“Il testo di Ratzinger rimane sempre al di qua di Francesco, di ogni sua parola e di ogni suo gesto”. Intervista ad Andrea Grillo

Sta facendo discutere l’opinione pubblica mondiale il testo del papa emerito. Benedetto XVI ha voluto con i suoi “appunti” fare una analisi sul grande male, quello della pedofilia, che ha colpito la Chiesa cattolica. Quali sono i punti dell’analisi di Ratzinger? Quali quelli più controversi? Ne parliamo, in questa intervista, con il teologo Andrea Grillo. Andrea Grillo è docente di Teologia e di Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.

Professore, sta facendo discutere il  “saggio” del papa emerito (che lui ha chiamato “appunti”) sulla pedofilia nella Chiesa. Un saggio preparato per una rivista cattolica tedesca e anticipato, in Italia, dal “Corriere della sera”. Il saggio è uscito dopo il recente vertice vaticano sulla pedofilia. Come interpretare l’uscita di questi appunti? Sono un atto di amore o una ingerenza?

Sono appunti, come è evidente: ha ragione a chiamarli così. Proprio come appunti appaiono confusi, senza un tono unitario, non trovano un vero filo di continuità. Oscillano troppo tra desiderio di autogiustificazione, riduzione della storia ad esempi troppo personali e considerazioni teologiche di fondo, eleganti ma non specifiche. In continuità con molti altri testi precedenti dello stesso autore, è facile scoprirvi la tendenza a condensare tutto un fenomeno complesso in una battuta: Maometto o Lutero a Ratisbona, esattamente come la pedofilia o il 68 in questo testo, vengono tutti risolti in una affermazione drastica di poche righe. Questo è tipico del modo di scrivere e di pensare di J. Ratzinger. Ed è anche ciò che lo rende sempre  facile da leggere e brillante nei passaggi. Ma sulla opportunità del testo, continuo a pensare che la promessa del silenzio fosse già prima – e resti anche oggi – “consustanziale” alla scelta di “restare nel recinto di S. Pietro”. Non ho ragioni per pensare che non sia un atto di amore. Ma talora accade che le intenzioni e gli effetti non coincidano in modo perfetto.

Veniamo al contenuto.  Nella prima parte c’è un duro attacco alla Rivoluzione del ’68  e alla sua rivoluzione sessuale  (fenomeno che ha provocato la “dissoluzione del concetto cristiano di moralità”). Fin qui nulla di nuovo, sappiamo quanto Joseph Ratzinger sia rimasto “choccato” negativamente dal’ 68…Ma c’è un passaggio che ha colpito molto l’opinione pubblica : “parte della fisionomia della rivoluzione del ’68 è stata che la pedofilia è stata diagnosticata come ammessa e appropriata”. Sconcertante questo…  Qual è il suo pensiero?

E’ facile capire il 68, quando si è nati negli anni 50 o 60. Ma per chi è nato negli anni 20, ed è diventato prete negli anni 50, non è affatto facile uscire da una “forma mentis” che tende ad escludere e addirittura a delegittimare ogni tentativo di “partire dalla libertà”. Qui poi, per chi è cattolico, e per di più è prete e teologo e vescovo, è facile che il 68 si sovrapponga a tutti i fantasmi del modernismo, del relativismo, della perdita di Dio, del vuoto di autorità della Chiesa e dello scacco del comandamento morale. Io credo che Ratzinger, come prova la sua autobiografia pubblicata a suo tempo e tantissimi riferimenti nelle sue opere, non abbia mai superato il trauma del 68, su cui ha concentrato tragicamente ogni disvalore. Purtroppo questo trauma ha travolto, nella sua esperienza, ma a posteriori, anche il giudizio sul Concilio Vaticano II. Questo è diventato evidentissimo proprio la sera della commemorazione dei 50 anni dalla apertura del Concilio. Io credo che quella sera, l’11 ottobre del 2012, dopo aver trasfigurato il Concilio Vaticano II in una grande sciagura, con venti contrari alla navigazione, pesci cattivi nella rete, zizzania nel campo, Benedetto XVI abbia deciso, dentro di sé, di dimettersi dal suo ufficio. Ed è rimasto a quel punto. Con ammirevole e rara coerenza, poiché pensava così, ha capito di non poter più essere papa. Ma lui pensa ancora così. E la tragedia che vede nel 68 è tale, che può spostare sul 68 ogni colpa, esterna o interna alla Chiesa. Fino a distorcerne i dati e i termini. Questo è frutto non di un ragionamento, ma di una emozione, di un attaccamento e di una nostalgia. Ed è invincibile.

Il saggio continua con la critica della teologia morale post – Conciliare. C’è il richiamo all’insegnamento, in particolare al documento “Veritatis Splendor”, di Giovanni Paolo II che ha contrastato questa decadenza teologica. C’è un passaggio, anche questo clamoroso, in cui si addossa allo”spirito Conciliare “il garantismo estremo dei processi ecclesiastici volto alla tutela ad oltranza dell’accusato (…) al punto da escludere praticamente la condanna del colpevole”. Insomma tutta colpa dei riformatori?

Anche in questo caso c’è un “Vetus Ordo” che, nella convinzione di Ratzinger,  garantisce la Chiesa meglio del Novus. Non si tratta, in questo caso, di una nostalgia del celebrare, ma di un modo nostalgico di pensare la Chiesa, il mondo, la storia, il soggetto. E’ un mondo in cui la teologia morale svolge ancora una funzione immediatamente pedagogica, non si lascia mettere in questione dagli eventi o dalla Scrittura, ma tutto subordina ad un intento sistematico e disciplinare assolutamente insuperabile. E in questa prospettiva classica si dedica attenzione alle questioni vecchie – se l’imputato debba essere garantito o meno, se la fede sia in gioco o meno – ma non si riesce a dire una sola parola sulle vittime e sulla loro centralità. Nel sistema che Ratzinger vuole difendere le vittime “non possono mai” essere centrali, perché non si vedono, non appaiono, non hanno consistenza. Se le si mettesse al centro, si contesterebbe la centralità di Dio! Questo è un pensiero “antimodernistico”, percepito come dovuto, e che spiega la posizione assunta, ma la colloca anche in un mondo che non è il nostro, ma quello di 70 anni fa.

