IL “MURO DI SPECCHI” DEL CASO MORO. INTERVISTA A MARIA ANTONIETTA CALABRÒ

Un saggio davvero importante questo di Calabrò e Fioroni. Appena uscito nelle librerie (Moro. Il caso non è  chiuso. La verità non detta. Ed. Lindau) vuole infrangere il “muro di specchi” che ha impedito per quarant’anni di conoscere la verità sul caso Moro. Non è un caso che esca proprio nei giorni in cui si ricorda la caduta del Muro di Berlino. In questa intervista, con Maria Antonietta Calabrò, giornalista d’inchiesta, abbiamo approfondito alcuni punti del libro. Il volume sarà presentato martedì 12 novembre, alle ore 16, alla Camera, nella Sala Conferenze del Palazzo Theodoli Bianchelli, con la partecipazione di Roberto Fico, Presidente della Camera,  del ministro Dario Franceschini e dello storico Andrea Riccardi.

 Maria Antonietta, il vostro libro è un documentatissimo saggio sul caso Moro ed è un lavoro davvero importante. Tu e Fioroni – l’altro autore del libro – utilizzate l’enorme documentazione della Commissione Moro 2. Documentazione inedita, frutto di nuove indagini e di documenti provenienti dagli archivi desecretati dei servizi segreti. Il compito del libro è, riprendo un vostro concetto, di “ristrutturare il campo della conoscenza ” sul caso Moro. Il tutto alla luce della guerra fredda.. Insomma fino alla Conclusione della Commissione c’era un Muro di  di specchi” che impediva di guardare la realtà vera dell’omicidio Moro. Da cosa era rappresentata il Muro di specchi e perché usi proprio questa immagine?

Ho parlato di Muro di specchi per analogia con il Muro di cemento, il Muro di Berlino, che divise l’Europa durante la Guerra Fredda. Risulta evidente dai documenti adesso accessibili grazie ad una legge dello Stato del 2014, che in Italia – e voglio aggiungere in Vaticano, poi spiegherò perché – fu costruito un Muro altrettanto efficace e pervasivo che ha impedito di vedere quella che era la realtà del sequestro Moro. Anche in occasione del quarantennale, nella primavera 2018, è stata “suonata” la stessa canzone. Sui media è stato riproposto – spiace dirlo –  il compromesso sulla verità dei fatti che apparati dello Stato italiano e terroristi hanno “sottoscritto ” insieme, pochi anni prima della caduta del Muro, cioè il cosiddetto Memoriale Morucci, che in realtà ( dimostrano i nuovi documenti) è un dossier del SISDE, il servizio segreto interno, frutto di un processo di rielaborazione , molto tortuoso ed ex post (durato oltre dieci anni, da quel tragico 1978 al 1990) su che cosa era veramente accaduto durante “l’Operazione Fritz”, il nome in codice dell’”Operazione Moro”.  In base ai nuovi documenti,  il sequestro Moro, va completamente riscritto. E’ quello che faccio nel libro. Dove si spiega dove era veramente la prigione del popolo ( a via Montalcini probabilmente Moro non c’è mai stato, e sicuramente non è stato ucciso), a come è morto Aldo Moro, ai legami internazionali che le  Brigate Rosse hanno sempre negato”.

Siamo nei giorni del ricordo della caduta del muro di Berlino. Tu affermi che il sequestro Moro ha rappresentato per noi, italiani, il significato dell’esistenza di quel Muro. Perché?

”Perché il sequestro Moro, in base alla nuova documentazione desecretata dal governo e agli atti della Commissione Moro 2 (che ha chiuso i suoi lavori nel dicembre 2018), presieduta da Giuseppe Fioroni, che coautore con me del libro “Moro, il caso non è chiuso”(edizioni Lindau), risulta essere stato la più grande operazione della Guerra Fredda. Il punto è che da noi la disinformazione sul caso Moro continua ancora oggi, dal momento che il reato di strage (come fu quello di via Fani) per il nostro ordinamento non si prescrive e molti protagonisti sono ancora vivi”.

Scrivi, nel libro, che in quei giorni “Roma era come Berlino”. Perché?

Perché come Berlino a quei tempi era tre quarti ‘ occidentale’ e un quarto ‘orientale’

Parliamo un po’ di alcuni contenuti del libro. Fa impressione, ad esempio, il ruolo della Stasi, un Servizio Segreto davvero onnipotente (tanto onnipotente da conoscere i dettagli dell’agguato di via Fani) che tipo di relazione c’era tra le BR e la STASI?

