La guerra dei tradizionalisti a Papa Francesco. Intervista ad Andrea Grillo

grilloIn questi giorni Massimo Franco, notista politico ed esperto di cose vaticane per il Corriere della Sera, in un pezzo dal titolo “I tradizionalisti contro Francesco” riporta, nell’articolo, l’appello, ripreso dal blog ultraconservatore “Corrispondenza romana”, di 45 teologi e storici in cui si chiede al collegio cardinalizio di intervenire sul Papa affinché  si ripudino “gli errori presenti nel documento in modo definitivo e finale, e di dichiarare autorevolmente che non è necessario che i credenti credano a quanto affermato dall’Amoris laetitia». E’ l’ultimo di una serie di episodi della guerra dei tradizionalisti contro Francesco. Ne parliamo con Andrea Grillo, docente di Teologia Sacramentaria e Filosofia della religione al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.

 

Professore, l’impressione che si ha è che il dissenso si stia allargando. È così? Oppure è solo una enfatizzazione mediatica…?

Penso che sia buona norma, anche per i giornalisti famosi, di controllare le fonti su cui basano i loro articoli. Il documento di cui si parla nel pezzo citato è un testo scritto nel linguaggio di 150 anni fa, e firmato da pochi sconosciuti. Gli unici firmatari noti appartengono a settori isolati, marginali e autoreferenziali della Chiesa cattolica. Far passare questa per opposizione a Francesco è una operazione mediatica senza alcun fondamento. Fa sorridere. Al di là dei giornalisti, io direi a coloro che hanno problemi, di esibire qualche argomentazione fondata, qualche ragionamento convincente. Fino ad ora hanno esibito solo propaganda vecchia e presuntuosa disperazione.

Quanta presa hanno sul Popolo di Dio queste posizioni?

Queste posizioni trovano attenzione – e sono anche sollecitate – soltanto da alcuni ambienti curiali – romani o periferici – che nulla hanno a che fare con il popolo di Dio. Sono giochi di potere di chi vede messo in discussione il proprio ruolo clericale, che prima sfuggiva ad ogni controllo e che ora non gode più di libertà. Papa Francesco, come è inevitabile, viene attaccato da chi ha paura della Riforma della Chiesa e di perdere potere. Il popolo di Dio non c’entra nulla e giustamente non si interessa di questo.

Cosa fa paura ai tradizionalisti dell’approccio di Francesco? La  lettura complessa della modernità?

Papa Francesco esce in modo esplicito da quell’antimodernismo che ha caratterizzato moltissima cultura cattolica prima e anche dopo il Concilio Vaticano II. Noi confondevamo spesso il cattolicesimo con l’antimodernismo. Essere cattolici era essere “contro i treni”, “contro la luce elettrica”, “contro il cinema”, “contro il voto alle donne”, “contro gli anticoncezionali”…In modo molto semplice, ma con estrema coerenza, Francesco rifiuta una lettura unilaterale e ostile della modernità. Questo suo tratto è insopportabile per i tradizionalisti, ma è anche difficile da comprendere per coloro che, senza essere tradizionalisti, hanno accettato supinamente una lettura “di comodo” del rapporto tra Chiesa e mondo. In fondo inquieta coloro che si sono rifugiati in una consolante “autoreferenzialità”, contenti di restare senza vie di uscita e di non dover mai “uscire”.

Una delle critiche  che il fronte conservatore rivolge al Papa è quella di essere più attento alla “realtà” che alla “verità”. Francamente  questo lo trovo un insulto a Francesco. Ha fondamento quest’accusa?

Questo mi sembra uno dei punti che Francesco ha portato ad una svolta decisiva. Il primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea – affermato con grande forza in tutti i grandi testi magisteriali di Francesco, EG, LS e AL – costituisce una “traduzione della tradizione” che rimette in relazione verità e realtà. L’accusa mossa a Francesco ha la presunzione che il rapporto con la verità possa prescindere dalla realtà. Con questa impostazione – che dipende dall’antimodernismo di fine ottocento e primi novecento – la Chiesa ha perso il rapporto con la realtà e si è chiusa in una autoreferenzialità pericolosa e sterile.

Un’altra “operazione” che fa il fronte tradizionalista è quella di contrapporre Wojtyla e Ratzinger a Bergoglio. Lei non vede una continuità?

Tutte queste posizioni risentite – che sono di tradizionalisti radicali, ma anche di qualche Vescovo e Cardinale – cercano di enfatizzare le “contraddizioni” tra Francesco e i suoi due predecessori. Ora qui bisogna intendersi bene. Non c’è nessuna rottura. Ma non c’è nemmeno una semplice continuità. La tradizione continua traducendosi in modo nuovo. Questo è anche il senso più autentico delle parole di Benedetto XVI, quando nel 2005 parlò della “ermeneutica della riforma” come rimedio alle due ermeneutiche sbagliate del Concilio, ossia quelle della pura continuità e della pura rottura. Francesco non rompe, ma riforma. Ma è consapevole della urgenza della riforma, mentre coloro che gli si oppongono, con il pretesto di una presunta rottura, hanno solo paura del nuovo, che nella Chiesa è sempre intervenuto come una benedizione nei passaggi di crisi.

Il comportamento del Papa emerito nei confronti del Papa regnante è esemplare. Anzi Ratzinger ha manifestato grande affetto nei confronti di Bergoglio.. Eppure continua questa strumentalizzazione contro Francesco. Perché?

Non vi è dubbio che il rapporto personale tra papa regnante e papa emerito sia buono e cordiale. Il punto però non è questo. Tra il magistero di Benedetto e quello di Francesco ci sono tuttavia alcune differenze significative, soprattutto in rapporto al Concilio Vaticano II. Francesco è pienamente convinto della riforma invocata dal Vaticano II, mentre Benedetto fu esitante, incerto, talora anche spaventato e puramente difensivo. In tre anni Francesco ha ritrovato la fiducia in un magistero che si assume nuove responsabilità, mentre il magistero di Benedetto – e quello dell’ultimo Giovanni Paolo II – era paralizzato dalla tradizione e puramente negativo. Nell’assumere questa grande iniziativa Francesco ha dovuto scontare, non senza difficoltà, le scelte diverse dei suoi predecessori.

