“La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza”. Discorso di Papa Francesco alla Curia romana

Pope Francis speaks during the annual Christmas greetings to the Vatican bureaucracy in the Clementina Hall, at the Vatican, Monday, Dec. 21, 2015. Francis has issued a Christmas-time "catalogue of virtues" for his closest collaborators to follow after having excoriated them last year for a host of sins that he said were compromising the Catholic Church's work. (Alberto Pizzoli/Pool Photo via AP)

Papa Francesco (Alberto Pizzoli/Pool Photo via AP)

Questa mattina, nella Sala Clementina, in Vaticano, Papa ha tenuto il tradizionale discorso natalizio alla Curia Romana e ai dipendenti dello Stato del Vaticano (vedi notizia: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Papa-Riforma-Curia-andra-avanti-con-determinazione-61232905-46a2-4853-a209-18983f4d814e.html?refresh_ce). Un discorso, ancora una volta, esigente. Tutto centrato sulle “virtù” che la Curia, nel suo servizio al Papa e alla Chiesa universale, deve manifestare. Parole dure contro gli scandali e la corruzione. I recenti scandali non fermeranno l’opera di riforma della Chiesa. Esemplarità e umiltà sono tra le virtù necessarie, secondo il Papa, per rendere testimonianza luminosa nei confronti del mondo.

Di seguito pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa.

Cari fratelli e sorelle,

vi chiedo scusa di non parlare in piedi, ma da alcuni giorni sono sotto l’influsso dell’influenza e non mi sento molto forte. Con il vostro permesso, vi parlo seduto.

Sono lieto di rivolgervi gli auguri più cordiali di un santo Natale e felice Anno Nuovo, che si estendono anche a tutti i collaboratori, ai Rappresentanti Pontifici, e particolarmente a coloro che, durante l’anno scorso, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età.
Ricordiamo anche le persone che sono state chiamate davanti a Dio. A tutti voi e ai vostri familiari vanno il mio pensiero e la mia gratitudine.

Nel mio primo incontro con voi, nel 2013, ho voluto sottolineare due aspetti importanti e inseparabili del lavoro curiale: la professionalità e il servizio, indicando come modello da imitare la figura di san Giuseppe. Invece l’anno scorso, per prepararci al sacramento della Riconciliazione, abbiamo affrontato alcune tentazioni e “malattie” – il “catalogo delle malattie curiali”; oggi invece dovrei parlare degli “antibiotici curiali” – che potrebbero colpire ogni cristiano, ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia e movimento ecclesiale. Malattie che richiedono prevenzione, vigilanza, cura e, purtroppo, in alcuni casi, interventi dolorosi e prolungati.

Alcune di tali malattie si sono manifestate nel corso di questo anno, causando non poco dolore a tutto il corpo e ferendo tante anime, anche con lo scandalo.
Sembra doveroso affermare che ciò è stato – e lo sarà sempre – oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda.

Tuttavia, le malattie e perfino gli scandali non potranno nascondere l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa e a tutta la Chiesa, e questa è una vera consolazione. Insegnava sant’Ignazio che «è proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e turbare con false ragioni, per ‎impedire di andare avanti; invece è proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, dare consolazioni e ‎lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimuovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del ‎bene» [1].

Sarebbe grande ingiustizia non esprimere una sentita gratitudine e un doveroso incoraggiamento a tutte le persone sane e oneste che lavorano con dedizione, devozione, fedeltà e professionalità, offrendo alla Chiesa e al Successore di Pietro il conforto delle loro solidarietà e obbedienza, nonché delle loro generose preghiere.

Per di più, le resistenze, le fatiche e le cadute delle persone e dei ministri rappresentano anche delle lezioni e delle occasioni di crescita, e mai di scoraggiamento. Sono opportunità per tornare all’essenziale, che ‎significa fare i conti con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, di Dio, del prossimo, del sensus Ecclesiae e del sensus fidei.

Di questo tornare all’essenziale vorrei parlarvi oggi, mentre siamo all’inizio del pellegrinaggio dell’Anno Santo della Misericordia, aperto dalla Chiesa pochi giorni fa, e che rappresenta per essa e per tutti noi un forte richiamo alla gratitudine, alla conversione, al rinnovamento, alla penitenza e alla riconciliazione.

