arrivi al più presto e, comunque, prima della prossima edizione a definire un nuovo regolamento che riguardi sia i visitatori che gli espositori della manifestazione fieristica”. Anche in Consiglio Comunale a Rimini vi è stata un’interrogazione sullo stesso argomento. Nonostante questo impegno, al momento non è stata apportata alcuna modifica al Regolamento del Visitatore di HIT Show. Perché non si è arrivati ad una modifica del Regolamento?

Andrea Gnassi
Metto assieme le due domande per una risposta complessiva. A novembre, a seguito di una condivisibile interpellanza consiliare avanzata dal consigliere Kristian Gianfreda (Rimini Attiva) critico rispetto alle modalità di accesso dei minori alla manifestazione vicentina Hit Show, l’assessore Gianluca Brasini ha scritto al management IEG chiedendo spiegazioni. IEG ha risposto con una comunicazione tecnica molto dettagliata, in cui si sottolinea comunque il divieto espresso e inserito nel regolamento della manifestazione per i minori al libero ingresso se non accompagnati da adulti, così come al maneggiare armi. Per carità, risposta corretta e esaustiva, ma ciò non toglie il senso delle questioni sollevate da numerose associazioni e dalle iniziative consiliari di Vicenza e Rimini. Io credo che occorra uno sforzo in più rispetto a un articolo di un regolamento, in cui peraltro mi pare – ma posso sbagliare – non sono indicate sanzioni per i trasgressori. E questo sforzo non occorre solo nella direzione del controllo del rispetto di questa indicazione regolamentare, comunque necessario più che auspicabile, ma del messaggio che, in un mondo complesso e contraddittorio come quello attuale, si veicola in ogni cosa che facciamo. Io penso che se questa riflessione ‘culturale’ e ‘educativa’ la compie un consiglio comunale, un gruppo di associazioni, pezzi interi di società, essa possa appartenere anche a chi gestisce e organizza queste manifestazioni. Voglio essere chiaro: considero il dibattito di questi mesi intorno a Hit Show un’occasione di lavoro e uno stimolo utile a tutti per meglio decidere in futuro; e con ‘meglio’ mi riferisco all’interesse collettivo e al bene comune, a partire da quello dei ragazzi. Non mi interessa una polemica che occupa lo spazio di un mattino e poi viene dimenticata nei 364 giorni successivi. Se oggi c’è questa discussione è il segno di una sensibilità crescente, anche in ragione dei terribili fatti di sangue ultimi o meno, che non va snobbata o peggio dimenticata. Noi come Comune di Rimini facciamo e faremo in modo che non sia così. Oggi e in futuro.

Isabella Sala
In questi anni abbiamo dialogato molto nel reciproco rispetto con la Fiera e con molte associazioni e istituzioni. Nell’ottobre 2016 abbiamo organizzato un convegno con l’allora viceministro Bubbico, sostenitore dell’importante normativa europea di contrasto alla diffusione delle armi, con i rappresentanti dei produttori di armi e del mondo che opera per il controllo delle stesse. Abbiamo portato avanti, come amministrazione, l’attenzione che ci hanno chiesto molte associazioni verso i minori e per un regolamento condiviso. Ora, alle soglie di una nuova edizione, l’Amministrazione ha chiesto alla Questura e alla Fiera la massima attenzione nel verificare e sanzionare, secondo i termini di legge, ogni comportamento contrario alla normativa, in particolare il fatto che il minore non debba impugnare armi. Anche sul tema della diffusione di materiali e di campagne di informazione la fiera in questi anni si è impegnata a impedire campagne promozionali e “politiche” in modo ferreo. Ogni anno vengono compiuti a mio parere dei passi avanti nell’attenzione e nella sensibilizzazione di tutti. Il comune di Rimini ha dimostrato una attenzione che, vista l’importante presenza in IEG, potrà portare a un lavoro comune per la prossima edizione. Il timore delle associazioni, che condivido, non riguarda la cultura venatoria, ma la nuova cultura della diffusione di armi che sono specchio, insieme causa e conseguenza, di una cultura di violenza sempre più diffusa, nei pensieri, nelle parole, nelle azioni, e che va contrastata senza se e senza ma.

