Armi, finanza e conflitti: intervista ai promotori della campagna “banche armate”

QuaresimaDisarmataImageIl controllo delle transazioni finanziarie collegate alla compravendita di armi e di sistemi militari è cruciale nella lotta al terrorismo internazionale e per prevenire trasferimenti illeciti di armi. Da quindici anni è attiva in Italia la Campagna di pressione alle “banche armate”: promossa da tre riviste del mondo missionario e pacifista (Missione Oggi dei missionari saveriani, Nigrizia dei missionari comboniani e Mosaico di pace dell’associazione Pax Christi), la campagna ha portato i principali gruppi bancari italiani ad emanare precise direttive sulle attività di finanziamento all’industria militare e di sostegno all’export di armi. Ne parliamo con i direttori delle tre riviste e con Giorgio Beretta, analista della campagna.

Padre Alex Zanotelli, lei è, tra l’altro, direttore responsabile di Mosaico di pace. Come è nata e perché una campagna sulle “banche armate”? 

La Campagna è stata lanciata dalle nostre tre riviste quindici anni fa in occasione del Grande Giubileo della Chiesa cattolica e della mobilitazione internazionale per la cancellazione del debito dei paesi impoveriti del Sud del mondo. Abbiamo innanzitutto voluto evidenziare che gran parte del debito contratto da questi paesi era costituito dal “debito odioso”, quello cioè che i dittatori di diverse nazioni avevano contratto per acquistare dai nostri paesi del Nord del mondo armamenti sofisticati che spesso hanno usato per reprimere le proprie popolazioni e fomentare sanguinosi conflitti regionali. Ma, soprattutto, abbiamo voluto offrire un modo concreto per favorire un maggior controllo sulle esportazioni di armi e sistemi militari del nostro paese e sulle operazioni di finanziamento delle banche all’industria militare. Un compito che oggi ci pare ancora più urgente alla luce dei focolai di guerra nel mondo, soprattutto in Africa e nel Medio Oriente, e delle crescenti spese militari anche del nostro paese.

Padre Mario Menin è direttore della rivista Missione Oggi. Padre Mario, come avete promosso la vostra campagna e quali risultati sono stati raggiunti? 

La Campagna è partita chiedendo alle parrocchie, diocesi e a tutte le associazioni, cattoliche e laiche, di verificare se la propria banca figurava tra quelle, riportate nell’elenco della relazione annuale del Governo italiano, che svolgono operazioni in appoggio all’esportazione di sistemi militari: li abbiamo invitati a scrivere alla propria banca esplicitando che avremmo reso noto le risposte sulle nostre riviste. La campagna si è inoltre coordinata con altre iniziative simili in atto in altri paesi europei per promuovere un controllo attivo dell’attività delle banche nel settore militare e nell’export di armi. Le risposte delle banche italiane non si sono fatte attendere e, grazie alla pressione delle associazioni e dei correntisti, oggi possiamo dire che i principali gruppi bancari del nostro paese hanno emesso delle direttive restrittive, rigorose e abbastanza trasparenti, riguardo alle loro attività nel settore militare (si veda un’analisi dettagliata in questo articolo di approfondimento in .pdf ). Più difficile, invece, è il rapporto con le banche estere operative nel nostro paese, ma questo non è dipeso solo dalla nostra campagna….

Giorgio Beretta ha svolto diverse analisi in questo settore. Beretta, perché è stato più difficile coinvolgere le banche estere? Non c’è il rischio che la vostra campagna costringa le industrie militari a rivolgersi proprio a queste banche rendendo così più difficili i controlli? 

