“Un viaggio contro l’imbarbarimento dell’Europa”. Intervista a Maria Antonietta Calabrò

Un viaggio religioso e politico quello di Francesco nell’Isola di Cipro e in Grecia. Oggi il papa è tornato a Lesbo dove ha incontrato i migranti, un incontro forte. E le parole espresse nel suo discorso in difesa dei migranti sono state altrettanto forti. Un altro punto importante, di questo intenso viaggio, è stato il discorso tenuto, ieri ad Atene, alle autorità elleniche. Due discorsi complementari. Domani il pontefice farà ritorno a Roma. Con Maria Antonietta Calabrò, vaticanista dell’Huffington post, cerchiamo di approfondire il significato di questo viaggio apostolico di Papa Francesco.

Maria Antonietta, oggi Papa Francesco è stato nell’isola di Lesbo. Ha incontrato i migranti si è schierato dalla loro parte, ha legato il dramma dell’immigrazione ai nazionalismi che chiudono alla solidarietà, ha detto parole dure contro i costruttori di muri. Un discorso politico potente, rigoroso. Di fronte a queste parole l’Europa balbetta. Qual è il tuo pensiero? 

L’Europa balbetta  si. Ricordo a tutti che “i barbari” vennero denominati così alla fine del mondo antico perché appunto “ balbettavano” , non sapevano esprimersi , erano giudicati appartenenti a una civiltà primitiva, rozza e  feroce e crudele. Concetto ben diverso da quello di straniero , lo straniero era sempre accolto in quanto inviato dalla divinità e per questo era sacro. Papa Francesco ( cosa non facile per un argentino, venuto quasi dalla fine del mondo) sempre più sta sottolineando l’importanza dell’Europa, della civiltà europea, e delle sue radici. Con accenti diversi da quelli del suo predecessore Benedetto XVI, ma quello che fu all’inizio del Pontificato di Ratzinger (tedesco) lo troviamo adesso alla fine di quello di Francesco. Ieri il papa ha voluto passare con la sua auto per ammirare il Partenone, e  con quanta emozione ha detto che il Vangelo è stato scritto in greco e che greca è la stessa definizione della seconda persona trinitaria, quel Gesù di Nazaret che è  il Logos  che era all’inizio dei tempi ed il Logos  che è presso Dio.

Anche per i mezzi di informazione ripetere gli appelli del Papa sui migranti, rischia di logorarsi e di trasformarsi in una comunicazione impoverita,  alla fine sterile ,se sganciata da questa “riscoperta” dell’Europa e della sua” forma “ greco romana.Del resto, il cristianesimo all’inizio ebbe “bisogno” dell’impero romano per diventare universale, globale: ubi Roma, ibi modus. E della “ immortale ” lingua greca, della filosofia greca per per esprimersi e pensarsi. Solo così le genti più diverse furono raggiunte dall’evangelizzazione. Se oggi noi creiamo muri per fermare i migranti e abbiamo trasformato il Mediterraneo ” in un cimitero senza lapidi”, come ha detto Francesco è perché siamo diventati “barbari”.

Veniamo al secondo, straordinario, intervento di questo viaggio: quello tenuto ieri ad Atene di fronte alle autorità elleniche. Il discorso è davvero coltissimo (con citazioni dj Aristotele, dell’Illiade e di Padri della Chiesa greci). Insomma un discorso di politica alta. Ti chiedo quali sono le direttrici del rinnovato europeismo immaginato dal Papa? 

Come dicevo si tratta di due discorsi  assolutamente complementari, ma quello di Lesbo, lo si può comprendere a fondo, solo leggendolo attraverso quello di Atene. Il discorso in cui il Papa ha sottolineato che lui è andato “pellegrino” e che sovrabbondano di spiritualità, cultura e civiltà per attingere alla stessa felicità che entusiasmo “ il grande padre della Chiesa San Gregorio di Nazianzo: “Era la gioia di coltivare la sapienza e di condividerne la bellezza, una felicità non individuale e isolata, ma che nasce dallo stupore, tende all’infinito e si apre alla comunità”.  La Grecia – ha aggiunto – il Papa – invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto. Verso Dio, perchè abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani”. Voglio continuare : “mentre nell’Occidente che da qui è sorto si tende a offuscare il bisogno di Cielo, intrappolati nella frenesia  di mille corse terrene dall’avidità insaziabile di un consumismo spersonalizzante

Ad Atene l’uomo – come ha ricordato il Papa citando Aristotele – ha  preso coscienza di “essere un animale politico”. E qui è nata la democrazia .  Il famoso discorso di Pericle agli ateniesi del 431 avanti Cristo ( nonostante sia stato strumentalizzato e poi abbandonato in una deriva populista in Italia) è il più classico esempio di ciò che significa una democrazia ( e per contrasto ciò che è una dittatura che oggi prende le forme di mostruose autocrazie ) : giustizia uguale, eccellenza, rispetto delle leggi e “non dimenticare mai che dobbiamo difendere coloro che ricevono offesa”. E ancora : “Che ci è stato insegnato a rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nel sentire universale di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso”… ed è “per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero”.

Ecco l’Europa caccia i rifugiati perché non ha più “fiducia in se stessa e la prontezza per fronteggiare qualsiasi situazione”,  sono sempre le parole di Pericle, per cui “la povertà non costituisce un impedimento “ a servire lo Stato, il bene comune.

Non trovi significativo che ii Papa abbia citato De Gasperi?

Dovremmo essere orgogliosi come italiani che lo abbia fatto. Ha citato De Gasperi come un padre fondatore dell’Europa e della necessità di andare avanti , verso la giustizia sociale e non a destra o a sinistra

Il Papa continua a criticare gli autoritarismi, i sovranismi, che portano ad un arretramento della democrazia. A quali forze politiche parla?

Beh mi sembra che il riferimento sia molto chiaro . Ma la radice di questi  atteggiamenti umani e politici  è che è al fondo i sovranisti, gli autoritari sono “ barbari”.

Torniamo all’immigrazione. Secondo te le parole di critica alla chiusura erano rivolte solo alla politica oppure erano dirette anche alle conferenze episcopali (Polonia)?

A tutti e due.

Insomma un viaggio politico e religioso. Le due cose in Francesco si saldano. Come in Giovanni Paolo II questa saldatura ha fatto crollare il muro di Berlino, pensi che Francesco riuscirà ad abbattere il muro dei nazionalismi?

La sua scommessa sarà  vinta se riuscirà a far rigermogliare l’Europa, la sua cultura, la sua civiltà, a fornire nuova linfa a quelle radici, che come ha detto, ci sono, sotterranee, non sono attualmente in grado di far crescere un albero. Ma non sono morte. La cosa impressionante è che Francesco indica all’Europa, una strada non dei concetti.  Francesco invita tutti a fare come Ulisse, antico migrante anche se era un re ricco e famoso: a mettersi in mare, un mare agitato, rischioso, fonte di conoscenza e di dolore,  ma che alla fine lo porta in patria. La potenza dell’immagine dell’eroe greco per eccellenza viene  messa al servizio della rotta da intraprendere oggi.  Non c’è  nessuna alternativa a prendere il mare. Ma a Itaca, prima o poi ci si arriva.  Siamo tutti migranti e per questo che i rifugiati di Lesbo e gli altri oltre il filo spinato di Cipro sono nostri fratelli.

“Non cedere alle seduzioni dell’autoritarismo”. Intervento di Papa Francesco alle Autorità elleniche

 

Pubblichiamo il testo integrale del discorso di Papa Francesco, tenuto oggi ad Atene di fronte alle autorità della Grecia. Un discorso denso di riflessioni sullo stato della democrazia in Europa.

