“L’enciclica di Bergoglio è un atto di accusa contro la codardia della politica”.
Intervista a Massimo Faggioli

 

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Ieri è uscita l’attesa Enciclica di Papa Francesco:   Laudato Sì. Il documento sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale.  Dedicheremo al documento Pontificio una serie di interviste di approfondimento. Oggi ne parliamo con Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas (USA).

 

 

 

 

Professor Faggioli, ieri è uscita la tanto attesa Enciclica di Papa Francesco Laudato sì.  L’Enciclica, molto densa, si presenta come un vero trattato teologico sulla Ecologia. Il Papa propone una “Ecologia integrale”. Quali sono i “pilastri” teologici dell’Enciclica?
L’idea che la vera ecologia ha in mente una antropologia non antropocentrica, ma che si riferisce a Dio come creatore e a tutte le creature come un sistema da rispettare. In questo senso e’ un testo che ha una parte di analisi sociale-politica ma anche una parte mistica e poetica come essenziale a comprendere il creato.
Molti sono i riferimenti a Romano Guardini sulla “fine dell’epoca moderna” (vedi in particolare i cenni sul potere e la tecnologia). Quindi è Una enciclica post-moderna?
E’ post-moderna ma non anti-moderna. Papa Francesco e’ un papa che ha accettato la modernità, non l’ha rigettata, ma ne vede le storture e suggerisce come correggerle. Sarebbe sbagliato (come certi neo-conservatori americani stanno tentando di fare) presentarlo come un anti-moderno, non c’e’ nessuna nostalgia del passato in Francesco.
Nell’enciclica è presente un “misticismo cosmologico”. Una rivincita del gesuita scienziato Teilhard de Chardin
E’ da tempo che i teologi hanno ripreso a leggere Teilhard, ma per molti anni fu un teologo considerato sospetto. Ma e’ uno dei pensatori cattolici più’ importanti del secolo XX e questo suo ritorno e’ uno dei ritorni che caratterizzano il pontificato di Francesco.
Al di là di questi paradigmi teologici e di pensiero, lei ha affermato che il vero messaggio dell’Enciclica è politico. Perché?  Qual’è questo messaggio?
Laudato Si’ e’ anche un documento dal contenuto politico perché’ denuncia la latitanza della politica sulla scena mondiale, messa da parte dall’economia finanziaria e dai grandi interessi dei gruppi industriali e dei paesi ricchi. Il papa afferma che il mercato ha creato delle situazioni di ingiustizia che solo la politica può’ sanare. Quello del papa e’ un atto d’accusa contro la codardia dei politici oggi.
Il documento di Papa Bergoglio si presenta come una critica radicale al sistema finanziario attuale. Lei che vive negli Usa non gli sarà certamente sfuggita la reazione stizzita dei repubblicani americani, e in genere del mondo conservatore. Secondo lei questo avrà degli effetti politici?
E’ presto per dirlo: di sicuro un documento del genere potrà’ difficilmente essere ignorato e mette in imbarazzo i candidati repubblicani alla presidenza, alcuni dei quali sono cattolici molto religiosi.
Ultima domanda: quale impatto avrà nel cattolicesimo mondiale?
Questo documento rende chiara e ufficiale la posizione della chiesa sulla questione. Certamente i cattolici europei, quelli nordamericani, e quelli in Asia sono in condizioni molto diverse tra loro ed e’ solo l’inizio di quello che il papa vuole essere un cammino di conversione.

 

Monsignor Enrique Angelelli, il “martire proibito” dell’America Latina verso la beatificazione

imagesLa notizia è di questi giorni: dopo trentanove anni dalla sua morte, ucciso dai militari criminali del regime dittatoriale di Videla, la Santa Sede ha concesso il nulla osta (Ex parte Sancta Sedis nihil obstat) alla causa di Beatificazione di Monsignor Enrique Angelelli, vescovo martire della diocesi argentina La Rioja . La richiesta formale era stata appena tre mesi fa dall’attuale vescovo di La Rioja, Marcel Daniel Colombo. La causa è per martirio in odium fidei.