Avere l’attenzione delle banche estere è stato più difficile innanzitutto perché poche associazioni sono clienti di queste banche che spesso hanno solo una sede operativa in Italia e offrono servizi soprattutto alle imprese più che ai privati. Ma, e qui sta il nodo centrale, sull’azione della nostra campagna ha inciso pesantemente la sottrazione di informazioni operata a partire dal 2008 con l’avvento dell’ultimo governo Berlusconi che è proseguita coi governi successivi: senza alcuna giustificazione al parlamento, dalla Relazione ufficiale del governo è stato infatti sottratto il lungo elenco di dettaglio delle operazioni autorizzate e svolte dagli istituti di credito. In altre parole, dal 2008 dalla relazione governativa sappiamo solo l’ammontare complessivo delle operazioni assunte dalle banche per l’export di sistemi militari, ma non possiamo più conoscere né i paesi destinatari né i sistemi d’arma. Questo ha favorito proprio le banche estere, in particolare i gruppi Deutsche Bank e BNP Paribas: si tratta comunque di gruppi bancari che, per quanto riguarda queste operazioni, sono sottoposti agli stessi controlli delle banche italiane. Nessun allarmismo, quindi, ma il problema rimane: vedremo se il governo Renzi, che ha fatto della trasparenza un suo cavallo di battaglia, sarà in grado di ripristinare ciò che Berlusconi e i governi successivi hanno sottratto. Non stiamo parlando di alcun segreto: si tratta, infatti, di informazioni che erano presenti nelle relazioni ufficiali fin dai tempi dei governi Andreotti e Ciampi.

Tutto questo, però, va ad aggiungersi alla preoccupante crescita di esportazioni di sistemi militari italiani verso le zone di maggior tensione del mondo come il Medio Oriente e i paesi dell’ex Unione Sovietica di cui abbiamo già parlato proprio con lei, Beretta, in precedenti occasioni.

Esatto. E qui siamo ad un vero paradosso. Da un lato tutte le forze politiche affermano che occorre evitare che le armi finiscano in mani indesiderate, dall’altro, però, ben pochi alzano la voce quanto è il nostro paese a fornire armi e sistemi militari ai vari dittatori e ai regimi autoritari. Il caso più interessante è quello delle forniture italiane di armi alla Libia di Gheddafi: da quanto nel settembre del 2003 è stato sollevato l’embargo di armi, l’Italia ha esportato in Libia un vero arsenale bellico che va dagli elicotteri militari AW109 di Agusta Westland all’ammodernamento di una serie di aeromobili CH47 e di una flotta di velivoli SF260W di Alenia Aermacchi fino alle componenti per i semoventi Palmaria della Oto Melara e per i missili Milan 3 della MBDA Italia. Oltre a questo c’è stata una grossa fornitura di “armi comuni”, non sottoposte cioè ai controlli della legge sulle esportazioni di sistemi militari: nel 2009, a seguito della visita di Gheddafi in Italia, sono state inviate in Libia oltre 11mila tra carabine, fucili e pistole semiautomatiche della Beretta di Gardone Val Trompia destinate proprio alla Pubblica Sicurezza del rais. Il giornalista del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, entrando nell’agosto del 2011 nel bunker di Gheddafi riportava testualmente: “Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane. Ricordano da vicino gli arsenali che avevamo trovato nella zona dei palazzi presidenziali di Saddam Hussein, dopo l’arrivo dei soldati americani, il 9 aprile del 2003”. Dove siano finite e chi stia usando adesso quelle montagne di armi italiane non è mai stato chiarito.

Torniamo alle banche. Padre Efrem Tresoldi è il direttore di Nigrizia. Padre Efrem, il papa si è ripetutamente pronunciato contro i “fabbricanti di armi” fino a definirli “imprenditori di morte”. Un messaggio al quale, però, sembra che parrocchie e diocesi non siano cosi attente…

Le parole di papa Francesco sono state chiare e forti. Anche a seguito dei suoi pronunciamenti  abbiamo deciso quest’anno di lanciare la “Quaresima disarmata”. Una proposta concreta diretta principalmente, ma non solo, alle diocesi, alle parrocchie, alle comunità religiose, alle associazioni e ai singoli credenti di accogliere l’invito a verificare se la banca di cui si servono ha emanato direttive sufficienti almeno per un’effettiva limitazione delle operazioni di finanziamento e d’appoggio alle esportazioni di armi. Se come singoli o associazioni non abbiamo il potere decisionale per limitare la produzione di armi o il loro commercio, abbiamo però la possibilità di evitare che i nostri risparmi finiscano per alimentare questo mercato. Ma, soprattutto, crediamo che la comunità cristiana debba approfittare della Quaresima, che è un periodo di conversone individuale ed ecclesiale, per fare scelte chiare e coerenti con il messaggio di pace del Vangelo.