 

Signora Presidente della Repubblica,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
distinte Autorità religiose e civili,
insigni Rappresentanti della società e del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio la Signora Presidente per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome vostro e di tutti i cittadini greci. È un onore essere in questa gloriosa città. Faccio mie le parole di San Gregorio di Nazianzo: «Atene aurea e dispensatrice di bene… mentre cercavo l’eloquenza, trovai la felicità» (Orazione 43,14). Vengo pellegrino in questi luoghi che sovrabbondano di spiritualità, cultura e civiltà per attingere alla medesima felicità che entusiasmò il grande Padre della Chiesa. Era la gioia di coltivare la sapienza e di condividerne la bellezza. Una felicità, dunque, non individuale e isolata, ma che, nascendo dallo stupore, tende all’infinito e si apre alla comunità; una felicità sapiente, che da questi luoghi si è diffusa ovunque: senza Atene e senza la Grecia l’Europa e il mondo non sarebbero quello che sono. Sarebbero meno sapienti e meno felici.

Da qui gli orizzonti dell’umanità si sono dilatati. Anch’io mi sento invitato ad alzare lo sguardo e a posarlo sulla parte più alta della città, l’Acropoli. Visibile da lontano ai viaggiatori che lungo i millenni vi sono approdati, offriva un riferimento imprescindibile alla divinità. È il richiamo ad allargare gli orizzonti verso l’Alto: dal Monte Olimpo all’Acropoli al Monte Athos, la Grecia invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto. Verso Dio, perché abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani. E mentre oggi, nell’Occidente da qui sorto, si tende a offuscare il bisogno del Cielo, intrappolati dalla frenesia di mille corse terrene e dall’avidità insaziabile di un consumismo spersonalizzante, questi luoghi ci invitano a lasciarci stupire dall’infinito, dalla bellezza dell’essere, dalla gioia della fede. Da qui sono passate le vie del Vangelo, che hanno unito Oriente e Occidente, Luoghi Santi ed Europa, Gerusalemme e Roma; quei Vangeli che per portare al mondo la buona notizia di Dio amante dell’uomo sono stati scritti in greco, lingua immortale usata dalla Parola – dal Logos – per esprimersi, linguaggio della sapienza umana divenuto voce della Sapienza divina.

Ma in questa città lo sguardo, oltre che verso l’Alto, viene sospinto anche verso l’altro. Ce lo ricorda il mare, su cui Atene si affaccia e che orienta la vocazione di questa terra, posta nel cuore del Mediterraneo per essere ponte tra le genti. Qui grandi storici si sono appassionati nel raccontare le storie dei popoli vicini e lontani. Qui, secondo la nota affermazione di Socrate, si è iniziato a sentirsi cittadini non solo della propria patria, ma del mondo intero. Cittadini: qui l’uomo ha preso coscienza di essere “un animale politico” (cfr Aristotele, Politica, I, 2) e, in quanto parte di una comunità, ha visto negli altri non dei sudditi, ma dei cittadini, con i quali organizzare insieme la polis. Qui è nata la democrazia. La culla, millenni dopo, è diventata una casa, una grande casa di popoli democratici: mi riferisco all’Unione Europea e al sogno di pace e fraternità che rappresenta per tanti popoli.

Non si può, tuttavia, che constatare con preoccupazione come oggi, non solo nel Continente europeo, si registri un arretramento della democrazia. Essa richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti. In diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di “scetticismo democratico”. Ma la partecipazione di tutti è un’esigenza fondamentale; non solo per raggiungere obiettivi comuni, ma perché risponde a quello che siamo: esseri sociali, irripetibili e al tempo stesso interdipendenti.

Ma c’è pure uno scetticismo nei confronti della democrazia provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia. Il rimedio a ciò non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili o nell’adesione ad astratte colonizzazioni ideologiche, ma sta nella buona politica. Perché la politica è cosa buona e tale deve essere nella pratica, in quanto responsabilità somma del cittadino, in quanto arte del bene comune. Affinché il bene sia davvero partecipato, un’attenzione particolare, direi prioritaria, va rivolta alle fasce più deboli. Questa è la direzione da seguire, che un padre fondatore dell’Europa indicò come antidoto alle polarizzazioni che animano la democrazia ma rischiano di esasperarla: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale» (A. De Gasperi, Discorso tenuto a Milano, 23 aprile 1949). Un cambio di passo in tal senso è necessario, mentre, amplificate dalla comunicazione virtuale, si diffondono ogni giorno paure e si elaborano teorie per contrapporsi agli altri. Aiutiamoci invece a passare dal parteggiare al partecipare; dall’impegnarsi solo a sostenere la propria parte al coinvolgersi attivamente per la promozione di tutti.

Dal parteggiare al partecipare. È la motivazione che ci deve sospingere su vari fronti: penso al clima, alla pandemia, al mercato comune e soprattutto alle povertà diffuse. Sono sfide che chiedono di collaborare concretamente e attivamente. Ne ha bisogno la comunità internazionale, per aprire vie di pace attraverso un multilateralismo che non venga soffocato da eccessive pretese nazionaliste. Ne ha bisogno la politica, per porre le esigenze comuni davanti agli interessi privati. Può sembrare un’utopia, un viaggio senza speranza in un mare turbolento, un’odissea lunga e irrealizzabile. Eppure il viaggio in un mare agitato, come insegna il grande racconto omerico, è spesso l’unica via. E raggiunge la meta se è animato dal desiderio di casa, dalla ricerca di andare avanti insieme, dal nóstos álgos, dalla nostalgia. Vorrei rinnovare a tale proposito il mio apprezzamento per il non facile percorso che ha portato all’“Accordo di Prespa”, firmato tra questa Repubblica e quella della Macedonia del Nord.

Guardando ancora al Mediterraneo, mare che ci apre all’altro, penso alle sue rive fertili e all’albero che potrebbe assurgerne a simbolo: l’ulivo, di cui si sono appena raccolti i frutti e che accomuna terre diverse che si affacciano sull’unico mare. È triste vedere come negli ultimi anni molti ulivi secolari siano bruciati, consumati da incendi spesso causati da condizioni metereologiche avverse, a loro volta provocate dai cambiamenti climatici. Di fronte al paesaggio ferito di questo meraviglioso Paese, l’albero di ulivo può simboleggiare la volontà di contrastare la crisi climatica e le sue devastazioni. Dopo il cataclisma primordiale narrato dalla Bibbia, il diluvio, una colomba tornò infatti da Noè portando «nel becco una tenera foglia di ulivo» (Gen 8,11). Era il simbolo della ripartenza, della forza di ricominciare cambiando stile di vita, rinnovando le proprie relazioni con il Creatore, le creature e il creato. Auspico in tal senso che gli impegni assunti nella lotta contro i cambiamenti climatici siano sempre più condivisi e non siano di facciata, ma vengano seriamente attuati. Alle parole seguano i fatti, perché i figli non paghino l’ennesima ipocrisia dei padri. Risuonano in questo senso le parole che Omero pone sulle labbra di Achille: «Odioso m’è colui, come le porte dell’Ade, ch’altro nasconde in cuore ed altro parla» (Iliade, IX,312-313).