In realtà, il Natale è la festa dell’infinita Misericordia di Dio. Dice sant’Agostino d’Ippona: «Poteva esserci misericordia verso di noi infelici maggiore di quella che indusse il Creatore del cielo a scendere dal cielo e il Creatore della terra a rivestirsi di un corpo mortale? Quella stessa misericordia indusse il Signore del mondo a rivestirsi della natura di servo, di modo che pur essendo pane avesse fame, pur essendo la sazietà piena avesse sete, pur essendo la potenza divenisse debole, pur essendo la salvezza venisse ferito, pur essendo vita potesse morire. E tutto questo per saziare la nostra fame, alleviare la nostra arsura, rafforzare la nostra debolezza, cancellare la nostra iniquità, accendere la nostra carità» [2].

Quindi, nel contesto di questo Anno della Misericordia e della preparazione al Santo Natale, ormai alle porte, vorrei presentarvi un sussidio pratico per poter vivere fruttuosamente questo tempo di grazia.

Si tratta di un non esaustivo “catalogo delle virtù necessarie” per chi presta servizio in Curia e per tutti coloro che vogliono rendere feconda la loro consacrazione o il loro servizio alla Chiesa.

Invito i Capi dei Dicasteri e i Superiori ad approfondirlo, ad arricchirlo e a completarlo. È un elenco che parte proprio da un’analisi acrostica della parola “misericordia” – padre Ricci, in Cina, faceva questo – affinché sia essa la nostra guida e il nostro faro.

1. Missionarietà e pastoralità. La missionarietà è ciò che rende, e mostra, la curia fertile e feconda; è la prova dell’efficacia, dell’efficienza e dell’autenticità del nostro operare. La fede è un dono, ma la misura della nostra fede si prova anche da quanto siamo capaci di comunicarla [3]. Ogni battezzato è missionario della Buona Novella innanzitutto con la sua vita, con il suo lavoro e con la sua gioiosa e convinta testimonianza. La pastoralità sana è una virtù indispensabile specialmente per ogni sacerdote. È l’impegno quotidiano di seguire il Buon Pastore, che si prende cura delle sue pecorelle e dà la sua vita per salvare la vita degli altri. È la misura della nostra attività curiale e sacerdotale. Senza queste due ali non potremo mai volare e nemmeno raggiungere la beatitudine del “servo fedele” (cfr Mt 25,14-30).

2. Idoneità e sagacia. L’idoneità richiede lo sforzo personale di acquistare i requisiti necessari e richiesti per esercitare al meglio i propri compiti e attività, con l’intelletto e l’intuizione. Essa è contro le raccomandazioni e le tangenti. La sagacia è la prontezza di mente per comprendere e affrontare le situazioni con saggezza e creatività.

Idoneità e sagacia rappresentano anche la risposta umana alla grazia divina, quando ognuno di noi segue quel famoso detto: “fare tutto come se Dio non esistesse e, in seguito, lasciare tutto a Dio come se io non esistessi”. È il comportamento del discepolo che si rivolge al Signore tutti i giorni con queste parole della bellissima Preghiera Universale attribuita a Papa Clemente XI: «Guidami con la tua sapienza, reggimi con la tua giustizia, incoraggiami con la tua bontà, proteggimi con la tua potenza. Ti offro, o Signore: i pensieri, perché siano diretti a te; le parole, perché siano di te; le azioni, perché siano secondo te; le tribolazioni, perché siano per te» [4].

3. Spiritualità e umanità. La spiritualità è la colonna portante di qualsiasi servizio nella Chiesa e nella vita cristiana. Essa è ciò che alimenta tutto il nostro operato, lo sorregge e lo protegge dalla fragilità umana e dalle tentazioni quotidiane. L’umanità è ciò che incarna la veridicità della nostra fede. Chi rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto. L’umanità è ciò che ci rende diversi dalle macchine e dai robot che non sentono e non si commuovono. Quando ci risulta difficile piangere seriamente o ridere appassionatamente – sono due segni – allora è iniziato il nostro declino e il nostro processo di trasformazione da “uomini” a qualcos’altro. L’umanità è il saper mostrare tenerezza e familiarità e cortesia con tutti (cfr Fil 4,5). Spiritualità e umanità, pur essendo qualità innate, tuttavia sono potenzialità da realizzare interamente, da raggiungere continuamente e da dimostrare quotidianamente.

4. Esemplarità e fedeltà. Il beato Paolo VI ricordò alla Curia – nel ’63 – «la sua vocazione all’esemplarità» [5]. Esemplarità per evitare gli scandali che feriscono le anime e minacciano la credibilità della nostra testimonianza. Fedeltà alla nostra consacrazione, alla nostra vocazione, ricordando sempre le parole di Cristo: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti» (Lc 16,10) e «Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18,6-7).