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La svolta epocale del “Trattato internazionale sugli armamenti”. Intervista a Francesco Vignarca.

Francesco Vignarca

Per la prima volta nella storia si cerca di mettere un controllo internazionale sul commercio delle armi: il 24 dicembre scorso, infatti, è entrato in vigore il “Trattato internazionale sugli armamenti”. Quali i punti fermi? Ne parliamo con Francesco Vignarca, coordinatore della“Rete Italiana per il Disarmo”.

 

 

Vignarca, lo scorso 24 dicembre è entrato in vigore “Il Trattato internazionale sugli armamenti” (ATT), voi delle “Rete Italiana per il Disarmo” lo avete definito come “un passaggio epocale importantissimo”. Perché?

Per noi di Rete italiana per il Disarmo e per tutte le realtà legate alla campagna internazionale Control Arms la notizia di entrata in vigore del Trattato è davvero un traguardo epocale. Da un lato perché figlio della nostra azione lunga 10 anni che aveva come fine quello di una prima regolamentazione del commercio di armamenti. Dall’altro perché proprio questo commercio problematico e ovviamente delicato non aveva, fino ad ora, alcun tipo di controllo o norma di livello internazionale. Per intenderci prima della vigilia di Natale le banane avevano molte più regole internazionali di quante ne avessero i cannoni o le pistole….

A quanti miliardi di dollari ammonta il commercio mondiali di armi?

È molto difficile fornire una stima attendibile del commercio internazionale di armamenti, da un lato perché una buona parte di questo comparto è frutto di accordi intergovernativi riguardanti solo dei pezzi degli armamenti. Per cui è davvero difficile quantificare cosa venga venduto internazionalmente e cosa invece prenda altre strade. Dobbiamo infatti capire che il commercio internazionale di armi è solo una parte della produzione e della vendita delle stesse, che spesso vengono fornite direttamente dalle industrie ad un Governo. D’altro canto poi, a rendere ancora più complicate le valutazioni, c’è l’opacità endemica di questo settore sia per motivi di sicurezza sia peri grandi profitti di natura criminale e correttiva che ne possono derivare. All’inizio della mobilitazione Control Arms si era sempre utilizzata una stima di 40 miliardi di dollari all’anno, ma i recenti cambiamenti dettati anche dall’aumento del comparto dopo l’inizio della cosiddetta “guerra al terrorismo” ci portano a credere oggi che ogni anno il commercio internazionale di armi valga circa 100 miliardi di dollari.

Definite il “Trattato” come un “grande successo per la Società Civile internazionale”. Perché?

Come già detto in precedenza, questo Trattato non sarebbe mai venuto alla luce senza gli sforzi della società civile internazionale che già a metà degli anni Duemila ha iniziato una grande campagna di opinione e pressione sui Governi affinché venisse intrapresa una strada di regolamentazione normativa internazionale del commercio di armamenti. Senza la “Petizione da 1 milione di volti”, che anche in Italia ha raccolto oltre 40.000 facce, e senza tutta l’azione di pressione a livello delle Nazioni Unite e di singoli Governi portata avanti dalle associazioni e organizzazioni della coalizione Control Arms non saremmo qui a parlare di entrata in vigore del Trattato. Il ruolo propositivo e fondamentale della società civile internazionale è stato inoltre riconosciuto in molte occasioni anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon.

Quali sono i punti fermi di questo “Trattato “, che è molto ambizioso, e quali, invece, i “limiti”?