L’ulivo, nella Scrittura, rappresenta anche un invito a essere solidali, in particolare nei riguardi di quanti non appartengono al proprio popolo. «Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero», dice la Bibbia (Dt 24,20). Questo Paese, improntato all’accoglienza, ha visto in alcune sue isole approdare un numero di fratelli e sorelle migranti superiore agli abitanti stessi, accrescendo così i disagi, che ancora risentono delle fatiche della crisi economica. Ma anche il temporeggiare europeo perdura: la Comunità europea, lacerata da egoismi nazionalistici, anziché essere traino di solidarietà, alcune volte appare bloccata e scoordinata. Se un tempo i contrasti ideologici impedivano la costruzione di ponti tra l’est e l’ovest del continente, oggi la questione migratoria ha aperto falle anche tra il sud e il nord. Vorrei esortare nuovamente a una visione d’insieme, comunitaria, di fronte alla questione migratoria, e incoraggiare a rivolgere attenzione ai più bisognosi perché, secondo le possibilità di ciascun Paese, siano accolti, protetti, promossi e integrati nel pieno rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità. Più che un ostacolo per il presente, ciò rappresenta una garanzia per il futuro, perché sia nel segno di una convivenza pacifica con quanti sempre di più sono costretti a fuggire in cerca di casa e di speranza. Loro sono i protagonisti di una terribile moderna odissea. Mi piace ricordare che quando Ulisse approdò a Itaca non fu riconosciuto dai signori del luogo, che gli avevano usurpato casa e beni, ma da chi si era preso cura di lui. La sua nutrice capì che era lui vedendo le sue cicatrici. Le sofferenze ci accomunano e riconoscere l’appartenenza alla stessa fragile umanità sarà di aiuto per costruire un futuro più integrato e pacifico. Trasformiamo in audace opportunità ciò che sembra solo una malcapitata avversità!

La pandemia è invece la grande avversità. Ci ha fatti riscoprire fragili, bisognosi degli altri. Anche in questo Paese è una sfida che comporta opportuni interventi da parte delle Autorità – penso alla necessità della campagna vaccinale – e non pochi sacrifici per i cittadini. In mezzo a tanta fatica si è però fatto strada un notevole senso di solidarietà, al quale la Chiesa cattolica locale è lieta di poter continuare a contribuire, nella convinzione che ciò costituisca l’eredità da non perdere con il lento placarsi della tempesta. Sembrano scritte per oggi alcune parole del giuramento di Ippocrate, come l’impegno a “regolare il tenore di vita per il bene dei malati”, ad “astenersi dal recare danno e offesa” agli altri, a salvaguardare la vita in ogni momento, in particolare nel grembo materno (cfr Giuramento di Ippocrate, testo antico). Va sempre privilegiato il diritto alla cura e alle cure per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani, non siano mai scartati: che gli anziani non siano le persone privilegiate per la cultura dello scarto. Gli anziani sono il segno della saggezza di un popolo. La vita è infatti un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata.

Cari amici, alcuni esemplari di ulivo mediterraneo testimoniano una vita così lunga da precedere la comparsa di Cristo. Secolari e duraturi, sono resistiti al tempo e ci richiamano all’importanza di custodire radici forti, innervate di memoria. Questo Paese può essere definito la memoria d’Europa – voi siete la memoria d’Europa – e sono lieto di visitarlo dopo vent’anni dalla storica visita di Papa Giovanni Paolo II e nel bicentenario della sua indipendenza. È nota, al riguardo, la frase del generale Colocotronis: “Dio ha messo la sua firma sulla libertà della Grecia”. Dio mette volentieri la firma sulla libertà umana, sempre e ovunque. È il suo dono più grande, quello che a sua volta più apprezza da noi. Egli, infatti, ci ha creati liberi e la cosa che più gradisce è che liberamente amiamo Lui e il prossimo. A consentirlo contribuiscono le leggi, ma anche l’educazione alla responsabilità e la crescita di una cultura del rispetto. A questo proposito, desidero rinnovare la gratitudine per il riconoscimento pubblico della comunità cattolica e assicuro la sua volontà di promuovere il bene comune della società greca, orientando in tal senso l’universalità che la caratterizza, nell’auspicio che all’atto pratico le siano sempre garantite quelle condizioni necessarie per ben adempiere il suo servizio.

Duecento anni fa, il Governo provvisorio del Paese si rivolse ai cattolici con parole toccanti: “Cristo ha comandato l’amore per il prossimo. Ma chi a noi è più prossimo di voi, nostri concittadini, benché ci siano alcune differenze nei riti? Noi abbiamo l’unica patria, siamo di un unico popolo; noi cristiani siamo fratelli – fratelli nelle radici, nella crescita e nei frutti – per la Santa Croce”. Essere fratelli nel segno della Croce, in questo Paese benedetto dalla fede e dalle sue tradizioni cristiane, esorta tutti i credenti in Cristo a coltivare la comunione a ogni livello, nel nome di quel Dio che tutti abbraccia con la sua misericordia. In questo senso, cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per l’impegno e vi esorto a far progredire questo Paese nell’apertura, nell’inclusione e nella giustizia. Da questa città, da questa culla di civiltà si è levato e sempre si levi un messaggio che orienti verso l’Alto e verso l’altro; che alle seduzioni dell’autoritarismo risponda con la democrazia; che all’indifferenza individualista opponga la cura dell’altro, del povero e del creato, cardini essenziali per un umanesimo rinnovato, di cui hanno bisogno i nostri tempi e la nostra Europa. O Theós na evloghí tin Elládha! [Dio benedica la Grecia!]

Dal sito: https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2021/december/documents/20211204-grecia-autorita.html

Il discorso citato di De Gasperi citato dal Papa è questo: https://alcidedigitale.fbk.eu/platform/?from=1948&to=1954&tags=partito

“Non dimenticare il tesoro di Bose”. Intervista a Riccardo Larini

Il 13 maggio 2020 il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin  ha emesso nei confronti della comunità di Bose un decreto singolare, approvato in forma specifica da papa Francesco, che ha lasciato esterrefatte moltissime persone. Torniamo, in occasione dell’uscita del libro di Riccardo Larini dedicato alla Comunità di Bose, dopo poco più di un anno sulla vicenda. In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro e diamo anche alcune notizie sullo stato di salute di Enzo Bianchi e sulla Situazione a Bose.

Il libro, Bose. La traccia del Vangelo, è stato scritto per consentire a chiunque lo voglia di conoscere più da vicino la realtà fondata nel lontano 1965 da Enzo Bianchi, attraverso un esame della sua storia e delle sue radici, caratterizzate da una profonda ricerca di fedeltà al vangelo e di laicità cristiana. Solo così sarà possibile non solo comprendere i recenti drammatici sviluppi occorsi a Bose, ma soprattutto riflettere sui tanti benefici che la comunità ha recato a un numero enorme di persone, nonché su tutto ciò che potrà continuare a donare se saprà riprendere le proprie intuizioni e corregge re i propri errori.

Per saperne di più sul libro si segua questo link: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/08/25/habemus-librum/

 L’autore: Riccardo Larini (Milano 1966), fisico, pedagogista, traduttore e teologo, dopo la laurea in fisica a Pavia si è dedicato agli studi di teologia ecumenica e di ermeneutica filosofica, prima presso la comunità di Bose (di cui è stato membro per undici anni) e quindi a Cambridge. Dopo avere diretto un collegio ecumenico in Inghilterra e una scuola europea in Estonia, ha deciso di dedicarsi prevalentemente all’attività professionale di esperto della formazione all’uso dell’intelligenza artificiale nell’apprendimento sia scolastico sia aziendale, e alla scrittura di articoli per il blog Riprendere altrimenti e per varie riviste italiane e straniere dedite alla divulgazione delle scienze religiose.

Larini, è passato poco più di un anno dalla nostra ultima intervista sulla crisi che ha investito la Comunità di Bose. Adesso è appena uscito il suo libro dedicato proprio alla storia di Bose, dalle sue origini, fino alle ultime tristi vicende. Però prima di inoltrarsi nella analisi del suo saggio, vorrei chiederle: cosa è cambiato un anno dopo?