Piergiulio Biatta
Purtroppo, come ho detto, nonostante gli impegni assunti dall’Amministrazione comunale di Vicenza, il Regolamento di HIT Show non è cambiato ed è tuttora consentito ai minori, purché accompagnati da un adulto, di entrare a HIT Show. Non solo: addirittura quest’anno è stato reso gratuito l’accesso ai bambini al di sotto di sei anni, un ulteriore incentivo alla presenza di minori. Ma soprattutto tra le associazioni e comitati che sono ospitati in fiera ve ne sono alcuni che, dietro la facciata della “difesa dei diritti (!) dei detentori legali di armi” hanno come obiettivo dichiarato quello di fondare anche in Italia una lobby come la National Rifle Association (NRA) degli Usa. E sono proprio questi comitati ad avere il diretto sostegno di Anpam (Associazione Nazionale Produttori di Armi e Munizioni) che, insieme a Italian Exhibition Group (IEG), è uno dei promotori di HIT Show. Anzi, di più: Anpam, Assoarmieri e Conarmi, cioè l’intero comparto produttivo (Beretta, Fiocchi, Tanfoglio ecc.) e distributivo armiero italiano, sostengono la campagna di tesseramento a questi comitati. Ripeto: è un’operazione ideologico-culturale che non ha niente a che fare con una fiera espositiva e merceologica. La differenza con IWA di Norimberga, con la quale HIT Show intende competere, è sostanziale anche su questo punto: a Norimberga non vengono ospitati, e men che meno sostenuti, comitati che promuovono iniziative di chiara rilevanza politica ed ideologica. Non aver fatto nulla, nemmeno su questo, è una gravissima mancanza delle Amministrazioni di Rimini e Vicenza che non possono continuare a rimandare il problema.

Francesco Vignarca
Crediamo che due siano i compiti che le amministrazioni pubbliche devono ottemperare: promuovere regolamentazioni e favorire la massima trasparenza. Riteniamo che le amministrazioni comunali e provinciali di Rimini e Vicenza, che hanno nel loro insieme il maggior pacchetto azionistico di IEG, possano far valere la loro voce presso gli amministratori di IEG che, insieme con Anpam, organizza il salone fieristico HIT Show. L’anno scorso, voglio ricordarlo, era stato pubblicato sul sito ufficiale di HIT Show un Regolamento Espositori che indicava, seppur sommariamente, le armi che non possono essere esposte in fiera, ed un Regolamento Visitatori che vietava espressamente l’ingresso ai minori di 14 anni. A seguito delle pubbliche proteste di alcuni esponenti del mondo politico veneto e di alcune associazioni di cacciatori, Italian Exhibition Group modificò il Regolamento Visitatore reintroducendo il permesso di ingresso a tutti i minori purché accompagnati e rimosse il Regolamento Espositori giustificandosi dicendo che si era trattato di “un equivoco dovuto ad uno spiacevole refuso”. Da quel momento nulla è cambiato e riteniamo che la mancanza di regole e di trasparenza sia inammissibile per una fiera che punta a diventare l’appuntamento di riferimento in Italia e in Europa per il comparto armiero made in Italy. “Vicenza Oro”, il salone internazionale che si tiene sempre a Vicenza Fiere, è riservata esclusivamente agli operatori del settore e sfoggia un regolamento sulle filiere trasparenti, certificate, etiche ed eco-sostenibili. Perché HIT Show non può fare lo stesso?

 

Il conflitto in Yemen e le forniture militari italiane ai sauditi. Intervista a Mimmo Cortese

L’inchiesta del New York Times sulle bombe italiane utilizzate dall’aeronautica militare saudita nel conflitto in Yemen ha riacceso l’attenzione e il dibattito sulle esportazioni di armamenti. Sollecitata dal prestigioso quotidiano d’oltreoceano, la Farnesina ha diffuso un comunicato e diversi commentatori hanno cercato di giustificare le forniture di sistemi militari alle forze armate della monarchia saudita. Nei giorni scorsi, a fronte della gravissima situazione umanitaria nello Yemen per il perdurare del conflitto, la Norvegia ha annunciato la sospensione delle esportazioni di armamenti oltre che ai sauditi anche agli Emirati Arabi Uniti. Il Parlamento europeo si è già ripetutamente espresso chiedendo di imporre un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Intanto, per garantirsi autonomia nel munizionamento militare, l’Arabia Saudita ha fatto sorgere una fabbrica alle porte di Riad. Facciamo il punto della situazione con Mimmo Cortese, membro del Consiglio scientifico dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

L’inchiesta del New York Times sulle bombe prodotte in Sardegna dalla RWM Italia ed utilizzate dall’aviazione saudita nei bombardamenti anche sulle zone civili in Yemen ha riportato all’attenzione pubblica il conflitto che si sta consumando nello Yemen. Dopo oltre mille giorni di conflitto, qual è la situazione in Yemen? 