 Un altro fronte di critica, da parte tradizionalista che trova sponda nell’area politica della destra, è quello del giudizio sull’islam. Insomma, per loro, Bergoglio è troppo buonista. Un’altra infamia nei confronti di Francesco. Qual è il  suo pensiero al riguardo ?

Anche qui bisogna considerare solo le cose serie. In questa materia le opinioni autorevoli non sono molte e le chiacchiere moltissime. La posizione verso l’Islam trova la sua origine in un approccio conciliare alle “altre religioni” che con Francesco ha trovato profondo rilancio. Nessuna concessione alle generalizzazioni propagandistiche e considerazione della complessità delle singole tradizioni. Nella intervista di ritorno dalla GMG, Francesco ha ricordato che il fenomeno del “fondamentalismo” non identifica nessuna tradizione religiosa. “Anche tra di noi”, ha ricordato, ne abbiamo molti. Va aggiunto che sul tema del rapporto con l’Islam dobbiamo anzitutto aver chiara la qualità e lo spessore della nostra tradizione. Affermare, come ha fatto un noto giornalista, che i musulmani non possono partecipare alla messa “perché non credono alla presenza reale” mi sembra la dimostrazione di una approssimazione teologica ed ecclesiale piuttosto preoccupante. E sulla base di questa ignoranza evidente costoro pensano pure di dover dare consigli al papa…

Anche nei confronti della pastorale della “misericordia” si muovono critiche. Si troviamo di fronte a due visioni opposte della Chiesa. Come fanno a coesistere?

Come ha scritto Stella Morra, in un bel libro che si intitola “Dio non si stanca”, il tema della “misericordia/perdono” è centrale nel magistero di Francesco non come un “contenuto”, ma come un modo di comprendere la Chiesa e il rapporto con Dio. E’ lo “stile della misericordia” a levare la Chiesa dalla sua autoreferenzialità, a costringerla ad “uscire per strada”, a non “stare alla finestra”, a costruire “ospedali da campo” e “campi profughi”. Questo linguaggio dà sui nervi a tutti i monsignorini con macchine lunghe, gemelli ai polsi, domestiche al servizio, case piene di stanze…E’ un modello di Chiesa e di Vangelo ad essere rimesso in campo e in gioco, dopo decenni di assuefazione all’esercizio del potere formale e del riconoscimento puramente autoritario.

Sul piano liturgico, anche qui i tradizionalisti sembrano soffrire Francesco. E’ così?

Da un lato non sembra che Francesco sia interessato alla liturgia quanto lo era Benedetto…ma d’altra parte le modifiche introdotte nella “lavanda dei piedi” e la recente richiesta di “evitare di usare la espressione ‘riforma della riforma’” indicano chiaramente un orientamento verso la piena valorizzazione della “partecipazione attiva” come logica “popolare” della liturgia e della preghiera cristiana. Anche qui chi vorrebbe tutelato il suo diritto a “restare indietro” si sente, come dire, a disagio. Quando i piedi delle donne e la riforma liturgica tornano al centro, molte preoccupazioni curiali e fissazioni sulle rubriche si ritrovano d’improvviso all’estrema periferia!

Ultima domanda: Quello che appare, in realtà, l’obiettivo finale dei conservatori è la messa in mora della creatività del Concilio Vaticano II. E’ questa la vera posta in gioco?

Effettivamente è molto utile non “personalizzare” troppo la questione. Con Francesco noi abbiamo trovato, 50 anni dopo il Concilio, il primo papa “figlio del Concilio” – ossia che è “nato alla vita ministeriale nella Chiesa non pre-, ma post-conciliare – che propone il Concilio non anzitutto teoricamente, ma con il suo modo di pensare la realtà, di comunicare, di intrecciare relazioni, di pregare o di scherzare. Tutto questo è “concilio reso vivo ed efficace”. Chi pensava che con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI avessimo “messo sotto tutela” lo slancio conciliare, ora è sorpreso, amareggiato, in qualche caso adirato. Ma Francesco procede sereno. Come ha detto più volte, dorme bene la notte. Sarebbe cosa buona che anche i suoi interlocutori più accesi si mettessero il cuore in pace e riuscissero a prendere sonno la sera.

“Con il diaconato femminile avremmo una Chiesa più inclusiva”. Intervista ad Anna Carfora.

Pope Francis celebrates a Pentecost mass in St.Peter's Basilica at the Vatican on May 15, 2016. / AFP / GABRIEL BOUYS (Photo credit should read GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

Papa Francesco (Gettyimages)

Continua a far discutere, nella pubblica opinione internazionale, l’idea di Papa Bergoglio di istituire una Commissione di studio sul “diaconato femminile”. Non sono mancati punti di vista  di diversa e opposta tendenza. Ne parliamo, in questa intervista, con la storica Anna Carfora. Anna Carfora è docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sezione San Luigi (Napoli).