Sarebbe bello poter dire che sono emersi spiragli di luce, di dialogo e di speranza, ma per ora, purtroppo, non è possibile. L’ipotesi di lasciare che Enzo Bianchi e chi continuava a riconoscersi in lui potesse trasferirsi nella fraternità di Cellole di San Gimignano, caldeggiata anche da diverse personalità ecclesiastiche sensibili e di valore, è stata affondata dal Delegato Pontificio e dalla componente comunitaria più ostile a qualsiasi dialogo. Di conseguenza, come peraltro aveva detto pubblicamente fin dal principio, il fondatore di Bose ha individuato dopo una faticosa ricerca un luogo idoneo alla sua vita e alla prosecuzione dei suoi impegni ecclesiali e civili, e il 30 maggio di quest’anno ha lasciato definitivamente i luoghi in cui era vissuto fin dal lontano 1965. Faccio notare, tristemente e per inciso, che quegli stessi organi di stampa cattolici che pure si erano scagliati contro la presunta e maliziosa indisponibilità di Bianchi a lasciare il proprio eremo, hanno passato totalmente sotto silenzio la sua partenza, e dunque la sua obbedienza al provvedimento pur ampiamente ingiusto della Segreteria di Stato. E anche la comunità, che pure non aveva esitato a emettere comunicati e veline talvolta spiacevoli sulla vicenda, non ha condiviso pubblicamente in alcun modo la partenza del suo fondatore.

So che ha incontrato Enzo Bianchi. Come sta?

Dal punto di vista spirituale e morale non ha perso la propria forza d’animo. Non l’ho trovato né rancoroso né incattivito, pur nella grande amarezza per tutto ciò che è accaduto. Fisicamente, invece, rispetto al nostro ultimo incontro avvenuto nel novembre del 2019, ho notato l’insorgere di evidenti difficoltà, soprattutto di deambulazione. Ormai non riesce più a camminare per più di qualche decina di metri senza provare dolore e affaticamento, e ha praticamente smesso di guidare l’automobile, per ragioni analoghe. Ha un evidente bisogno di sostegno nel quotidiano, ma per il momento vive da solo.

Approfondiremo, per quello che è possibile, più avanti alcuni passaggi chiave, richiamati nel suo libro, della crisi di Bose. Ora veniamo ad alcune linee paradigmatiche della esperienza bosina. Punti che costituiscono l’autentico tesoro evangelico di Bose. Sappiamo che Bose nasce da una intuizione evangelica, favorita dal clima conciliare, di Enzo Bianchi di costituire una comunità di semplici cristiani, quindi laici uomini e donne, che vogliono vivere l’evangelo, nel celibato profetico per il regno, nella compagnia degli uomini in una prospettiva ecumenica. Quello che ho richiamato si trova nelle “Tracce per una vita comune” del 1968. Quindi : Evangelo, laicità e Ecumenismo. Le chiedo come si è sviluppato questo tesoro?

Come sottolineo nel mio libro e più in generale nei miei scritti, le grandi creazioni comuni sorgono quando alcune persone colgono lo spirito che attraversa il loro tempo e la loro storia, e le fanno diventare realtà. In questo senso penso sia fondamentalmente sbagliato parlare di “carisma dei fondatori”, come si fa spesso nella vulgata cattolica, più ripetendo un cliché che non pensando veramente a fondo alle cose. Se lo stesso spirito colto da chi poi viene definito fondatore non viene riconosciuto in maniera unica e personalissima da ogni persona che si unisce al suo cammino, non si potrà mai costruire una casa comune solida, duratura e capace di svilupparsi.

Per contro, non vi è dubbio che senza la forza e la tenacia di grandi personalità, spesso di singoli leader, ben difficilmente un gruppo di persone può dar luogo a una creazione comune capace di non risultare effimera, in grado di non arrendersi e crollare di fronte alle prime difficoltà, sia esterne sia interne.

Nello specifico, Bianchi e coloro che hanno camminato con lui sia prima della nascita di Bose, sia durante la sua crescita e lo sviluppo della sua straordinaria parabola umana e cristiana, hanno colto ciò che da sempre costituisce la base più profonda del rinnovamento cristiano: il ritorno alle origini, a quel tempo che per certi versi precede la codifica di un’ortodossia ecclesiale, prima della divisione di cristiani in gruppi, categorie o addirittura “generi”. Alludo a un’epoca in cui già si erano manifestate divisioni dolorose e significative (il Nuovo Testamento è attraversato da palesi divergenze) ma in cui proprio per questo la ricerca della comunione tra diversi e tra comunità con parabole divergenti era sentita come un’esigenza fondamentale. Il concilio Vaticano II, sulla scia di altri grandi movimenti sorti al di fuori della chiesa cattolica fin dall’Ottocento (come ricostruisco nel mio studio su Bose), non aveva trovato tutte le soluzioni possibili, ma aveva identificato una traiettoria di aggiornamento, di ritorno alle origini, che Bose ha intercettato come pochissime altre realtà del cristianesimo, non solo italiano. L’unico tratto più peculiare rispetto a un puro ritorno alle origini, è stato rappresentato a Bose dalla scelta, non del tutto scontata, di dare vita a una comunità di “celibi per il regno”, senza tuttavia che con questo si intendesse contraddire la fondamentale laicità dell’esperienza che si era deciso di avviare.

Un tesoro cosi può reggere nella Chiesa cattolica?

La chiesa cattolica, per sua natura, tende sempre a inglobare e omologare, e non solo a categorizzare le esperienze religiose di qualsiasi genere e natura. Questo non è sempre e solo negativo: già la Prima Lettera di Giovanni invita a “mettere alla prova gli spiriti”, ovverosia a sottoporre ogni ispirazione a un cammino di verifica. E le autorità umane hanno probabilmente qualche ruolo anche in tale direzione. Bose, però, è nata, per sua stessa autodefinizione, come comunità non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, “non cattolica, protestante o ortodossa ma di cattolici, protestanti e ortodossi”, nel rispetto di ogni singola chiesa e delle rispettive autorità. Questa sana “marginalità” le ha consentito di essere luogo di incontro per tutti (e non solo per i cristiani o per i credenti in generale), di acquisire una credibilità senza pari nell’ecumene cristiano e nel mondo della cultura laica, e tutto ciò senza assumere traiettorie bizzarre o eccentriche. Tuttavia, per ragioni complesse, la comunità ha finito per entrare di fatto nell’alveo della chiesa cattolica, sia a motivo della propria crescente complessità e dimensione, sia per favorirne un consolidamento istituzionale in vista della successione di Enzo Bianchi, consolidamento che si è rivelato a mio avviso maldestro. Una volta immessa formalmente nell’alveo del cattolicesimo, Bose ha finito per perdere qualcosa di importante, ed è risultata inoltre drammaticamente esposta agli aspetti meno luminosi della tradizione cattolica. Non me la sento ovviamente di esprimere giudizi sommari su quest’ultima, ma sicuramente l’istituzionalizzazione in senso cattolico porta non di rado a soffocare le esperienze profetiche.

Lei nel suo bel libro porta alla luce, per quelli che non conoscono l’esperienza di Bose, i valori e il contributo davvero notevole sul piano teologico, liturgico, estetico, architettonico, editoriale che Bose ha offerto al cristianesimo contemporaneo (quindi a tutte le confessioni). Insomma quella di Bose è una esperienza di bellezza dell’Evangelo che tocca tutta la dimensione umana. Qual è stato il contributo più importante che la comunità ha dato alle Chiese?