La situazione è terribile. Un paese già molto povero è stato devastato dalla guerra e dalle sue conseguenze più nefaste come le malattie e l’indigenza. Le Nazioni Unite l’hanno definita “la più grande crisi umanitaria al mondo“. Non è possibile avere dati precisi, ma i morti civili stimati dalle agenzie internazionali vanno dai 20mila ai 40mila, con 7 milioni di persone ridotte alla fame. Secondo il capo degli Affari umanitari dell’Onu, Mark Lowcock, ci troviamo davanti alla “più grande carestia che il mondo abbia mai visto da molti decenni, con milioni di vittime”. Inoltre, 800mila persone sono state colpite dall’epidemia di colera, la più grave oggi nel mondo, che ha già causato già più di 2mila morti. E mentre continuano abusi e bombardamenti indiscriminati stiamo anche assistendo al ritorno della difterite, una malattia che si ripresenta quando vengono meno i servizi sanitari e idrici di base. L’inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU ha inequivocabilmente affermato che “non esiste una soluzione militare al conflitto“ e ha ribadito che “solo un processo di pace inclusivo che includa tutte le parti nello Yemen può portare una soluzione pacifica, fattibile e sostenibile per il popolo dello Yemen”.

 

In questo quadro così drammatico ha suscitato non poche critiche la risposta del governo italiano al reportage del New York Times. In un comunicato, la Farnesina afferma che “l’Italia osserva in maniera scrupolosa il diritto nazionale ed internazionale in materia di esportazioni di armamenti” che “l’Arabia Saudita non è soggetta ad alcuna forma di embargo, sanzione o altra misura restrittiva internazionale o europea”. Voi insieme alla Rete italiana per il Disarmo e diverse altre associazioni già da tempo criticate queste posizioni, perché? 

Riteniamo sia un’affermazione grave poiché manifesta non solo un’inammissibile ignoranza ma soprattutto perché rappresenta un’evidente intenzione di ridurre la portata della norma da parte del Ministero degli Esteri. La legge 185/90, che regolamenta l’export di armamenti, non vieta solamente le forniture a Paesi sottoposti a misure di embargo, ma anche “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”. Come ha ben documentato, Giorgio Beretta, uno dei nostri principali analisti, le forniture di armamenti ai sauditi violano anche un’importante norma comunitaria, la Posizione Comune europea sulle esportazioni militari. La Farnesina e il governo italiano, inoltre, hanno del tutto ignorato tre risoluzioni adottate ad ampia maggioranza dal Parlamento Europeo che hanno chiesto all’Alta rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri, Federica Mogherini, di avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’Ue di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita. Risoluzioni, va detto, cui l’Alta Rappresentante finora non ha dato alcun seguito.

 

Nei giorni scorsi, sul sito “Affari Internazionali” è apparso un articolo di Michele Nones, consulente del Ministro della difesa Pinotti, in cui si afferma che sia “fuorviante” sostenere che “l’Arabia Saudita andrebbe considerata come coinvolta in un conflitto perché interviene insieme ad altri paesi a sostegno del governo dello Yemen”. E lo collega alla lotta al terrorismo internazionale. Come valuta questa posizione?

Innanzitutto va detto che l’intervento militare della coalizione a guida saudita non è mai stato legittimato dal Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite. La Risoluzione 2216 del 14 aprile 2015, infatti, prende solo atto della richiesta del presidente yemenita ai Paesi del Golfo e della Lega Araba di intervenire con tutti i mezzi, compreso quello militare, per – si noti bene – “proteggere lo Yemen e la sua popolazione”. L’intervento militare che ne è seguito ha invece visto pesanti bombardamenti da parte della coalizione saudita anche sulle zone abitate da civili. Bombardanti effettuati anche con bombe fornite dall’Italia e che il rapporto degli esperti dell’Onu ha dichiarato che “possono costituire crimini di guerra”. Riguardo al contrasto al terrorismo internazionale va segnalato che nello Yemen sia Al Qaeda che l’Isis-Daesh si sono rafforzati ed hanno guadagnato posizioni proprio a seguito del protrarsi del conflitto. L’affermazione del professor Nones ritengo sia incommentabile, soprattutto di fronte alla tragedia che stanno vivendo milioni di persone in Yemen. Anche per questo abbiamo chiesto alla Ministra Pinotti di chiarire se quelle dichiarazioni rappresentano il suo pensiero.