5. Razionalità e amabilità. La razionalità serve per evitare gli eccessi emotivi e l’amabilità per evitare gli eccessi della burocrazia e delle programmazioni e pianificazioni. Sono doti necessarie per l’equilibrio della personalità: «Il nemico – e cito sant’Ignazio un’altra volta, scusatemi – osserva bene se un’anima è grossolana oppure delicata; se è delicata, fa in modo di renderla delicata fino all’eccesso, per poi maggiormente angosciarla e confonderla» [6]. Ogni eccesso è indice di qualche squilibrio, sia l’eccesso nella razionalità, sia nell’amabilità.

6. Innocuità e determinazione. L’innocuità che rende cauti nel giudizio, capaci di astenerci da azioni impulsive e affrettate. È la capacità di far emergere il meglio da noi stessi, dagli altri e dalle situazioni agendo con attenzione e comprensione. È il fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te (cfr Mt 7,12 e Lc 6,31). La determinazione è l’agire con volontà risoluta, con visione chiara e con obbedienza a Dio, e solo per la legge suprema della salus animarum (cfr CIC, can. 1725).

7. Carità e verità. Due virtù indissolubili dell’esistenza cristiana: “fare la verità nella carità e vivere la carità nella verità” (cfr Ef 4,15) [7]. Al punto che la carità senza verità diventa ideologia del buonismo distruttivo e la verità senza carità diventa “giudiziarismo” cieco.

8. Onestà e maturità. L’onestà è la rettitudine, la coerenza e l’agire con sincerità assoluta con noi stessi e con Dio. Chi è onesto non agisce rettamente soltanto sotto lo sguardo del sorvegliante o del superiore; l’onesto non teme di essere sorpreso, perché non inganna mai colui che si fida di lui. L’onesto non spadroneggia mai sulle persone o sulle cose che gli sono state affidate da amministrare, come il «servo malvagio» (Mt 24,48). L’onestà è la base su cui poggiano tutte le altre qualità.

Maturità è la ricerca di raggiungere l’armonia tra le nostre capacità fisiche, psichiche e spirituali. Essa è la meta e l’esito di un processo di sviluppo che non finisce mai e che non dipende dall’età che abbiamo.

9. Rispettosità e umiltà. la rispettosità è la dote delle anime nobili e delicate; delle persone che cercano sempre di dimostrare rispetto autentico agli altri, al proprio ruolo, ai superiori e ai subordinati, alle pratiche, alle carte, al segreto e alla riservatezza; le persone che sanno ascoltare attentamente e parlare educatamente. L’umiltà invece è la virtù dei santi e delle persone piene di Dio, che più crescono nell’importanza più cresce in loro la consapevolezza di essere nulla e di non poter fare nulla senza la grazia di Dio (cfr Gv 15,8).

10. “Doviziosità” – io ho il vizio dei neologismi – e attenzione. Più abbiamo fiducia in Dio e nella sua provvidenza più siamo doviziosi di anima e più siamo aperti nel dare, sapendo che più si dà più si riceve. In realtà, è inutile aprire tutte le Porte Sante di tutte le basiliche del mondo se la porta del nostro cuore è chiusa all’amore, se le nostre mani sono chiuse al donare, se le nostre case sono chiuse all’ospitare e se le nostre chiese sono chiuse all’accogliere. L’attenzione è il curare i dettagli e l’offrire il meglio di noi e il non abbassare mai la guardia sui nostri vizi e mancanze. San Vincenzo de’ Paoli pregava così: “Signore, aiutami ad accorgermi subito: di quelli che mi stanno accanto, di quelli che sono preoccupati e ‎disorientati, di quelli che soffrono senza mostrarlo, di quelli che si sentono isolati senza volerlo”.

11. Impavidità e prontezza. Essere impavido significa non lasciarsi impaurire di fronte alle difficoltà, come Daniele nella fossa dei leoni, come Davide di fronte a Golia; significa agire con audacia e determinazione e senza tiepidezza «come un buon soldato» (2 Tm 2,3-4); significa saper fare il primo passo senza indugiare, come Abramo e come Maria. Invece la prontezza è il saper agire con libertà e agilità senza attaccarsi alle cose materiali che passano. Dice il salmo: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (Sal 61,11). Essere pronto vuol dire essere sempre in cammino, senza mai farsi appesantire accumulando cose inutili e chiudendosi nei propri progetti, e senza farsi dominare dall’ambizione.