Tra i molti ne sottolinerei almeno due. In primo luogo la capacità, decisamente inconsueta, di dare vita a liturgie di rara bellezza ed evangelicità, in grado di far vivere in profondità il mistero cristiano. Sono vissuto in molti paesi, ho sperimentato molti modi di fare comunità nel cristianesimo e di esprimerne l’identità e la forza trasformatrice nel culto, ma non ho mai incontrato da nessuna parte qualcosa di paragonabile alla creatività liturgica bosina. In Italia sicuramente c’è oggi molta povertà e manca quasi totalmente una sperimentazione liturgica intelligente. Accanto alla liturgia, direi che Bose ha saputo creare e vivere un “codice deontologico dell’ecumenismo” che è un vero e proprio paradigma dell’incontro tra visioni differenti, ben al di là del cristianesimo e della stessa religione. Ce n’è un bisogno enorme nel nostro mondo diviso e frammentato.

La compagnia degli uomini, anche da celibi, implica un “giudizio”,alla luce del Vangelo, sulla società contemporanea. C’è un giudizio politico di Bose sulla società?

Sicuramente. Ma non nel senso più comune del privilegiare una o l’altra delle parti che si contendono il potere sul terreno della “politics”, ma in quello più alto della ricerca dei valori e delle “policies” che li possono perseguire. Enzo Bianchi soprattutto (perché questo è stato più un suo dono che non un dono generale della comunità) ha saputo esprimere con franchezza perplessità e critiche importanti riguardo all’evoluzione della cultura e della società italiane e non solo. La comunità, per contro, ha sempre espresso un giudizio con il suo semplice stile di vita, con le sue scelte, i suoi valori. Non è mai possibile separare la fede dalla vita nella società, soprattutto se si decide di vivere una marginalità, come si dice a Bose, “nella compagnia degli uomini”. Come accadde a Thomas Merton, che cito nel mio libro, a un certo punto è necessario compiere una conversione da “cercatori della santità” a “testimoni colpevoli” delle storture del mondo.

Veniamo alle ultime vicende. La crisi di Bose parte da lontano. Attraversa molteplici aspetti. Qual è secondo lei l’elemento scatenante? Era così necessario il ricorso alla Santa Sede?

Come ogni comunità umana, anche Bose ha visto svilupparsi al proprio interno dei problemi, anche seri. È un fatto umano, umanissimo, che non rappresenta di per sé uno scandalo. Un intero capitolo del mio saggio è dedicato a questo. E umano è anche per certi versi che non si sia riusciti ad affrontare internamente il conflitto, soprattutto quando, come accade spesso nella chiesa, non si è abituati a riconoscere e accettare conflitti e differenze di sostanza. Lo snodo cruciale è tuttavia che ogni volta che degli esseri umani si legano vicendevolmente sorge la questione del potere. Certo, facendo i “santi da soli” la vita sarebbe più facile, ma cosa sarebbe il cristianesimo senza dimensione comunitaria? Ma il potere, nella chiesa, viene affrontato troppo spesso tramite il meccanismo del sacro, che porta inesorabilmente a sviluppare forme di violenza, come ha mostrato in maniera magistrale René Girard. Laddove si cerca in qualsiasi modo di anteporre alla coscienza individuale l’erezione a “vicari di Cristo” di singole persone (presbiteri, vescovi, abati) o anche del capitolo di una comunità monastica, si cozza inesorabilmente contro l’unica vera realtà totalmente sacra: ogni singola persona. Il cristianesimo deve oggi interrogarsi profondamente riguardo a queste dimensioni, se vorrà sopravvivere in una forma realmente evangelica e conforme allo sviluppo dello spirito umano. Il ricorso alla Santa Sede era una possibilità, accanto ad altre, ma non era né l’unica né certamente, alla luce di quanto accaduto, la più saggia.

Nell’ultimo capitolo parla dei protagonisti di questi tempi difficili. Sono rimasto colpito dalla figura del delegato pontificio: il canossiano Cencini. Da quello che emerge, leggendo le sue pagine, è una figura assai dura e molto chiusa al dialogo. Non proprio un mediatore ma un intransigente. Una domanda sorge spontanea : perché la Santa Sede si è messa nelle mani di una persona così dura? Che cosa voleva ottenere?

Come già le ho detto un anno fa in un’altra intervista, non mi occupo di politica ecclesiastica o di dietrologie vaticaniste: non ho né l’interesse né le competenze per farlo. E neppure sono nella testa del Delegato Pontificio. Posso dunque solo, basandomi su quanto ha scritto, detto e fatto in tanti anni, ribadire che si tratta di una persona che opera in modi sbagliati e, nella fattispecie del caso Bose, antiumani e antievangelici. Tutti lo dicono da tempo, compresi molti vescovi, nei “corridoi della chiesa”, ma nessuno ha il coraggio di denunciarlo ad alta voce. Di fatto Cencini è vittima delle proprie rigide teorizzazioni che lo portano a intervenire con soluzioni predeterminate, senza mai promuovere dialoghi reali. Infine, con molta onestà e franchezza, devo dirle che non è a me che dovrebbe chiedere spiegazioni sulle scelte della Santa Sede. Ognuno si deve assumere le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie iniziative e dei propri fallimenti. Nessuno ne può essere esentato, neppure un vescovo di Roma, soprattutto in un sistema che gli conferisce poteri (e dunque responsabilità) che nessuno possiede sulla terra.

Lei vede la figura di Enzo Bianchi come un “capro espiatorio”. È servito a qualcosa il sacrificio?

Preciso innanzitutto che nel mio libro non limito al solo fondatore di Bose l’attribuzione del titolo di “capro espiatorio”. Vorrei che non ci dimenticassimo mai degli altri tre membri della comunità che sono stati banditi dalla medesima, Antonella, Goffredo e Lino, e dei molti che sono stati, in un modo o nell’altro, costretti ad andarsene, con pressioni psicologiche anche gravi. Le sofferenze susseguitesi all’intervento vaticano sono state ancora più pesanti di quelle che lo avevano suscitato, da una parte come dall’altra del conflitto di potere in atto. Ho scelto volutamente questa metafora biblico-ebraica e girardiana per indicare un problema fondamentale: a Bose sono sorti dei problemi che coinvolgevano tutti, ma si è scelto di “risolverli” eliminando una parte, senza tuttavia affrontare in realtà in alcun modo il nodo cruciale di come migliorare il dialogo interno e accettare e gestire gli inevitabili conflitti che sorgono in una comunità così complessa e numerosa. Tanto è vero che il successore di Bianchi compie oggi gesti mai visti a Bose in passato e totalmente estranei sia allo spirito sia alla lettera della stessa Regola di Bose, come l’esclusione dal capitolo e dai pasti comunitari per lunghi periodi di chiunque ne contraddica la voce nello stesso capitolo.

In questa vicenda quali sono stati i limiti del fondatore?

Penso di poter dire che da un lato non è riuscito a discernere come aveva fatto in passato l’insorgere di difficoltà e problemi non dovuti certamente solo o a lui, ma comunque avvertiti come seri da un certo numero di fratelli e di sorelle della comunità. E dall’altro, non ha saputo cogliere il momento giusto per andarsene a condizioni ben diverse, che egli stesso avrebbe potuto dettare, con un paio d’anni almeno di anticipo. Ma onestamente, quando sei stato il protagonista principale di una creazione così eccezionale, lungo un arco di tempo superiore ai cinquant’anni, è difficilissimo, se non sei aiutato a farlo a chi ti sta intorno, compiere un passo di tal genere. Per quanto mi è dato di sapere, non conosco “fondatori” che lo abbiano mai fatto…

Lei parla di non rispetto dei diritti umani in tutta questa vicenda. Perché?

Nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate. A prescindere da come la si pensi sul conflitto esploso a Bose, non si può accettare una modalità di giudizio e di intervento che non ha tenuto in alcun conto i diritti degli “imputati” (che non sono stati neppure tali, in quanto sono passati direttamente allo status di “condannati”).