In attesa di capire i meccanismi di attuazione dei controlli (che sono il punto fondamentale per la buona riuscita di tutto il processo) riteniamo che la cosa più importante sia quella di avere espresso per la prima volta il principio che il commercio internazionale di armi non possa basarsi solo sulle regole del “mercato”. Per la sua natura e la sua problematicità occorre infatti che anche altri criteri (l’impatto sulle vite delle persone e sui diritti umani, la situazione geopolitica delle aree di destinazione) siano presi in considerazione. Dal punto di vista dei contenuti più specifici, a nostro parere (e lo abbiamo detto ripetutamente) ci sono sicuramente cose che non vanno bene. In particolare permangono solo una serie di limitate forme di controllo sulle munizioni e sulle componenti di armi, mentre restano esclusi sia le armi da fuoco che non hanno un esclusivo uso militare sia i trasferimenti di armi all’interno di accordi governativi e programmi di assistenza e cooperazione militari. Questi elementi convincono Rete Disarmo a non accontentarsi del risultato ottenuto (che non è però di poco conto e che ci vede positivamente soddisfatti) ma a continuare il lavoro soprattutto in termini di miglioramento futuro del testo e di organizzazione adeguata dei meccanismi della sua implementazione.

Per dare qualche cifra: quali sono i Paesi che hanno ratificato il “Trattato”? Ci sono i Paesi che sono i maggiori esportatori di sistemi d’arma?

Ad oggi il testo di Trattato è stato sottoscritto da 130 Paesi (compresi gli Stati Uniti!) e ratificato da 61, tra i quali troviamo molti dei principali esportatori di armamenti (oltre all’Italia anche la Francia, la Germania, la Spagna ed il Regno Unito). In tal senso l’Europa sta svolgendo un ruolo di primo piano e di positiva guida. Ovviamente l’assenza tra firmatari e ratificatori di paesi come Russia, Cina, India, Pakistan, Arabia Saudita è ancora un problema ma il processo di entrata in vigore doveva comunque iniziare, pena uno stallo completo del percorso. E tutti noi speriamo che la dinamica sia simile a quella di altre Convenzioni internazionali (pensiamo a quella sulle mine anti-persona) che hanno saputo raccogliere nel tempo sempre maggiori adesioni, rafforzandosi.

Il Parlamento italiano è stato tra i primi a ratificare il “Trattato” (al tempo del governo Letta). In che misura l’entrata in vigore del “Trattato” può favorire maggior controllo e trasparenza dell’assemblea nei confronti dell’attività dell’esecutivo?

Noi siamo stati molto contenti che il Parlamento italiano abbia approvato all’unanimità e con una rapidità mai vista nella storia repubblicana il testo di Trattato elaborato in seno alle Nazioni Unite. È chiaramente un successo anche della nostra campagna e della nostra Rete di cui andiamo molto fieri. Riteniamo poi che sia importante che il nostro Paese arrivi ad un protagonismo positivo in questo ambito, possedendo da 25 anni una delle legislazioni più avanzate sulla regolamentazione del commercio degli armamenti. Ciò però deve essere sempre condotto in un ottica di controllo molto alto, perché anche ora e anche per la legge italiana è il governo a svolgere il ruolo principale di controllore. Ma il Parlamento deve continuare a spingere affinché questo ruolo venga esercitato nel migliore dei modi, non accettando più il deterioramento di trasparenza che invece si è verificato negli ultimi anni. Noi riteniamo fondamentale quindi un collegamento con il percorso internazionale per rilanciare ulteriormente quel controllo che ha reso davvero antesignana la nostra legge nazionale. Si tratta quindi di rafforzare due percorsi paralleli, quello nazionale e quello internazionale con il Trattato, riprendendo un ruolo positivo e propositivo del Parlamento spinto anche dalla società civile.

L’export armato italiano ai regimi dell’ex URSS. Intervista a Giorgio Beretta

Franco Gussalli Beretta (quello a destra ) col dittatore kazako Narzabayev

Franco Gussalli Beretta (quello a destra ) col dittatore kazako Narzabayev

Il recente conflitto nell’Ucraina orientale, le sanzioni dell’Ue verso la Russia e le costanti tensioni nel Caucaso hanno riportato all’attenzione la situazione nei paesi della ex Unione Sovietica. Ai quali l’Italia, nel silenzio generale, sta esportando sempre più armi e sistemi militari. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa) di Brescia, membro della Rete italiana per il disarmo e che da anni scrivesu questi temi per il portale Unimondo.  

 

Facciamo innanzitutto una panoramica: quali sono gli Stati asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia esporta armi e sistemi militari? Quando sono cominciate queste esportazioni?