Professoressa, ha fatto grande scalpore, nell’opinione pubblica mondiale, l’idea di Papa Francesco di istituire una Commissione di studio sulla funzione diaconale delle donne. Per la verità già il Cardinale Carlo Maria Martini, in una celebre intervista, aveva lanciato l’idea  di istituire la figura delle diaconesse e la Commissione Teologica internazionale aveva elaborato uno studio sul diaconato. Questa volta, con Papa Francesco, si farà sul serio. Di cosa dovrebbe occuparsi, esattamente, questa Commissione?
La questione del diaconato femminile è già stata più volte sollevata  nella Chiesa. Prima ancora del cardinale Martini,  si erano pronunciati a favore del diaconato femminile teologi del calibro di Yves Congar; già nel 1959, nelle fasi preparatorie del Concilio Vaticano II, due vescovi, di cui quello di Ugento-Santa Maria di Leuca, pongono la questione del diaconato femminile,  ripresa dal Sinodo dei vescovi del 1971, riformulata dal Sinodo delle diocesi della Germania federale nel 1974, riproposta dal cardinale Lehmann presidente della Conferenza episcopale tedesca e recentemente sollevata al Sinodo sulla famiglia dal presidente della Conferenza episcopale canadese  Paul-André Durocher; questo per fare solo alcuni esempi. La dichiarazione Inter insignores della  Congregazione per la dottrina della fede del 1976, negando alle donne l’accesso al sacerdozio, non tocca la questione del diaconato. L’Ordinatio sacerdotalis  ha per oggetto l’ordinazione presbiteriale e su questa si pronuncia in maniera definitiva. Il documento della Commissione Teologica Internazionale Il Diaconato: evoluzione e prospettive del 2003 giunge, dopo una disamina di ordine storico-teologico, alla conclusione che: «Alla luce di tali elementi posti in evidenza dalla presente ricerca storico-teologica, spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione». Dunque individua nel magistero la fonte legittimamente decisionale sull’argomento. Considerato il lavoro svolto dalla CTI, sembrerebbe quasi superfluo che si nomini una nuova Commissione, tuttavia si può pensare che il papa non intenda prendere delle decisioni così importanti per la vita della Chiesa da solo. Come già accaduto per il Sinodo recente, papa Francesco ha mostrato chiaramente la sua volontà di dar vita ad un processo di coinvolgimento ecclesiale. È difficile dirlo, ma si potrebbe trattare di una Commissione a supporto e a sostegno di un eventuale processo decisionale.

Andiamo  alle “radici”: incominciamo, sia pur brevemente, dalla storia. Che cosa dicono, al riguardo del diaconato, le fonti antiche del Cristianesimo (Nuovo Testamento e Padri della Chiesa)?
Le fonti antiche su questo argomento si esprimono come per tante altre questioni della vita ecclesiale dei primi secoli. Ossia non possono fornire delle assolute certezze storiche; possediamo infatti fonti abbastanza lacunose che ci offrono attestazioni relative ad alcuni periodi e non ad altri, ad alcune Chiese o aree geografiche e non ad altre. Ad esempio, l’uso del termine diacono nel Nuovo Testamento – che pure viene utilizzato da Paolo, nella Lettera ai Romani (16,1-4) in riferimento alla cristiana Febe non ha sempre lo stesso significato e in ogni caso il diaconato maschile di cui si parla negli scritti neotestamentari non coincide con il diaconato permanente attuale. In linea generale si può affermare che nei primi secoli del cristianesimo sicuramente esistevano le diaconesse, che svolgevano varie funzioni, coincidenti o meno con quelle dei diaconi maschi. La loro presenza non risulta ugualmente attestata per l’area occidentale e per quella orientale. L’impiego delle diaconesse  in funzioni rivolte alle donne è la forma che pare essere stata la più diffusa. Elemento, questo, che mostra assieme a tanti altri che le Chiese primitive erano Chiese del loro tempo, dunque non tutto ciò che la storia ci restituisce di esse possiede un carattere di normatività. Va detto, inoltre, che la ricerca storica è un cantiere permanentemente aperto, in cui si formulano nuove ipotesi e si interrogano con nuove domande le fonti stesse per cui bisogna essere cauti nel pretendere dagli studi storici la definitività.

Le diaconesse venivano ordinate? O il loro ruolo era meramente funzionale?
Anche su questo punto non abbiamo uniformità. Le fonti lasciano pensare che in alcuni casi si trattasse di vera ordinazione e in altri no. A volte si descrivono riti di ordinazione che avvenivano con l’imposizione delle mani in altri sembrerebbe più opportuno parlare di istituzione. Alcune differenze probabilmente si devono a quelli che Cloe Taddei Ferretti – in uno dei più interessanti volumi usciti di recente sulla ordinazione delle donne nella Chiesa cattolica dal titolo Non date ai cagnolini – giustamente definisce modelli antropologici sottesi al maschile e femminile per cui ruoli e funzioni degli uni e degli altri mutano nel tempo.

Il diaconato, nella Chiesa Cattolica, è il primo grado del Sacramento dell’Ordine  (gli altri sono : presbiterato ed episcopato). E questo in certi ambienti conservatori costituisce un blocco per dire No alla istituzione delle diaconesse (qualcuno addirittura ha affermato: così diventiamo protestanti)  e quindi no al sacerdozio femminile. Insomma si profila una battaglia all’interno della Chiesa cattolica. L’eterna polarizzazione tra i tradizionalisti e gli innovatori. Lei come risponde alla posizione dei tradizionalisti?
Il diaconato costituisce il primo livello del sacramento dell’ordine, tuttavia la qualifica ad ministerium non ad sacerdotium permetterebbe, nonostante l’unicità del sacramento dell’ordine stesso, di non considerare l’ordinazione diaconale in continuità con l’ordinazione presbiteriale. Non a caso, infatti, si parla del diaconato permanente a cui, è noto, accedono attualmente uomini anche sposati e non del diaconato che precede l’ordinazione dei presbiteri.

Il Papa ha escluso l’ordinazione presbiterale per le donne. Per un uomo del nostro tempo si fa fatica a comprendere le ragioni del NO. Lei, da storica, come spiega questa posizione? E’ possibile superarla?
Non credo sia possibile superare la definitività con cui il no al sacerdozio femminile è stato espresso sia nell’Ordinatio sacerdotalis, sia nel Responsum successivo in cui si chiarisce, da parte della Congregazione per la dottrina della fede, quale carattere vincolante posseggano i pronunciamenti contenuti nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II. Lo stesso papa Francesco, nella conferenza stampa durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro nel 2013, ha detto: «Giovanni Paolo II si è pronunciato con una formulazione definitiva, quella porta è chiusa». Di ordinazione femminile si è discusso da sempre nella Chiesa, tuttavia nel secolo scorso il dibattito si è più vivacemente acceso e si è resa più pressante la richiesta di aprire questo spazio alle donne. L’Ordinatio sacerdotalis, non a caso promulgata il giorno di Pentecoste, sembra essere una risposta che mira a “raccordare” la teologia al Magistero, in un momento storico in cui si è voluta individuare una certa autonomia della teologia e una ricettività ridotta di essa rispetto ai pronunciamenti magisteriali. Tuttavia l’idea di un limite oltre il quale non andare, potrebbe, in questa fase della storia della Chiesa cattolica, fungere da riflettore su tutto ciò che ancora non è stato concesso alle donne ma neanche vietato, sollecitando scelte e decisioni che i tempi richiedono.