Monsignor Angelelli venne ucciso, non, come la versione “ufficiale” (quella del regime e accettata, per complicità, anche dalla gerarchia cattolica argentina) ha tentato di far credere per quasi quarant’anni, da un “tragico incidente stradale”, ma, come ha stabilito il processo, che ha condannato i mandanti dell’omicidio, Luciano Menéndez e Luis Fernando Estrella (entrambi alti ufficiali della Forze Armate del regime di Videla), quell’ “incidente” fu “conseguenza di un’azione premeditata ed eseguita nel quadro del terrorismo di Stato”.

Questa verità è stata raggiunta anche grazie alle “Carte” giunte dal Vaticano, su richiesta dell’attuale Vescovo della diocesi.

Fra le tante testimonianze (le riprendiamo dall’Agenzia di stampa Adista) contro i due imputati, due scritti a firma di Angelelli, a pochi giorni dalla morte. Innanzitutto una lettera del 5 luglio 1976 indirizzata all’allora nunzio apostolico in Argentina, card. Pio Laghi (scomparso nel 2009), nella quale scriveva: «Mi hanno consigliato di dirglielo: sono stato di nuovo minacciato di morte» da alcuni membri dell’organizzazione cattolica di ultradestra “I crociati della Fede della Costa”, proprietari terrieri che attaccavano pubblicamente il vescovo (fino a cacciarlo a pietrate, nel 1973, da Anillaco, in provincia di La Rioja) e che sulle pagine del quotidiano El Sol, lo chiamavano «il vescovo rosso», «comunista», «satanelli». Angelelli documenta tutto a Laghi allegando le pagine del giornale. Ed inoltre enumera in dettaglio la crescente ostilità che dovevano sopportare lui e i suoi preti da parte di Osvaldo Bataglia, capo del Battaglione del Genio civile.Il secondo documento è una memoria puntuale e particolareggiata degli eventi che precedettero – e “motivarono” – l’omicidio di Longueville e Murias. Entrambi i documenti erano custoditi in Vaticano e sono stati prontamente consegnati da papa Francesco su sollecitazione, come già scritto, dell’attuale vescovo di La Rioja, mons. Marcelo Daniel Colombo, al quale il sacerdote francescano Miguel Ángel López aveva raccontato di aver consegnato personalmente in Vaticano a luglio del ‘76 il dossier confidenziale di Angelelli.

Documenti effettivamente ricevuti dato che portano il numero di protocollo in italiano e, come data di archiviazione, quella del 30 luglio 1976. Laghi fu ripetutamente accusato dalle Madri di piazza di Maggio di complicità con la dittatura. “Non sapevo”, fu l’eterno refrain del cardinale (v. fra gli altri, Adista n. 7/99). «Le carte provano la mendacia di Pio Laghi, che si sottrasse alle sue responsabilità rasentando la copertura», ha dichiarato a Infojus Noticias Bernardo Lobo Bugeau, avvocato della Segreteria argentina dei Diritti Umani, uno dei soggetti querelanti. «Nel 2000, in un’intervista alla giornalista Olga Wornat, Laghi – ha aggiunto – si scandalizzò perché lo si accusava di simili delitti. Ora sappiamo che era perfettamente a conoscenza di quanto stava succedendo».

Alla vigilia della sentenza, il 3 luglio dello scorso anno, nella cattedrale di La Rioja mons. Marcelo Colombo ha officiato una messa «in omaggio a mons. Enrique Angelelli». «Trentotto anni fa, in questi stessi giorni – ha ricordato nella sua vibrante omelia – Angelelli soffriva per gli attacchi e le ingiuste accuse e perché gli veniva impedito [dagli uomini della dittatura] il libero esercizio del suo ministero pastorale. Non poteva accettare il “suggerimento” di mantenersi distante, di fare attenzione alla sua pelle, di lasciare il suo gregge. Presentiva i pericoli che si addensavano sulla sua testa, ma agiva mosso dal Vangelo di Gesù Cristo nel suo impegno personale irrinunciabile a favore degli esseri umani. Intravide che le morti di Gabriel Longueville e Carlos Murias e del laico Wenceslao Pedernera preannunciavano la sua. Ma continuò a rimanere sulla breccia, a sostenere fino alla fine il bastone del buon pastore».