12. E finalmente affidabilità e sobrietà. Affidabile è colui che sa mantenere gli impegni con serietà e attendibilità quando è osservato ma soprattutto quando si trova solo; è colui che irradia intorno a sé un senso di tranquillità perché non tradisce mai la fiducia che gli è stata accordata. La sobrietà – ultima virtù di questo elenco non per importanza – è la capacità di rinunciare al superfluo e di resistere alla logica consumistica dominante. La sobrietà è prudenza, semplicità, essenzialità, equilibrio e temperanza. La sobrietà è guardare il mondo con gli occhi di Dio e con lo sguardo dei poveri e dalla parte dei poveri.

La sobrietà è uno stile di vita [8] che indica il primato dell’altro come principio gerarchico ed esprime l’esistenza come premura e servizio verso gli altri. Chi è sobrio è una persona coerente ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare e vivere con il senso della misura.

Cari fratelli,

la misericordia non è un sentimento passeggero, ma è la sintesi della Buona Notizia, è la scelta di chi vuole avere i sentimenti del Cuore di Gesù [9], di chi vuol seguire seriamente il Signore che ci chiede: «Siate misericordiosi come il Padre vostro» (Lc 6,36; cfr Mt 5,48). Afferma padre Ermes Ronchi: «Misericordia: scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, consolazione per noi debitori. Il debito di esistere, il debito di essere amati si paga solo con la misericordia».

Dunque, sia la misericordia a guidare i nostri passi, a ispirare le nostre riforme, a illuminare le nostre decisioni. Sia essa la colonna portante del nostro operare. Sia essa a insegnarci quando dobbiamo andare avanti e quando dobbiamo compiere un passo indietro. Sia essa a farci leggere la piccolezza delle nostre azioni nel grande progetto di salvezza di Dio e nella maestosità e misteriosità della sua opera.

Per aiutarci a capire questo, lasciamoci incantare dalla preghiera stupenda che viene comunemente attribuita al Beato Oscar Arnulfo Romero, ma che fu pronunciata per la prima volta dal Cardinale John Dearden:

Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri, servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

E con questi pensieri, con questi sentimenti, vi auguro un buon e santo

Natale, e vi chiedo di pregare per me. Grazie.

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[1]‎ Esercizi Spirituali, 315.

[2] Serm. 207, 1: PL 38, 1042.

[3] «La missionarietà non è solo una questione di territori geografici, ma di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i “confini” della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e di ciascuna donna, Il Concilio Vaticano II ha sottolineato in modo speciale come il compito missionario, il compito di allargare i confini della fede, sia proprio di ogni battezzato e di tutte le comunità cristiane» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2013, 2).

[4] Missale Romanum, ed. 2002.

[5] Discorso alla Curia Romana, 21 settembre 1963: AAS 55 (1963), 793-800.

[6]‎ Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali 349.

[7]‎ «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, ‎con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e ‎dell’umanità intera […] È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, ‎‎1: AAS 101 [2009], 641). Perciò occorre «coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della ‎‎“veritas in caritate” (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in ‎veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua ‎volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» (ibid., 2).‎

[8] Uno stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37); cfr AA.VV., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondaz. Apostolicam actuositatem, Roma 2002.

[9] Giovanni Paolo II, Angelus del 9 luglio 1989: «L’espressione “Cuore di Gesù” richiama subito alla mente l’umanità di Cristo, e ne sottolinea la ricchezza dei sentimenti, la compassione verso gli infermi; la predilezione per i poveri; la misericordia verso i peccatori; la tenerezza verso i bambini; la fortezza nella denuncia dell’ipocrisia, dell’orgoglio, della violenza; la mansuetudine di fronte agli oppositori; lo zelo per la gloria del Padre e il giubilo per i suoi disegni di grazia, misteriosi e provvidenti… richiama poi la tristezza di Cristo per il tradimento di Giuda, lo sconforto per la solitudine, l’angoscia dinanzi alla morte, l’abbandono filiale e obbediente nelle mani del Padre. E dice soprattutto l’amore che sgorga inarrestabile dal suo intimo: amore infinito verso il Padre e amore senza limiti verso l’uomo».

 

Dal sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/december/documents/papa-francesco_20151221_curia-romana.html

Costruire il Giubileo della pace, profezia di nuova umanità.
Un appello di Pax Christi.

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Domani mattina a Roma, alle 9.30 in Piazza San Pietro, Papa Francesco aprirà la “Porta Santa” della basilica vaticana. Inizierà così il Giubileo della Misericordia. Un evento voluto fortemente dal Papa. Un evento nelle intenzioni del pontefice da vivere, non solo sul piano spirituale dal singolo credente,  ma anche come evento di giustizia e di pace. Va in questa direzione l’appello, che pubblichiamo integralmente, dell’associazione “Pax Christi”. Sono parole profetiche che invitano la comunità ecclesiale ad una chiara testimonianza di verità sul momento drammatico in cui viviamo.