Dagli archivi della STASI, un pò alla volta, lentamente, visto che sono passati ormai 40 anni,  sono venute fuori carte e documenti che dimostrano chiaramente che durante il sequestro Moro, la Stasi aveva un interesse quotidiano, puntuale su quello che accadeva a Roma durante I 55 giorni del sequestro. Sono stati ritrovati questi documenti negli archivi una volta che è caduto il muro, ma il punto è che questi  documenti superstiti (perché il 90 per cento dell’archivio che riguardava le operazioni all’estero è stato distrutto tra 9 novembre 1989 e il 15 gennaio 1990) dimostrano qualche cosa di più di un interesse. Ovviamente  un fatto enorme, quale il rapimento del presidente Moro, era all’attenzione di tutti i servizi segreti di tutto il mondo, ma la Stasi era l’unica ad avere il dettaglio dell’operazione del sequestro in via Fani. Questo appunto che è stato trovato dal ricercatore italiano Gianluca Falanga e di cui spieghiamo l’importanza  nel capitolo “L’appunto e il disegno” mette in evidenza il ruolo ,diciamo, strategico, dal punto di vista dell’operazione di Via Fani, del bar Olivetti, cioè del bar che era di fronte, per capirci, al corteo delle auto che viene bloccato dalle Brigate Rosse, dove poi c’è stato il sequestro del presidente Moro. La Stasi lo appunta in un suo documento  l’8 Giugno 1978 ( analogamente i servizi italiani il 2 giugno), ma in modo estremamente più dettagliato.  Quindi c’era qualcuno che queste notizie gliele dava, o in Italia, negli apparati italiani, o loro avevano fonti anche all’interno della galassia terroristica che magari poteva fornirgli questi dettagli . Nell’appunto la Stasi scrive ad esempio anche il numero dei terroristi che hanno organizzato l’azione  che sarebbe di 40 persone e sottolinea il parallelo con il sequestro da parte della RAF (Rote Armee Fraktion ) di Hans Martin Schleyer, avvenuto alla fine del 1977.

Queste carte lascerebbero intendere, insomma che quella mattina a Via Fani oltre ai componenti del commando delle Brigate Rosse ci fossero anche dei tedeschi della RAF, cioè la frazione armata rossa, la RAF, che era il gruppo diciamo l’equivalente terroristico delle Brigate Rosse in Germania. E questo è stato confermato dalle nuove audizioni, svolte dalla commissione Moro 2 , circa la presenza di due persone, un uomo e una donna, lei con  i capelli raccolti a chignon, i quali non parlavano italiano, e che sono stati sentiti affermare in modo distinto Achtung! Achtung!, cioè ‘Attenzione ‘ in tedesco.

Questi stessi personaggi vengono individuati da altri testimoni che sono stati ascoltati solo dopo 40 anni come inquilini, di quello che era il covo di Via Gradoli, che era  il comando strategico del rapimento, e dove abitavano Mario Moretti e la Balzarani, durante il sequestro Moro, fino al 18 aprile”.

Com’è possibile che diciamo, nellarco di tutti questi 40 anni con tutte le indagini, I processi, gli interrogatori, non si sia mai arrivati a capire che cerano anche degli stranieri che facevano parte del commando?

“Una domanda che io mi sono posta, è perché, visto che i legami tra la RAF e le BR erano una cosa abbastanza nota, già dalla pubblicistica degli anni ‘70-’80, aver ritagliato fuori, dalla versione ufficiale, tra virgolette, del sequestro, in particolare del rapimento, queste, queste figure di questi terroristi tedeschi ha un solo scopo, secondo me ha avuto un solo scopo “togliere” dal luogo delitto i tedeschi, perchè I tedeschi della RAF, erano controllati dalla Stasi del generale Wolf, lo ha detto lui stesso nel suo libro autobiografico “L’uomo senza volto”..

Quindi diciamo, si sarebbe potuto stabilire un collegamento diretto tra il sequestro e il servizio segreto più potente del blocco orientale dopo il KGB.

Siamo, prima della caduta del muro di Berlino, certi equilibri geopolitici non potevano essere toccati, quindi la versione che noi abbiamo avuto del sequestro Moro, è una versione “compatibile” prima della caduta del Muro. Ma poi i tedeschi si è scoperto non erano solo i due di via Fani…” 

E cioe?

“In base a una testimonianza oculare di un ragazzo, che nel ‘78 già testimoniò, e che ha ritestimoniato  davanti alla Commissione Moro2 e oggi è un maresciallo dei carabinieri di Viterbo, non erano solo due, erano molti di più, lui, il ragazzino sulla strada verso il Norditalia vede passare una Mercedes e un pulmino,  pochi giorni dopo il sequestro, il 21 marzo, con molti uomini armati (tra cui una donna), con armi lunghe che sono stati fondamentali nel corso dell’azione. E quindi la presenza della RAF era  probabilmente di più persone, l’appunto della Stasi ritrovato nel 2013  e già citato parla di 40 persone sullo scenario del sequestro e  impegnate nel logistico successivo al rapimento”.

Un altro aspetto presente nel libro è lamplissimo scenario geopolitico del sequestro Moro si proietta anche nel quadrante Mediorientale. Importantissimo è il ruolo dei Palestinesi (ovvero delle varie sigle politiche palestinesi). Non c’è solo Arafat. Chi sono stati i maggiori protagonisti che si sono spesi per la liberazione di Moro? Chi è Wadi Addad? In questi tentativi qual è stato il ruolo dei servizi segreti italiani?