Il professor Nones inoltre parla, in riferimento alla guerra in Yemen e alla lotta al terrorismo, di “inevitabili vittime civili”. Un’aberrazione in senso generale che diventa però assolutamente inaccettabile di fronte alla catastrofe umanitaria di cui stiamo parlando. Stabilire che decine di migliaia di persone debbano morire, indiscriminatamente, per una scelta politica avallata da un governo di una nazione come l’Italia che, sollevatasi dalla tragedia del fascismo e della Seconda guerra mondiale, ha scritto, nell’articolo 11 della Costituzione, che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” rappresenta un chiaro stravolgimento del nostro dettato costituzionale.

 

Intanto ci sono nuove notizie. Nei giorni scorsi il Ministero degli esteri della Norvegia ha comunicato di aver sospeso le licenze all’export di armi e munizioni agli Emirati Arabi Uniti per i rischi associati all’impegno militare degli Emirati in Yemen. Il recente rapporto del vostro Osservatorio riporta, invece, che l’Italia non solo ha incrementato l’esportazione di armamenti all’Arabia Saudita, ma che continua a rifornire di munizionamento anche gli Emirati Arabi Uniti.

 La Norvegia ha da tempo vietato le esportazioni di sistemi militari all’Arabia Saudita, così come hanno fatto altri paesi dell’Unione come Germania, Svezia e Paesi Bassi. Questa nuova decisione è stata presa anche sulla spinta di diverse campagne di pressione da parte di associazioni norvegesi ed europee per la tutela dei diritti umani. Il nostro paese, invece, continua ad esportare bombe non solo agli Emirati ma anche ai sauditi: la licenza per la fornitura all’Arabia Saudita di 19.675 bombe del tipo MK 82, MK 83 e MK 84 del valore di 411 milioni di euro, rilasciata dal governo Renzi nel 2016, rappresenta la maggiore autorizzazione per l’esportazione di bombe aeree mai rilasciata da un governo italiano dal dopoguerra. Il fatto preoccupante tuttavia è che vendiamo armi, con trend sempre crescenti negli ultimi anni, a paesi nei quali i diritti umani sono gravemente violati e in zone di forte tensione se non a paesi chiaramente in conflitto.

 

Nei giorni scorsi però è apparsa la notizia che la Rheinmetal Defence potrebbe trasferire l’attuale produzione di bombe aeree dalla Sardegna alla sua azienda in Arabia Saudita. Qual è stata finora la posizione dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali? E qual è la sua opinione in merito? 

L’investimento militare, benché redditizio, è per sua natura instabile. Lo dimostrano numerosi studi e ricerche e lo sanno bene gli analisti economici del settore. In questo caso – anche mettendo tra parentesi, solo per un momento, il problema non semplice della fabbricazione di ordigni letali – quando si punta su una produzione legata alla contingenza di un conflitto armato, è difficile pensare che non possano accadere situazioni come quella che si sta profilando alla RWM. Le delocalizzazioni non sono un fenomeno nato ieri. Il punto centrale, tuttavia, è che proprio l’articolo 1 della legge 185/90 impegna il Governo a predisporre “misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa”. Sono lustri che non vediamo attuata questa importante prescrizione di una legge dello Stato: se venisse messa in atto, anche situazioni come quelle che sta vivendo la Sardegna potrebbero essere scongiurate.

La foto è tratta dall’inchiesta del NYT

HIT Show, la fiera italiana delle “armi comuni”. Intervista a Piergiulio Biatta

Un minore a HIT Show maneggia le pistole in esposizione

 

Si è da poco concluso “HIT SHOW” (11-13 febbraio), la manifestazione dedicata alla caccia, al tiro sportivo e alla “individual protection” che da tre anni si tiene presso la fiera di Vicenza. I promotori dell’evento hanno comunicato i numeri del successo: quasi 40mila visitatori, buyers da 14 paesi, un aumento del 17% del numero di brand, superficie espositiva ampliata sino a 37.500 metri quadri. Ma a far notizia sono state soprattutto le polemiche riguardo all’ingresso dei minori, sulle armi esposte e le attività che si svolgono in fiera. Ne parliamo, in questa intervista, con Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

Già prima dell’apertura del salone fieristico vi sono state diverse critiche nei confronti di HIT Show: che cosa è successo?