Pax Christi Italia, presente in questi giorni a Parigi per la Cop21 con una nutrita delegazione giovanile armata dell’enciclica Laudato si’, propone questo appello all’inizio del Giubileo della misericordia che, come ha evidenziato papa Francesco in Africa, diventa per tutti un Giubileo del disarmo, della giustizia e della riconciliazione.

Pax Christi Italia si oppone alla generale chiamata alle armi promossa in tutta Europa da organi di stampa, governi e forze politiche che pensano di bloccare le guerre del terrorismo col terrorismo di guerre che, come si è visto (e come è stato riconosciuto anche dai loro promotori), hanno alimentato nuove violenze e nuove guerre.

Cosa è rimasto di tante iniziative belliche? Morti, rovine, sfollati, profughi, migrazioni forzate, tratta delle persone, milizie armate, terrorismo diffuso e “tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi”, ha esclamato il papa il 19 novembre.

“Nel contesto della comunicazione globale”, ha detto il papa a Sarajevo nel giugno scorso, “si percepisce un clima di guerra. C’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi”. Per questo, giorni fa ha esclamato: “coloro che operano la guerra, che fanno le guerre, sono maledetti, sono delinquenti”, aggiungendo, poi: “le guerre sono un’industria, un affare di armi, un peccato, distruggono l’umanità… Si devono fermare” .

Quella che stiamo vivendo non è una guerra dell’Islam contro l’Occidente. Il terrore è da tempo pane quotidiano per milioni di persone in Medio Oriente e in varie parti del mondo, e colpisce soprattutto i musulmani. Il 90% delle vittime del terrorismo islamista si verifica in Iraq, Siria, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Somalia, Tunisia, Mali, Libia, Libano, Egitto, nel centro e nel nord d’Africa dove l’Europa manda armi e dove l’Italia coi suoi traffici sta violando la legge 185/90, ormai depotenziata e svuotata di significato. Lo testimoniano i dati della Rete Italiana Disarmo e di altre istituzioni.

L’Italia vende e permette la vendita di armi, ad esempio, all’Arabia Saudita (che sta bombardando lo Yemen e che ospita finanziatori del sedicente stato islamico), al Qatar, alle monarchie del Golfo, al Kuwait, alla Siria, all’Iraq, alla Turchia, all’Algeria, all’Egitto, al Marocco, alla Libia…ed è alleata di regimi vicini ai terroristi.

Ora, ai bombardamenti di Usa, Russia e Francia (e al sostegno armato dell’Italia), si aggiungono quelli della Germania e dell’Inghilterra. Molti, troppi sono corresponsabili delle violenze di una guerra mondiale che sembra inarrestabile e che è diventata parte integrante dell’economia e della politica.

Una politica di pace con mezzi di pace non è passiva ma è lotta per il bene e per la civiltà del diritto, è gestione e superamento dei conflitti.

Si può vincere il male con il bene.

Occorre, anzitutto, eliminare ogni complicità con i terroristi.

Non si può nutrire il male che si dice di combattere.

E non si spegne il fuoco gettandovi benzina in continuazione.

  1. Smettiamo di armare le guerre con gli “affari insensati” delle armi. Diamo inizio a un embargo planetario o a una moratoria internazionale che imponga il divieto assoluto di vendere armi.
  2. Scardiniamo l’architettura finanziaria del califfato e dei suoi alleati. Blocchiamo il commercio clandestino di petrolio (che frutta all’Isis 1 milione e mezzo di dollari al giorno). Fermiamo le elargizioni di denaro e i flussi di armi e denaro.
  3. 
 Ridiamo all’Onu un ruolo centrale nel processo di pace in Siria e Iraq e affidiamo al Tribunale penale internazionale la valutazione e il giudizio dei crimini contro l’umanità.
  4. Costruiamo una politica euro-mediterranea di vera cooperazione e di sicurezza comune.
  5. Promuoviamo un’opera di educazione ai conflitti nelle scuole e nelle città preparando anche le condizioni per una Difesa civile nonviolenta.
  6. Sviluppiamo il dialogo interreligioso senza diplomazie generiche ma con buone pratiche sociali e momenti di festa, curando una spiritualità dell’incontro che faccia emergere la sostanza disarmata e disarmante della propria fede.
Non lasciamo solo papa Francesco nella sua denuncia! All’inizio del “Giubileo della misericordia”, seguiamo il suo invito a “chiedere la grazia del pianto per questo mondo che non riconosce la strada della pace. Che vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla”.