“Ci sono ormai fatti incontrovertibili. I documenti sono stati desegretati anche dal governo italiano in una quantità enorme, io ho consultato  un terabyte di documenti, cioè oltre un milione di giga di atti raccolti in quattro anni.  Voglio fare solo un esempio che ci riporta a Berlino Est, il migliore contatto per una trattativa, instaurata dal colonnello Giovannone, che era l’uomo dell’allora servizio SID, poi SISMI, il servizio segreto estero italiano

che era di base a Beirut ed era un fidato collaboratore di Moro. Ecco dunque,  il migliore contatto per la trattativa, che lui instaurò con varie frangie palestinesi, abitava a Berlino est, e si tratta di Wadie Haddad  che era un personaggio, di prima grandezza del terrorismo, o dell’insorgernza palestinese.  Per intenderci questo uomo con cui stava trattando Giovannone, viene ucciso a Berlino Est alla fine del marzo ‘78, cioè nel corso del sequestro, Moro  tagliando completamente la possibilità di instaurare un dialogo, una trattativa con i palestinesi. Wadi Haddad è un personaggio enorme, non un terrorista qualsiasi.  Nel senso che fu l’ideatore della strage, cioè del dirottamento dell’aereo,  che finì ad Entebbe (1976) , in cui morirono oltre 100  tra cittadini israeliani ed ebrei,  e dove intervennero le teste di cuoio di Israele in un’operazione  in cui morì  il loro capo, il fratello dell’ex premier israeliano Netanhyau. E questo Wadi Haddad, viene ucciso a Berlino Est, e lui stesso  in base a quello che sappiamo dal dossier Mitrokhin, un agente del KGB, eppure viene ucciso  –  ce lo ha rivelato, diciamo ufficialmente, in qualche modo, l’anno scorso il professor Christopher Andrew, (che è stato preside del Dipartimento di Storia a Cambridge, nella sua storia dell’intelligence, pubblicata nel giugno 2018.

Secondo Andrew, Haddad  venne ucciso dal Mossad, in quanto responsabile del dirottamento che finì tragicamente ad Entebbe nel ‘76. Però  il dato che deve far riflettere è che lui venne ucciso nel corso del sequestro Moro, a Berlino Est ed è impossibile che Wolf, il capo della Stasi, non avesse dato un suo ok.   Quale era l’interesse di Wolf? Terminare ogni possibilità di contatto tra il servizio segreto italiano e le frange palestinesi che potevano influire positivamente  sul sequestro”.

 

Altri tentativi di trattativa non hanno portato a nulla. Nemmeno quello di Papa Paolo VI. Si poteva salvare Moro? Oppure era impossibile per il contesto della guerra fredda?

“Probabilmente impossibile, anche perché la Guerra fredda venne guerreggiata anche all’interno del Vaticano. Le nuove acquisizioni fanno stagliare la figura del Papa amico di Moro che instaurò una trattativa segreta a Castelgandolfo che coinvolgeva gli inquirenti italiani, i cappellani delle carceri, e il giurista Giuliano Vassalli. Trattativa che chissà perché ancora oggi alcuni in Vaticano negano pervicacemente. Essa ci fu, ma si scontrò con il sottomondo degli interessi strategici e degli affari (fino al traffico d’armi) che alloggiavano  nello stabile di via Massimi 91, di proprietà dello IOR, ai tempi di Marcinkus. Era in via Massimi,91  il “Checkpoint Charlie” italiano, e lì fu preparata a prigione di Moro, in base ai documenti desecretati del Comando generale della Guardia di Finanza negli ultimi anni. Il povero Paolo VI combattè anche contro un “nemico interno”e non potè fare nulla.

Un altro nome inquietante viene affrontato nel libro. Quello di Alessio Casimiri. Chi è e perché è importante? 

“Casimirri è l’unico protagonista del caso Moro che nonostante sia stato condannato definitivamente a 6 ergastoli non ha scontato un giorno di prigione. Era il figlio del numero due della Sala Stampa vaticana per trent’anni ,e sotto tre Papi, Luciano Casimirri. Vedi che torniamo all’ambiente vaticano. Per questo parlavo del Muro di specchi anche in Vaticano. Casimirri ha trovato rifugio in Nicaragua ed  è stato dai primi anni Ottanta un personaggio centrale del regime sandinista di Daniel Ortega, ancora oggi, e con la repressione in atto nel Paese anche contro la Chiesa. All’inizio degli anni Ottanta in Nicaragua – e negli stessi mesi – finiscono le due grandi storie criminali del Dopoguerra: quella del sequestro Moro e quella del crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, lì infatti scomparvero gran parte dei denari del Banco che portano al crack. Magari è solo una coincidenza.”

Al termine dei lavori la commissione ha consegnato il materiale ai giudici di Roma, cosa riguardano le altre indagini? 

“Le indagini  appunto sono in corso”.

Ultima domanda. Quale “luce” può gettare il caso Moro su  gli altri mister i italiani?