Il documento contiene anche la denuncia di “club omosessuali” che si formarono in molti seminari, di Vescovi che rifiutavano la vera cattolici tà in nome di una specie di moderna cattolicità”. Insomma una visione catastrofica della Chiesa post Conciliare. Non mi sembra molto corretto… 

Non solo non è corretto, ma distorce la realtà con una miscela di risentimento e di nostalgia che impedisce un giudizio ponderato. Le parole sono usate con una terminologia “liquida”: perciò si scivola facilmente nel confondere termini che dovrebbero essere accuratamente distinti. Sembra che la libertà affermata contro ogni norma inciti alla omosessualità, alla pedofilia e all’abuso. Si passa dalla libertà all’abuso con una disinvoltura imbarazzante. E’ un quadro profondamente distorto, che rischia di rendere difficile il discernimento tra livelli della realtà che in nessun modo ci si dovrebbe permettere di confondere. Da un teologo mi aspetterei un maggior rigore nelle distinzioni e una minore ingenuità nel pensare come modello assoluto il seminario tridentino degli anni 50. Eè difficile che quello possa essere il rimedio agli abusi, che forse ne sono un frutto. Ma, “ingravescente aetate”, come ad ogni uomo provato dalla esperienza, anche ad ogni teologo deve essere riservato pure il diritto di tacere. Questo piccolo abuso – che lo si sia costretto o che si sia sentito costretto a parlare – ha profondamente compromesso una parola chiara sugli abusi.

La requisitoria di Ratzinger, a volte un poco rancorosa, colpisce anche la società occidentale che dimentica Dio nel dibattito pubblico, come pure il parlare della Chiesa in termini di politici a cui contrappone una “chiesa santa che è indistruttibile con i suoi martiri. Insomma sembra quasi un manifesto per il post Francesco. Per lei?

Io dico di no. Piuttosto, vi è qui il segno di un “passaggio di generazioni”. Sia chiaro, alcuni potranno cercare di approfittare di queste pagine. Questo è fuori di dubbio, Ma il testo, di per sé, è il documento di un modo di pensare Dio, la Chiesa e il cristianesimo che non riesce ad uscire dalle evidenze classiche e continua ad esprimersi come se avesse di fronte la chiesa di 70 anni fa. Vorrei ricordare un altro testo, di ben altro livello, ma altrettanto sorprendente. Anche R. Guardini, quando nel 1961 scrisse il suo testo “contro la pena di morte”, usò argomenti che, già 10 anni dopo, nessuno avrebbe mai più utilizzato. Non ci sono, quindi, manifesti del post-Francesco. Questo è chiaramente un testo del pre-Francesco. Tutto quello che vi si dice, parla dal e del passato. Ma è utile per capire che quella strada, quel modo di pensare la Chiesa, quella maniera di proporre soluzioni su cose che non si riescono a capire, è definitivamente e irrimediabilmente finita. Il testo rimane sempre al di qua di Francesco, di ogni sua parola e di ogni suo gesto. Ratzinger lo sa. Per questo si è dimesso. Perché lo sa. Sa di non potere. Il suo silenzio ordinario lo attesta. Ma anche le sue parole “extra ordinem” lo confermano.

(foto Ansa)

“Il DDL Pillon non ha nulla di cattolico”. Un documento dell’Associazione “Donne per la Chiesa”.

Di seguito pubblichiamo, in occasione della Festa della Donna, un documento di riflessione sul controverso ddl Pillon. Il ddl vuole introdurre delle modifiche in materia di diritto di famiglia, separazione e affido condiviso dei e delle minori. Il disegno di legge prende il nome dal senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day. Come si sa Pillon è uno dei massimi esponente dei gruppi integralisti cattolici italiani.

Con questo documento vogliamo espressamente occuparci del DDL 735 (Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità) presentato dal Sen. Pillon al Senato il 1 agosto 2018, che   sta sollevando molte discussioni e generalizzate critiche da parte del mondo psicologico-giuridico e del diritto.

Il DDL si compone di 24 articoli e, nell’ottica di chi lo ha elaborato, dovrebbe garantire al figlio minorenne di coppie separate una più corretta applicazione della legge 54/06 sul cd affidamento condiviso, attraverso una serie di passaggi di una certa rilevanza, sulla scorta di un rigido principio di bigenitorialità.

Lasciamo a operatori più esperti e competenti i profili di critica agli aspetti psicologici, processuali, del diritto e della tutela effettiva delle parti più deboli del rapporto familiare.

In quanto donne e credenti ci interessa sottolineare un altro aspetto che attiene alle premesse culturali della riforma, più che alla regolamentazione che essa propone.

I proponenti (a partire dal senatore Pillon, eletto nelle file della Lega Nord) hanno in più occasioni ribadito le proprie radici culturali come cristiane ed in particolare cattoliche ed hanno di conseguenza proposto e reclamizzato la propria azione politica, con ciò esprimendo una visione integralista, sia della religione sia del rapporto della politica con la religione.

Questo fatto ci trova profondamente contrarie e ci induce a intervenire nel dibattito, per contrastare con forza un atteggiamento che piega e riduce un pensiero ed una tradizione secolari e complessi alle idee di pochi, a poche idee, a idee che in gran parte appaiono in contrasto con il messaggio rivoluzionario e di misericordia che ci ha fatto innamorare ed iniziare un cammino che chiamiamo fede cristiana.

Prendiamo parola convinte che la nostra autorevolezza e il rispetto che pretendiamo derivino innanzitutto dall’essere donne.

Donne  che vivono  nel mondo, donne con figli e con mariti, donne senza figli e senza mariti, religiose, donne che hanno generato non fisicamente ma  nell’amore e nella dedizione agli altri o al proprio lavoro, donne che sono state sposate e non lo sono più, donne che hanno sposato  uomini che venivano da altri matrimoni o altre storie, donne che si sono a loro volta risposate;  pensiamo che la nostra credibilità  venga non solo da quello che diciamo, ma dal fatto che siamo donne reali, donne che hanno vissuto  sul proprio corpo cosa significa generare un figlio o scegliere di non generarlo,  stare accanto ad un uomo che ti ama e stare accanto ad un uomo che non ti ama più, siamo o abbiamo amiche sposate, single,  divorziate, separate.

Abbiamo l’urgenza e la forza, poi, dell’assertività che viene dall’essere donne di fede.

Fede vissuta, cammini iniziati, interrotti, ripresi, cadute e nuovi inizi, dubbi, domande, critiche, preghiera, ascolto, nessuna certezza ma anche impegno in piccole e grandi realtà parrocchiali e comunitarie, in mille forme di volontariato, nella carità delle piccole cose e delle grandi fatiche silenziose, fede che ci accompagna nella educazione dei nostri figli e nelle Chiese sempre più vuote e nelle Messe in cui vediamo, a dire il vero, molti pochi di quegli uomini che  invece si fanno forti sbandierando “valori cristiani” sulle pubbliche piazze.