Dopo il convegno ecclesiale di Firenze, le comunità cristiane possono vivere il Giubileo della misericordia come Giubileo della giustizia e della pace, come profezia di nuova umanita’.

 


Pax Christi Italia
Firenze 2 dicembre  2015

Papa Francesco, tra Vatileaks e Giubileo della Misericordia. Intervista a Marco Politi


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Tra pochi giorni, a Roma, si aprirà, con l’apertura della “Porta Santa, il Giubileo della misericordia. Un evento importante per il Pontificato di Papa Bergoglio. Un evento che vuole segnare una svolta per tutta la Chiesa cattolica. E sempre la prossima settimana, in Vaticano, riprende il processo Vatileaks. Come procede il cammino riformatore di Papa Francesco? Ne parliamo, in questa intervista, con il vaticanista Marco Politi. Di Politi, in questi giorni, è uscita la nuova edizione aggiornata e ampliata del libro, pubblicato dall’Editore Laterza, Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione. (pagg. 280, € 16, 00).

cop.aspxPoliti,  si è concluso da poco il viaggio di Papa Francesco in Africa, che sigilla in modo definitivo direi, la sua ecclesiologia delle “periferie” (estreme). L’apertura della Porta Santa nella Chiesa di Bangui (Repubblica Centroafricana ) è stato l’emblema di questa ecclesiologia. Per te è così?

La Repubblica Centroafricana, così ricca di petrolio, diamanti e uranio, è uno dei paesi più sfasciati e degradati dell’Africa. E’ ‘ultima’ nel vero senso della parola e Francesco, aprendo a Bangui la Porta Santa, ha mostrato da un lato la decentralizzazione della Chiesa e dall’altro – e soprattutto – che gli ultimi sono i primi. In un certo senso questo è stato il suo secondo viaggio in Africa, perché il suo primo viaggio a Lampedusa era già l’incontro con i migranti che vengono dal Maghreb e dal Continente Nero”

Una domanda sul “Giubileo della Misericordia” che si aprirà il prossimo 8 dicembre: quali gli obiettivi del Papa Francesco? Ti aspetti un gesto fortemente significativo di Francesco, ovvero il Giubileo della Misericordia segnerà uno  spartiacque per la Chiesa cattolica?
Il Giubileo straordinario è in fondo un appello speciale al popolo di Dio, per marciare insieme sulla strada della riforma della Chiesa. L’esito del Sinodo, che non è riuscito a votare un documento chiaro sulla comunione ai divorziati risposati, ha portato alla luce forti resistenze all’interno degli episcopati del mondo e ha rivelato l’esistenza di una spaccatura tra chi – come Francesco – vuole una Chiesa ospedale da campo e chi si arrocca nella dottrina: i “dottrinari” come li chiama il pontefice argentino, che sono sordi ai drammi di tanti uomini e donne. Francesco vuole predicare, come ha detto all’incontro con Comunione e liberazione, che la via della Chiesa è di non condannare eternamente nessuno“.

Nel tuo libro, dal titolo emblematico “Francesco tra i lupi”, tra l’altro, analizzi e fai il punto dell’Azione riformatrice di Papa Bergoglio. Quali sono stati i frutti, finora, dell’opera di Francesco?
Il papa ha già portato molta pulizia nella banca e negli affari finanziari vaticani. Sono stati chiusi migliaia di conti, è stato creato un comitato anti-riciclaggio in Vaticano, sono stati firmati accodi di cooperazione giudiziaria con molti Stati, è stato creato un Segretariato per l’economia, che vigilerà sugli appalti fonte di corruzione, è stato potenziato il ruolo dell’Autorità di informazione finanziaria. Le sacche di malaffare che resistono – ed è meritoria da questo punto l’opera di informazione dei libri di Fittipaldi e Nuzzi – dimostrano che ogni riforma si scontra con interessi opachi poderosi. Francesco ha cominciato a dare al Sinodo dei vescovi un reale potere propositivo, ha creato un organo di consultazione internazionale al suo fianco: il Consiglio dei nove cardinali. E ha cominciato a decentralizzare , dando la facoltà ai vescovi locali di decidere autonomamente in certi casi sulla nullità dei matrimoni religiosi Francesco ha riaperto il dialogo tra Chiesa e società pluralistica moderna: oggi sono tanti gli appartenenti ad altre religioni o gli agnostici e gli atei che ascoltano con interesse il suo messaggio. Infine Francesco sta dicendo parole chiare sullo sfruttamento di una massa enorme di uomini e donne e sul degrado ecologico, che a sua volta comporta gravi costi sociali”.