Veniamo alla vita attuale della Chiesa Cattolica. Come giudica la situazione della donna nella Chiesa? Vede progressi? E nella Chiesa italiana?
Dall’epoca preconciliare ad oggi molti passi sono stati compiuti. L’ammissione delle donne in qualità di uditrici ai lavori della terza sessione del Concilio Vaticano II costituisce un segno epocale, sebbene queste non potessero pubblicamente parlare e neanche accedere ai punti di ristoro frequentati dai Padri conciliari! Soprattutto penso alla svolta impressa da Paolo VI proclamando nel 1970 le prime due donne, Teresa d’Avila e Caterina da Siena, dottori della Chiesa: un riconoscimento della loro «autorità di dottrina» la cui portata non risulta a tutt’oggi pienamente compresa e resa operante. La presenza femminile nella chiesa è forte, non di numero come un tempo – in ossequio all’adagio per il quale la religione è roba da donne – ma di contributi fattivi e di altissima qualità; penso, ad esempio, per parlare di qualcosa di cui ho esperienza diretta, alle teologhe. Mi sembra significativo, del resto, che la richiesta di riconsiderare la possibilità del diaconato femminile sia partita dalle religiose e sia stata formulata direttamente al papa in un contesto come quello dell’assemblea della Superiore generali degli istituti religiosi. Tuttavia si sono registrate negli anni non poche battute d’arresto e una tendenza, sempre pronta a riemergere, che mira a determinare cosa sia lo specifico femminile (quel famoso quanto fumoso “genio femminile”), quasi a neutralizzare, irregimentare il potenziale che le donne possono esprimere. Inoltre gran parte del lavoro svolto dalle donne resta sostanzialmente informale e realizzato dietro le quinte. La Chiesa italiana, probabilmente, risente più di altre di questa condizione nella misura in cui il clericalismo resta più vivo. Non mancano Chiese, però, in cui la condizione della donna è ancora di profonda subordinazione, come alcune testimonianze, ad esempio da regioni africane, inducono a pensare.

Ultima domanda: se si arrivasse davvero all’ istituzione del diaconato femminile, che cosa farebbero queste diaconesse di più di quelle che fanno le donne nella comunità ecclesiale? Come cambierebbe il volto della Chiesa?
Se un diaconato femminile venisse istituito nella Chiesa cattolica in maniera pienamente analoga al diaconato permanente maschile, cambierebbero sicuramente diverse cose. Tra le più importanti, direi, le funzioni liturgico-sacramentali che allo stato le donne non possono svolgere: matrimoni o esequie,  ad esempio. Le donne uscirebbero dall’ombra e dall’ufficiosità e riceverebbero, soprattutto, quella “grazia di stato” che è legata all’ordinazione e che è dono che si riversa sulla comunità prima ancora che sulla persona. Avremmo una Chiesa più inclusiva e meglio capace di riverberare sul mondo – e si comprende bene come non si tratti qui di aggiornare la Chiesa al mondo o meglio di rincorrere le mode del mondo come alcuni paventano – il volto di Dio che è volto di Padre e di Madre allo stesso tempo.Vorrei aggiungere, a questo punto, una considerazione di diverso segno e che riguarda il cosa non cambierebbe nella Chiesa. Mi riferisco alla sua dimensione clericale. C’è un esercizio dell’autorità nella Chiesa che passa attraverso la clericalizzazione  – riguarderebbe anche le diaconesse – e c’è invece tanto bisogno di ripensare a forme di autorità che non siano legate all’appartenenza al clero: in altre parole bisogna aprire la via a che i laici possano contare di più nella Chiesa di cui sono, a pieno titolo, parte.
Vorrei aggiungere, a questo punto, una considerazione di diverso segno e che riguarda il cosa non cambierebbe nella Chiesa. Mi riferisco alla sua dimensione clericale. C’è un esercizio dell’autorità nella Chiesa che passa attraverso la clericalizzazione  – riguarderebbe anche le diaconesse – e c’è invece tanto bisogno di ripensare a forme di autorità che non siano legate all’appartenenza al clero: in altre parole bisogna aprire la via a che i laici possano contare di più nella Chiesa di cui sono, a pieno titolo, parte.

Amoris Laetitia è un testo che vale un pontificato. Int. a Giacomo Galeazzi

giacomo-galeazzi

Sta facendo discutere l’opinione pubblica l’esortazione apostolica di Papa Francesco “Amoris Laetitia”. Un testo che segna una svolta nella pastorale sulla Famiglia nella Chiesa Cattolica. Quali sono le aperture? E quali i limiti? Troverà una “resistenza” all’interno della comunità ecclesiale? Ne parliamo, in questa intervista, con il vaticanista della Stampa Giacomo Galeazzi.

Galeazzi, “Amoris Laetitia”, che è un testo lungo e complesso (264 pagine) da meditare con profondità, è stata definita, da qualche osservatore, come una nuova “costituzione” per le famiglie. Perché?
“Francesco applica il vangelo della misericordia alla pastorale familiare. «Non cambia niente, ma cambia tutto», ha sintetizzato efficacemente il quotidiano dei vescovi, Avvenire. Con l’Amoris laetitia, infatti,tutto può cambiare. Niente cambia in termini di dottrina, tutto cambia e può cambiare se di questa dottrina, per grazia, se ne assumono gli occhi e il cuore che sono quelli di Cristo in carne e ossa. Per una volta Francesco è riuscito a mettere d’accordo il giornale della Cei e Noi siamo chiesa, il cartello del dissenso teologico che rilevando lo stesso cambio di prospettiva celebrato da Avvenire commenta: «spetterà al popolo cristiano praticare nuove strade che ora non sono più chiuse come prima, a repressione di ogni riflessione teologica o di ogni proposta pastorale è terminata”. Un testo che unisce, in grado di parlare della famiglia e alle famiglie, tenendo presente l’importanza dei principi che devono essere praticati, senza mai venire meno al dialogo e al concetto del discernimento, senza mai dare per scontata la formulazione di una verità. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere domestico il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello”.

Parliamo, un attimo, del titolo “Amoris Laetitia” (la gioia dell’amore). A me ha colpito la parola “Laetitia” (gioia), per me è la chiave di lettura di tutto il documento. Per lei?
“Sono d’accordo. Per Francesco è nella famiglia che bisogna imparare il linguaggio amabile di Gesù. L’Esortazione apostolica «Amoris Laetitia, sull’amore nella famiglia» chiude un percorso durato due anni. Francesco ha voluto infatti dedicare al tema della famiglia, centrale nel suo magistero, ben due Sinodi durante gli ultimi due anni. Il documento, summa delle discussioni sinodali, risponde alle sfide che il mondo moderno pone alla Chiesa riguardo le problematiche di sposi, figli, coppie divorziate e nuove forme di famiglia. L’argomento dei divorziati risposati è stato il più controverso e dibattuto dell’Assemblea dei porporati ed è il riflesso di una società in cambiamento in cui, oggettivamente, il problema si sente. E affrontando direttamente il tema dell’assoluzione sacramentale ai divorziati risposati afferma che «per quanto riguarda la disciplina sacramentale» in effetti «il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave». Affermazioni sempre bilanciate da riferimenti puntuali ai punti di vista dei più conservatori ma fondate sul ritorno al primato della coscienza che è nella dottrina di San Tommaso ma la Chiesa aveva di fatto abbandonato con la Familiaris consortio e la Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II”.

Fedele all’impostazione bergogliana, il documento è mosso da una logica inclusiva nella pastorale famiglia. Può spiegare in breve questo approccio?
“L’Esortazione è una mano tesa a quanti sino ad ora si sentivano allontanati dalla Chiesa. I divorziati che vivono una nuova unione, scrive papa Bergoglio accogliendo i propositi dell’ala progressista della Chiesa, possono trovarsi in situazioni “molto diverse”, che non devono essere “catalogate” o “rinchiuse in affermazioni troppo rigide”.Il documento esamina le situazioni che sono in contraddizione con il progetto di Dio sulla coppia, sull’uomo e sulla donna, sulla famiglia, ma, come ha opportunamente sottolineato il priore di Bose Enzo Bianchi, lo fa invitando la Chiesa a non dividere le persone tra “giuste” e “ingiuste”, in “sani” e in “peccatori” all’interno della situazione matrimoniale, che ha sempre bisogno della misericordia divina e non di erigere muri morali. Alla fine l’apertura di Francesco sulla comunione per i divorziati risposati è arrivata. In maniera “morbida”, con discernimento di coscienza per i sacerdoti caso per caso, ma c’è stata”. I Padri sinodali, nella relazione finale avevano chiesto che i battezzati divorziati e risposati civilmente fossero più “integrati” nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili. Ed è quello che il Papa ha fatto: “Papa Francesco ha posto la sua esortazione sotto la frase guida: ‘Si tratta di integrare tutti’. Tutti abbiamo bisogno di misericordia, tutti. Siamo tutti in cammino”. Ha commentato il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e padre sinodale, alla conferenza stampa di presentazione dell’esortazione. “La lettura del documento è confortante – ha detto Schönborn -: nessuno deve sentirsi condannato, nessuno disprezzato”.

Veniamo ai contenuti. La visione sulla famiglia del documento è una visione positiva ma realistica. Anzi c’è una critica verso una visione astratta della famiglia. È da questa visione che possiamo comprendere le aperture del documento. Quali sono?
“Nel descrivere le linee guida della Chiesa per la famiglia, Francesco propone anche un'”autocritica”, indicando alcuni atteggiamenti che vanno superati: l’eccessivo peso dato al “dovere della procreazione” nel matrimonio, l’insistenza quasi esclusiva, “per molto tempo”, su “questioni dottrinali, bioetiche e morali”, una concezione troppo “astratta”, negativa, e un “atteggiamento difensivo” nei confronti del mondo. “Dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica”, scrive Jorge Mario Bergoglio. L’apertura ai divorziati risposati è arrivata, di suo pugno. L’argomento dei divorziati risposati è stato il più controverso e dibattuto dell’Assemblea dei porporati ed è il riflesso di una società in cambiamento in cui, oggettivamente, il problema si sente. I divorziati che vivono una nuova unione, scrive Bergoglio accogliendo i propositi dell’ala progressista della Chiesa, possono trovarsi in situazioni “molto diverse”, che non devono essere “catalogate” o “rinchiuse in affermazioni troppo rigide”.Oggi, osserva il Papa, non è più possibile dire che “tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta ‘irregolare’ vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”.

Vi sono anche delle “chiusure”?
“Alle nozze gay non poteva che opporsi. Qualcosa è cambiato in assoluto, ma in un cambiamento che non è una rottura della dottrina. Ad esempio, ribadisce il suo no alle coppie di fatto: “Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio – scrive – non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società”. “Ma chi – prosegue – si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell`unione coniugale?”.

Pensa che il documento troverà difficoltà ad essere recepito all’interno della Chiesa?
“Le stesse resistenze che hanno trovato le aperture del Concilio Vaticano II, ma alla fine al linea di Francesco avrà la meglio perché è quella del vangelo. il Papa incoraggia un “discernimento personale” dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, “poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze di una norma non possono essere sempre le stesse, e qui, in una nota, il Papa specifica: “Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale”. Inoltre la sessualità «è un regalo meraviglioso» che Dio ha fatto alle sue creature e nella vita dei coniugi non può essere limitato alla necessità della procreazione. «In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore – sottolinea Papa Francesco – come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi”.