La settimana prima dell’inizio dell’evento, il sito ufficiale di HIT Show riportava chiaramente il divieto di ingresso ai minori di 14 anni: divieto che era esplicitato anche nel “Regolamento del visitatore” e all’atto d’acquisto online dei biglietti. Una importante novità rispetto alle due edizioni precedenti nelle quali era invece possibile l’ingresso a tutti i minori purché accompagnati da un adulto. La novità non era certo frutto del caso: si presentava, infatti, come un parziale accoglimento delle proposte fatte da numerose associazioni nazionali e vicentine, tra cui il nostro Osservatorio e la Rete italiana per il disarmo, che negli anni scorsi avevano sottoposto all’attenzione dei promotori di HIT Show e all’Amministrazione comunale di Vicenza una serie di criticità riguardo alla manifestazione fieristica: tra l’altro, questa importante novità era stata comunicata anche all’Amministrazione comunale di Vicenza. Apriti cielo! E’ bastato quell’annuncio a scatenare le proteste di alcuni politici veneti e di qualche associazione di cacciatori e di “appassionati di armi” che hanno addirittura sventagliato l’idea di ritirare il loro stand dalla fiera e diffuso messaggi invitando a disertare la fiera. Ma ancor più incredibile è stata la riposta di HIT Show: nel giro di poche ore di un sabato sera, i promotori della fiera non solo hanno fatto marcia indietro ma, come se nulla fosse successo, hanno comunicato che quel divieto era da attribuirsi ad «un equivoco dovuto ad uno spiacevole refuso». Una spiegazione patetica ed inaccettabile per chi è a conoscenza dei fatti.

Quali sono le criticità che rilevate nella fiera HIT Show?

HIT Show si distingue nel panorama dei saloni espositivi di “armi comuni” che si tengono nei paesi dell’Unione europea – e ci limitiamo a questi perché credo che nessuno sia disposto ad accettare raffronti con le fiere di armi negli Stati Uniti o nei paesi extracomunitari – per alcune caratteristiche che lo rendono un evento peculiare e anomalo. Innanzitutto è l’unica manifestazione fieristica nell’UE in cui vengono esposti tutti i tipi di “armi comuni” (per la difesa personale, per forze dell’ordine e private securities, per il tiro sportivo, per le attività venatorie, per collezionismo, repliche di armi antiche, ecc., cioè di fatto tutte le armi tranne quelle propriamente definite “da guerra”) alla quale è consentito l’accesso ai minori. Una notevole differenza rispetto, ad esempio, al maggiore salone europeo “IWA Outdoor Classic” di Norimberga dove, seppur siano esposte le stesse tipologie di armi, l’accesso è permesso solo agli operatori accreditati ed è esplicitamente vietato ai minorenni. In alcune fiere dei paesi UE è permesso l’ingresso ai minori, purché accompagnati, ma si tratta di fiere tematiche (per la caccia, per il tiro sportivo, per attività ricreative, ecc.) che non espongono tutto l’armamentario che si può trovare a HIT Show. Non solo: a HIT Show non vi è alcun esplicito divieto per gli espositori a raccogliere firme per petizioni, campagne e raccolte fondi per ogni tipo di iniziativa: e, si noti, tra gli espositori figuravano anche alcune associazioni che promuovono campagne per modificare le leggi sulla legittima difesa, per ampliare le condizioni per il porto d’armi e che incoraggiano a detenere armi per la difesa personale. Ancor di più: vi è un “espresso divieto” ai minori di maneggiare le armi esposte, ma a dover vigilare sono gli accompagnatori e non c’è alcuna sanzione per le violazioni. Succede perciò – come hanno chiaramente mostrato le foto di alcuni giornali locali e le immagini di trasmissioni televisive nazionali, che i minori imbraccino armi di ogni tipo pressoché indisturbati.

E quindi qual è la vostra opinione riguardo a HIT Show?