Ci sono dei limiti in quest’azione? Se si quali sono?
C’e da fare la riforma della Curia. C’è da realizzare l’inserimento di donne nei posti dove si decide e si esercita autorità (per citare le sue parole). C’è da dare forma codificata a tanti suoi impulsi”.

Parli anche della “solitudine” del Papa. Eppure è un Papa che gode di un immenso amore nel “popolo di Dio”. Dove nasce questa  solitudine?
Lo hanno detto in molti: il vescovo Bregantini, il segretario della Cei mons. Galantino: non basta applaudire il pontefice, bisogna aiutarlo fattivamente nella sua opera di cambiamento. Troppi vescovi, troppi sacerdoti, troppi fedeli stanno fermi. A volte per inerzia, a volte per paura, a volte per sabotare passivamente”.

E veniamo ai “nemici” di Papa Francesco. Nel libro ne parli diffusamente, fa impressione vedere un pontefice circondato da “nemici”. Qual è il più pericoloso?
Gli avversari sono coloro che nella gerarchia hanno impedito al Sinodo di pronunciare una parola definitiva sull’accoglimento dei divorziati risposati e sul riconoscimento del vaolre affettivo e solidale di una coppia omosessuale. Gli avversari sono quanti continuano a fare un cattivo uso dei beni economici della Chiesa, quanti voltano la testa dall’altra parte quando si tratta di stabilire meccanismi concreti per contrastare gli abusi sessuali. Coloro che fanno finta di non sentire che le donne devono essere chiamate a ruoli decisionali . Soprattutto su internet si assiste in Italia e nel mondo ad una campagna sistematica di denigrazione del pontefice. E anche il caso Vatileaks-2 dimostra che suoi collaboratori in Curia fanno operazioni destabilizzanti e rompono i più elementari patti di lealtà, registrando gli interventi del Papa in riunioni riservate e poi li diffondono all’esterno “.

E nella Chiesa italiana com’è l’atteggiamento, nei confronti di Papa Francesco, dopo il Convegno di Firenze?
Francesco chiede alla Chiesa italiana una grande svolta di conversione, lasciandosi alle spalle interventismi politici e chidendo grande rigore finanziario a tutti i livelli. Pensiamo allo scandalo dell’abate di Montecassino e alle centinaia di migliaia di euro dilapidati da un uomo che avrebbe dovuto salvaguardare la grande tradizione di san Benedetto”.

Ultima domanda: nel libro, nelle pagine finali, scrivi che “Francesco non ignora la clessidra invisibile posta accanto al suo seggio papale”. Cosa intendi?
Papa Francesco lo ha detto e lo ha ripetuto: anche lui a un certo momento sarà disponibile a dimettersi. Il giorno del secondo anniversario della sua lezione ha dichiarato alla Tv messicana di immaginare che il suo pontificato durerà quattro o cinque anni. Due anni e mezzo sono già passati!”.

Papa Francesco e la nuova stagione della Chiesa italiana. Intervista a Massimo Faggioli

Il discorso di Papa Francesco, tenuto ieri nel Duomo di Firenze nell’ambito del 5 Convegno Nazionale della Cei, ha segnato, per molti osservatori, una svolta nella Chiesa italiana. Quanto sarà profonda questa svolta? Quali le conseguenze per la società ? Ne parliamo con Massimo Faggioli, Director Institute for Catholicism and Citizenship alla University of St. Thomas a St. Paul (MN – USA).

convegnoProfessor Faggioli, partiamo per un attimo dalla torbida vicenda di VatiLeaks2. Se l’obbiettivo era di mettere in difficoltà Papa Francesco, questo obbiettivo è completamente fallito. Qual è il suo pensiero? 
VatiLeaks 1 e 2 appartengono al passato, mentre la visione di chiesa di Francesco è il futuro. La riforma di Francesco (e Francesco è un papa che non ha paura di parlare di “riforma”) procede e quello che è emerso sono nature morte di abusi e immoralità passate di cui vediamo ancora le tracce. Ma i tempi sono cambiati con Francesco e non c’è dubbio che tutti percepiscono le differenze abissali tra Francesco e il mondo che esisteva prima di lui in certi angoli del Vaticano.