“Ci sono alcuni misteri italiani che sono  rimasti tali perché collegati al caso Moro: ad esempio, quello della strage di Bologna e la scomparsa dei due giornalisti italiani Italo Toni e Gabriella De Palo. Nei giorni della strage, il titolare del bar Olivetti di via Fani era a Bologna. Nessuno lo ha mai interrogato al riguardo. Toni e De Paolo stavano indagando proprio sul traffico d’armi da cui provenivano i proiettili utilizzati in via Fani. Anche altri omicidi eccellenti (Pecorelli, Ambrosoli, Varisco , Boris Giuliano) che si consumarono, l’anno successivo al sequestro Moro, nel 1979, dimostrano a quarant’anni di distanza, collegamenti “indicibili” con le vicende del sequestro e il recupero delle carte di Moro”.

Le Acli e l’affaire Moro. Un testo di Domenico Rosati

caso Moro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel giorno fulminato, il 9 maggio del 1978, le Brigate Rosse compirono uno degli omicidi più efferati della loro criminale e sanguinosa storia: quello di Aldo Moro. L’assassinio di Moro fu il tragico “sigillo”di una agonia, iniziata il 16 marzo a Via Fani,  durata quaranta giorni. Quell’omicidio segnò per sempre la storia della nostra Repubblica. A quasi quarant’anni da quell’evento le ACLI nazionali organizzano, a Roma nel pomeriggio un Convegno “Via Caetani, 1978. Quale verità?”. L’incontro si svolgerà, alle ore 17, presso una sala dell’ISTITUTO DELL’ENCICLOPEDIA ITALIANA. Relatori del Convegno saranno, tra gli altri: Domenico Rosati (che è stato presidente nazionale delle Acli durante quei tragici eventi), Giuseppe Fioroni (Presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro), Paolo Cucchiarelli (giornalista Ansa e autore del libro “Morte di un Presidente” ) e Roberto Rossini (attuale Presidente Nazionale).

 

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo dell’intervento che terrà al Convegno.

se Moro è vissuto da solo

e lontano da tutti,

è morto da solo,

ma davanti a tutti

Carlo Bo. Delitto di Abbandono. 

(9 maggio 1979)

            Penso che la mia presenza qui sia da attribuire essenzialmente ad una ragione anagrafica oltre che al fatto di essere stato presidente dell’organizzazione che promuove  questo incontro sul tempo in cui il delitto Moro venne consumato e la sua verità inabissata nel sommerso della repubblica.

         Il mio contributo allo svolgimento del tema di questo incontro – la ricerca della verità sulla vicenda – sarà perciò contenuto nei termini e nei limiti di una testimonianza personale che non riesce a liberarsi dall’emozione anche se si riattiva a distanza di decenni dai fatti.

         Ritengo, tra l’altro, che anche un ricordo non lineare ma autentico possa integrarsi tra le incognite di una ricerca che ripropone atmosfere che vanno da “Rashomon” a “Blow up” ed è resa ancor più ardua dalla compresenza con le tante manifestazioni di post-verità che ci assediano.

         Questa mia esplorazione delle retrovie della memoria esigerebbe  ora una ricostruzione puntuale del rapporto di Moro con una grande organizzazione di lavoratori come le Acli, considerata, negli anni della sua affermazione politica, come un riferimento importante per i cattolici in politica.

         Due fotogrammi di sintesi, corrispondenti a due congressi delle Acli. 1963, Moro viene al Congresso subito dopo che il suo primo governo organico di centrosinistra ha prestato giuramento. E’ accolto da una platea entusiasta che vede coronato un disegno di progresso che ha condiviso e sostenuto. 1966: Moro viene al  congresso molto provato dalle traversie del suo governo: l’assemblea è nervosa; ha appena fischiato il segretario della DC, Rumor e rumoreggiato il segretario della Cisl

Storti. Moro riceve un applauso dignitoso, come di riconoscimento alla fatica, e riesce a farsi ascoltare quando spiega la differenza tra i desideri e la realtà. Ma un rapporto essenziale si incrina.

         Comincia a prendere corpo, in quegli anni, il disegno di un’operazione di sganciamento dalla Dc che all’inizio aveva tra i protagonisti non solo il nostro presidente Livio Labor, ma anche Carlo Donat Cattin e la sua corrente di Forze Nuove. Il suo luogo propositivo era il settimanale “Sette Giorni” guidato da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. 

         Moro, che pure era in dissidio con la maggioranza dorotea del suo partito, non condivideva un simile disegno. Già dal Convegno di Lucca del 1967 sui “tempi nuovi della cristianità” aveva assegnato alla Dc l’obbiettivo di realizzare il compimento della democrazia, ciò che lo distingueva, ad esempio dalla posizione di Rumor il quale insisteva su una mission essenzialmente anticomunista. Ma per perseguire il suo obbiettivoMoro aveva bisogno di avere con sé l’”intatta forza” della Dc e quindi non vedeva bene i tentativi in atto nel mondo cattolico per superare le gabbie del “collateralismo”, in cui si erano distinte le stesse Acli.