Ultima domanda : L’amoris laetitia è un documento che vale un pontificato?
“Sì perché al di là della questione dei divorziati che vivono una nuova unione, il corposo documento del Papa abbraccia a trecentosessanta gradi la famiglia, non quella «ideale» delle pubblicità, come lui stesso in diversi passaggi sottolinea, ma quella «così come è». «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta `irregolare´ vivano in stato di peccato m ortale, privi della grazia santificante», chiarisce infatti Francesco che tirando le fila dei due Sinodi sulla famiglia, concede in questo modo, ma caso per caso, conviventi i sacramenti e la facoltà di essere padrini, lettori e catechisti ai divorziati risposati. ortale, privi della grazia santificante”, chiarisce infatti Francesco che tirando le fila dei due Sinodi sulla famiglia, concede in questo modo, ma caso per caso, conviventi i sacramenti e la facoltà di essere padrini, lettori e catechisti ai divorziati risposati”.

Ce la farà Francesco? La sfida della riforma ecclesiale di Papa Bergoglio. Intervista a Don Rocco D’Ambrosio.

cop-Ce-la-farà-FrancescoSono passati poco più di tre anni dall’elezione al soglio pontificio di Jorge Bergoglio.

Papa Francesco ha impresso una svolta nella vita della Chiesa Cattolica. Facciamo il punto su questo cammino, nell’ intervista, con Don Rocco D’Ambrosio. D’Ambrosio è professore di Filosofia della Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. E’ autore di numerosi saggi, l’ultimo, “Ce la farà Francesco?”, è uscito pochi giorni fa, per le edizioni “”La Meridiana” di Bari.

Professore nel suo saggio, “Ce la farà Francesco?”, tenta di fare una analisi istituzionale della Chiesa Cattolica sotto il Pontificato di Papa Francesco. Lei mette in guardia da due pericoli, ovvero dalla “deriva semplicistica” e dall’ideologia nell’analizzare le dinamiche ecclesiali e quindi il tentativo di Riforma di Papa Francesco. Può spiegarceli?

Per comprendere la vita ecclesiale, nei suoi risvolti istituzionali quanto teologici, va superata qualsiasi forma di superficialità e semplicismo. Mai come oggi abbiamo bisogno di studiare il contesto contemporaneo e le istituzioni, Chiesa compresa, incrociando le competenze, cioè usando strumenti culturali che attingono ai diversi saperi che investigano sulle realtà umane: l’antropologia, l’etica, la teologia, la sociologia, la psicologia, la scienza politica, il diritto, l’economia. Pertanto, soprattutto educatori ed intellettuali, non sono chiamati ad avere tutte le competenze – pretesa inconsistente e sciocca – ma una capacità di sintesi per aiutare l’interlocutore, specie se educando, a dotarsi di una mappa per districarsi nei vari labirinti di questo mondo e su cui, se vuole, costruire la propria personale competenza, concepita sempre in funzione del vivere bene, come persona e come credente.

Quali sono i punti principali della Riforma di Francesco?

Sono quelli più volte espressi nei suoi interventi. Nel discorso ai vescovi degli Stati Uniti, li ha così enunciati: ”Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa” (23 settembre 2015). In un’intervista, invece, ha detto sinteticamente che i mali più grandi del mondo sono: “Pobreza, corrupción, trata de personas” (ovvero: povertà, corruzione e tratta di persone).

Qual è il bilancio di questi tre anni di Pontificato?

I bilanci sono sempre molto difficili perché la riforma è in atto e il papa continua a indicare mete e a confermare la sua linea. Si potrebbe affermare che gli intenti di papa Francesco sono stati esposti con chiarezza; ora è il tempo di renderli operativi con le riforme specifiche dei dicasteri vaticani e degli organismi diocesani e territoriali.

 Lei giustamente afferma che le riforme proposte da Francesco sono “conciliari”, ovvero si pongono come attuazione del Concilio Vaticano II. Per cui la posta in gioco non è la fedeltà al disegno del leader (il Papa) ma la continuità con il Concilio. A leggere certi avversari del Papa, per alcuni l’avversione a Francesco rasenta l’odio, siamo agli antipodi dell’ermeneutica conciliare. Quanto pesa questa avversione all’interno della Chiesa?

L’opposizione al papa è un fatto notorio. Bisogna, tuttavia, non cadere nella trappola del personalizzare il conflitto. Ciò che interessa, prima di tutto, è la riforma della Chiesa nello spirito del Vaticano II. La lettura evangelica, attualizzata dal Vaticano II, è quindi il criterio per valutare questo pontificato. Ovviamente per chi crede in un modello di vita cristiana e di Chiesa preconciliari riterrà la riforma di Francesco, a seconda dei casi, eretica, inconsistente, sprovveduta e via discorrendo. Per chi crede nel nella lettura evangelica del Vaticano II cercherà di valutare la riforma di Francesco spostando l’attenzione sui contenuti annunciati e incarnati, più che la persona del papa, il quale, come ogni essere umano, e come ogni leader, per quanto dotato e avveduto, commette errori.

 Uno dei tratti, di questi anni di Papa Bergoglio, è stato quello della lotta alla mondanità (con tutto quello che significa)  nella Chiesa. E questo presuppone uno stile di vita sobrio, ma c’è anche una lotta ad una certa idea di potere nella Chiesa. Ovvero ci sono delle virtù, necessarie per chi vuole servire la Chiesa di Cristo,  su cui il Papa si è soffermato spesso. Qual è l’idea di “Servizio” che ha il Papa?

Essa è espressa molto bene negli ultimi due discorsi natalizia alla Curia Romana. Sono da leggere e meditare! Succede nella comunità cristiana quello che accade spesso in tutte le istituzioni quando si toccano alcuni punti critici o deleteri, come la corruzione, gli abusi, il rinnegamento delle finalità fondamentali e cosi via. Soprattutto coloro che hanno responsabilità – siano essi cardinali, vescovi, presbiteri, religiose/i o fedeli laici – più che cambiare radicalmente, si sottopongono a quel processo per cui, secondo Jung, enfatizzano i propri pregi e negano, ponendoli in una zona d’ombra, i propri lati oscuri e problematici, quelli che compromettono l’identità di persona integra ed eticamente sana. Le “ombre”, in questione, sono quelle classiche, le si chiami “malattie” o in altro modo, ovvero: narcisismo, perfezionismo, superbia, avarizia, invidia, rabbia, masochismo, sadismo, istrionismo, arroganza, vendicatività, ambizioni sfrenate, demagogia, populismo, falsità, vanagloria, violenza, aggressività, sociopatia, cinismo, ipocrisia, ambiguità, cioè gli aspetti più deleteri che un uomo o una donna possano avere. Orbene si comprende la forza e spesso la violenza della reazione al papa che mette il dito nella piaga di questi mali, proprio perché queste persone hanno poco interesse a riconoscere le zona d’ombra e a rinnovarsi in fedeltà e giustizia.