Tutte le attività che ho segnalato non appartengono ad una fiera di tipo espositivo e commerciale che – come affermano gli stessi promotori – ha una propensione al “business to business”, cioè agli affari tra aziende, e che intende promuovere il business match tra aziende e operatori del settore. Sono chiaramente iniziative di propaganda non solo per alcune attività venatorie o sportive tradizionali, ma soprattutto a favore di leggi e norme e, pertanto, hanno una precisa connotazione e rilevanza culturale, sociale e anche politica. Per questo – come abbiamo scritto nel comunicato che abbiamo promosso insieme a Rete Disarmo e 26 associazioni vicentine – riteniamo che «in assenza di un’approfondita riflessione culturale e, soprattutto, di una precisa regolamentazione dell’evento fieristico, HIT Show si sta rendendo protagonista di un’operazione ideologico-culturale e, stando agli ultimi sviluppi, persino politica che è in atto nel nostro paese per incentivare la diffusione delle armi». Riteniamo che questa operazione non possa essere sottaciuta, ma anzi vada biasimata, soprattutto perché è sostenuta da Italian Exhibition Group, una società per azioni che annovera tra i suoi azionisti diversi enti pubblici tra cui il Comune e la Provincia di Vicenza e la Regione Emilia-Romagna. In proposito voglio ricordare che già da mesi abbiamo inviato all’Amministrazione comunale di Vicenza, su esplicita richiesta, una serie di proposte volte a definire un’effettiva assunzione di responsabilità etica e sociale della manifestazione fieristica e per regolamentare con precisione e trasparenza le attività che si svolgono in fiera. Siamo ancora in attesa di una risposta.

Ma a HIT Show erano esposte anche armi da guerra?

Dipende cosa si intende per armi da guerra. Se ci si riferisce alle armi di tipo militare che vengono prodotte per esclusivo impiego da parte delle forze armate, credo che – a parte qualche arma da collezione o qualche replica – non fossero esposte in fiera. Se, invece, con armi da guerra intendiamo le armi con cui di fatto si fanno le guerre credo che ce ne fosse più d’una. Le faccio un esempio. La Beretta ha presentato in anteprima nazionale proprio a HIT Show la pistola semiautomatica APX. Si tratta dell’arma progettata specificamente dall’azienda bresciana per l’esercito degli Stati Uniti. Dobbiamo considerarla un’arma da guerra o una semplice “arma comune” visto che come tale sarà venduta in Italia? Come vede lo spartiacque è alquanto sottile e ambiguo e spesso non dipende solamente dalle caratteristiche dell’arma ma dal mercato di destinazione di un’arma: mercato che, tra l’altro, non si differenzia solo tra militare e civile, ma comprende un ampio e variegato mondo fatto di forze di polizia, corpi di sicurezza e di private securites, tiratori scelti, vigilantes, ecc. Che spesso non sono dei militari, ma che come abbiamo visto nella storia recente anche dei Balcani, sono prontissimi a diventarlo e soprattutto ad ingaggiare azioni di guerra.

A proposito della Beretta APX: dopo 32 anni l’azienda ha perso il contratto per la fornitura di pistole all’esercito degli Stati Uniti. Alcuni commentatori lo hanno messo in relazione con le politiche di stampo protezionistico promosse dal neo presidente Trump. Lei cosa ne pensa?

Si tratta della gara che ha reso famosa in tutto il mondo l’azienda bresciana che nel 1985, con la FS 92 parabellum denominata M9, vinse appunto il contratto per la fornitura all’esercito. Contratto che venne ripetutamente rinnovato e che ha fatto da apripista per le forniture ai Marines, alla Guardia costiera e alle forze di polizia di diverse municipalità americane. La gara stavolta presentava caratteristiche tecniche molto precise e diversi competitors per un contratto di 580 milioni di dollari che, oltre alla fornitura di pistole, comprendeva anche gli accessori e le munizioni. E’ stato vinto dalla P320 prodotta dall’azienda della svizzero-tedesca Sig Sauer. Un brutto colpo per l’azienda bresciana che – a detta del presidente Franco Gussalli Beretta – aveva comunque preventivato la possibilità di un avvicendamento se non altro per una comprensibile logica di alternanza. Considerando che la P320 sarà prodotta nello stabilimento Sig Sauer nel New Hampshire qualcuno ha appunto parlato di “effetto Trump”. Difficile crederlo, sia perché anche la Beretta ha un suo stabilimento negli Stati Uniti, sia soprattutto perché la decisione è stata presa prima dell’insediamento di Trump. Ma, se proprio vogliamo metterla in politica, penso che si dovrebbe guardare con maggior attenzione all’amministrazione Obama a cui non hanno certo fatto piacere le esternazioni del patron Ugo Gussalli Beretta contro alcune iniziative, come quelle promosse qualche anno fa dal governatore del Maryland, per introdurre maggiori controlli sulla detenzione di armi. Controlli e leggi che Obama, a fronte delle numerose stragi di civili innocenti, ha cercato con ogni mezzo di sostenere. Trovandosi a sbattere contro il muro della potente lobby delle armi. A cui si ispirano alcune delle associazioni presenti a HIT Show.