         Così al congresso Dc del 1969 Moro operò una rottura clamorosa con il gruppo dominante del partito e cominciò ad esplorare un orizzonte di sinistra che offriva in primo luogo alla corrente di “Forze Nuove” l’opportunità di continuare a giocare le proprie chances all’interno piuttosto che correre rischi all’esterno. L’isolamento e la sconfitta di Labor nelle elezioni del 1972 si spiegano anche alla luce di questa circostanza.

         Si delineò così un contesto nuovo nel quale le Acli, anche per governare il pluralismo politico che ormai le caratterizzava, orientarono la propria analisi verso un obbiettivo – l’unità delle forze popolari – che convergeva con le prospettive esplorate nel frattempo dallo stesso Moro (strategia dell’attenzione) e da Berlinguer(compromesso storico).

         Questa tendenza si consolida con la mia presidenza (1976) che si esercita nello stabilire o ristabilire una pluralità di rapporti diretti cioè non mediati dalle correnti, sia con la Dc, dove la sensibilità di Zaccagnini facilitava l’impresa, sia con il Psi appena espugnato da Craxi, sia con il Pci dove Berlinguer forzava i tempi per la nuova alleanza.

         Per dare e ricevere chiarimenti avevo chiesto un incontro ad alcuni dei principali protagonisti di quella fase. Il presidente del Consiglio, Andreotti, la cui giornata lavorativa cominciava alle sette del mattino, miaccordò un colloquio la cui sostanza annotò nei suoi diari, nel senso di una convergenza di intenti sulla necessità di realizzare  il massimo di collaborazione tra le principali forze democratiche.

         Anche a Moro avevo chiesto un colloquio che immaginavo più difficoltoso per via dei nostritrascorsi. Mi avrebbe visto volentieri – così  mi comunicò la sua segreteria – ma solo dopo la conclusione della crisi di governo. Cioè dopo il 16 marzo…  Un dopo che non c’è mai stato.

         La notizia dell’eccidio di Via Fani e del rapimento di Moro ci sembrò appartenere al regno della finzione anziché a quello della realtà. Col terrorismo si conviveva da tempo ma non si immaginava che potesse giungere a tanto. E c’era pure una reazione istintiva da fronteggiare: quella che ai funerali degli agenti della scorta caduti portava la gente a invocare la pena di morte. Ad un giornalista che mi domandava seppi solo rispondere, quasi d’istinto: “hanno eliminato il timoniere”. 

         Nei cinquantacinque giorni della prigionia si instaurò il regno delle confusione.

Sedute spiritiche rivelatrici, covi scoperti per caso, annunci di esecuzione fasulli, e poi l’incrociarsi di appelli contrastanti ai quali era arduo sottrarsi. Accadeva pure che un testo letto al telefono esprimesse una posizione e, ottenuta la tua firma, venisse cambiato per sostenere quella esattamente contraria. E poi le lettere dal carcere del popolo dove la forma dell’analisi politica non nasconde la sostanza di un tormento intimo che interpella le coscienze oltre il concludersi degli eventi. 

         Io scelsi di stare vicino a Zaccagnini che mi pareva drammaticamente provato dalla impossibilità di dare affidamenti alla famiglia di Moro e, nel contempo, sbalordito per l’inconsistenza delle indagini. Mi resi conto della schematicità delle due tesi in campo – fermezza e trattativa – nel senso che tutti sarebbero stati disponibili ad esaminare proposte di soluzione che risultassero plausibili per la salvezza di Moro. Ma quali proposte?

         Personalmente fui coinvolto nella iniziativa che Craxi – correggendo l’intransigenza dei primi giorni – assunse a sostegno del così detto “scambio uno contro uno”: la vita di Moro salva per la liberazione di un terrorista. 

         Il leader socialista mi invitò a Via del Corso. Dopo un ampio preambolo che magnificava l’importanza e i meriti delle Acli, mi espose con grande enfasi la sua tesi,ma alla domanda: “Non ti chiedo di dirmi da parte di chi, ma puoi assicurarmi di avere la certezza morale di una probabilità di buon esito dell’operazione”? non dette risposta. Ebbe ad insistere molto, invece, sul fatto che Zaccagnini era d’accordo con lui. Circostanza che la sera stessa verificai non essere vera: una misura bastante per non farne nulla.

         Del 9 maggio ho un ricordo banale ma vivissimo: la forchetta rimasta infilata nel risotto che una gentile signora ci aveva preparato al termine di una mattinata che con il Padre Pio Parisi avevamo dedicato, in un appartamento in via Marco Polo, ad una delle meditazioni bibliche in cui ci esercitavamo con continuità Era stato il nostro capo ufficio stampa, Giorgio Bonelli, a entrare sconvolto con la notizia: “Lo hanno  ammazzato. E’ in via Caetani. 