“I gesti, le parole, gli interventi, le decisioni di Papa Francesco,- scrive nel suo libro – conservano tutti una prospettiva dal basso”. Questo è il cuore della riforma di Francesco. Cosa significa e quali implicazioni?

La “prospettiva dal basso” ci riportano a Jorge Mario Bergoglio, segnato da un dato indiscutibile: Bergoglio è sempre stato così, innamorato dei poveri, con intelligenza, passione, impegno. Alla sua elezione il dato è stato confermato: il suo collega cardinale Claudio Hummes gli ha detto “Non dimenticarti dei poveri!”. E il papa, commentando le parole di Hummes, ha precisato: “quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri” (Discorso alla stampa 16 marzo 2013). E’ entrata nel suo cuore, ma già c’era. Ora deve entrare in tutta la prassi ecclesiale. Ha detto in un’intervista: “La Chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione”

 Ultima domanda: Lei, oltre che professore universitario, è un sacerdote impegnato nella sua Diocesi. Le chiedo come  si sta ponendo la Cei nei confronti della Riforma di  Papa Bergoglio? L’impressione personale è che faccia molta fatica ad adeguarsi al Papa…Per lei?

Anche nell’episcopato italiano c’è un grande dibattito sulla riforma di Francesco, per quello che ci è dato di sapere dalle cronache giornalistiche. Ci auguriamo che il dibattito aiuti a comprendere sempre più un principio etico fondamentale: ogni processo di riforma implica una scelta di campo di coloro che sono coinvolti. Tutti sono tenuti a offrire il loro sostegno alla riforma, con quello che sono e con quello che hanno. In altri termini non esiste una sorta di limbo in cui sostare in attesa che il tutto passi. Chi non sceglie, in fondo, ha già scelto, cioè ha scelto di non collaborare. E la posta in gioco qui non è la semplice sequela di un leader, ma l’attuazione del Vaticano II.

 

 

“Liberazione o Morte”. Una riflessione su Camilo Torres a cinquant’anni dalla morte. Intervista a Padre Sergio Bernal Restrepo (S.J)

(Wikipedia)

(Wikipedia)

Cinquant’anni fa, il 15 febbraio del 1966, nella regione colombiana di Santader, venne ucciso da una raffica di mitra, durante un combattimento contro le truppe governative, il sacerdote colombiano Camilo Torres. In quegli anni l’America Latina, sull’onda lunga della Rivoluzione cubana, era attraversata dalla lotta di liberazione dei movimenti guerriglieri contro i regimi sanguinari e corrotti delle oligarchie politiche-economiche. La vita di Camilo Torres, così, divenne da subito un punto di riferimento, l’ispiratore, per quei cristiani che, in situazioni di estrema ingiustizia, scelsero la lotta armata per la rivoluzione sociale e politica del Continente latinoamericano. Cosa resta, cinquant’anni dopo dell’esempio di Padre Camilo Torres? Ne parliamo, in questa intervista, con il Padre gesuita Sergio Bernal Restrepo, decano del “Medio Universitario”, della Pontificia Universitad Javeriana di Bogotà. Padre Bernal, sociologo è uno studioso autorevole della Dottrina Sociale, è stato per anni Decano della Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Padre Bernal, a cinquant’anni dalla sua morte (Camilo Torres venne ucciso durante un combattimento nella regione di Santander) forse è venuto il tempo di guardare con occhi nuovi, da parte della Chiesa, alla figura di padre Camilo Torres. E’ possibile questo? Cosa sta facendo al riguardo la Chiesa cattolica in Colombia?

Certo, si può guardare, anzi, si deve. Ma, quali occhi? Tant’acqua è passata sotto i ponti, come si dice fra noi. Camilo visse un momento di idealizzazione del Marxismo e della sua analisi della realtà, quando si pensava che la rivoluzione era la via di uscita per i grandi problemi dell’ingiustizia nell’America Latina e Cuba si presentava come il modelo che non soltanto ispirava, ma fatticamente offriva l’appoggio ai movimenti rivoluzionari del Continente. La storia di Cuba, Nicaragua, Salvador, Venezuela, più recentemente, hanno dimostrato che, come ben diceva Paolo VI nella Populorum progressio, la rivoluzione, di fatti, porta con se più male che bene. “E tuttavia lo sappiamo: l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande” (PP 31). La storia di cinquant’anni di lotta rivoluzionaria nel Paese, hanno dimostrato che non è questa la strada per la trasformazione sociale e politica.

È doveroso ammettere che la Chiesa non ha saputo gestire il caso Camilo Torres. Anche se non possiamo giudicare l’arcivescovo di Bogotá di allora con i criteri di oggi, l’atteggiamento rigido e autoritario, per niente pastorale, non era la via corretta e, in un certo modo, spinse Camilo alla scelta sbagliata. Camilo realizzava un lavoro pastorale molto valido in un ambiente universitario assai ostile alla Chiesa, nel quale un buon numero di studenti e docenti accoglieva la proposta rivoluzionaria di buon occhio e, parte di questa visione, era considerare la Chiesa Cattolica come un nemico da combattere, dato il suo coinvolgimento con lo stabilimento (establishment). Oggi, direi che non si può parlare della Chiesa in genere, fra l’altro perché all’interno della gerarchia vi sono atteggiamenti assai contrastanti. Alcuni vescovi hanno offerto visioni molto moderate riconoscendo aspetti positivi nel caso Camilo, mentre altri continuano a mantenere una posizione di assoluta condanna.

Andando più in profondità: quali sono le radici su cui si basò l’impegno di Padre Camilo Torres? Torres parlava di “prassi “dell’amore efficace”. Cosa intendeva con questo termine? 