«Come Chiesa di La Rioja – ha detto ancora – vogliamo portare avanti la missione di Gesù fra gli esseri umani e percorrere senza titubanze quei cammini che mons. Angelelli ha risolutamente proposto: il rinnovamento ecclesiale come compito di ognuno di noi; il servizio come contenuto e metodo del nostro agire pastorale», «l’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi, la conversione pastorale delle nostre istituzioni, la ricerca della volontà di Dio per la sua Chiesa. Questi aspetti di importanza sostanziale che la vita e la dedizione fino alla morte di mons Angelelli hanno proclamato profeticamente costituiscono per noi una eredità sacra fermamente radicata in Gesù Cristo». 

Così, dopo ben 40 anni, questo “martire proibito” dell’America Latina, come lo chiamava il vescovo brasiliano Dom Pedro Casaldaliga, fa la sua irruzione nella grande storia contemporanea della Chiesa dell’America Latina. Con Monsignor Romero, Ignacio Ellacuria, e i tanti martiri (preti e laici) che rendono luminoso la testimonianza cristiana per la liberazione integrale dei poveri nell’Immenso continente Latinoamericano.

Con un oido en el pueblo y otro en el evangelio” (con un orecchio al Popolo e l’altro nel Vangelo). Ecco questa era la prassi evangelica e storica liberatrice di Enrique Angelelli. Figlio di emigrati italiani, figlio della Chiesa del Vaticano II e della Conferenza di Medellin (la Chiesa estroversa che fa sua integralmente l’opzione per i poveri), figlio dell’America Latina e del suo sogno di liberazione e giustizia, figlio della “teologia del popolo” (una corrente della più ampia teologia della liberazione).

Angelilli, quindi, incarna alla perfezione quell’ ideale storico concreto, proposto da Papa Francesco, “del pastore che ha l’odore delle pecore”. Infatti, come scrive il pontefice nella Evangelii Gaudium,“l predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo”. 

Così è stata la vita del Vescovo martire Enrique Angelelli.

 

 

 

“Con il Giubileo della Misericordia Papa Francesco riorienta la Chiesa”. Intervista a Massimo Faggioli

Il compimento del secondo anno di pontificato di Papa Francesco si è intrecciato con l’annuncio, a sorpresa, del Giubileo Straordinario sulla Misericordia. Come si inserisce questo evento nell’opera riformatrice di Papa Francesco? Ne parliamo con Massimo Faggioli, storico della Chiesa presso la University of St. Thomas negli USA

Udienza generale del mercoledì di Papa FrancescoPapa Francesco compie il suo secondo anno di pontificato con l’annuncio dell’indizione del Giubileo straordinario sulla Misericordia. Per alcuni osservatori, questo evento, segnerà una svolta nella Chiesa contemporanea. È d’accordo su questo?

Non lo sappiamo ancora, ma di certo e’ una sorpresa: un pontificato che Francesco dice sara’ breve, ma Francesco programma nel lungo periodo… Di certo e’ una decisione che spiazza buona parte della opposizione contro di lui: uno strumento vecchio come il giubileo ma usato per un riorientamento della chiesa.

L’ ecclesiologia che sta alla base dell’opera di Papa Francesco è quella del Concilio Vaticano II. Però,  a mio modo di vedere,  porta un arricchimento teologico rispetto al Concilio: ovvero la storia dei poveri e delle periferie “esistenziali”. In questo si comprende la “Chiesa ospedale da campo”. È  così?

Direi che Francesco recupera dei nuclei del concilio che non furono sviluppati e recepiti a sufficienza, come quello della chiesa dei poveri: i latinoamericani al concilio si aspettavano di più dal concilio su questo tema. Il primo papa latinoamericano attua il concilio facendo giustizia di alcune dimenticanze del concilio e del postconcilio.

Veniamo a questo biennio di pontificato. Un biennio intenso, dove la Chiesa è stata attraversata da una forte dialettica. Un grande sostegno popolare al Papa, ma anche resistenze forti da parte della Corte Curia le. Riuscirà il Papa a scardinare le resistenze? Dove si annidano le resistenze fuori dalla Curia?

La scelta di convocare il giubileo e’ geniale perché’ toglie alla Curia romana e alle elite ecclesiali in genere il potere di definire il successo del pontificato della misericordia. Il pontificato di Francesco e’ puntato su altro e non può’ essere preso ostaggio da piccoli gruppi di resistenza al cambiamento.

Oltre a Misericordia,  quali sono le altre “parole chiave”  di questo primo biennio di Pontificato? 

Poveri, gioia, periferie, idolatria.

In una intervista ad una emittente messicana,  il Papa parla della “durata”  del suo Pontificato definendolo “breve”. Quale è stata la sua reazione a queste parole?

Il Papa non vuole illuderci sulla durata del pontificato e non vuole creare aspettative irrealistiche. Certamente rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II, che per molti è il paragone del pontificato post-conciliare, quello di Francesco sara’ più’ breve. Ma e’ anche un modo per gestire in modo accorto le resistenze contro di lui.

Lei è Italiano ma insegna negli Usa. Ed è molto addentro alla Chiesa italiana. Le chiedo  come stanno reagendo queste due Chiese all’opera di Francesco?

La chiesa italiana e’ molto più dominata dalle istituzioni ecclesiastiche (vescovi, clero) che in Italia mi sembra più risvegliata dall’effetto Francesco rispetto a quella americana, in cui la resistenza si annida in alcune cerchie accademiche e intellettuali neo-conservatrici o tradizionaliste – alcune delle quali arrivano persino ad accusarlo di eresia.

Ultima domanda : il Papa si batte contro i clericalismi. Com’è la situazione del laicato cattolico dopo due anni di Papa Francesco?

C’e’ qualche decennio da recuperare: il laicato si e’ in buona parte disabituato ad avere un ruolo attivo.

La beatificazione di Monsignor Oscar Romero. Una riflessione

Monsignor Oscar Romero (Tratta da www.acs-italia.org)

Grande eco ha avuto nell’opinione pubblica internazionale la firma che Papa Francesco  ha messo nel decreto che sancisce che l’arcivescovo Romero, a  capo della diocesi di San Salvador fu ucciso, il 24 marzo 1980, “in odio della fede” e quindi è un martire. E presto sarà beato.Il suo assassinio avvenne durante la celebrazione dell’Eucarestia. I mandanti furono le oligarchie e il potere politico di allora.

Subito, per il popolo povero del Salvador  e di tutta l’America Latina, fu San Romero d’America. A sigillare che il suo sacrificio fu un vero e proprio martirio per la lotta per la giustizia e la liberazione dei poveri.

La Chiesa, così,  riconosce un martire della Chiesa Latinoamericana, quella del Salvador. Facendone un “Padre della Chiesa” dell’America Latina. Tanti Vescovi di quell’immenso continente negli ultimi 60 anni, senza dimenticare i precursori come Bartolomeo De Las Casas che nel ‘500 si batterono per la dignità degli indios coderntro la dominazione spagnola e portoghese, hanno edificato, con la loro testimonianza, per alcuni di loro fino al sacrificio estremo, la Chiesa dell’ America Latina. Facendola così diventare una protagonista della Storia della Chiesa. Sono tanti i nomi di questi padri: dom Helder Camara, dom Manuel Larrain, dom Enrique Angelleli, dom Luis Proaño, dom Evaristo Arns, dom Aloisio Lorscheider, dom Samuel Ruiz. Solo per citarne alcuni. La svolta teologica e pastorale avviene con l’assemblea del CELAM a Medellin nel 1968. Quell’incontro avvenuto nell’immediato post-concilio prese a cuore la situazione di oppressione dei poveri, le sue parole chiave furono: l’opzione preferenziale per i poveri, giustizia e liberazione.

Una svolta per quella che non molto tempo prima era considerata una Chiesa “coloniale”. Certo il cammino del dopo Medellin ha conosciuto le resistenze della Curia romana e della normalizzazione. Ma il seme di Medellin ha continuato a dare i suoi frutti con la teologia della liberazione, le comunità di base e la lotta degli innumerevoli testimoni della fede.

In questo solco si colloca la vita e la testimonianza di Oscar Romero.

Il Salvador negli  anni ottanta era dominato da oligarchie terriere e da militari violenti. C’erano gli “squadroni della morte”, vere bande di criminali al soldo del potere, che facevano stragi di vittime innocenti tra i contadini e chiunque difendesse i diritti dei poveri. Tra questi c’era Mons. Romero. Come tutti sanno Oscar Romero era stato scelto alla guida della Diocesi di San Salvador perché ritenuto un “conservatore”. Invece il suo cuore di Pastore messo di fronte alla povertà del popolo ebbe una conversione radicale, si schierò dalla parte dei poveri e di tutti quelli che operano a favore dei poveri. La sua conversione avvenne con l’omicidio, ad opera degli oligarchi produttori di caffè, di Padre Rutilio Grande.

“A Monsignore caddero le bende dagli occhi e si convertì”, così scrive magnificamente il teologo gesuita Jon Sobrino (Sta in Concilium 5/2009). Da li è cominciata la proiezione continua verso la svolta pastorale e teologica della  Chiesa salvadoregna. La Chiesa dei Poveri, le comunità di base, le organizzazioni per i diritti umani (Un’altra vittima dell’oppressione è stata Marianella Garcia Villas, giovane donna avvocato a capo dell’organizzazione per i diritti umani, amica di Romero), i gesuiti dell’Università del Centro America (in particolare Ignacio Ellacuria). Denunciò senza sosta l’oppressione politica, economica del potere politico e militare nei confronti del popolo del Salvador: “inserita tra gli oppressi la chiesa doveva e poteva essere medicina per sanare i sottoprodotti negativi della lotta” (J.Sobrino). Una Chiesa lievito che fa fermentare lo spirito del Vangelo nella società. Ma anche una Chiesa di martiri: “Monsignor Romero ha propiziato una chiesa della “liberazione”, il che presuppone l’incarnazione storica nelle lotte per la giustizia, per i diritti fondamentali del popolo. Non si poteva essere chiesa dei poveri e abbandonarli alla loro sorte. Il fatto che si trattava di “lotta”, con la sua ambiguità non lo ha bloccato” (J.Sobrino). Le oligarchie gli gettarono addosso calunnie di ogni tipo. Ma lui prendendo sul serio Dio e la realtà come un profeta biblico denunciò il grande male che affliggeva il Salvador ovvero: “la ricchezza, la proprietà privata, come un assoluto intoccabile. E guai a chi tocca questo filo ad alta tensione! Si brucia”.

Oppure  in  un omelia affermava: “È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo! […] Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri”, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. […] A tutti diciamo: Prendiamo sul serio la causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor più, come in effetti poi è, la causa stessa di Gesù Cristo”

Nella sua ultima  omelia sapeva di dover morire quando, il giorno prima, in cattedrale, aveva affermato: «Io vorrei lanciare un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito, e in concreto alle basi della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme. Fratelli, che fate parte del nostro stesso popolo, voi uccidete i vostri stessi fratelli contadini! Mentre di fronte a un ordine di uccidere dato a un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”! Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a osservarla. È ormai tempo che riprendiate la vostra coscienza e obbediate alla vostra coscienza piuttosto che alla legge del peccato. La Chiesa, sostenitrice dei diritti di Dio, della dignità umana, della persona, non può restarsene silenziosa davanti a tanto abominio. In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono ogni giorno più tumultuosi fino al cielo, vi supplico, vi prego, vi ordino: basta con la repressione!”.

 

La sua eredità si tramandò poi nella Chiesa Salvadoregna, tra gli altri, attraverso i gesuiti dell’Università Uca, anche loro martiri.

“È un fatto provvidenziale”, ha detto mons. Paglia, postulatore della causa di beatificazione, “che questa beatificazione giunga con il pontificato del primo papa latinoamericano”, che essa avvenga “in un momento di grande travaglio storico, rappresentando una fede che non resta nei principi, che sceglie di sporcarsi le mani coi più poveri, per far capire che Dio è dalla loro parte”.

 

Davvero, come affermava Ignacio Ellacuria (il gesuita martire dell’Uca), “con Monsignor Romero Dio è passato per il Salvador”.

Papa Francesco: Ecco le Piaghe della Chiesa. Il discorso di Bergoglio alla Curia Romana

Papa Francesco (foto de "L'Osservatore Romano")

Papa Francesco (foto de “L’Osservatore Romano”)

“Francamente non era mai successa una cosa simile”. Non nasconde il proprio stupore il cardinale Giovanni Lajolo, ex-governatore e ministro degli Esteri vaticano. «È la prima volta che accade: mai un Papa aveva posto a noi curiali un catalogo di patologie sulle quali interrogarci». Le parole del Cardinale Lajoolo, in una intervista al sito del quotidiano torinese La Stampa (http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/lajolo-38226/), davvero sintetizzano meglio di altri la portata storica del discorso di Papa Bergoglio, tenuto ieri in Vaticano, nella Sala Clementina, ai membri della Curia Romana. Una sferzata davvero! 15 sono le piaghe che affliggono la Chiesa di Roma. Il testo ricorda, per certi versi, un testo profetico di un grande pensatore cattolico dell’Ottocento: Antonio Rosmini. Il filosofo trentino parlava delle Cinque Piaghe della Chiesa Cattolica. Così, a distanza di quasi due secoli , un Papa gesuita sferza la Chiesa con la stessa forza profetica.  Di seguito pubblichiamo il testo integrale (Dal sito: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/december/documents/papa-francesco_20141222_curia-romana.html)

 
La Curia Romana e il Corpo di Cristo 
 “Tu sei sopra i cherubini, tu che hai cambiato la miserabile condizione del mondo quando ti sei fatto come noi” (Sant’Atanasio)
 