Inoltre il provvedimento vaticano, come hanno mostrato diversi giuristi, non potrebbe mai essere applicato nel territorio italiano senza essere recepito da un tribunale ordinario (che mai lo farebbe), in quanto priva delle persone molto concrete di diritti fondamentali, a partire da quello di usufruire e di godere dei beni materiali e spirituali che hanno contribuito (alcuni in maniera massiccia e determinante) a realizzare. L’allontanamento dalla propria dimora e la proibizione di intessere relazioni con altre persone è un fatto gravissimo nell’ordinamento giuridico italiano, e nei confronti di alcuni allontanati, proprio nelle ultime settimane, è stata aggiunta anche la cancellazione unilaterale del contributo di sussistenza che pure era stato concordato per iscritto.

Credo sia tristissimo che in molti – anzi, decisamente in troppi – nel mondo cattolico si siano interessati molto di più ai presunti abusi compiuti dal fondatore di Bose (di cui non vi è traccia nel Decreto singolare né, ad oggi, è emerso alcun esempio concreto) che non ai palesi abusi compiuti dalla Santa Sede nei confronti di cittadini italiani. Un conto è non volersi schierare nel conflitto (decisione legittima e rispettabilissima), tutt’altra cosa è chiudere gli occhi di fronte a queste cose. Nessuna chiesa può essere veramente evangelica se non persegue fino in fondo la verità e non rispetta radicalmente la dignità di ogni persona, che ha diritti inalienabili.

Siamo alla fine di questa nostra lunga conversazione. Come riprendere un cammino riconciliato?

 Nel mio libro avanzo qualche timida proposta, basata soprattutto sul fatto che Bose possiede diverse case in giro per l’Italia. La riscoperta di dimensioni più piccole e umane aiuterebbe molto, e permetterebbe a gruppi di persone che ormai hanno visioni parzialmente divergenti della storia di Bose di continuare a vivere la vita a cui si sono votate senza una costante atmosfera di conflitto e senza cercare di risolvere i problemi eliminando del tutto l’altra parte dal proprio orizzonte. Ancora più importante, però, sarebbe la scelta (o l’invio?) di un nuovo, vero mediatore (o gruppo di mediatori), che avvii un autentico processo di confronto tra le parti in conflitto, e che guidi la comunità a (re-)imparare l’arte del dialogo fraterno. Perché c’è ancora un enorme bisogno di Bose nella chiesa e nelle chiese.

 

100 anni di Pax Romana, imparando che l’unità politica dei cattolici era transeunte e che la teologia morale da ripensare. Intervista a Stefano Ceccanti

Proprio oggi,  cento anni fa, nacque a Friburgo l’associazione cattolica “Pax Romana”. Con Stefano Ceccanti, ex Presidente nazionale della FUCI e attualmente costituzionalista e deputato del PD, cerchiamo di capire che cosa ha significato la nascita di “Pax Romana” per il laicato cattolico.

Professor Ceccanti, in un recente articolo del Riformista, ed anche oggi su Avvenire, lei ha ricordato che nel luglio del 1921, esattamente cento anni fa, dopo la prima guerra mondiale e all’esplosione dei nazionalismi esasperati, nacque a Friburgo l’associazione internazionale degli universitari cattolici Pax Romana che poi funzionò fino al Concilio Vaticano II come un grande network montiniano e maritainiano, fornendo la gran parte degli uditori laici al Concilio. Ha anche ricordato che analogamente a quanto era successo in Italia dove dalla Fuci era germogliato il Movimento Laureati di Azione Cattolica (oggi Meic), nel 1947 era poi sorto anche il secondo ramo di Pax Romana, quello appunto dei laureati. Un anno prima era sorta la Jec internazionale, coinvolgendo gli studenti delle secondarie, a cui corrisponde in Italia il Movimento Studenti dell’Azione Cattolica. Forse però vale la pena ora di concentrarci su quello che è successo dopo, nel post-Concilio, a cominciare dagli aspetti ecclesiali: le intuizioni di Pax Romana sono state sostanzialmente fatte proprie dalla Chiesa oppure anche problematizzate?

Un’esperienza di frontiera quale è quella di associazioni di ambiente, per di più inviate in ambienti che si erano separati dall’influenza della Chiesa in modo anche polemico, è sempre per sua natura sperimentale. La realtà ecclesiale pone domande all’ambiente ed anche viceversa. In questo senso il Concilio ha fatto proprio il metodo, per così dire, sperimentale, tra Chiesa e mondo ed ancor più puntualmente il documento montiniano del 1971, la Lettera Octogesima Adveniens del 1971, specie al suo paragrafo 4. Altra cosa sono i le sperimentazioni concrete, che sono destinate ad essere superate. Paradossalmente, siccome il metodo è confermato, i punti provvisori di arrivo vengono problematizzati. Nei movimenti di ambiente il post-concilio determina anzitutto un nuovo protagonismo delle periferie ed in particolare dell’America Latina. Quel movimento composito che chiamiamo teologia della liberazione parte dal movimento universitario brasiliano e da quello peruviano, il cui assistente è per molti anni Gustavo Gutierrez. Però non possiamo dire esattamente che Gutierrez viene a sostituire Maritain perché in realtà, come spiega per l’appunto Paolo Vi nel testo del 1971, la Chiesa riscopre non solo la propria dimensione internazionale, ma anche policentrica. Mentre i vari filoni conciliari in America Latina, con risonanza globale, cercano di declinare il tema dell’opzione per i poveri, in realtà negli altri continenti soprattutto nel Nord del mondo le priorità non potevano essere le stesse. Devo dire che poi la situazione si è molto evoluta anche in America Latina, ad esempio con le riflessioni sulla teologia della rigenerazione dell’attuale arcivescovo di Lima Carlos Castillo, che è sttao anche lui assistente del movimento peruviano

Ma in Europa e nel Nord del Mondo quali sono stati quindi gli specifici problemi e le specifiche priorità?

In Europa sono due i temi che animano maggiormente i dibattiti dopo il Concilio, molto diversi tra di loro. Il primo è quello del rapporto tra comunità cristiane e politica: l’opzione preferenziale per la democrazia finalmente sancita dalla Gaudium et Spes pone in prima fila la Chiesa nel rompere i rapporti coi precedenti regimi autoritari in Portogallo e in Spagna. A ciò, col nuovo pontificato di Giovanni Paolo II, si aggiunge il protagonismo nell’abbattimento delle cosiddette democrazie popolari. Dentro le democrazie, però, già il Concilio e poi la Octogesima Adveniens, avevano stabilito come regola il pluralismo. Può sembrare strano perché il Concilio, almeno a prima vista, era segnato dall’apogeo delle Democrazie Cristiane, almeno in Italia ed in Germania, mentre l’Mrp francese stava scomparendo. In realtà la Cdu tedesca era (ed è) un partito molto diverso dalla Dc italiana non solo perché interconfessionale con una significativa presenza evangelica e posizionato più chiaramente sul centrodestra,, ma anche perché dalla svolta della Spd di Bad Godesberg la Chiesa cattolica aveva assunto una posizione di equidistanza istituzionale tra i due maggiori partiti e c’era già una presenza significativa di cattolici nella Spd. Lo spiegò anni fa l’allora cardinale Ratzinger in una conferenza al Senato italiano causando stupore in molti che credevano erroneamente che lo schema fosse simile a quello italiano. Quindi in realtà il Concilio e poi l’Octogesima Adveniens prendono atto di una situazione di fatto, a cui l’Italia continuava a fare eccezione.

Proseguiamo su questo primo punto, ma cosa motivava l’eccezione?

Lo spiega il vescovo francese Matagrin che fu l’estensore del documento dei vescovi francesi del 1972 a favore del pluralismo politico. Paolo VI approvò il documento, che del resto era la diretta conseguenza dell’Octogesima Adveniens, ma gli spiegò che riteneva diversa la situazione politica italiana. Il testo francese era scritto per riconoscere la legittimità della presenza anche nel nuovo Partito Socialista accanto a quella più tradizionale nei partiti di centrodestra, mentre in Italia il problema era che il primo partito della sinistra si diceva ancora comunista, quindi espressione di una religione secolare. Era l’egemonia comunista sulla sinistra che comportava il mantenimento dell’opzione prudenziale per l’unità politica dei cattolici. Questo però aveva precise conseguenze sui movimenti di ambiente collocati nella scuola, nell’università e nel mondo del lavoro. Al di là delle scelte dei singoli, nello schema italiano di tipo montiniano e degasperiano, essi avevano la funzione di presidiare socialmente e culturalmente le correnti di sinistra del partito unitario. Più precisamente i movimenti intellettuali di Azione Cattolica avevano il loro referente naturale nella corrente morotea, quelli del mondo del lavoro nella corrente di Forze Nuove. Viceversa fuori dall’Italia, dove il partito più forte della sinistra non era comunista, era saldamente pro occidentale, la collocazione naturale era quella nei partiti socialisti. Non a caso Pax Romana esprime due Presidenti del Consiglio nel nuovo Portogallo democratico: prima Pintasilgo, che poi è anche la capolista socialista per le prime elezioni europee a cui partecipa il suo Paese, e quindi Guterres, l’attuale segretario generale dell’Onu. Diciamo che in Europa sulla politica al Maritain iniziale, teorico delle democrazie cristiane (che poi però sarebbe divenuto un filosofo cristiano della democrazia) per questi movimenti si sostituiva Mounier, secondo il quale la collocazione naturale di questi settori era nella sinistra non comunista.

Al di là delle diversità delle singole persone c’erano quindi per così dire delle scelte quasi naturali?

Sì, nella prima sessione europea a cui partecipai nell’aprile del 1981, in concomitanza col primo turno delle presidenziali francesi era abbastanza pacifico che la grande maggioranza dei quadri di questi movimenti votasse socialista e non solo nel Regno Unito dove c’era una classica vicinanza col Labour. Per inciso la moglie di Tony Blair faceva parte in quegli anni del movimento secondario e c’era stato un afflusso significativo di quadri nel Ps francese (più però nell’area di Delors e Rocard) ed anche il nostro presidente mondiale Carbonell era già impegnato nel Partito Socialista Catalano, di cui sarebbe poi stato parlamentare regionale.

E come leggevano la situazione italiana?

R-Noi portammo come relatrice in quella sessione Paola Gaiotti, che era stata eletta al Parlamento europeo grazie alla sinistra dc del Nord-Est. Piacque a tutti moltissimo per i contenuti, ma alla fine ci chiesero come facesse a stare nel Ppe anziché nel Pse. Non era tanto facile spiegarlo. Però da questo ci rendemmo conto che eravamo noi l’eccezione e non la regola e che quella eccezione non poteva che essere transeunte. Da lì poi partimmo con le iniziative per la democrazia dell’alternanza, compresi i referendum elettorali. Ci sembrava un modello più fecondo per la democrazia e anche per la Chiesa.

E il secondo tema?

Era quello del cosiddetto scisma sommerso, per dirla col filosofo Pietro Prini. Nelle società avanzate si era determinata una situazione nuova. Mentre nelle società tradizionali maturità fisica, entrata nel mondo del lavoro e matrimonio erano sostanzialmente allineati, viceversa già negli anni ’70 e ’80 si era già creato un ampio periodo di intervallo tra maturità fisica da una parte, stabilità lavorativa e scelta matrimoniale. Le categorie tradizionali elaborate dalla teologia morale e recepite dal Magistero non sembravano comprensibili, erano percepite come una somma di divieti, ampiamente disapplicati proprio perché non comprensibili. Era difficile individuare soluzioni, però il problema non poteva essere negato, ma a parte poche voci come in Italia il cardinal Martini non si riusciva a passare dai dibattiti informali a una vera discussione pubblica. Era però un nodo scoperto, come emerse anche in due conflitti, uno italiano ed uno europeo.

Quali furono?

Il primo fu una educata ma ferma contestazione a monsignor Carlo Caffarra alla settimana teologica della Fuci del 1980 perché aveva esposto tesi iper-rigoriste. Il secondo fu la visita di Giovanni Paolo II al campus di Lovanio. Venne scelta come oratrice Veronique Oruba, del nostro segretariato europeo Jec-Miec, che chiese con franchezza di rielaborare un insegnamento in chiave più personalistica, ma questa franchezza non fu presa tanto bene, almeno sul momento. Lei ebbe dei problemi con l’Università, poi per fortuna superati.

Una situazione spiacevole

Sì, ma sono contrario ai vittimismi. Se si sceglie un approccio sperimentale, di stare sulla frontiera, pur senza fare scelte estreme, provocatorie, ma in modo giustamente sobrio, direi moroteo, è anche inevitabile che ci possano essere incomprensioni. Come diceva il padre domenicano Maydieu ai residenti cattolici francesi contro Vichy era vero che la scelta di ribellarsi a quella che secondo alcuni era un potere legittimo non poteva poggiare su un qualche documento magisteriale pre-esistente, ma l’importante era che fosse ragionevole pensare che nell’arco di una generazione, ex post, quel documento avrebbe potuto esserci. In effetti ci fu poi la Gaudium et Spes per l’opzione preferenziale per la democrazia e la Populorum Progressio sul diritto di resistenza. Per di più, obiettivamente, abbiamo vissuto momenti privilegiati come il seminario segreto di Pax Romana convocato in fretta e furia nel maggio 1985 in Polonia sulle prospettive che si aprivano con l’arrivo di Gorbaciov alla guida del Pcus il mese precedente.

E cosa accadde?

Il seminario fu convocato dal nostro movimento polacco, il Kik, nel presupposto che prima o poi la cosiddetta democrazia popolare sarebbe caduta. Liberi dal dover essere uniti contro il Regime, ci fu una significativa maggioranza, che ovviamente noi dell’Ovest supportammo, per la creazione di una normale democrazia occidentale legata all’Europa. Però ci fu anche una consistente minoranza, proveniente dalle zone più agricole, che ipotizzava un rapporto tra Chiesa cattolica e democrazia analogo a quello della Costituzione italiana con l’Islam. Per fortuna poi nel 1989 il Presidente del Kik Mazowiecky divenne primo ministro. Però vedemmo allora che ci potevano essere dei problemi. Del resto la democrazia non si sviluppa in modo lineare.

 

 

“Per la Chiesa cattolica sarà determinante il prossimo Sinodo mondiale dei vescovi”. Intervista a Marco Politi


Papa Francesco è nell’ottavo anno di Pontificato. Moltissimi processi, nel senso di nuovi cammini, sono stati avviati. Si pensi ad esempio alla bellissima lettera sulla fratellanza universale, firmata insieme al grande Iman Ahmad Al-Tayyeb, che ha ispirato  grande enciclica “Fratelli tutti”. Per non dire della “Laudato si”. Tutto questo è un grande arricchimento per la Chiesa cattolica. Però all’interno vi sono inquietudini e “lamentazioni” (critiche). Per esempio ha colpito molto una recente presa di posizione, assai dura, di un importante intellettuale cattolico, il professor Alberto Melloni. Lo storico della Chiesa ha scritto un articolo, apparso su Repubblica, dal titolo assai significativo : Francesco e il giugno nero della Chiesa. Nell’articolo si prendono di mira alcune decisioni del papa (dalla lettera al cardinale Marx, fino alla vicenda di Bose e di Becciu).”c’è un filo tra questi atti? (…)Fossero anche eventi slegati il loro accumularsi è un fatto  che prepara tempesta”. Ma com’è lo stato della Chiesa cattolica? Ne parliamo, in questa intervista, con il vaticanista Marco Politi. Politi è stato per diversi anni vaticanista di “Repubblica” e attualmente è editorialista del “Fatto Quotidiano”. E’ autore di diversi saggi. L’ultimo è uscito per Laterza : Francesco. La peste, la rinascita (pagg. 114, 2020).

 

 

Marco, cosa pensi dell’analisi di Melloni  ?

Non credo che la gran massa del miliardo e trecento milioni di cattolici sparsi per il mondo avverta questo giugno cosiddetto nero. La peste del Covid è in pieno corso in moltissime nazioni, il 70 per cento dei londinesi è vaccinato, mentre in Africa solo il 2 per cento. Tanto per capire la drammaticità della situazione. Nei paesi del Primo Mondo, dove le cose vanno meglio, c’è una economia da ricostruire
, diseguaglianze crescenti da superare. In molte regioni asiatiche aumenta la schiavitù, in altre cresce lo sfruttamento brutale del lavoro minorile. Chi se ne importa di una recognitio alla Congregazione del Clero o di un audit al Vicariato di Roma o di una perquisizione nella diocesi di Ozieri, di cui la maggioranza degli stessi italiani ignora l’esistenza.

 

 Cosa conta allora ?

Ciò che suscita l’attenzione del mondo cattolico sono gli eventi fondamentali. La cacciata del cardinale Becciu dal suo posto in curia perché la mala amministrazione non può essere tollerata al vertice della Chiesa. L’inaudita opposizione dell’ex papa Ratzinger e del cardinale Sarah all’ipotesi di un clero non celibatario. Il gesto di Francesco che accoglie in Vaticano un transessuale spagnolo con la sua partner: gesto che rimarrà quando il responso del Sant’Uffizio sul divieto alle benedizioni delle coppie gay sarà già caduto nel dimenticatoio.

 

Qual è il limite della presa di posizione di Melloni?

Ogni analisi è un contributo prezioso. Ma ritengo che vada rovesciata la prospettiva. Inutile fissare solo lo sguardo sul pontefice regnante. I papi non sono onnipotenti. Il loro potere è o sembra assoluto solo quando sono conservatori. Chi riforma si scontra con resistenze, paure, pigrizie mentali. Lo sguardo a rivolto alla magmatica transizione in corso da oltre mezzo secolo in seno al cattolicesimo. Il vecchio modello tridentino non funziona più, il modello sinodale, aperto alle profonde trasformazioni della psiche sociale, non si è ancora né delineato né tantomeno affermato.

 

L’attacco di Melloni è  stato ripreso dall’ala ultra conservatrice della Chiesa. Uno di loro, Antonio Socci, uno dei più duri e ostili a papa Francesco, ha affermato che l’analisi di Melloni è il segnale che i progressisti stanno “scaricando” Francesco. Socci termina il suo articolo con l’esortazione a papa Francesco “a riprendere la via eroica di papa Wojtyla e Ratzinger”. Cosa pensi di questa affermazione?

 I falchi conservatori non creano il futuro e non capiscono il presente. Il manifesto sulla libertà della Chiesa, firmato dal cardinale Mueller e dall’ex nunzio Viganò, per contrastare le misure sul Covid è stato un flop. La cosa essenziale oggi è cercare di cogliere non quello che succede tra i “generali” ma nella massa del cattolicesimo. Perché non c’è stato tra i preti italiani un movimento di protesta – come nei paesi del Nord Europa – contro il divieto di benedizione delle coppie gay? Perché tra i vescovi italiani non ce n’è stato uno che abbia chiesto che una personalità come Enzo Bianchi sia nuovamente valorizzata? Perché tra i vescovi e i cardinali del mondo non si sono avute pubbliche prese i posizione contro la pattuglia conservatrice internazionale (incluso Ratzinger) che ha voluto legare le mani a papa Francesco sulle misure auspicate dal sinodo dell’Amazzonia? Perché tre quarti dei vescovi americani in queste ore si contrappongono alla linea papale, fissati con l’idea di punire con l’esclusione dall’eucaristia Biden e altri politici che ammettono una legislazione sull’aborto? Perché la maggioranza degli episcopati mondiali non ha voglia di mettere in piedi un sistema rigoroso per contrastare e smascherare gli abusi sessuali nell’istituzione ecclesiastica? Il grido d’allarme di Marx non vale solo per il caso Germania.

 

Veniamo ad alcuni nodi.  Per esempio sinodalità. La Chiesa tedesca sta dando prova di grande protagonismo sinodale. Sappiamo che questo protagonismo preoccupa l’anima ultra conservatrice della Chiesa. Come stanno le cose?

 Io chiederei piuttosto quale contributo gli episcopati del mondo danno alle domande cruciali poste in Germania: potere e divisione dei poteri nella Chiesa, ruolo delle donne, vita sacerdotale oggi, relazioni e sessualità. La riposta è: pubblicamente quasi zero. Ma le svolte, come il concilio Vaticano II, non si fanno perché un papa emana un decreto o una singola conferenza episcopale scrive un documento. I cambiamenti si fanno perché c’è un attivo movimento riformatore internazionale come negli anni ’60 del secolo scorso.
Il bilancio di questi anni mostra che un simile movimento massiccio pro-riforma non è ancora sorto.

 

Era così necessaria la scomunica per chi ordina le donne sacerdote?

Non era né urgente né necessario. Sappiamo tutti che prima o poi anche la Chiesa cattolica avrà donne-sacerdote e sappiamo anche che questo non riempirà maggiormente le chiese alla messa domenicale. Ma in ogni caso è storicamente necessario. Tuttavia bisogna essere franchi: per le riforme ecclesiali più ardite papa Francesco non dispone di una maggioranza di due terzi all’interno dell’episcopato mondiale.

 

Sul piano della curia come sta procedendo la riforma?

La riforma della curia è entrata nel suo stadio finale, ma in ultima analisi non sarà un evento primario. Molto più importante è stata la riforma riguardante i beni finanziari e immobiliari della Santa Sede fatta da Francesco: nel senso della centralizzazione della gestione (Apsa) e della centralizzazione dei controlli da parte della Segreteria per l’Economia

 

Pur nelle difficoltà questo pontificato ha dato alla Chiesa elementi pieni di futuro. Abbiamo detto già la fraternità e l’ecologia integrale. Sul piano della fede quale elemento sta facendo emergere Papa Francesco?

Papa Bergoglio resta una pietra miliare del “processo di transizione” ecclesiale, perché propugna un cristianesimo che non si limita ad essere identitario, ma si prende cura del prossimo e del creato. Perché predica un Dio padre di tutti – uomini e donne di ogni religione e filosofia – e non solo dei battezzati. Un Dio misericordioso dalla parte degli esseri umani, lontano dal clericalismo e dall’idolatria monarchica dell’apparato vaticano. Il prossimo sinodo mondiale dei vescovi, che si svolgerà nell’arco di due anni, iniziando nell’ottobre 2021 passando dal piano delle diocesi, passando poi a quello continentale, arrivando infine nel 2023 al livello universale, sarà il test dello stato di salute della Chiesa cattolica oggi. Si parlerà della missione della Chiesa nel XXI secolo, della partecipazione, della sinodalità. Cioè di tutto. Quasi un concilio.