Sono diversi i paesi asiatici dell’ex URSS ai quali l’Italia sta vendendo armamenti. Si è cominciato nel 2010 con il Turkmenistan verso il quale in pochi anni è stata autorizzata l’esportazione di un vero e proprio arsenale militare che nell’insieme ammonta a quasi 370 milioni di euro: dai fucili d’assalto e pistole semiautomatiche della Beretta, agli elicotteri militari dell’AgustaWestland, dalle mitragliere della Rheinmetall ai cannoni navali della Oto Melara al munizionamento pesante della M.E.S, dai droni Falco della SelexES ai missili Marte della MBDA Italia (si veda elenco completo in fondo all’articolo). Esportazioni autorizzate inizialmente dal governo Berlusconi che sono state incrementate dal governo Monti e sono proseguite durante il governo Letta e spesso senza darne adeguata comunicazione – come invece sarebbe dovuto per legge – al Parlamento: il Ministero degli Esteri in questi anni non sempre ha indicato nella Relazione governativa ufficiale i sistemi militari esportati in Turkmenistan.

 

Tra l’altro la settimana scorsa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si è recato proprio in Turkmenistan. Vi sono stati nuovi contratti di tipo militare?

Ho chiesto personalmente ad alcuni giornalisti di interpellare il ministero degli Esteri, dello Sviluppo Economico, l’ICE (l’Agenzia governativa che ha il compito di promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero – ndr) e Finmeccanica per sapere se qualcuna delle aziende militari del nostro paese era al seguito del premier Renzi: non mi risulta abbiano ricevuto risposta. A parte l’accordo siglato dall’Eni per la gestione e l’uso di idrocarburi in Turkmenistan, poco altro è trapelato dalle agenzie di stampa. Leggendo i vari resoconti ho trovato strano che nessun giornalista fosse al corrente che l’Italia non solo è uno dei principali partner commerciali ma anche il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari al Turkmenistan: a fronte degli oltre 350 milioni di euro di autorizzazioni rilasciate dall’Italia nell’ultimo quinquennio, i 22 milioni di euro di esportazioni dell’Austria e i 19 milioni di euro dei Paesi Bassi sono davvero poca cosa. E ho trovato alquanto curioso, per usare un eufemismo, che nessun giornalista abbia posto l’attenzione sulle violazioni delle libertà messe in atto dal regime del presidente turkmeno Berdimuhammedov: il “Democracy Index” dell’Economist Intelligence Unit annovera da diversi anni il Turkmenistan tra i regimi più autoritari del mondo – peggio di Iran, Myanmar e Zimbabwe tanto per capirci – e lo stesso Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, oltre alle organizzazioni umanitarie, denunciano da tempo le reiterate violazioni dei diritti umani che avvengono in quel paese.

 

Torniamo alle esportazioni di armi italiane verso gli Stati dell’ex URSS. Quali sono gli altri paesi?

Oltre al Turkmenistan, l’Italia ha iniziato ad esportare armi anche al Kazakistan: si tratta per il momento solo i fucili d’assalto ARX-160 della Beretta dotati di lanciagranate. Armi che il vicepresidente della Beretta, Franco Gussalli Beretta, ha presentato personalmente al presidente kazazo Nazarbayev, alla mostra internazionale di armi e attrezzature militari Kadex 2012. Un’azienda bresciana ha inoltre ottenuto da qualche zelante funzionario la licenza per esportare 1.950 pistole semiautomatiche per un valore di oltre 1 milione di euro in Bielorussia probabilmente destinate alle forze di polizia proprio pochi giorni prima che l’Unione Europea decretasse il 20 giugno del 2011 un embargo totale di armi a causa delle violazioni dei diritti umani e della repressione messa in atto dal regime del presidente Lukashenko. Molto più consistenti sono le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari verso la Russia: superano infatti i 100 milioni di euro e riguardano soprattutto veicoli blindati Lince della Iveco. Il paradosso è che questi blindati – che sono stati motivo di un lungo tira e molla tra Roma e Mosca – a causa del recente blocco delle forniture di armi dell’UE verso la Russia si era pensato di inviarli in Ucraina: il ministro della Difesa ha poi smentito, ma l’annuncio era stato fatto e la smentita è arrivata, non a caso, a seguito anche del comunicato di Rete Disarmo che chiedeva di rinunciare a queste forniture. Ma proprio con l’Ucraina, l’Italia ha un accordo di cooperazione tecnico-militare che interessa diverse aziende del gruppo Finmeccanica. Infine lo scorso anno sono iniziate le esportazioni di armi anche all’Azerbaijan: finora si tratta solo di radar avionici di sorveglianza marittima della Selex ES, ma è il primo passo per prossimi contratti.

 

Tutti questi paesi sono ricchi di materie prime, dal gas al petrolio, che per il sistema produttivo italiano sono necessari. Come conciliare questa esigenza con le restrizioni alla vendita di armi?

In linea generale, se è vero che tutti i tipi di rapporti finanziari e commerciali in qualche modo sostengono un regime al governo in un paese – e il caso delle recenti sanzioni dell’Ue verso Russia nel settore finanziario ed energetico oltre a quello militare sta a dimostrarlo – è altrettanto vero che i rapporti commerciali tra paesi hanno generalmente anche un impatto positivo sul tenore di vita delle popolazioni: stabilire rapporti commerciali con un paese ricco di materie prime che ha l’esigenza di tecnologie sofisticate e di vendere i suoi prodotti è una pratica che risponde alla cosiddette “leggi del mercato” e non significa di per sé accettarne le limitazioni alle libertà democratiche. Diverso è invece il discorso sulle vendite di armi e sistemi militari: fornendo direttamente strumenti che possono essere usati da un regime per la repressione interna o per l’aggressione di altri paesi significa non solo avvallare le politiche di un regime, ma fornirlo degli strumenti mezzi per farlo. Non a caso la Posizione Comune dell’Ue del 2008 – come già in precedenza il Codice di Condotta del 1998 – riporta otto criteri restrittivi proprio per “impedire l’esportazione di tecnologie e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale”.

 

Se ci sono queste limitazioni perché l’Italia e i paesi dell’Ue esportano armi ai quei regimi che prima ci ha elencato? Stanno violando qualche legge? E se è così, perché nessuno dice niente?

Come ho detto il Consiglio dell’Unione europea ha adottato nel 2008 una Posizione comune (la 2008/944/PESC) che però non è una direttiva: mentre una direttiva europea ha il valore di una legge, la posizione comune è più di un mero impegno, ma non ha carattere vincolante e, soprattutto, non prevede sanzioni nel caso di violazione. Gli  Stati dell’Ue hanno in qualche modo recepito la Posizione Comune nelle proprie leggi, ma il margine di discrezionalità dei governi è ancora troppo ampio. La stessa legge italiana (la legge n. 185 del 1990 che è stata modificata nel 2012 anche per recepire la normativa Ue) prevede ad esempio che sia vietata la vendita di armi e sistemi militari a paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa” (art. 1, c.6): ma raramente, se non vi erano  condanne o decisioni formali da parte dei suddetti organi, i governi italiani hanno vietato esportazioni di armi a regimi responsabili di violazioni dei diritti umani.

 

Non possiamo però nasconderci che le esportazioni di sistemi militari sono importanti anche per le nostre industrie, permettono ricerca e sviluppo, creano lavoro diretto e indiretto…

E qui tocchiamo il vero paradosso. Innanzitutto va detto con chiarezza che non è lo scopo principale delle industrie militari quello di creare occupazione: un’industria di questo settore si giustifica solo per le esigenze della difesa, non certo per i ritorni occupazionali. I quali, tra l’altro – come dimostrano ormai diversi e autorevoli studi (qui una sintesi in italiano) – a parità di investimenti sono molto inferiori nell’industria militare rispetto al settore delle energie rinnovabili o a quello educativo, di cui tra l’altro l’Italia avrebbe particolare necessità. Non va inoltre dimenticato che proprio l’industria militare è tra quelle in cui si registrano i maggiori sprechi: sfido chiunque a indicarmi un solo progetto militare, non dico in Italia che è un caso patologico, che sia costato quanto era stato previsto. Ma il punto è un altro ed è quello più grave e spesso dimenticato: il compito della cosiddetta “industria della difesa”, nazionale ed europea, sarebbe quello di produrre strumenti per la nostra difesa e sicurezza. Da alcuni anni, invece, le politiche esportative di sistemi militari dei paesi dell’Ue stanno rispondendo sempre più a criteri e logiche di tipo economico ed industriale rispetto alle esigenze della sicurezza: alla tradizionale necessità di ridurre il divario nella bilancia dei pagamenti con i paesi produttori di petrolio, si è aggiunta l’urgenza per diversi paesi europei, tra cui l’Italia, di trovare nuovi acquirenti di sistemi militari per cercare di sostenere le proprie industrie del settore a fronte di una minor disponibilità di fondi per la Difesa. La crisi economica sta accentuando questa tendenza tanto che, come nota un recente documento dell’Ue, tutte le maggiori industrie militari con sede nei paesi europei oggi si focalizzano sui mercati d’esportazione e i ministeri della Difesa si stanno trasformando in espliciti promotori delle esportazioni di sistemi militari. Con gravi rischi, come si è visto nel caso della Libia e della Siria, per la nostra stessa difesa e sicurezza.

 

Un’ultima domanda: di fronte a questa situazione realisticamente voi della Rete Disarmo cosa proponete?

Credo che tre siano le priorità: innanzitutto che venga rafforzata la legislazione europea e le legislazioni nazionali in modo da impedire effettivamente che le armi vengano esportate a regimi autoritari, dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani, in zone di instabilità, ecc. A questo scopo andrebbe previsto un comitato europeo indipendente che predisponga una relazione dettagliata e vincolante da inviare agli organi nazionali che rilasciano le autorizzazioni all’esportazione. In secondo luogo è necessario che i parlamenti nazionali e il parlamento europeo esamino con attenzione le relazioni governative ed esprimano un parere sulle esportazioni di armamenti dei propri governi: l’Italia in questo è molto carente perché – come già dicevo in una precedente intervista – è da sei anni che la Relazione governativa sulle esportazioni di sistemi militari del nostro paese non viene esaminata nelle competenti commissioni della Camera e del Senato. Ma c’è un punto, a mio parere, ancora più importante e decisivo: è venuto il momento di ripensare a livello europeo il ruolo, la funzione e la stessa sostenibilità delle industrie militari nazionali. Oggi non esiste un’impostazione strategica comune, né tra i governi, né tra le aziende europee del settore della difesa. Se l’Europa vuole una solida industria della difesa, capace di garantire la nostra sicurezza, è necessario un cambiamento radicale di mentalità e di politiche. Non è più accettabile e men che meno sostenibile che le industrie nazionali dei paesi dell’Ue, incoraggiate dai rispettivi governi, continuino a competere tra loro per accaparrarsi nuovi acquirenti soprattutto nelle zone ricche di risorse energetiche e materie prime che, come sappiamo, sono anche le zone di maggior tensione del mondo. Solo una visione e una strategia comune europea può impedire che gli attuali approcci obsoleti contribuiscano ulteriormente alla dispersione di risorse e di fondi e può favorire la creazione equilibrata di posti di lavoro ed evitare il rischio di dispersione verso i paesi terzi dei ricercatori e dei quadri altamente specializzati. Anche nel campo della difesa c’è quindi bisogno non solo di più Europa, ma di una Europa lungimirante e soprattutto sostenibile.

 

Esportazioni di sistemi militari autorizzate dall’Italia per il Turkmenistan

–   Due elicotteri AgustaWestland EH101 (circa 50,5 milioni di euro);

–   Cinque elicotteri AgustaWestland AW139 “per impiego militare” (64 milioni di euro);

–   1.680 fucili d’assalto Beretta ARX-160 con oltre 2 milioni di munizioni, 150 lanciagranate Beretta GLX-160, 120 pistole semiautomatiche Beretta PX4 Storm con dispositivi di soppressione del rumore (valore totale di quasi 3,9 milioni di euro);

–   Dodici mitragliere C/A da 25 mm. tipo KBA con accessori della Rheinmetall Italia (circa 2,4 milioni di euro);

–   Otto complessi del cannone binato navale compatto 40/70 compatti (28 milioni di euro);