Il substrato culturale del decreto parte innanzitutto da una immagine del tutto stereotipata della donna e dalla volontà di confinarla nel ruolo di madre e di moglie.

Noi crediamo, invece, che ogni essere umano sia chiamato ad una sua personalissima realizzazione (che è la tensione verso il divino presente in ognuno di noi) che si compie nell’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle, ma che in ciascuno può trovare i modi e le manifestazioni più diverse: porre ostacoli alla vocazione di un essere umano, anche in nome del “valore della famiglia” significa frapporsi tra un’anima e il suo Creatore.

Invochiamo con forza la necessità di liberare il messaggio cristiano dai limiti culturali  del contesto in cui  avvenne la predicazione di Gesù e soprattutto denunciamo, con ancor più forza,  l’utilizzo  della religione come strumento di potere, nel nostro caso di  potere patriarcale che ha buon gioco nell’estrapolare e strumentalizzare alcuni  passi delle scritture per legittimare una condizione di inferiorità femminile che non può riferirsi al messaggio evangelico, ma che si ha estremo interesse a mantenere immutata.  

 Altro aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uomini e donne nel matrimonio. Troppo spesso il profondo e sacro legame che nelle Scritture si auspica esistere tra uomo e donna (Marco 10, 6-9) viene interpretato non come unità, ma come proprietà l’uno dell’altro.

La conseguenza è che valori come la fedeltà e l’indissolubilità vengono a valere a senso unico e lungi dall’essere, come dovrebbero, i segni esteriori dell’amore unitario, diventano unicamente mezzi per l’esercizio di un potere, in un legame matrimoniale che non vede la dignità di un rapporto fra pari, ma egoismo, umiliazione, e controllo.

Per quanto riguarda le proposte del decreto riguardo ai figli è evidente l’errore di prospettiva, adultocentrica, del prevedere obbligatori tempi di paritetica spartizione del figlio nel più totale oblio del suo vero interesse. Noi donne credenti sentiamo l’urgenza di manifestare la nostra contrarietà a questa visione che ferisce per la totale mancanza di rispetto per i figli, tramite la sottrazione della loro soggettività e riducendo la loro libertà di esseri che sono già persona in pienezza, ancorché bambini. Se perdiamo di vista questo valore, tradiamo la visione cristiana del rapporto di filiazione, e in generale dell’attenzione verso i più deboli oltre a valori etici che vengono ancora prima e attengono alla dignità e ai diritti della persona umana.

In conclusione se il pensiero cristiano, nella storia, si è reso colpevole di aver tramandato un ideale di femminilità fatto di docilità e passività, asseriamo con forza che non è questo il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna, per come Gesù Cristo lo ha proposto nel suo Vangelo. La Chiesa ha troppo spesso scelto di mantenere il silenzio sulla violenza domestica, sull’abuso e sulla sottomissione, per preservare lo status quo, ma oggi che sta uscendo finalmente allo scoperto con una importante azione di verità sulle proprie colpe, non possiamo accettare che la società civile -che si appella ai principi cristiani- vada nella direzione opposta, riproponendo un modello familiare fatto di predominio maschile e subordinazione femminile.

“Il Papa ad Abu Dhabi ha gridato contro lo ‘scontro di civiltà’ “. Intervista a Massimo Faggioli

Grande risonanza nell’opinione pubblica mondiale ha avuto l’ultimo viaggio apostolico di Papa Francesco negli EAU. In questa intervista con Massimo Faggioli, storico del Cristianesimo alla Villanova University (USA), approfondiamo i  contenuti del viaggio.

Professore, il viaggio apostolico di Papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, è stato definito dallo stesso Pontefice come una “sorpresa di Dio”. In effetti, pur nella brevità, è stato un viaggio straordinario…

Rappresenta un altro passo nella sfida di papa Francesco contro l’apparente ineluttabilità dello “scontro di civiltà” che oggi rappresenta un’offerta politica molto redditizia in Europa e in Occidente. Ci sono molti livelli diversi in questo viaggio: quello politico-internazionale, quello interreligioso, e quello intra-cattolico, con la visita a una comunità cristiana locale che ha molto da dire ai cattolici in Europa e in Occidente, con la sua diversità interna, fatta di immigrati dall’Asia, di riti diversi, e in una situazione precaria dal punto di vista della libertà religiosa e del rispetto dei diritti.

Collochiamolo sul piano storico. Papa Francesco si è mosso, così lui ha voluto, sulla linea di Francesco d’Assisi (la visita al Sultano) e del Concilio Vaticano II. Ma anche nella linea del grande islamista cattolico Luis Massignon e del suo discepolo italiano padre Basetti Sani. Sono questi i filoni che emergono in questo viaggio?

Quello che Francesco ha detto e fatto negli Emirati va visto nell’anniversario della visita di san Francesco al Sultano del 1219. Ma c’è anche il modo particolare di Francesco di vedere il Vaticano II, ovvero un ressourcement del magistero papale nel Vaticano II e nelle sue intenzioni originarie: prima ancora del dialogo, c’è la fraternità nell’unica famiglia umana che è l’intuizione di Giovanni XXIII nella convocazione del concilio.

Il Papa ha testimoniato una visione della Chiesa, in terra d’Islam, povera, umile, ma profetica. Che significato ha per i cristiani che vivono nel contesto mediorientale, assai più difficile rispetto a quello di Abu Dhabi?

Significa che il papa parla con tutti, anche con gli interlocutori che non consideriamo perfetti o che possono creare imbarazzi alla diplomazia vaticana. Gli Emirati rappresentano il possibile inizio di un processo di cambiamento che ha al centro la convivenza interreligiosa. La scomparsa dei cristiani dal Medio Oriente sarebbe una tragedia epocale e la Santa Sede fa quello che può, mentre altri attori cercano di sfruttare le tensioni interreligiose per una politica di potenza.

Quali sono i “punti fermi” del documento sulla “Fratellanza umana”?

Si tratta di un documento che rappresenta una sfida sia per i cattolici sia per i musulmani: impegna principalmente a combattere contro la strumentalizzazione della religione per fini politici; accetta il linguaggio del pluralismo religioso come parte del piano divino. La parte sulla cittadinanza e sulla rinuncia al linguaggio sulle “minoranze” è quella più interessante per il futuro dei cristiani nei paesi arabi e musulmani. È un documento che in certi passaggi è più impegnativo per l’Islam che per i cattolici – anche se in alcuni paesi cattolici sta tornando la tentazione di piegare la chiesa al nazionalismo e all’etnocentrismo. Non a caso, sono i paesi (come gli Stati Uniti) in cui la storia del cristianesimo in terra araba è quasi totalmente ignorata oppure considerata un’aberrazione.

Qualcuno, nell’area dei nemici di Papa Francesco, lo ha definito come un documento “teosofico”. Sappiamo che in quell’ambiente Bergoglio viene accusato di essere” inconsistente”, di “creare confusione tra i fedeli”. Come risponde a queste critiche?

C’è chi ha cercato di delegittimare papa Francesco fin dalla tarda primavera e l’estate del 2013. Poi è arrivata la lotta contro il Sinodo sulla famiglia e contro Amoris Laetitia. Dopo, c’è stata la strumentalizzazione ideologica dello scandalo degli abusi sessuali negli Stati Uniti. Ora, i dubbi di eresia contro il documento di Abu Dhabi. Coloro che si dicono confusi dal papa cercano di trovare continuamente motivi di confusione. Ormai è una dinamica che non ha effetti sul pontificato ma ha solo finalità interne allo schieramento anti-Francesco, di posizionamento tra le diverse voci del neo-tradizionalismo cattolico.

Parlando ai fedeli di entrambi le religioni, di Oriente e dell’occidente porta con sé una valenza politica straordinaria. Per il contesto italiano è davvero una sfida non indifferente.

È una sfida per la chiesa globale, e anche per il contesto italiano che ha una vocazione particolare data la sua posizione geografica e la sua storia: resistere alle sirene dell’autoritarismo che si presenta come difesa delle radici cristiane. Ci sono offerte di “protezione” politica alla chiesa che la chiesa ha il dovere di rifiutare perché significherebbero la soggezione della fede cristiana a un messaggio che è anti-evangelico.

Ultima domanda : siamo al sesto anno di pontificato. La sfida più difficile qual è?

La sfida più difficile è sicuramente lo scandalo degli abusi sessuali: questo ultimo anno ha rappresentato un salto di qualità nella percezione dello scandalo nella chiesa e ci si aspetta molto da Roma. I segnali di questi ultimi mesi sono confortanti: ma è evidente che agli occhi di molti cattolici papa Francesco verrà giudicato dalla sua azione su questo fronte, e non su quello dei rapporti inter-religiosi.

“Il populismo è una minaccia molto pericolosa per lo sviluppo politico e sociale dei popoli”. Intervista a Padre Arturo Sosa (S.J)

Papa Francesco con Padre Arturo Sosa (LaPresse)

Padre Arturo Sosa, per la sua missione, è un uomo dalla visione globale. E’ il 30° successore di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. Il primo “Papa Nero” non europeo dei gesuiti, anche questo è un segno dei tempi. Latinoamericano, come Papa Francesco, del Venezuela. Porta nel suo sguardo sul mondo anche la competenza degli studi di politica. In questa intervista a tutto campo, Padre Sosa, ci offre una chiave di lettura, il discernimento, su molte questioni che riguardano la Chiesa e il mondo contemporaneo.

 

Padre Sosa, Lei due anni fa, dalla 36° Congregazione generale della Compagnia, è stato eletto successore di Sant’Ignacio de Loyola. Ignacio è il Santo del discernimento. Una parola che sta molto a cuore a Papa Francesco, come ad ogni gesuita. Può spiegarci, in breve, il significato profondo della parola?

I Vangeli raccontano come Giuseppe decide di accettare Maria, incinta, come sua moglie. Giuseppe, dopo molte esitazioni, contravviene alla legge mosaica che aveva rispettato per tutta la vita. Lo fa perché ha sentito il messaggero che gli assicura che si tratta di un’opera di Dio. Giuseppe, dicono le scritture, era un uomo giusto, amava Dio e amava Maria. Guidato dal suo sentimento interiore, apre le porte della sua casa e il suo cuore a Maria, sua moglie, e al bambino che porta in grembo, assumendo tutte le responsabilità di marito e di padre. Giuseppe ha fatto un vera e propria scelta spirituale. La premessa è che Dio è presente e agisce nella storia umana. Dio può e vuole comunicare con gli esseri umani come comunicano gli esseri liberi, a partire dall’amore rispettoso dalle decisioni degli altri. Giuseppe si trova di fronte a una decisione trascendentale: rifiutare o accettare Maria sua sposa promessa, come sua moglie. La comunicazione onesta, aperta e libera lo porta a scegliere di prenderla in moglie, mantenendo la promessa fatta anche in circostanze fuori dal suo controllo.

Il discernimento è un processo complesso, per il quale non esistono formule o ricette. Così Gesù ci insegna nella parabola della zizzania e del grano. Ciò che sembra zizzania (malerba) può esser grano. È necessaria una sensibilità spirituale per distinguere i moti dello Spirito dall’inclinazione al male travestito esternamente come bene. L’esito del processo consente di confermare che si decide secondo lo Spirito.

La pace profonda che consente di affrontare situazioni inedite deriva dall’essere in sintonia con lo Spirito e garantisce che si sia scelto di seguire il Signore. La scena della preghiera di Gesù nell’orto prima della passione e della morte imminenti è la migliore immagine di un discernimento che sceglie di porsi completamente nelle mani di Dio e affidarsi pienamente alla sua promessa di vita, affrontando le sofferenze conseguenza dell’ingiustizia umana.

 

Utilizzando questo discernimento, come si presenta il mondo agli occhi del Successore di Sant’Ignacio?

Come una sfida e un’opportunità. Il cambio di epoca storica, con l’ emergere della società laica e della cultura digitale, in cui abbiamo iniziato a vivere, apre nuove opportunità – per gli esseri umani e per le società contemporanee – di progredire verso la riconciliazione attraverso il raggiungimento della giustizia sociale e di ristabilire l’equilibrio con l’ambiente. Si tratta d’una nuova opportunità per annunciare la Buona Novella che Gesù ci ha dato, insegnandoci con la  sua vita e la sua parola la via per una vita pienamente umana.

La sfida consiste nel trovare il modo migliore per veicolare il messaggio, che non può prescindere da un comportamento coerente con esso da parte di chi lo diffonde. Pertanto un primo aspetto di questa sfida complessa e stimolante è la conversione di noi che ci professiamo seguaci di Gesù Cristo e quindi la profonda riforma della Chiesa affinché la coerenza della vita sia il primo annuncio della fede che ci muove e dà senso alla nostra vita. Seguendo l’esempio di Gesù, la sfida si affronta avvicinandosi realmente al mondo dei poveri e nell’ottica di chi subisce le conseguenze dell’ingiustizia strutturale che caratterizza i rapporti sociali odierni. Per questo, il recente Sinodo ci invita a vedere il mondo dalla parte dei giovani, che cercano in effetti di superare i limiti del mondo che hanno ereditato e di generare nuove speranze di vita.

 

Papa Francesco parla spesso di “terza guerra mondiale a pezzi”. Qual è secondo Lei l’elemento più pericoloso che può portare il nostro Pianeta verso il Caos incontrollabile?

La violenza che si sostituisce al rispetto per le persone, le culture e i popoli con il sopruso di chi si sente più forte o ha i mezzi per imporsi. La violenza impedisce di fare del dialogo lo strumento per instaurare rapporti giusti tra gli esseri umani e i popoli, partendo dal riconoscimento dell’altro come uguale e dal rispetto gioioso delle differenze. La guerra è la distruzione della politica come modo per prendere decisioni in grado di armonizzare gli interessi privati a vantaggio del Bene Comune. L’indebolimento della politica come modo di risolvere i conflitti e unire le persone e i popoli alla ricerca del Bene Comune conduce alla comparsa di tante guerre e di tanti diversi modi di fare la guerra, che oggi osserviamo.

 

 Il tempo della globalizzazione ha portato, certamente, tanti guasti nel nostro mondo. Ma sarebbe ingeneroso non vedere, anche, gli elementi positivi. Quali sono per Lei?

Ci sono molti aspetti positivi. Voglio citarne solo alcuni. La consapevolezza di un’umanità culturalmente ricca e diversificata e creativa per la sua immensa diversità. Riconoscerci come esseri umani nella varietà delle espressioni culturali che esistono, sono esistite ed esisteranno ha portato ad accettare la dignità di tutti gli esseri umani e il riconoscimento dei Diritti Umani come base per le relazioni tra tutti i popoli. Siamo lontani dal poter dire che i diritti umani di tutti siano rispettati integralmente, ma che esista questa prospettiva è qualcosa che lascia sperare.

Prima accennavo all’emergere della società secolare in cui si tratta di garantire spazi liberi che consentano lo sviluppo delle persone e dei popoli in condizioni migliori che in altre epoche storiche. La società laica apre nuovi spazi per una libertà decisionale personale e per modalità democratiche di fare politica. Inoltre crea spazi per la libertà religiosa e il dialogo interreligioso. Resta pur sempre un ideale, ma anche una reale possibilità. Lo sviluppo scientifico-tecnologico e i suoi effetti sulla vita quotidiana attraverso la moltiplicazione dei beni che fungono da civilizzatori a disposizione di un numero crescente di persone e di popoli è una porta aperta nonostante tutte le sue ambiguità. La rivoluzione delle comunicazioni ha sicuramente cambiato il modo in cui ci relazioniamo, con conseguenze che ancora possiamo solo intravvedere in termini di opportunità e di minacce.

 

In Occidente ed anche in America Latina soffia il vento, pericoloso, del populismo sovranista. Qual è il suo giudizio e quello dal punto di vista della Dottrina Sociale della Chiesa?

Il populismo è una minaccia molto pericolosa per lo sviluppo politico e sociale dei popoli del mondo. Dietro agli atteggiamenti populisti si celano nuove forme di dominio di pochi sul resto dell’umanità. Molte forme di populismo sono solo varianti del personalismo tipico delle forme dittatoriali di esercizio del potere politico.

Con un linguaggio ambiguo il populismo sostituisce il popolo, i cittadini organizzati, come soggetto della vita pubblica, privandoli del loro potere decisionale per concentrarlo nelle mani di pochi. Il progredire del populismo è il più grande ostacolo allo sviluppo della democrazia nel nostro tempo.

 

Perché la Sinistra in America Latina non è più un segno di speranza per i poveri?

Neppure la destra lo è in America Latina o in qualunque parte del mondo. La realtà dello sviluppo politico e sociale ha creato confusione su ciò che significa destra e sinistra. Le ideologie politiche estremiste e l’emergere di forme di populismo di destra e di sinistra hanno diluito i concetti di destra e sinistra.  È il momento di rafforzare i processi di personalizzazione e di organizzazione dei poveri perché basino le loro speranze in quelle che sono le loro potenzialità, indipendentemente da false ideologie di redenzione di segno contrapposto o dai populismi che generano false speranze.

 

 Siamo anche nel tempo della crisi generalizzata della politica. Oggi nel mondo sono pochi i veri statisti, cioè politici che hanno una visione del bene comune globale. Cosa fare per ridare dignità alla politica?

Sviluppare la coscienza civica, vale a dire ampliare ed approfondire l’educazione politica in tutti i settori sociali e in tutte le generazioni. La coscienza civica nasce dall’esperienza della necessità degli altri di poter vivere come esseri umani. Gli esseri umani sono esseri sociali, cioè esseri politici. Per potere non solo sopravvivere, ma avere una vita dignitosa, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Abbiamo anche bisogno di organizzarci per creare le condizioni per una vita dignitosa per tutti. Ogni essere umano è chiamato a rendersi conto della necessità di mettere l’interesse comune al di sopra degli interessi individuali o di gruppo e agire di conseguenza. I populismi creano l’illusione di poter soddisfare gli interessi personali prescindendo dall’interesse comune e minano pertanto le possibilità di cittadinanza, democrazia e giustizia sociale.

 

Molti cattolici sentono la nostalgia dei partiti “cristiani”.  Ha senso oggi un partito “cristiano”?

La nostalgia è una visione distorta del passato. Come raccomanda il Vangelo, non si deve versare il vino nuovo in otri vecchi … La memoria dei cristiani integerrimi che hanno dato la vita per contribuire con l’azione politica alla costruzione di società democratiche ci aiuta a ritrovare la coscienza politica di tutti i battezzati. Ogni cristiano è chiamato ad essere un cittadino ed a partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica. Alcuni saranno anche chiamati a fare dell’azione politica il loro progetto di vita. Toccherà alla comunità cristiana motivare e indicare la dimensione politica della vita umana che deve ha bisogno di trovare nuove forme di organizzazione politica che approfondiscano la democrazia e superino i populismi e ogni forma di tirannia e di dittatura.

 

Parliamo dell’immigrazione. Oggi in molti paesi dell’Unione Europea, e in particolare in Italia, c’è una visione cattiva, alimentata dalla propaganda del partito della Lega Nord, una visione che crea la paura del    diverso, dello straniero. La    Compagnia è in prima fila sulla frontiera dell’accoglienza.  Le chiedo cosa fare per spezzare la spirale della paura e dell’indifferenza (che investe anche molti cattolici).

Il faccia a faccia è il modo migliore per scoprire l’umanità dell’altro che viene in cerca di una vita migliore. Il contatto personale è il miglior antidoto alla paura dell’ignoto. Chi è costretto a lasciare le sua casa per la violenza o per la povertà o perché cerca nuovi orizzonti di vita, va in cerca di una vita migliore per sé e per i suoi familiari. Viene, quindi, con tutte le sue energie, disposto a contribuire ad una vita migliore. Porta anche la ricchezza della sua cultura, le competenze personali e la formazione tecnica o professionale che può aver acquisito. Chi viene può e vuole contribuire a una vita migliore nel posto in cui si reca, il che, a sua volta, gli consente di aiutare i suoi familiari, dai quali ha dovuto separarsi. Offrire spazi e modi di incontro per riconoscere le diversità e apprezzare il contributo che possono dare è un mezzo per superare i pregiudizi, non avere paura e riconoscere l’altro come un fratello o una sorella con cui poter costruire una vita migliore per tutti.

 

La predicazione sociale di Papa Francesco è molto esigente. Come è accolta, secondo lei, nella Chiesa Universale?

Non esiste un unico modo di recepire questo messaggio. Per molti si tratta di un messaggio di speranza che deriva dalla sua esperienza spirituale fondata sulla contemplazione del Gesù dei vangeli. Per altri è una deviazione dottrinale pericolosa. Altri vanno oltre e pensano che derivi fuori delle sue funzioni di capo del corpo della Chiesa. Gran parte del popolo di Dio lo recepisce come un messaggio in sintonia con la brezza rinfrescante che il Concilio Vaticano II ha portato alla Chiesa.

 

 Molti “nemici” di Papa Francesco, all’interno della Chiesa, hanno cercato di delegittimare il Papa. Con accuse gravi e pesanti. Cosa ha dire Lei a questi nemici del Papa?

Li invito a mettersi davanti al Signore in croce e ad esaminare la loro esperienza di fede per discernere gli spiriti che muovono le accuse che fanno.

Li invito inoltre ad utilizzare i modi e i canali di correzione fraterna che esistono nella Chiesa, evitando la tentazione di essere solo dei protagonisti mediatici. Chiamare il Papa alla riflessione, se si ritiene in coscienza di aver qualcosa da dire a chi è responsabile di curarsi dell’unità di tutto il corpo della Chiesa e portare l’annuncio della Buona Novella al mondo di oggi, lo si deve fare attraverso i mezzi consacrati dalla sana tradizione della Chiesa.

 

Il Papa fa molto affidamento sulla Compagnia per supportarlo nell’opera di evangelizzazione. Più volte vi ha invitati ad essere “creativi”. In quale frontiera si esprime di più la vostra creatività?

Il cambiamento epocale che stiamo vivendo ci obbliga ad essere creativi in ​​tutti i campi in cui ci muoviamo. L’accompagnamento attraverso gli Esercizi Spirituali è stato uno dei campi in cui abbiamo trovato molti nuovi modi per condividere questo tesoro spirituale, mantenendo la fedeltà al metodo ignaziano e proponendo modi di offrirlo adatti alle persone e alle loro condizioni di vita. Il campo educativo a tutti i livelli è una sfida costante alla tradizione pedagogica della Compagnia di Gesù, oggi ampiamente condivisa tra i Gesuiti, compagni e compagne nella missione. Offrire ai bambini e ai giovani, in contesti sociali così diversi come quelli attuali, le opportunità di formazione che consenta loro di acquisire le attitudini e le capacità per muoversi liberamente nel presente e prepararsi a vivere in un futuro che non riusciamo neppure immaginare come sarà.

 

C’è un cancro mortale nella Chiesa, ed è quello del crimine della pedofilia. Nonostante la tolleranza zero di Papa Francesco le cose non vanno tanto bene. Molto si è fatto ma molto resta ancora da fare. Le chiedo: da dove cominciare per estirpare questo crimine?

Si deve cominciare dalla preghiera, dal digiuno e dalla penitenza, come ha ricordato Papa Francesco nella sua lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018. Non si tratta solo di “casi”, ognuno inaccettabile, né solo della condizione di coloro che hanno abusato (clero, vescovi, religiosi). Il problema è di fondo: le nostre società hanno una “cultura di abuso” che si esprime non solo in abusi sessuali, ma anche in abusi di coscienza e di potere, che hanno provocato meno scandalo, ma più danni. Solo in una relazione intima con il Signore e aprendo i nostri cuori alla sua grazia e alla sua ispirazione troveremo la forza e la via per affrontare la situazione. La giustizia per le vittime è una condizione senza la quale nulla di ciò che si fa può essere efficace. Si tratta di ascoltarle veramente, denunciare, assoggettarsi al diritto civile e a quello canonico; soprattutto, accompagnarle nel processo di riparazione, cercando di raggiungere la riconciliazione. Coloro che hanno commesso questo crimine devono, da un lato, assumersi le conseguenze legali, civili e canoniche. D’altra parte si devono garantire le condizioni di vita che evitino ogni ricaduta e gli aiuti necessari nella misura del possibile per cambiare la loro vita. In generale, dobbiamo fare in modo che tutte le istituzioni della Chiesa abbiano programmi di prevenzione e protocolli di comportamento adeguati nei rapporti con i minori e con le persone vulnerabili. Meglio ancora che questi programmi vengano mantenuti sempre attivi e siano gestiti da agenzie specializzate e indipendenti. Sono anche necessari protocolli aggiornati per affrontare i casi che si possono presentare, facilitare la denuncia, garantire giustizia e la riparazione in ognuno di essi. Senza indugio si dovrebbe anche avviare un’azione sistematica e approfondita per promuovere una cultura di tutela dei bambini e delle persone vulnerabili. Promuovere cambiamenti strutturali nei rapporti sociali, soprattutto nella concezione e nell’uso del potere, che consentano di rendere la vita sociale uno spazio sicuro e dignitoso.

 

La Chiesa ha crisi di vocazione eppure voi gesuiti siete ancora tanti. In quale area del mondo siete in espansione? Cosa vi rende attraenti?

È il Signore che chiama. Speriamo che continui a chiamare molte persone a una vita cristiana radicale nella varietà di possibilità offerte dalla vita moderna. Noi cerchiamo di aiutare ad ascoltare quella chiamata e di accompagnare i processi di discernimento e di scelta. Non guardiamo tanto al numero ma alla qualità; manteniamo un processo di formazione impegnativo e lungo prima dell’incorporazione definitiva nella Compagnia di Gesù. Apriamo le porte a persone di qualità umana, spirituale, intellettuale ed apostolica … Se sono molti, siano i benvenuti …  In questo momento crescono le vocazioni per la Compagnia in Africa e in Asia, restano stabili in America Latina e diminuiscono in Nord America e in Europa. Nei prossimi decenni vivremo una diminuzione del numero di gesuiti ed uno spostamento geografico. Allo tempo stesso cresceremo in forme apostoliche nelle quali collaboriamo con molte altre persone e facendo rete.

 

Siamo alla vigilia del Natale. Vuole lasciare un messaggio ai cristiani che la leggeranno?

Mi auguro che l’esperienza di questo Natale ci avvicini ai poveri, a coloro che soffrono e a coloro che lavorano per la pace e si trasformi in un rinnovamento profondo della nostra speranza e ci trasformi in portavoce della speranza in un mondo che lotta per superare tanta ingiustizia per trovare il modo di per vivere come fratelli e sorelle.

La riforma dello IOR e l’ “eredità” di Marcinkus. Intervista a Fabio Marchese Ragona

Era il 1982 quando il Banco ambrosiano fu liquidato, Roberto Calvi fu trovato impiccato sotto un ponte londinese e Marcinkus fu accusato di aver avuto un ruolo centrale nel crac del banco milanese, giocandosi la berretta cardinalizia. Nello stesso anno fu istituita la commissionvaticanistae mista Italia-Vaticano per l’accertamento della verità sul crac dell’Ambrosiano e sul coinvolgimento dello Ior di Marcinkus. Cinque anni dopo, nel 1987, i magistrati italiani spiccarono nei suoi confronti, e in quelli di due suoi collaboratori, un mandato di cattura internazionale per concorso in bancarotta fraudolenta.

Tutto inutile. Il monsignore americano, cosi come i suoi fedelissimi, non vide mai le manette. Marcinkus, infatti, grazie all’immunità diplomatica ricevuta dal Vaticano, non poté essere arrestato: si era abilmente rifugiato dentro le mura d’oltretevere. E li rimase rinchiuso

per molti anni. I tentativi di contatto (formali e informali) della magistratura italiana, che chiese persino l’estradizione dell’arcivescovo, caddero tutti nel vuoto.

Il libro (“Il Caso Marcinkus” Ed. Chiarelettere), appena uscito nelle librerie, di Fabio Marchese Ragona – vaticanista di  Mediaset – ripercorre le imprese rocambolesche di quel banchiere senza scrupoli, arricchendole di dettagli venuti alla luce solo di recente, di nuove testimonianze e di documenti inediti.

A distanza di trent’anni dall’uscita di scena di monsignor Marcinkus, cosa resta di lui nelle stanze del torrione di Niccolo V, sede dell’Istituto per le opere di religione? E’ vero che lo Ior si e ormai quasi totalmente rinnovato, grazie alla vigilanza dell’Autorità d’informazione finanziaria della Santa sede e alle nuove normative sulla trasparenza entrate in vigore in Vaticano? Ne parliamo, in questa intervista, con l’autore. 

Fabio, il tuo libro, sul caso Marcinkus, porta nuova luce su fatti drammatici che hanno riguardato le finanze vaticane. Cinquant’anni di storia con molti protagonisti tra cui papi, capi di Stato, cardinali e banchieri. Ti chiedo: nello Ior aleggia ancora lo “spirito” di Marcinkus?

Di certo, con gli ultimi due papi, Benedetto e Francesco, le cose all’interno dello IOR sono cambiate radicalmente. Soprattutto Bergoglio, pontefice arrivato dall’Argentina, ha voluto dare un’accelerata alla riforma finanziaria anche se ha trovato tanti ostacoli lungo il suo percorso. Lo “spirito” di Marcinkus aleggia ancora quando qualcuno tenta di bloccare il vento di cambiamento voluto dal nuovo Papa. E purtroppo è successo. 

Nello IOR ci sono ancora opacità, nel libro riveli un episodio emblematico quello sulla riforma dello Statuto dello IOR. Puoi parlarcene?    

 Mi riferivo proprio a questo. Appena eletto Papa, Francesco ha istituito una commissione formata da cardinali, vescovi, monsignori e laici per studiare lo IOR e proporre al Papa un progetto di riforma. Dopo una riunione dell’autunno 2014 il Papa aveva chiesto che lo IOR modificasse lo statuto, fermo ancora al 1990. La commissione alla fine fu sciolta perché immobilizzata da chi faceva ostruzionismo. E lo statuto non fu mai cambiato.

Veniamo al tragico protagonista del tuo libro: l’Arcivescovo americano Paul Casimir Marcinkus. Dominus incontrastato delle finanze vaticane per trent’anni. Il periodo di Marcinkus attraversa uno dei periodi più difficili della storia del nostro Paese , con i suoi misteri. Il ritratto che ne viene fuori è di un uomo molto molto discutibile (incriminato dalla  magistratura italiana per il  caso del Banco Ambrosiano).  Come è stato possibile che un uomo così spregiudicato abbia goduto la fiducia di due grandi Papi: Paolo VI e Giovanni Paolo II? Quali “meriti” poteva avere?

Monsignor Marcinkus fu chiamato alla guida dello IOR da San Paolo VI perché Montini voleva riformare l’istituto, voleva che outsider rompesse gli equilibri della Curia. Marcinkus non aveva però alcuna competenza finanziaria, si affidava molto ad alcuni collaboratori laici e ad alcuni banchieri di cui si fidava ciecamente. Lui stesso godeva di grande fiducia perché era diventato molto amico sia di Paolo VI (gli aveva salvato la vita nelle Filippine) e del suo segretario particolare, sia di Giovanni Paolo II perché lo aveva aiutato molto a combattere il comunismo, facendo arrivare fondi a Solidarnosc.  

Fa impressione leggere della “bella vita”che faceva alle Bahamas l’Arcivescovo…sempre in golf club esclusivi, con l’immancabile sigaro cubano. Ma nelle Bahamas non andava  solo per vacanze…andava a creare istituti bancari ad hoc per un paradiso fiscale. Perché lo Ior aveva “bisogno” di questo tipo di Banca. Che tipo di operazioni voleva occultare lo IOR?

Lo IOR non voleva occultare delle operazioni. Non ne aveva bisogno. La dirigenza dell’epoca dell’Istituto per le Opere di Religione però era in affari con il Banco Ambrosiano e i vertici di quell’istituto bancario milanese avevano compiuto delle acrobazie finanziarie che partivano da Milano, transitavano dalla Città del Vaticano (per eludere i controlli), raggiungevano le Bahamas e poi rientravano tramite la Svizzera o tramite altre offshore. Un gioco di scatole cinesi. Marcinkus e company erano consapevoli di tutto: lo stesso monsignore era membro del CdA della Cisalpine di Nassau, creata con proventi della mafia.  

Parlando dell’Istituto di Nassau non si può non parlare di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano morto a Londra sotto Il ponte dei “frati neri”.  I due, Calvi e Marcinkus, avevano un rapporto di una certa familiarità e amicizia. Alla morte di Calvi non prova alcun rimorso…anzi critica l’operato di Calvi. Eppure anche lui, Marcinkus, ha contribuito a mandare in rovina Calvi…. Come ti spieghi il comportamento del Monsignore?

Monsignor Marcinkus si fidava molto di Roberto Calvi e lo lasciava fare. Quando Calvi fu arrestato dalla Guardia di Finanza dopo il processo valutario, Marcinkus lo scaricò del tutto. Furono inutili i tentativi dei familiari di entrare in contatto con lui o con i suoi collaboratori. Successivamente Calvi, una volta uscito di prigione, tornò dal monsignore americano, implorandolo di poterlo aiutare. Marcinkus accettò di firmare delle lettere di patronage a patto che Calvi firmasse una lettera di manleva in cui si prendeva tutta la responsabilità sulle operazioni con le società offshore. Era un uomo con l’acqua alla gola e firmò. Fu la sua condanna a morte. 

Non poteva mancare il rapporto con un amico storico del Vaticano: Giulio Andreotti. Il “Divo” è stato utile per lui….Che tipo di rapporto c’era?

Tra Marcinkus e Andreotti c’era un rapporto molto stretto, di grande amicizia e di stima reciproca. I due si conoscevano da oltre 40 anni. All’interno dell’Archivio personale di Giulio Andreotti ho trovato decine di lettere e biglietti che i due si scambiavano. Anche quando il monsignore era rifugiato in Vaticano per sfuggire alla giustizia italiana, Marcinkus comunicava tramite lettera con il ministro degli esteri Giulio Andreotti.  

Un avversario di Marcinkus fu  Albino Luciani.Cosa opponeva questi due uomini così opposti?

Sul rapporto tra Marcinkus e Papa Luciani si è scritto tanto ma non ci sono mai state testimonianze dirette. Nel libro ho raccolto la testimonianza di un sacerdote che conosceva l’allora patriarca di Venezia e racconta che quando Luciani incontrò Marcinkus rimase molto deluso per il trattamento riservatogli dal prelato americano. Si era sentito – dice – trattato come un bidello. Quando Luciani divenne Papa aveva in mente di sostituire Marcinkus dalla guida dello IOR. Ma non perché serbasse rancore nei suoi confronti ma perché secondo Giovanni Paolo I era inconcepibile che un vescovo guidasse un istituto bancario. 

Con Wojtyla tocchiamo l’apice della “gloria” per Marcinkus. Sappiamo che Karol Wojtyla utilizzò lo Ior per finanziare il sindaco polacco  Solidarnosc. Qual è stato il ruolo dell’Arcivescovo  Marcinkus?

Con Giovanni Paolo II possiamo dire che il potere di Marcinkus crebbe ancor di più. Il monsignore americano sosteneva con forza la lotta di Wojtyla al comunismo e diede una grande mano per far arrivare fondi al sindacato polacco Solidarnosc. Nel libro viene testimoniato che il vescovo statunitense apriva dei conti correnti sui quali arrivavano fondi dagli Stati Uniti e da lì venivano dirottati in Polonia. Marcinkus era per Wojtyla un amico ma anche uno degli uomini di fiducia che avrebbero garantito che il suo progetto per il crollo del comunismo potesse andare in porto. 

Dopo averlo “glorificato” Wojtyla lo allontana (su pressioni di Casaroli e Silvestrini), tardivamente, dallo Ior.. Troppo Tardivamente non trovi?

 Giovanni Paolo II fece di tutto perché “l’allontanamento” fosse il più delicato possibile. Marcinkus continuò a vivere in Vaticano per diversi anni per poi far ritorno negli Stati Uniti. Giovanni Paolo II avrebbe voluto insignirlo anche della porpora cardinalizia, ma su questo trovò la resistenza dell’allora Segretario di Stato, Agostino Casaroli. Passò la linea di Casaroli e il monsignore tornò negli USA senza soldi e senza porpora.

L’Addio di Marcinkus allo Ior è segnato dal suo triste ritorno in   patria, gli Usa. Nel libro  riporti una dichiarazione di Andreotti ad una agenzia di Stampa  in cui sostanzialmente da la colpa al “Sistema Vaticano” che fece l’errore di affidargli, anni prima, la   Presidenza dello IOR. Lui Marcinkus, infatti, non aveva alcuna competenza bancaria…Insomma il “Banchiere di  Dio” è stato un povero ingenuo?

E’ stato un uomo che si è fidato troppo di persone sbagliate. Non so se ingenuo sia la parola giusta; di certo non aveva competenze e lui stesso non ne faceva mistero. Molti lo descrivono come un uomo straordinario, altri come un delinquente. L’unica cosa certa è che è sempre stato e rimarrà per sempre una figura controversa. 

Ultima domanda: Vista questa “eredità“, di Marcinkus, non sei molto ottimista sul tentativo di riforma dell’Istituto da parte di Papa Francesco…o sbaglio?

Papa Francesco ce la sta mettendo tutta, in Curia lo stanno aiutando. Sul tema finanziario, però, il Papa sta trovando molte resistenze da parte di molte persone. Non sono pessimista, anche se per Bergoglio riuscire a riformare del tutto lo IOR è una sfida non indifferente.