Veniamo al discorso del Papa, tenuto ieri nel Duomo a Firenze, alla Chiesa italiana. Per molti osservatori segna una svolta dalla “politica” ecclesiale degli ultimi 30 anni. E’ così?
È un cambiamento di atteggiamento che il papa propone alla chiesa italiana: più evangelico e meno politico, ma senza rifugiarsi nello spiritualismo. Giovanni Paolo II tentò di portare in Italia il modello polacco, ma questo tentativo di importazione di un modello non è quello che Francesco vuole. Francesco non ha un piano di azione ecclesiale, ma un’ecclesiologia che è profondamente conciliare. In un certo senso, potrebbe essere la ripresa del Vaticano II in Italia dopo un trentennio di modelli che erano frutto di altre strategie. Francesco parla poco del Vaticano II in maniera diretta, ma è chiaro che fa riferimento al Vaticano II che ha introiettato e assimilato in modo molto profondo.

Quali sono i punti di svolta?
Specialmente la messa in guardia di Francesco dai “surrogati” – potere, denaro, apparenza
– che sono stati parte di un certo modo di essere cattolici (chierici e laici) sulla scena pubblica. La centralità dei poveri non solo dal punto di vista sociale, ma spirituale. Il ruolo della chiesa non come lobby ma come madre di tutti e specialmente dei poveri. L’approccio al dialogo come distintivo di un certo modo di essere chiesa nel mondo plurale di oggi.

Può spiegarci l’attacco al “pelagianismo” e allo “gnosticismo”?
Sono due modi classici di criticare una certa idea di cattolicesimo che prescinde dalla centralità di Gesù Cristo e dalla semplicità e gratuità del suo messaggio. Francesco è radicalmente un centrista in termini teologici.

Tra i punti trattati nell’intervento, ricco e denso, colpisce il riferimento a “Don Camillo e Peppone”. Due personaggi immaginari che hanno segnato l’Italia dell’immediato dopoguerra. Qualcuno ha trovato debole questo riferimento del Papa in quanto all’epoca c’era un popolo. Oggi non c’è più nulla di tutto questo. Come va inteso quel riferimento?
Credo il papa si riferisse non a quel modello sociale e civile di Italia, ma a quel modello di pastoralità del ministero: don Camillo vedeva anche Peppone come una delle pecore del suo gregge. Era una chiesa universalista anche nel mondo delle divisioni ideologiche.
Oggi a volte sembra prevalere il settarismo e un cattolicesimo ideologico. Non è il problema principale della chiesa cattolica in Italia, ma in altre parti del mondo sicuramente sì. Questo ha avuto conseguenze su un certo modo di percepire la funzione del vescovo e anche influito su un certo modello di nomine episcopali. Il profilo pastorale dei vescovi nominati da Francesco è visibilmente diverso da quelli nominati nei 35 anni precedenti.

Nel suo discorso il Papa ha invitato la Chiesa italiana ad essere “creativa”, pensa che la comunità ecclesiale del nostro paese sia all’altezza?
Lo vedremo. Di certo la chiesa italiana ha ricchezze spirituali che sono state silenti per molto tempo, e non solo per colpa di una certa politica vaticana ma anche della refrattarietà della cultura laica italiana a interagire con quella cattolica. Quello che è importante è che il convegno ecclesiale di Firenze 2015 è un importante test a livello mondiale per la “chiesa della sinodalità” che Francesco ha delineato nel discorso al Sinodo del 17 ottobre scorso.

“Beati, umili, disinteressati”. Intervento di Papa Francesco al Convegno CEI

 

Pope Francis in Prato Pubblichiamo il testo integrale del discorso di Papa Francesco, tenuto nella Cattedrale di Firenze, in occasione dell’apertura del  V Convegno Nazionale della Chiesa italiana . Nel suo intervento ai delegati  e, quindi, a tutta la Chiesa italiana, ha ricordato che noi «possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù». Di qui i tre tratti distintivi dell’umanesimo cristiano evidenziati da Francesco: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine. “Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22)”. Insomma una Chiesa “estroversa” libera dai giochi di potere, ricca dell’inquietudine evangelica. Anche nella Chiesa italiana soffia il vento di Papa Francesco. 

 

Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù

Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui ha «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.

Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni.

Quali sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.

Il primo sentimento è l’umiltà«Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.

Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangeliigaudium, 49).

Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.

Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudineIl cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.

Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!

Umiltà, disinteresse, beatitudinequesti i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.

Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più volte e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).

Però le tentazioni da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due.

La prima di esse è quella pelagianaEssa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo.

La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.

La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94).

La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.

La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.

Ma allora che cosa dobbiamo fare? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?

Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?

Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).

Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).

Ai vescovi chiedo di essere pastori: sia questa la vostra gioia. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.

Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr nn. 111-134).

A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.

L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).

Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. La Chiesa madre ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. Il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.

Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).

Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.

La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.

Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.

E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze.

Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.

Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», come scriveva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

 

 

Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita molto dura.

Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.

Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria.