Fratelli tutti: la politica come tenerezza e gentilezza. Un testo di Leonardo Boff

Leonardo Boff (LaPresse)

“Fratelli tutti” la nuova enciclica di Papa Bergoglio sta avendo una grande risonanza globale. Sempre più Papa  Francesco si sta confermando come un leader mondiale autorevole. Infatti è uno dei pochi a riflettere sul mondo post-covid. L’enciclica è l’esposizione di un grande progetto planetario della fraternità universale, da realizzare a partire dai poveri e con i poveri. Dedicheremo, a questa enciclica, altri interventi. Oggi iniziamo con un protagonista della teologia contemporanea, amico di Papa Francesco: il teologo della liberazione  Leonardo Boff. Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo, in una nostra traduzione dal portoghese, questo significativo testo del teologo brasiliano. Il testo è denso e ricco di spunti sul significato della politica nella lettera enciclica “Fratelli tutti”.

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“Evitare (falsi) capri espiatori, avviare un vero dialogo cristiano a Bose”. Intervista a Riccardo Larini

Torniamo a parlare, di Bose e del suo ex Priore e fondatore Enzo Bianchi. In questi ultimi due mesi, leggendo articoli apparsi su alcune testate, la situazione non è per nulla pacificata. Anzi, secondo “Settimana” (una rivista online dei Dehoniani), parrebbe che Bianchi non abbia lasciato Bose, come gli era stato chiesto dal decreto vaticano, ma sia ancora a Bose. L’articolo afferma al riguardo: “rimane difficile da interpretare la perdurante presenza a Bose del fondatore”. Dopo un giorno, il 15 agosto per la precisione, con un tweet arriva la smentita amara e dolorosa di Enzo Bianchi: “Non ascoltate notizie fantasiose su di me. Mi sono allontanato dalla comunità da tre mesi, senza aver avuto più contatti con essa. Vivo in radicale solitudine in un eremo fuori comunità e date le mie condizioni di salute (non sono più autonomo) ho un fratello che mi visita. Amen”. Ma come stanno le cose? Cerchiamo di capirlo, in questa intervista, con Riccardo Larini ex Monaco di Bose e persona molto vicina alla Comunità.

Larini mi sembra di capire che tutta la vicenda sta prendendo una gran brutta piega. Lei cosa ne pensa?

Innanzitutto, mi sembra palese che la situazione sia gestita in maniera, per usare un eufemismo, fortemente inadeguata, soprattutto da parte di chi ha o dovrebbe avere l’autorità necessaria per promuovere crescita della comunità e dialogo tra le parti in conflitto. Non è infatti possibile che escano costantemente dalla comunità informazioni parziali e calunniose su alcune delle persone coinvolte, soprattutto quando dovrebbe essere stato avviato un lungo e faticoso processo di dialogo. Questo primo elemento mi sembra francamente molto grave, così come mi pare grave che alcuni mezzi di informazione cattolici abbiano ripreso in maniera molto parziale e tendenziosa queste “veline” provenienti dall’interno della comunità, quasi a volersi schierare a favore di una delle parti in conflitto. Sono rimasto allibito dalla mancanza di etica giornalistica, umanità e spirito evangelico che ho colto tra le righe dell’articolo che lei ha citato.

Che informazioni ha su Bianchi?

Il fondatore di Bose, come ha detto egli stesso, è attualmente nell’eremo che a inizio anni 2000 la comunità concordò unanimemente fosse costruito per lui, anche in vista del momento in cui, lasciando il priorato, si sarebbe ritirato a vivere in disparte. È un’abitazione al di fuori della comunità, con accesso stradale indipendente, del tutto idonea, in condizioni normali, a garantire piena autonomia a chi ci vive.

Da inizio giugno non partecipa più in nessun modo alla vita della comunità e sono autorizzati ad avere contatti con lui solo un paio di fratelli che gli portano il necessario o lo aiutano a tenere in ordine l’eremo e il terreno circostante.

Vista l’età e l’enorme stress che ha vissuto in questi mesi, è profondamente provato, essendo tra l’altro affetto da seri problemi di salute.

Veniamo al Decreto vaticano. Un decreto che la Santa Sede, inspiegabilmente, non ha mai pubblicato (e questo fa sì, onestamente, che aumenti la poca chiarezza su tutta la vicenda). Di cosa viene “accusato” Bianchi? Di interferenza? Di pressioni? Di abusi di potere? E cosa gli è stato imposto?

Come sa ho invocato da mesi la pubblicazione integrale del Decreto, per gli ovvi motivi che lei stesso ha sottolineato. Sono tra quelli (non pochi: in questa triste fase della storia della chiesa i corridoi vaticani hanno una tenuta stagna simile al Titanic) che hanno avuto modo di leggerlo, dunque posso parlare con cognizione.

Il decreto vaticano si compone di prescrizioni rivolte ai quattro membri che sono stati allontanati, e di indicazioni sulla forma che la comunità dovrà assumere in futuro dal punto di vista canonico e liturgico. Le seconde intendono inquadrare Bose, che fino ad ora era stata giuridicamente un’associazione di laici per tutelare i propri membri non cattolici, nell’alveo delle congregazioni religiose cattoliche di tipo monastico, ponendo fine nel contempo alle sperimentazioni liturgiche che, a mio modesto parere, sono alla radice della carica profetica della comunità (e che diversi papi hanno apprezzato profondamente, come testimonia il fatto che monsignor Piero Marini si servisse costantemente dei servizi di Bose per plasmare le liturgie pontificie, e che le traduzioni del Salterio ad opera di Enzo Bianchi sono utilizzate da innumerevoli parrocchie e associazioni cattoliche). Tra queste la predicazione dei laici e delle donne.

Riguardo alle prescrizioni alle persone allontanate, l’unica accusa mossa è di interferenza con il governo della comunità. Non vi è alcuna traccia nei testi vaticani di abusi o di pressioni psicologiche di alcun genere. Ai tre fratelli e alla sorella allontanati è stato imposto di non avere rapporti con altri membri della comunità e di andare a vivere ciascuno in luoghi differenti. Come ormai noto, per tre dei membri allontanati, il provvedimento è temporaneo, mentre per Bianchi è a tempo indeterminato. Questa la lettera del provvedimento, dopo di ché vi sono alcuni fratelli e sorelle che vorrebbero definitivo l’allontanamento del fondatore di Bose e di chiunque non gli sia ostile, e che si sono adoperati e si stanno adoperando in tale direzione. Lo dico con estrema tristezza, ma per dovere di verità, perché da cristiano non credo e non posso credere alla parola “definitivo” in una situazione di questo genere, quale che ne siano state le cause, né posso accettare che in un contesto monastico non vi sia spazio per un cammino di riconciliazione e di misericordia.

Quali sono stati gli errori di Bianchi? 

Premetto che non vivo più a Bose dal 2005, anche se ho sempre mantenuto contatti cordiali e fraterni con moltissimi fratelli e sorelle, visitando regolarmente la comunità e tenendo anche lezioni di teologia ecumenica ai novizi. La mia fonte è perciò la mia esperienza in comunità fino a tale anno e le molte voci che purtroppo si stanno diffondendo dall’interno della stessa, molto divergenti e contraddittorie, in quanto la comunità è attualmente divisa in almeno tre blocchi.

Siccome ho sempre avuto il coraggio di parlare in faccia alle persone, Enzo Bianchi sa che ritengo un errore il suo aver voluto continuare a partecipare alla vita comunitaria dopo aver lasciato il priorato, sebbene nessuno immaginasse, anche solo tre anni fa, quando Manicardi è stato eletto priore (con il massimo appoggio di Bianchi), che avrebbero potuto fiorire divisioni così forti. Avrebbe fatto bene anche a lui prendere le distanze, invece ha voluto rimanere (legittimamente, va detto per inciso e con grande chiarezza) anche se rischiosamente, come fratello sui generis, garante di un cammino e di una serie straordinaria di intuizioni, testimoniate dal fatto che non c’è una singola pietra a Bose o nelle sue fraternità che non sia stata pensata e fatta ergere da lui. Tengo tuttavia a dire che lo ha fatto alla luce del sole, comunicandolo fin dall’inizio, in maniera chiarissima, ad esempio nel suo discorso (pubblico e pubblicato) di congedo dal priorato. E nessuno, nemmeno tra coloro che oggi lo contestano profondamente (e che fino a meno di tre anni fa, per essere molto precisi, erano tutti suoi fedelissimi collaboratori da una vita), ha avuto il coraggio di dire che non era d’accordo quando era il momento giusto, né, a quanto mi risulta, fino a quando non sono sopraggiunti gli “ispettori” vaticani durante il passato inverno.

Nel 2014 fu Bianchi stesso a chiedere, secondo una formula che avevamo pensato insieme quando ero ancora in comunità nel 2003 e che pure in molti fratelli e sorelle non avrebbero voluto adottare perché inorriditi dalla possibilità di interferenze esterne, una visita fraterna di guide monastiche di comunità vicine, da cui, contrariamente a quanto affermano alcuni, non emerse alcun grave elemento nei confronti dell’allora priore e fondatore, il quale una paio d’anni dopo, come preannunciato fin dal 2000, avviò spontaneamente (e non a seguito di tale “visita” del 2014) la successione al priorato.

Tuttavia, a quanto mi risulta anche da diverse persone molto equilibrate in seno alla comunità, che non si vogliono schierare e che in questo momento hanno timore di parlare, il fondatore di Bose non è cambiato “in peggio” rispetto agli anni in cui ero presente di persona in comunità. Perciò mi sento di poter escludere problemi seri legati a violenze psicologiche e abusi di potere. Mentre non mi è difficile immaginare che il suo comportamento possa essere risultato ad alcuni un’ingerenza nel governo della comunità. Una personalità straordinaria e forte come la sua è destinata ad avere un forte impatto anche mediante la sola presenza fisica, e di certo qualche parola di disapprovazione per l’operato di Manicardi potrebbe averla detta, ma questo non lo rende certamente un mostro.

Sappiamo quanto sia difficile il rapporto, nella dinamica della vita religiosa, tra il fondatore e il governo della comunità che ha fondato. E recentemente ci sono stati casi simili nella Chiesa cattolica. Che hanno portato all’ allontanamento del fondatore. Ma nel caso di Bose pensa che ci sia un accanimento nei confronti di Bianchi?

Purtroppo la mia risposta è: assolutamente sì. Non c’è bisogno di una laurea in psicologia per comprenderlo. Le voci più “veementi” contro Bianchi sono in larga misura quelle di chi più gli è stato fedele, e non per anni ma per decenni, sposando e avallando in tutto ogni sua decisione e comportamento, senza mettere mai nulla in discussione (ammesso che ci fossero cose da mettere in discussione). Alcuni amici della comunità mi hanno chiamato sconvolti dopo aver parlato con un paio di sorelle e di fratelli di Bose che avevano spiegato loro come la comunità avrebbe potuto vivere solo se Enzo fosse scomparso per sempre (parole testuali) dal suo orizzonte, e con lui chiunque non sposasse la narrazione di chi all’improvviso si era messo a contestarlo.

Si è giunti a tali livelli di irrazionalità da esercitare pressioni sul plenipotenziario della Santa Sede perché Enzo lasci quanto prima anche il suo eremo, come se al giorno d’oggi, con la tecnologia di cui tutti dispongono, una maggiore distanza fisica potesse impedire eventuali contatti “illeciti” tra membri della comunità e il suo fondatore. E negando, di fatto, allo stesso Bianchi, la calma necessaria per individuare un luogo diverso dove poter andare a trascorrere, a questo punto molto verosimilmente, il resto dei suoi giorni, continuando a svolgere un ministero che nessuno, a partire da papa Francesco, intende negargli o sottrargli. Un noto teologo italiano ha definito la situazione un “parricidio freudiano”, e temo che purtroppo abbia ragione.

La comunità, e i suoi responsabili, come stanno reagendo a questo “terremoto”? 

Quanto ai responsabili, compreso chi è stato mandato dall’esterno a vigilare in nome dell’esercizio della giurisdizione diretta del papa su ogni fedele cattolico, penso di avere già detto chiaramente la mia opinione, e onestamente sono esterrefatto che continuino a uscire così tante voci dalla comunità senza un controllo efficace, ma ancor peggio senza che si intuisca l’avvio di alcun processo reale di dialogo e di pacificazione degli animi guidato dalle autorità preposte. Anzi, dall’esterno si coglie un incattivirsi di alcuni veramente funesto, alimentato anche da persone che detengono funzioni importanti nel monastero. La comunità soffre, mi pare chiaro, e con lei soffrono tutti coloro che, come me, la amano profondamente. “Dal momento delle dimissioni di Bianchi di tre anni fa hanno lasciato la comunità in molti, e si parla di una decina di ulteriori casi anche dopo la visita canonica (esclusi gli allontanati).” Ed è intellettualmente disonesto lasciar intendere che ci sarebbe una “comunità contro Bianchi”, finendo in tal modo per far convergere attenzione e eventuali accuse interamente sul fondatore di Bose. C’è una comunità divisa, perché non ha saputo vivere una transizione epocale e difficile, come umanamente può succedere, con quattro persone allontanate, alcuni che vorrebbero infierire ulteriormente, e un consistente gruppo di persone che propendono o per una delle due parti, ma che soprattutto vorrebbero un vero cammino di pace, e che sono sconvolte. E sinceramente credo che i fratelli e le sorelle di Bose meriterebbero segni di speranza, dopo tutti i semi di lacerazione che sono stati seminati, e di una speranza non basata sulla “fine” di nessuno.

Secondo lei la richiesta di intervento Vaticano da chi è partita?

Onestamente non lo so, né ho trovato risposte certe. Ma a questo punto mi pare conti ben poco.

A distanza di due mesi dallo scoppio del caso si è fatta una idea più precisa, per quanto è possibile, degli obiettivi del delegato apostolico o del Vaticano?

In realtà i mesi sono già tre… Come ho già detto nella mia prima intervista, a me dei giochi di potere, compresi quelli dei palazzi vaticani, interessa molto poco. Inoltre non sono né nella testa di padre Cencini, né in quella di chi lo ha inviato, né in quella, molto nobile, di papa Francesco.

Il silenzio della Chiesa italiana è sconcertante. Nemmeno un tentativo di mediazione si è provato? Perchéé non difendere un frutto ricco nato dal Vangelo e dal Concilio?

Avevo sentito subito di arcivescovi e cardinali indignati per le modalità di intervento e le decisioni assunte sia nei confronti della comunità che del suo fondatore e dei suoi membri “allontanati”. Per quanto mi riguarda, innanzitutto ho scritto immediatamente a maggio a Manicardi e Bianchi offrendomi di mediare, e quindi ho scritto anche all’economo di Bose, Guido Dotti, molto attivo nei contatti con la stampa, ma solo Bianchi mi ha risposto, accettando la mia offerta, mentre gli altri non mi hanno mai scritto neppure una riga di conferma di ricezione del mio messaggio. Ho quindi cercato di contattare un paio di vescovi amici, offrendomi il mio aiuto con discrezione e chiedendo loro di aiutarmi a comprendere e a compiere i passi più opportuni per essere di aiuto. Ma ho incontrato un silenzio assordante. Le uniche voci chiare che hanno subito parlato bene di Bianchi, di fatto difendendo sia Bose che lui da accuse di chissà qual genere, sono state quelle di monsignor Bettazzi e del cardinal Ravasi, a cui va il ringraziamento mio e di tutti quelli che hanno a cuore la vicenda. Per il resto, spero che i beneamati “principi della chiesa” la smettano di comportarsi come tanti Nicodemo, ma trovino il coraggio di intervenire in una situazione gestita veramente in modo assai poco cristiano fino ad oggi.

Per la “generazione di Bose”, citando lo storico del cristianesimo Massimo Faggioli, è una grande sofferenza. Molti di loro si stanno domandando: cosa rimarrà della esperienza profetica di questa storia?

Intanto specifico che mi riconosco solo in parte nella pur efficace definizione dell’amico Massimo Faggioli, di qualche anno più giovane di me, nel senso che ritengo la vera e propria “generazione Bose” a cui egli allude un fenomeno sviluppatosi soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, quando si è registrata una forte impennata nei flussi di ospitalità, dovuta alla crescente popolarità di Bianchi e delle Edizioni Qiqajon, e una notevole diversificazione dei visitatori della comunità. Molti tra i nuovi giovani erano in cerca di spiritualità, con minore coscienza della dimensione profetica (e anche politica) della fede rispetto alle prime generazioni di frequentatori bosini. Lo dico perché quel genere di profezia probabilmente si era già notevolmente attenuata con i nuovi ingressi di novizi e novizie dal diverso retroterra culturale ed ecclesiale in comunità nel corso degli anni Novanta. Certo, come ho detto già in altre occasioni, quello che è stato fin da principio ed è rimasto un ruolo fondamentale, direi unico di Bose in seno al mondo delle comunità religiose italiane, è essere un luogo di studio, libertà e pensiero, che fa e ha fatto respirare un numero enorme di persone in tempi di progressivo inaridimento e di svolte “verso destra” e verso falsi tradizionalismi del panorama culturale del cristianesimo italiano. I protagonisti di questa storia sono indubbiamente stati molti, grazie alla straordinaria capacità di Enzo Bianchi di favorire la crescita umana e culturale dei propri confratelli e delle proprie consorelle. Ma è chiaro che la mancanza di uno stimolo del suo livello avrà certamente un impatto sul futuro della comunità, a prescindere da come si risolveranno le attuali tensioni.

Se invece quello che mi vuole chiedere è che ne sarà di Bose più in generale, facciamo che rimandiamo la risposta a un’eventuale prossima intervista. Ora l’unica speranza sarebbe ed è contra spem. Ma è quello che ci rende cristiani.

 

IN MEMORIA DI PEDRO CASALDALIGA, VESCOVO POETA E AMICO DEI POVERI

Lo scorso 8 agosto, all’età di 92 anni,  in Brasile, si è spento il grande vescovo brasiliano Pedro Casaldàliga amico dei poveri (ha dedicato 52 all’evangelizzazione dei popoli indigeni e alla difesa dei loro diritti).

Vogliamo ricordalo con tre testi, che pubblichiamo con la gentile concessione dell’amico vaticanista Luigi Accattoli. Il primo testo è il suo inno al vento dello Spirito, un aggiornamento del “Vieni Santo Spirito” che è ricco di insegnamenti vitali. Nel secondo si riprende la citazione di un altro suo testo che Papa Francesco ha inserito nell’esortazione “Querida Amazonia”, nel terzo una scheda su Pedro Casaldaliga e il modo della sua sepoltura avvenuta tre giorni fa nella località di Ribeirão Cascalheira, Mato Grosso, Brasile, dov’è il Santuario dei Martiri della Caminhada.

 

 

Inno al Vento dello Spirito – poesia di Pedro Casaldàliga

 

Vento del Suo Spirito che soffi dove vuole, libero e liberatore,
vincitore della legge, del peccato e della morte… Vieni!

Vento del Suo Spirito che alloggiasti

nel ventre e nel cuore di una cittadina di Nazareth… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti impadronisti di Gesù

per inviarlo ad annunciare una buona notizia ai poveri

e la libertà ai prigionieri… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti portasti via nella Pentecoste

i pregiudizi, gli interessi e la paura degli Apostoli

e spalancasti le porte del cenacolo

perché la comunità dei seguaci di Gesù

fosse sempre aperta al mondo, libera nella sua parola

coerente nella sua testimonianza

e invincibile nella sua speranza… Vieni!

Vento del Suo Spirito che ti porti via sempre le nuove paure della Chiesa

e bruci in essa ogni potere che non sia servizio fraterno

e la purifichi con la povertà e con il martirio… Vieni!

Vento del Suo Spirito che riduci in cenere la prepotenza, lipocrisia e il lucro

e alimenti le fiamme della Giustizia e della Liberazione

e che sei lanima del Regno… Vieni!

Vieni o Spirito perché siamo tutti vento nel tuo Vento,
vento del tuo Vento,
dunque eternamente fratelli.

 

 

Acque e notte – versi di Pedro Casaldàliga riportati da Francesco al paragrafo 73 di “Querida Amazonia” [l’esortazione papale che raccoglie il frutto del Sinodo dell’Amazzonia]

 

Galleggiano ombre di me, legni morti.
Ma la stella nasce senza rimprovero
sopra le mani di questo bambino, esperte,
che conquistano le acque e la notte.
Mi basti conoscere
che Tu mi conosci
interamente, prima dei miei giorni.

Pedro Casaldáliga, “Carta de navegar (Por el Tocantins amazónico)”, in El tiempo y la espera, Santander 1986

 

 

 

Nato in Catalogna. Nato il 16 febbraio 1928 a Balsareny, nella Catalogna, in Spagna, Pedro Casaldàliga era un missionario claretiano. Arriva in Brasile nel 1968, sarà vescovo di São Félix dal 1970. Per lo stemma episcopale volle questo motto: “Nada possuir, nada carregar, nada pedir, nada calar e, sobretudo, nada matar” (“Nulla possedere, nulla prendere a carico, nulla chiedere, nulla tacere e soprattutto non uccidere nessuno”). La sua prima lettera pastorale, un documento della scelta dei poveri della Chiesa brasiliana, afferma che «l’ingiustizia ha un nome in questa terra: latifondo». Nel 1976 subì un attentato e si salvò solo perchè il suo vicario, il gesuita João Bosco Burnier, gli fece scudo e morì al suo posto. I due avevano bussato alla locale caserma di Polizia per reclamare la libertà di due contadine incarcerate ingiustamente perché sospettate di collaborazionismo con gli oppositori. Dal 2012 era malato di Parkinson, che chiamava “fratello Parkinson”. E’ stato sepolto – come da sua richiesta – nel cimitero degli indios Karajás, nella località di Ribeirão Cascalheira. La bara è stata posta sotto un tumulo di polvere rossa sovrastato da una croce nuda di legno, accanto alle tombe di un operaio e una prostituta senza nome. Appoggiata alla croce una targa con queste parole da lui dettate: «Per riposare / io voglio solo/ questa croce di legno / come pioggia e sole / questi tre metri di terra / e la Resurrezione!».

 

 

(dal sito :http://www.luigiaccattoli.it/blog/saluto-casaldaliga-con-il-suo-inno-al-vento-dello-spirito/#comments).

Il caso Bose. Intervista a Riccardo Larini

La Chiesa italiana è scossa per le notizia, uscita in questi giorni con grande clamore sulla stampa nazionale, dell’allontanamento, deciso dalla Santa Sede, di Enzo Bianchi dalla Comunità di Bose. Comunità fondata da lui subito dopo il Concilio Vaticano II. Un caso clamoroso. Cerchiamo di capire di più, per quanto è possibile, in questa intervista con il teologo Riccardo Larini. Riccardo Larini è un intellettuale molto vicino alla Comunità, avendone fatto parte per undici anni ed essendo sempre rimasto in ottimi rapporti con tutti a Bose.

“All’indomani della solennità della Pentecoste, la Comunità di Bose ha accolto la notizia che il suo fondatore, fr. Enzo Bianchi, assieme a fr. Goffredo Boselli e a sr. Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, seppure in spirito di sofferta obbedienza, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Fr. Lino Breda l’aveva dichiarato immediatamente, al momento stesso della notifica.
A partire dai prossimi giorni, dunque, per il tempo indicato nelle disposizioni, essi vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità.
Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere.
Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.

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Galli Della Loggia e Ruini: nostalgici della Chiesa d’ordine. Intervista a Guido Formigoni

 

 

 

Nell’opinione pubblica cattolica italiana hanno fatto discutere gli interventi, nei giorni scorsi, di Ernesto Galli Della Loggia e di Camillo Ruini. Rispettivamente
storico, Galli della Loggia, ed ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Camillo Ruini. Due interventi che hanno toccato il postconcilio e l’attuale
pontificato. Cerchiamo, in questa intervista, con il professor Guido Formigoni, ordinario di Storia Contemporanea all’Università IULM di Milano, di approfondire il significato di queste prese di posizione.

 

Professor Formigoni, la Chiesa Cattolica ha appena celebrato i cento anni della
nascita di Giovanni Paolo II. Un centenario che ha proiettato, da parte di
qualche alto prelato, anche giudizi sugli ultimi cinquant’anni della storia della
Chiesa contemporanea. Ma andiamo con ordine. Chiedo a lei, come storico, un
giudizio sintetico su Karol Wojtyla. Al di là dell’apologia, e in questi giorni se
n’è vista troppa, qual è la cifra del pontificato di Giovanni Paolo II?

Beh, difficile ridurre a una cifra semplice e sintetica un pontificato tra i più lunghi
della storia recente e senz’altro complesso come quello di Giovanni Paolo II. A mio
modo di vedere (e anche nei limiti della mia conoscenza), senz’altro il quadro
iniziale del pontificato è stato collegato alla ripresa e alla valorizzazione del concilio
(che si era chiuso da meno di quindici anni), ma con la caratteristica originale di
attribuirvi un nuovo timbro “istituzionale”. Il senso del messaggio del papa era un
rinsaldamento della Chiesa come struttura centralizzata e autorevole, come forza
sociale in grado di esprimere una visione forte del mondo e della storia, sia
nell’Occidente secolarizzato che nell’Oriente comunista e anche nel cuore delle
nuove esperienze dei popoli extraeuropei e del loro rigoglio di sviluppo religioso. In
questo senso l’esperienza polacca della Chiesa storicamente concepita come guida
della nazione indubbiamente contava. Per cui, in alcune realtà come quella italiana
dove il cammino postconciliare aveva seguito uno sviluppo proprio, centrato sulle
chiese locali, la valorizzazione del laicato, il pluralismo teologico, il dialogo con
l’esterno, questa logica apparve e fu piuttosto impositiva, provocando una crisi
indubbia (si ricordi l’approccio del papa al convegno ecclesiale di Loreto). Oppure si
ricordi il senso di una stretta sulle esperienze di comunità di base in America Latina,
con la connessa riaffermazione dell’autorità episcopale oltre che i limiti rigidi
imposti alla teologia della liberazione. Il papa pensava tutto ciò come un “tradimento del concilio” (titolo di un libro polemico che uscì in quegli anni)? Io direi di no,
anche se la sua sensibilità e il suo approccio deciso e volitivo aprivano uno scontro
multiforme ma visibilissimo su come intendere alcune delle conseguenze nella
recezione del Vaticano II. Il sinodo del 1985 non a caso rilanciò l’idea del concilio
come “grande grazia di questo secolo”: tutt’altro rispetto alla sua rilettura come
causa di tutti i mali contemporanei, che era propria della destra cattolica. E che il
papa restasse nel solco del Vaticano II lo si vide poi da alcuni gesti e parole
importanti: la tenuta sulla riforma liturgica; la critica estesa anche al capitalismo
dopo il crollo del comunismo europeo nel 1989; il deciso impegno per la pace e
contro ogni giustificazione religiosa della guerra, partito dalla grande preghiera
interreligiosa del 1986; l’apertura al ripensamento del ruolo papale nella “Ut Unum
Sint”; la richiesta di perdono per i peccati della Chiesa connessa al grande Giubileo
del 2000.

Dicevano all’inizio che il centenario ha offerto l’occasione, a qualche autorevole  prelato, in questo caso ad un cardinale italiano, Camillo Ruini, già Presidente
della Conferenza episcopale italiana sotto Wojtyla, di esprimere un giudizio su
una stagione complessa, quella del post concilio. Secondo Ruini con Giovanni
Paolo II “la Chiesa è uscita da quella posizione difensiva sulla quale era stata a
lungo costretta dalla crisi del dopo Concilio e ha potuto riprendere l’iniziativa,
soprattutto nell’ambito dell’evangelizzazione”. Un giudizio che tocca in pieno il
pontificato di Paolo VI. Al di là della modalità espressiva assai poco felice e
sbrigativa, è difficile pensare con Papa Montini, uomo dotato di grande cultura
e di raffinata visione “politica” del cattolicesimo, ad una Chiesa difensiva come
quella dell’immediato postconcilio. Mi sembra che il “dottor sottile”
dell’episcopato italiano qui voglia colpire il Concilio e la sua visione di Chiesa
sulla frontiera del dialogo con la modernità. Eppure Wojtyla, con i suoi limiti
ermeneutici, ha confermato su diversi punti (il dialogo est-ovest,  il dialogo
interreligioso, ecumenico, la critica al modello di sviluppo economico) il
Pontificato di Paolo VI. Qualcosa non torna nel giudizio di Ruini. E’ così
Professore?

Il giudizio di Ruini mi pare vada oltre Giovanni Paolo II stesso. Allude a un ruolo
del concilio del causare una situazione di crisi nella Chiesa che è concetto frutto di
una lettura storica non neutrale e ricca di conseguenze: molto diverso naturalmente è
vedere invece sotto i cosiddetti “anni dell’onnipotenza” fermentare una crisi del
cattolicesimo contemporaneo, cui il concilio provò a rispondere. L’ipotesi per cui
Paolo VI si ridusse a una posizione difensiva è smentita dalle ultime ricerche
storiche, che hanno messo in luce come indubbiamente il papa attraversò una fase di
incertezze, dubbi e sconforto nell’immediato post-concilio, venendo molto turbato
dalla violenta ondata anti-istituzionale che dalla società investiva la Chiesa. Ma è
ormai chiaro che negli ultimi anni di pontificato il suo approccio divenne molto più saldo, sereno e fiducioso, fino a quegli interventi come l’«Evangeli nuntiandi» del
1975 che erano attraversati da una logica tutt’altro che difensiva, ma innovativa e
propositiva, sul nocciolo stesso della questione dell’evangelizzazione.

Veniamo, ora, al secondo fatto, non direttamente legato al centenario di papa
Wojtyla, ma dato il personaggio coinvolto, forse un qualche legame c’è. Mi
riferisco a  Ernesto Galli della Loggia. Un personaggio assai controverso nella
sua “competenza” ecclesiale. Lo storico si è reso protagonista, con ben due
articoli apparsi sul “Corriere della Sera”, di un duro attacco a Papa  Francesco.
Nel primo, in estrema sintesi, si “accusa” la Chiesa guidata da Bergoglio di non
avere alcun impatto politico in quanto, il “discorso pubblico” del Papa, sarebbe
ridotto a ideologia (perché perde ogni specificità religiosa).  Non solo ideologia
ma anche i suoi destinatari, dei discorsi, sarebbero non più gli uomini di buona
volontà ma i poveri e i movimenti. Sociali. Affermazioni, queste, facilmente
smontabili. Nel secondo articolo, poi, si accusa il Papa nel suo annuncio in
favore dei poveri di mettere in secondo piano l’obbligo dei credenti verso Dio è
anche per questo che diventa un discorso ideologico e quindi, inevitabilmente, la
conseguenza è che la Chiesa diventi come un “partito”. Le accuse sono assai
pesanti.  Professore che idea si è fatto di questi attacchi? Perché questa
virulenza, da un “maestro” (si fa per dire) del moderatismo italiano?

Non scopriamo oggi la preferenza di Galli Della Loggia per una Chiesa che porti un
contributo d’ordine sul modello della «religione civile», in un mondo governato dalla
logica individualistica del liberalismo moderato. Questo lo porta a criticare un
pontificato che non sta proprio nelle sue corde, per l’acquisizione di un modello
post-cristianità totalmente diverso da quello da lui auspicato, in cui l’influenza della
Chiesa è affidata alla coscienza delle persone, in un orizzonte di libertà che ha
dismesso ogni sogno di potere mondano. Al di là di questa divergenza di opinione,
quello che spicca nei suoi editoriali è un approccio per così dire «fissista» alla
teologia e alla Chiesa, quasi che un certo modello del passato (impostazione
filosofica veritativa, autorità centralizzata, dottrina della Chiesa centrista, istanze di
conversione del mondo esterno…) sia dato per ovvio ed eterno. Per cui di fronte a un
papa che sposta il tiro sulla predicazione di un’esperienza del divino centrata sulla
misericordia di Dio rivelata nel vangelo di Gesù, egli si trova spiazzato e reagisce in
modo francamente un po’ eccessivo, giudicando queste posizioni prive di originalità
religiosa e lontane dal vangelo: che cosa sia propriamente religioso lo potrà decidere
chi è dentro nella Chiesa, più che un osservatore intellettuale esterno, per quanto
partecipe? Quello che poi Galli nota correttamente è invece che il papa ha preso un
indirizzo molto più universalista nell’indirizzare il suo messaggio, oltre le mura
dell’Occidente: naturalmente ancora una volta la sua lettura è di segno negativo, ma
qui egli coglie nel segno.

Di fronte a questi attacchi “brilla” l’assenza di una qualche reazione cattolica…E’ così?

Non saprei dire se ci sia stata totale passività… Una certa mancanza di reazione fa
parte probabilmente di un approccio ecclesiastico generale che non ama la polemica
intellettuale pubblica (a torto o a ragione). Ma è anche forse da attribuire in parte a
un approccio generale della Chiesa italiana che mi pare un po’ statico: mi sorprende
sempre quanto la parte di questa comunità cristiana che dovrebbe essere più in
sintonia con le novità del pontificato di Francesco – dopo anni di incertezze e
difficoltà vissute nel corpo ecclesiale – in realtà sia come timorosa e prudente,
semplicemente in ottica di ripetizione del magistero papale, più che non
nell’assunzione di una propria funzione trainante nella Chiesa per far fecondare e
rilanciare quanto il papa suggerisce.

Eppure nel mondo post-covid19 il ruolo della Chiesa sarà fondamentale. Non
solo nell’ambito delle opere di carità ma anche nella ricostruzione morale del
Paese.  Le sfide sono davvero enormi, e il papa Francesco, con buona pace di
Galli Della Loggia, ha detto parole chiare in questo tempo di Pandemia.  In
questo senso il discorso “politico” dei cattolici potrà giocare un ruolo
fondamentale. Vede spazi per un protagonismo dei laici cattolici?

A questo proposito le cose sono complesse: non credo ci sia niente di scontato.
Francesco ha computo gesti e detto parole di alto livello, soprattutto nella invocazione a Dio, solo in piazza San Pietro. Siamo tutti nella tempesta, nella stessa barca: nessuno è autosufficiente e padrone di sé stesso. Un messaggio forte, che dalla vulnerabilità non trae discorsi vecchio stile sul castigo divino o inviti alla flagellazione e all’ulteriore depressione, ma una invocazione allo Spirito perché aiuti coloro che stanno reagendo, in modo comunitario, mettendosi assieme, ai danni della tragedia cosmica. Questo messaggio a me appare forte e forse può mettere in carreggiata un modello per la pedagogia religiosa e per la risposta cristiana ai problemi del nostro tempo. Potremmo sicuramente anche dire che ci sono elementi di antropologia e di umanità tali da basare anche una prospettiva politica nuova. È però palesemente solo un inizio. Da qui a maturare una capacità politica di tradurre questo atteggiamento in scelte e  consapevolezze acute e prudenti, ce ne passa. Far nascere un progetto politico all’altezza dell’«epoca di cambiamento» che stiamo vivendo non è cosa cui basti buona volontà ed entusiasmo, né ricchezza di principi. Non sono sicuro che nel cattolicesimo italiano si stiano muovendo oggi risorse all’altezza di questa sfida, difficilissima per quanto entusiasmante.