         Corremmo a via Caetani, che però era sbarrata. Allora ci spostammo a Piazza del  Gesù, sede della Dc, percorrendo via delle Botteghe Oscure, sede del Pci. La piazza era gremita e silenziosa. Sofferente. Mi sentii chiamare e poi abbracciare. Era Giovanni Berlinguer. Piangemmo insieme.

         Così come la commozione ci prese alla gola quando, giorni appresso, di fronte al tumulo vuoto in San Giovanni in Laterano, Paolo VI pianse il suo amico e discepolo con un accento di accoramento biblico che ricordava il lamento di Giobbe.  Poi quando tutto fu compiuto sono andato anch’io a Torrita Tiberina a pregare sulla tomba che domina una luminosa valle del Tevere.

         Qui termina la cronaca del mio vissuto in quel tempo. Ora mi avventuro in qualche congettura non su una verità che mi sfugge ma su un’idea dell’accaduto che mi pare plausibile.

         Nessun dubbio che l’impresa sia stata pensate e interamente compiuta dalle BR, un’entità ideologica, politica e militare totalmente autoreferenziale ancorché disposta  a cercare supporti esterni.

         Nessun dubbio che scegliere Moro come obbiettivo avesse lo scopo di paralizzare e mettere in crisi il tentativo di dar vita ad un governo che recuperasse al livello direzionale il Pci di Berlinguer.

         Dunque un bersaglio doppio. Uno fisico, il leader della Dc, in quanto artefice e dominus (il timoniere) del nuovo corso politico, e uno politico, il Pci di Berlinguer accusato di tradimento della causa rivoluzionaria; una contestazione che semmai andava rivolta al Togliatti del 1944, ma che nell’analisi brigatista era il riflesso della convinzione che dopo il ’68 francese, l’autunno operaio italiano, le gesta dell’”autonomia” e dei gruppi d’estrema fossero maturate le condizioni per l’assalto finale al cuore dello Stato.

         Un progetto, dunque tutto made in Italy (pensiero,organizzazione, esecuzione), attorno al quale le singole forze politiche hanno preso posizioni differenziate e in qualche caso lo hanno sfruttato per convenienza propria. 

         Tutto questo in un habitat che, nell’insieme,rivelava una serie di lacune, di incompetenze, nei comparti preposti alla ricerca della “prigione del popolo” e con essa  dei colpevoli, dei loro rifugi e spostamenti. Ricordo lo sfogo di un bresciano rigoroso e di poche parole come  Franco Salvi: “Al Viminale non sanno fare il loro mestiere”. Al Viminale c’era Cossiga, 

         C’è da considerare anche una dimensione internazionale? Rispondo con l’immagine di una riga tracciata su una tovaglia con il manico di una forchetta. Eravamo a cena dall’ambasciatore di Bulgaria, che intratteneva rapporti frequenti con le Acli-terra. Il discorso cadde sul caso Moro e uno di noi riportò l’opinione largamente diffusa che “erano stati gli americani”. “Un momento”, interruppe il diplomatico; e tracciò la riga sulla tovaglia. Poi spiegò: “vedete, qui c’è l’Ovest e qui c’è l’Est. Ogni squilibrio da una parte destabilizza l’altra parte”. “Dunque -chiedemmo-  l’andata al governo del Pci in Italia sarebbe una causa di squilibrio nel campo sovietico”? “Vedo che avete capito”, rispose. 

        

         Un riscontro di questo episodio si può trovare a pag.186 del libro di Paolo  Cucchiarelli, là dove si riferisce una valutazione di Elio Rosati,uno degli amici più fedeli di Moro, sull’esito di un sondaggio affidato  ad Ugo La Malfa negli ambienti diplomatici sovietici: “Tonino (Maccanico, che ne era il tramite) tornò giorni dopo e mi disse: ci sono interessi convergenti di apparati diversi, sarà molto difficile salvare Moro”

         Più tardi mi accadde di evocare la circostanza che mi riguardava  in un discorso pubblico che venne ripreso dal “Manifesto”. Fui convocato dai pubblici ministeri Jonta e Santapaola che conducevano una delle indagini sul caso Moro. Detti ogni elemento in mio possesso. Ma la cosa, che io sappia, non ebbe seguito.

         Di qualche interesse mi sembrano poi le considerazioni che si possono fare sui riverberi italiani della vicenda. Se l’obbiettivo delle BR era di bloccare la fase della solidarietà nazionale, bisogna riconoscere che esso è stato conseguito.

         Le due forze che tentavano di convergere si sono ritirate sulle linee di partenza. La Dc all’inizio del 1980 con il congresso detto del “preambolo” che sancì l’alleanza  di  quasi tutte le componenti di centro e di destra sulla necessità allinearsi per  ridare vigore all’impegno di contrasto al comunismo.

         Da parte sua il Pci stabilì il proprio recesso dalla solidarietà nazionale, nel loro linguaggio il compromesso storico, con una “svolta di Salerno” che rilanciava la linea dell’alternativa democratica verso una Dc tornata avversaria. 