A mio avviso, questa frase è molto ambigua. Certo, l’amore cristiano deve tradursi nella prassi quotidiana e di questo amore veremmo giudicati nell’ultimo giorno (Matteo 25). Ma la domanda è se la violenza contro chi che sia, è conciliabile con l’amore cristiano. Questo, mi pare, fu il grande errore di Camilo anche se condiviso da molti in quel momento. Dinanzi alle situazioni d’ingiustizia prevalenti nel Paese, ad un primo sguardo potrebbe sembrare che la rivoluzione sia la via più eficace, ma, come ho accennato sopra, la storia ha dimostrato il contrario. Forse negli ultimi giorni Camilo ha ceduto alle lusinghe dei piccoli partiti di sinistra che sembravano aprirgli la strada ad una possibile candidatura alla lizza per la presidenza della repubblica. Comunque, si deve vedere Camilo come un sognatore, più che come un malfattore come vorrebbero alcuni.

Parlando di sé Camilo Torres affermava: «Sono un rivoluzionario , come colombiano, come sociologo, come cristiano e come sacerdote. Come colombiano, perché non posso estraniarmi dalle lotte del mio popolo. Come sociologo, perché grazie alla mia conoscenza scientifica della realtà, sono giunto alla convinzione che le soluzioni tecniche ed efficaci non sono raggiungibili senza una rivoluzione. Come cristiano, perché l’essenza del cristianesimo è l’amore per il prossimo e solo attraverso una rivoluzione si può ottenere il bene della maggioranza. Come sacerdote, perché dedicarsi al prossimo, come la rivoluzione esige, è un requisito dell’amore fraterno indispensabile per celebrare l’eucarestia». Qui si tocca il rapporto tra cristianesimo e rivoluzione. E’ un punto fondamentale nell’azione e nel pensiero di Torres. C’è, dunque, una “teologia della rivoluzione” (oppure della liberazione) in Torres? 

In un certo senso, si potrebbe dare una risposta affermativa alla domanda. Tuttavia vi erano tante sfumature nella teologia della liberazione che passavano da approcci compatibili con la Rivelazione, fino a quelli che predicavano la violenza, anzi, la lotta di classe, come la sola via di uscita. Non pochi sacerdoti in Colombia si schieravano nel “movimento Golconda” che era assai vicino al Marxismo, ma non sono arrivati a degli impegni concreti di lotta. Esistevano pure alcuni tentativi di elaborazione di una teología della rivoluzione, ma non saprei dire fino a che punto Camilo faceva parte di questi movimenti.

Come si sa Camilo Torres, dopo essere stato ridotto allo stato laicale (comunque lui si sentì sempre sacerdote), entrò nell’ ELN (Esercito di Liberazione Nazionale, un gruppo di impostazione marxista diverso dalle Faarc). E qui si pone il punto del rapporto tra Torres e i gruppi comunisti. Come si è sviluppato questo rapporto? 

Dare una risposta a questa domanda richiederebbe uno studio approfondito cercando le fonti che io ignoro. In un certo senso penso che quanto detto sopra potrebbe offrire alcune piste.
Ai tempi di Camilo Torres la Chiesa cattolica della Columbia era su posizioni conservatrice. Oggi che ruolo gioca oggi la Chiesa nella società colombiana?

Purtroppo la Chiesa oggi ha perso molto della sua capacità di “liderato” (cioè di leadership ndr), la quale era assai evidente ai tempi di Camilo. Come accennato sopra, penso che in parte, ciò sia dovuto alle divisioni interne nella Conferenza Episcopale. Ci vorrebbe una posizione molto più chiara e coraggiosa, davanti al processo di pace in corso, per esempio.
Si arriverà, con Papa Francesco, alla riabilitazione della figura di Camilo Torres?

Non mi pare. Dire questo, sarebbe travisare il pensiero di Francesco il quale vorrebbe portare la Chiesa alla radicalità evangelica che, però non è compatibile con la scelta per la rivoluzione violenta. Anzi, la sua strada è quella della misericordia e del dialogo. Qui, forse, viene bene stabilire un contrasto fra Camilo e Romero. Chi ha avuto un impatto più forte nel Continente? Eppure, sono due modi assai diversi di leggere, anzi, di vivere il Vangelo in una situazione di violenza istituzionalizzata e di ingiustizia schiaciante.

Una parola sulla situazione attuale della Colombia. Come stanno andando i colloqui di Pace tra il governo e la guerriglia?

Si tratta di una situazione troppo complessa, spesso semplificata dai Media e da tanti che non riescono a campirne la complessità. Abbiamo vissuto più di cinquanta anni di guerra, negata sistematicamente dai goveri precedenti. Questa è, in parte, il risultato di un Paese dominato da una piccola elite di potere economico e politico che possiede più della metà del territorio e che mantiene in una situazione di esclusione alla maggioranza della popolazione. Per un verso si può dire che la Colombia è uno Stato moderno dove, per esempio abbiamo introdotto technologie di spico e, per un altro, ancora muoiono bambini per causa della denutrizione. Esiste un cultura di violenza ad ogni livello che ha caratterizzato la nostra storia. La guerriglia domina in una buona parte del territorio dove lo Stato non ha mai fatto una presenza reale. Il problema è diventato ancora più complesso con il commercio della droga che è un caso tipico della economía di mercato dominante. A ciò forse dovremmo aggiungere una oposizione irrazionale che cerca di presentare la realtà in maniera tropppo semplice, a proprio vantaggio, ribadendo che il Presidente Santos vuole consegnare il Paese al socialismo di stampo cubano.
Ultima domanda: Cinquant’anni dopo la sua tragica fine, cosa ha ancora da dirci Camillo Torres?

Semplicemente che occorre un cambio radicale nelle strutture economiche, politiche e sociali, ma che dobbiamo trovare la nostra strada, non cercando di adottare modeli ormai falimentari. Inoltre, che il Vangelo va preso sul serio come punto di ispirazione, ma non alla maniera di Camilo, ma piuttosto a quella di Francesco.