Cari fratelli, 
Al termine dell’Avvento ci incontriamo per i tradizionali saluti. Tra qualche giorno avremo la gioia di celebrare il Natale del Signore; l’evento di Dio che si fa uomo per salvare gli uomini; la manifestazione dell’amore di Dio che non si limita a darci qualcosa o a inviarci qualche messaggio o taluni messaggeri ma dona a noi sé stesso; il mistero di Dio che prende su di sé la nostra condizione umana e i nostri peccati per rivelarci la sua Vita divina, la sua grazia immensa e il suo perdono gratuito. E’ l’appuntamento con Dio che nasce nella povertà della grotta di Betlemme per insegnarci la potenza dell’umiltà. Infatti, il Natale è anche la festa della luce che non viene accolta dalla gente “eletta” ma dalla gente povera e semplice che aspettava la salvezza del Signore.
Innanzitutto, vorrei augurare a tutti voi – collaboratori, fratelli e sorelle, Rappresentanti pontifici sparsi per il mondo – e a tutti i vostri cari un santo Natale e un felice Anno Nuovo. Desidero ringraziarvi cordialmente, per il vostro impegno quotidiano al servizio della Santa Sede, della Chiesa Cattolica, delle Chiese particolari e del Successore di Pietro.
Essendo noi persone e non numeri o soltanto denominazioni, ricordo in maniera particolare coloro che, durante questo anno, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età o per aver assunto altri ruoli oppure perché sono stati chiamati alla Casa del Padre. Anche a tutti loro e ai loro famigliari va il mio pensiero e gratitudine.
Desidero insieme a voi elevare al Signore un vivo e sentito ringraziamento per l’anno che ci sta lasciando, per gli eventi vissuti e per tutto il bene che Egli ha voluto generosamente compiere attraverso il servizio della Santa Sede, chiedendogli umilmente perdono per le mancanze commesse “in pensieri, parole, opere e omissioni”.
E partendo proprio da questa richiesta di perdono, vorrei che questo nostro incontro e le riflessioni che condividerò con voi diventassero, per tutti noi, un sostegno e uno stimolo a un vero esame di coscienza per preparare il nostro cuore al Santo Natale.
Pensando a questo nostro incontro mi è venuta in mente l’immagine della Chiesa come il Corpo mistico di Gesù Cristo. È un’espressione che, come ebbe a spiegare il Papa Pio XII, «scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri»[1]. Al riguardo san Paolo scrisse: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12)[2].
In questo senso il Concilio Vaticano II ci ricorda che «nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l’utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11)»[3]. Perciò «Cristo e la Chiesa formano il “Cristo totale” – Christus totus -. La Chiesa è una con Cristo»[4].
E’ bello pensare alla Curia Romana come a un piccolo modello della Chiesa, cioè come a un “corpo” che cerca seriamente e quotidianamente di essere più vivo, più sano, più armonioso e più unito in sé stesso e con Cristo.
In realtà, la Curia Romana è un corpo complesso, composto da tanti Dicasteri, Consigli, Uffici, Tribunali, Commissioni e da numerosi elementi che non hanno tutti il medesimo compito, ma sono coordinati per un funzionamento efficace, edificante, disciplinato ed esemplare, nonostante le diversità culturali, linguistiche e nazionali dei suoi membri[5].
Comunque, essendo la Curia un corpo dinamico, essa non può vivere senza nutrirsi e senza curarsi. Difatti, la Curia – come la Chiesa – non può vivere senza avere un rapporto vitale, personale, autentico e saldo con Cristo[6]. Un membro della Curia che non si alimenta quotidianamente con quel Cibo diventerà un burocrate (un formalista, un funzionalista, un mero impiegato): un tralcio che si secca e pian piano muore e viene gettato lontano. La preghiera quotidiana, la partecipazione assidua ai Sacramenti, in modo particolare all’Eucaristia e alla riconciliazione, il contatto quotidiano con la parola di Dio e la spiritualità tradotta in carità vissuta sono l’alimento vitale per ciascuno di noi. Che sia chiaro a tutti noi che senza di Lui non potremo fare nulla (cfr Gv 15, 8).
Di conseguenza, il rapporto vivo con Dio alimenta e rafforza anche la comunione con gli altri, cioè tanto più siamo intimamente congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi perché lo Spirito di Dio unisce e lo spirito del maligno divide.
La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione[7]. Eppure essa, come ogni corpo, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità. E qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, malattie curiali. 
Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il “catalogo” delle malattie – sulla strada dei Padri del deserto, che facevano quei cataloghi – di cui parliamo oggi: ci aiuterà a prepararci al Sacramento della Riconciliazione, che sarà un bel passo di tutti noi per prepararci al Natale.
1. La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile” trascurando i necessari e abituali controlli. Una Curia che non si autocritica, che non si aggiorna, che non cerca di migliorarsi è un corpo infermo. Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr Lc 12, 13-21) e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi[8]. 
L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).
2. Un’altra: La malattia del “martalismo” (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi sotto i piedi di Gesù (cfr Lc 10,38-42). Per questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a “riposarsi un po’” (cfr Mc 6,31) perché trascurare il necessario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo del riposo, per chi ha portato a termine la propria missione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente: nel trascorrere un po’ di tempo con i famigliari e nel rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica; occorre imparare ciò che insegna il Qoèlet che «c’è un tempo per ogni cosa» (3,1-15).
3. C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e un “duro collo” (At 7,51-60); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5-11) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40). Essere cristiano, infatti, significa «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità[9].
4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo. Quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3,8). Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo… – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, 
 fantasia, novità»[10].
5. La malattia del cattivo coordinamento. Quando i membri perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo.
6. C’è anche la malattia dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della “storia della salvezza”, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4). Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona facendola diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non fanno il senso deuteronomico della vita; in coloro che dipendono completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in coloro che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani.
7. La malattia della rivalità e della vanagloria[11]. Quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di San Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,1-4). È la malattia che ci porta a essere uomini e donne falsi e a vivere un falso “misticismo” e un falso “quietismo”. Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,19).
8. La malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).
9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Di questa malattia ho già parlato tante volte ma mai abbastanza. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-18). Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!
10. La malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. 
Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.
11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.
12. La malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile[12] sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili[13]. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More[14]: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.
13.La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi perché “il sudario non ha tasche” e tutti i nostri tesori terreni – anche se sono regali – non potranno mai riempire quel 
vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. A queste persone il Signore ripete: «Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo … Sii dunque zelante e convertiti» (Ap 3,17-19). 
L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente! E penso a un aneddoto: un tempo, i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la “cavalleria leggera della Chiesa”. Ricordo il trasloco di un giovane gesuita che, mentre caricava su di un camion i suoi tanti averi: bagagli, libri, oggetti e regali, si sentì dire, con un saggio sorriso, da un vecchio gesuita che lo stava ad osservare: questa sarebbe la “cavalleria leggera della Chiesa?”. I nostri traslochi sono un segno di questa malattia.
14.La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il “fuoco amico” dei commilitoni è il pericolo più subdolo[15]. È il male che colpisce dal di dentro[16]; e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11,17).
15.E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi[17], quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. è la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza! E qui mi viene in mente il ricordo di un sacerdote che chiamava i giornalisti per raccontare loro – e inventare – delle cose private e riservate dei suoi confratelli e parrocchiani. Per lui contava solo vedersi sulle prime pagine, perché così si sentiva “potente e avvincente”, causando tanto male agli altri e alla Chiesa. Poverino!
Fratelli, tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario.
Occorre chiarire che è solo lo Spirito Santo – l’anima del Corpo Mistico di Cristo, come afferma il Credo Niceno-Costantinopolitano: «Credo… nello Spirito Santo, Signore e vivificatore» – a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione. È Lui a farci capire che ogni membro partecipa alla santificazione del corpo e al suo indebolimento. È Lui il promotore dell’armonia[18]: “Ipse harmonia est”, dice san Basilio. Sant’Agostino ci dice: «Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi»[19].
La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura[20].
Dunque, siamo chiamati – in questo tempo di Natale e per tutto il tempo del nostro servizio e della nostra esistenza – a vivere «secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15-16).
Cari fratelli!
Una volta ho letto che i sacerdoti sono come gli aerei: fanno notizia solo quando cadono, ma ce ne sono tanti che volano. Molti criticano e pochi pregano per loro. È una frase molto simpatica ma anche molto vera, perché delinea l’importanza e la delicatezza del nostro servizio sacerdotale e quanto male potrebbe causare un solo sacerdote che “cade” a tutto il corpo della Chiesa. Dunque, per non cadere in questi giorni in cui ci prepariamo alla confessione, chiediamo alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, di sanare le ferite del peccato che ognuno di noi porta nel suo cuore e di sostenere la Chiesa e la Curia affinché siano sane e risanatrici; sante e santificatrici, a gloria del suo Figlio e per la salvezza nostra e del mondo intero. Chiediamo a Lei di farci amare la Chiesa 
come l’ha amata Cristo, suo figlio e nostro Signore, e di avere il coraggio di riconoscerci peccatori e bisognosi della sua Misericordia e di non aver paura di abbandonare la nostra mano tra le sue mani materne.
Tanti auguri di un santo Natale a tutti voi, alle vostre famiglie e ai vostri collaboratori. E, per favore, non dimenticate di pregare per me! Grazie di cuore!
 