         La tenaglia si chiude con il primo governo a guida socialista affidato a Bettino Craxi, il più severo critico delle grandi intese di quell’epoca triste. E il “pentapartito” la prolunga nelle sue diverse inconcludenti versioni, fino all’esaurimento della vitalità dei partiti che ne erano partecipi.

         La riprova? Quando nel 1989 avvenne il tracollo del comunismo, nessuna delle  forze del pentapartito si rivelò in grado di sollevare la bandiera della giustizia sociale  prima sventolata dai comunisti che  a stento riuscivano essi stessi a sopravvivere.

         Ciò che più mi colpisce nella rilettura di questa fase è l’assenza di un forte presidio del lascito ideale ed etico-politico di Moro da parte dei suoi presunti eredi. Si direbbe che quell’eredità non è stata neppure rivendicata. Nessuno comunque ha riproposto, finchè c’era tempo, un rilancio della solidarietà nazionale come via per archiviare uno scontro storico e di realizzare una cooperazione vitale nell’interesse dal paese.

         Il ritorno all’autosufficienza del ceto di governo, incarnata nel pentapartito ma non solo, ha reso rigidi i rapporti ed ha ridotto il confronto politico ad una colluttazione continua per la conquista e il mantenimento di frazioni di potere.

         Si sono bloccati così tutti i processi che la fase morotea sembrava aver aperto anche tra i cattolici, dove alla “scelta religiosa” di un’altra vittima del terrorismo, Vittorio Bachelet, subentrò la lunga stagione di una “presenza” di matrice integralistica, rivelatasi fattore di divisione anche tra i credenti.

         In quegli anni, lo dico con nostalgico orgoglio, le Acli furono tra le poche agenzie sociopolitiche che tentarono di tenere aperto un dialogo a sinistra sui temi della pace, del lavoro e della democrazia come presupposti di una solidarietà popolare supportata anche da iniziative unitarie come, ad esempio quella per lo smantellamento delle rampe missilistiche ad Est e d Ovest, richiesta a Stati Uniti e Unione Sovietica nella sede delle loro trattative a Givevra.

        

                  Qualche corollario nei dintorni della verità. A me è accaduto, dopo la parentesi parlamentare, di avere un incarico di consulente presso la Commissione Stragi che si stava occupando, tra l’altro anche del caso Moro.

         Confesso che mi sarebbe piaciuta una maggiore solennità nelle procedure. Ad esempio che si chiedesse agli “auditi” di prestare giuramento. E mi sorprendeva negativamente vedere noti terroristi seduti accanto al presidente anziché davanti a lui: trattati cioè da esperti anziché da testimoni.

         Ammetto inoltre che, pure nell’incertezza dei comportamenti, avrei considerato ragionevole che quanti avevano svolto ruoli di rilievo nella vicenda Moro, si astenessero dal rimanere o dal  reimmettersi nel circuito delle responsabilità politiche. 

         A quel che ne so, per testimonianza del cardinale Ersilio Tonini, Benigno Zaccagnini fu in grado di rifiutare la candidatura a presidente della repubblica: “Non posso farlo al posto di Aldo”, aveva detto a chi lo sollecitava. 

         Infine un accenno ad una proposta che giudico importante e significativa: quella a suo tempo formulata da Giovanni Moro di chiamare tutti i protagonisti dei fatti del 1978 a dichiarare pubblicamente in una sede deputata se e dove e quando ritenevano di aver commesso errori di valutazione, o trasgressioni o mancanze o rilevanti omissioni. Se ne sarebbe giovata la verità: non quella storica o quella giudiziaria o quella politica. Più semplicemente, la verità umana.

“A Via Fani c’erano ‘anche’ le BR” . Intervista a Gero Grassi

ROMA 16 MARZO 1978 nell'agguato sequestro rapimento di Aldo Moro strage di Via Mario Fani furono uccisi gli agenti di scorta Domenico Ricci Giulio Rivera Francesco Zizzi Raffaele Iozzino Oreste Leonardi.

Sequestro Aldo Moro, Via Mario Fani, 1978 (Contrasto)

A leggere, le duecento pagine dell’ultima relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Caso Moro, ti prende un profondo senso di angoscia e di indignazione. La relazione smonta, con un lavoro certosino, molte false “verità” del, cosiddetto, “memoriale Morucci”. Il lavoro d’inchiesta della Commissione non è terminato. Altre clamorose, e tragiche, novità sono attese nei prossimi mesi. Ne parliamo con l’Onorevole Gero Grassi, vice presidente del gruppo PD alla Camera, membro della Commissione d’Inchiesta.

Onorevole Grassi, qualche giorno fa la Commissione d’indagine parlamentare sull’omicidio Moro, presieduta dall’Onorevole Fioroni,  ha presentato la seconda relazione, dopo due anni dal suo insediamento, sui tragici avvenimenti di quei fulminati giorni di quasi 40 anni fa. Lei ha sintetizzato, con un intervento sul quotidiano pugliese “La Gazzetta del Mezzogiorno”, con una frase “A via Fani c’erano ‘anche’ le BR”. Frase angosciante…. In che senso c’erano ‘anche’ le BR? Vuol dire che la storia di Via Fani dovrà essere riscritta da zero?
La nostra ricostruzione evidenzia in via Fani una quantità di persone superiore a quelle descritte dai brigatisti. In aggiunta lo scenario di via Fani con la scoperta del ruolo e del bar Olivetti, sinora mai svelato, che fu epicentro del rapimento ci induce ad affermare che, accanto alle brigate rosse, giocarono un ruolo forze diverse con omissioni, depistaggi e partecipazioni indirette alla tragica vicenda.