 
[1] Egli afferma che la Chiesa, essendo mysticum Corpus Christi, «richiede anche una moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo … un Corpo costituito non da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse» (Enc. Mystici Corporis, Parte Prima: AAS 35 [1943], 200).
[2] Cfr Rm 12,5: «Così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri».
[3] Cost. dogm. Lumen gentium, 7.
[4] Da ricordare che “il paragone della Chiesa con il corpo illumina l’intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a Lui; è unificata in Lui, nel suo Corpo. Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l’unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo” Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, N. 789 e 795.
[5] Cfr. Evangelii Gaudium, 130-131.
[6] Gesù più volte aveva fatto conoscere l’unione che i fedeli debbono avere con Lui: “Come il tralcio non può portar frutto da sé stesso se non rimane unito alla vite, così neanche voi, se non rimarrete uniti in Me. Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15, 4-5).
[7] Cfr. Pastor Bounus Art. 1 e CIC can.
[8] Cfr. Evangelii Gaudium, 197-201.
[9] Benedetto XVI Udienza Generale, 01 Giugno 2005.
[10] Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014.
[11] Cfr. Evangelii Gaudium, 95-96.
[12] Ibid, 84-86.
[13] Ibid, 2.
[14] Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. Amen.
[15] Evangelii Gaudium, 88.
[16] Il Beato Paolo VI riferendosi alla situazione della Chiesa affermò di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio», Omelia di Paolo VI, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Giovedì, 29 giugno 1972. Cfr. Evangelii Gaudium, 98-101.
[17] Cfr. Evangelii Gaudium: No alla mondanità spirituale, N. 93-97.
[18] “Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa. Egli dà la vita, suscita i differenti carismi che arricchiscono il Popolo di Dio e, soprattutto, crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il Corpo di Cristo… Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore” (Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014).
[19] August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754.
[20] Cfr. Evangelii Gaudium, Pastorale in conversione, n. 25-33.