Approfondiamo alcuni punti della relazione, una relazione di 200 pagine in cui sono sviluppate le risultanze delle vostre indagini. Incominciamo con la prima sconvolgente scoperta: un covo Br alla Balduina, quartiere non certo di periferia, in una palazzina dello IOR (Istituto per le Opere Religiose, la Banca del Vaticano). Come è stata possibile la vostra scoperta? Di quali complicità godevano i terroristi? E lo Stato che faceva?
Le indagini sono ancora in corso per cui ometto alcuni particolari. Se, come sembra, Moro e’ tenuto subito dopo via Fani, nella palazzina di cui per primo parlò Mino Pecorelli, significa che tanti sapevano per la particolarità della palazzina e per coloro che risiedevano in tale posto, brigatisti ed ecclesiastici compresi.

Veniamo al secondo punto angosciante della vostra relazione. Riguarda il “Bar Olivetti” di Via Fani. Per voi, come già affermato, è l’epicentro della strage. Che aveva di particolare questo locale? Da chi era frequentato? La zona di Via Fani all’epoca era abitata da personaggi di rilievo dei Servizi d’intelligence italiani questo non fa che aumentare l’angoscia e i dubbi…
Il “bar Olivetti” è frequentato da uomini della mafia siculo-americana tra cui Frank Coppola, uomini della banda della Magliana, uomini dei Servizi segreti italiani. Agiscono persone che trafficano armi con immensi guadagni e ci sono opacità evidenti nell’azione di prevenzione e repressione  delle nostre Forze dell’Ordine e della Magistratura.

Durante i 55 giorni del rapimento Moro vi sono  stati tentativi di trattativa per  la liberazione dell’ostaggio. Tra questi tentativi protagonisti sono stati i palestinesi. Molti puntarono sul loro aiuto (in particolare su Yasser Arafat). Perché questo tentativo fallì? Chi si è opposto?
La vicenda della trattativa palestinese, che pure vi fu, fallisce per contrasti interni all’interno delle diverse fazioni dell’Olp. La cosa curiosa è che sono proprio i palestinesi i primi ad accusare gli italiani che si sta preparando un evento terroristico straordinario.  Analogamente, a tal proposito, vanno meglio studiati i ruoli del colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri servizi a Beirut e del generale Musumeci, iscritto alla P2, che è il capo della Gladio Italiana. Con loro il nostro capo dei Servizi segreti, il generale Giuseppe Santovito.

Torniamo al Vaticano. Paolo VI, secondo testimonianze che voi escutéste, aveva raccolto dieci miliardi di lire per il riscatto .. Una cifra astronomica per l’epoca. E’ verosimile questo? Quale consorteria vaticana remava contro il Papa?
Paolo VI raccoglie il denaro per la trattativa fuori dal Vaticano attraverso suoi amici. Viene bloccato dal Governo italiano e dagli americani del Vaticano, Marcinkus in testa che è uomo della CIA.

Veniamo ai terroristi Morucci-Faranda. Voi dite che si consegnarono alle forze dell’ordine. Inoltre aggiungete un altro particolare che l’appartamento di Via Giulio Cesare, dove furono arrestati i due, apparteneva Giuliana Conforto, amica di Piperno, figlia di un agente italiano del KGB (ed ex spia dell’ OVRA fascista), Giorgio Conforto. Quale ruolo ebbero i due Conforto?
I Conforto ebbero ruoli diversi. La figlia disse si a chi le chiedeva di ospitare i due bierre. Il padre per aiutare la figlia si vende i due brigatisti. Grande sospetto e’ la pena minima che la prof. Conforto riceve per una azione Criminale senza precedenti.

Tocchiamo un altro punto: la scuola di lingue parigina Hyperion fondata dal cosiddetto “Superclan” (organizzazione nata da una scissione delle BR). Quali elementi nuovi sono emersi dalle vostre indagini?
Nonostante le precedenti assoluzioni, la scuola sembra essere il “Parlamento europeo” del Terrorismo e dei diversi Servizi.

Per voi è chiaro chi è Mario Moretti, definito da Sergio Flamigni come la “Sfinge delle BR”?
Quando io chiedo ad Alberto Franceschini se Moretti e’ una spia, la risposta è’ “Molto di piu'”.

Quali saranno le vostre prossime tappe?
Nei tempi che la legislatura ci lascia cercheremo di interrogare i brigatisti alla luce delle novità emerse che sbugiardano molti di loro e demoliscono il Memoriale Morucci – Faranda.