–   10mila munizioni pesanti della M.E.S. tra cui 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFFC con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HE-PFF con spoletta di prossimità FB40; 2.000 colpo completo cal. 40/70 HEI-T con spoletta di percussione; 2.000 colpo completo cal. 40/70 TPT con finta spoletta e 4.000 colpo completo cal. 40/70 TP con finta spoletta (valore complessivo oltre 4,4 milioni di euro);

–  Tre droni teleguidati Falco XN (extra Nato) e assistenza tecnica della Selex Galileo, oggi Selex ES (valore 8,7 milioni di euro);

–   Parti di ricambio per 25 sistemi missilistici Marte della MBDA Italia (162 milioni di euro).

NdR

La foto pubblicata è tratta da:http://mto.kz/index.php?option=com_content&view=article&id=801:-kadex-2012&catid=1:latest-news&Itemid=50

Il primato dell’Italia nell’export mondiale di “armi comuni”. Intervista a Carlo Tombola

Nei giorni scorsi Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia) , ha presentato il nuovo Annuario sulle armi leggere fabbricate in Italia. Il titolo del rapporto è significativo: Commerci di armi proposte di pace. Ricerca, attualità memoria per il controllo degli armamenti.
Come si vede un rapporto dettagliato che contiene novità rilevanti sul commercio di armi leggere. Ne parliamo con il professor Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal.

Professore, qualche giorno fa voi di Opal avete presentato la nuova edizione dell’Annuario sulle armi leggere. L’Italia detiene il primato dell’Export mondiale di questo tipo di armi. Può fornirci qualche cifra significativa?

“È la novità più importante del nostro Annuario. Lo studio pubblicato dal nostro ricercatore Giorgio Beretta sui dati statistici dell’Onu (qui una sintesi e alcune Tabelle), mostra che nell’ultimo decennio l’Italia ha superato Germania e Stati Uniti nell’esportazione di “armi comuni”, cioè di armi non militari (fucili, carabine, pistole, rivoltelle, e relative parti) ed è leader mondiale di questo specifico mercato con una quota di quasi il 20%. Questo dato si conferma anche prendendo in considerazione solo gli ultimi cinque anni, nonostante si stiano prepotentemente affacciando nuovi produttori, Cina, Brasile e Turchia in testa: il mercato è in crescita, e anche lo è anche la quota italiana, sebbene più lentamente rispetto ai principali concorrenti. In dieci anni si è trattato di poco meno di 3,2 miliardi di dollari di esportazioni (Germania 2,4; USA 2,1), per armi destinate non solo alla caccia e al tiro sportivo ma anche alla difesa personale e alle forze dell’ordine, che non rientrano tra i destinatari specificamente “militari” e che dunque non sono sottoposte al regime di autorizzazioni a cui sono sottoposte invece le armi fornite alle forze armate.

Quali sono le principali zone geo-politiche di destinazioni di questa produzione?
Nell’insieme, nell’ultimo decennio le armi comuni italiane hanno raggiunto 127 paesi di tutti e cinque i continenti. I mercati principali si trovano tradizionalmente nell’Unione Europea (34%) e soprattutto negli Stati Uniti (37%). Qui negli ultimi anni l’effetto-annuncio di legislazioni restrittive – poi mai adottate a livello federale – ha “drogato”il mercato delle armi e delle munizioni leggere, facendo registrare un’impennata degli ordini mai registrata.

In quali Paesi si registrano dati di crescita dell’export armiero?
Oltre che negli Stati Uniti – e a differenza che nell’Unione Europea, area in declino soprattutto per un’attività venatoria ormai invecchiata e“di nicchia” – l’export di armi comuni italiane si è rafforzato nel Centro e Sudamerica, e nei paesi del Medioriente e dell’Africa settentrionale, cioè in aree fortemente interessate dalla violenza politica o della malavita organizzata, e i cui governi risultano coinvolti in gravi violazioni dei diritti umani. È anche in forte crescita l’export verso l’Asia sud- ed estremo-orientale, dove India e Cina stanno diventando clienti importanti. Persino nell’Africa sub-sahariana, mercato “povero”e secondario per le armi italiane, il 2013 ha rappresentato un anno record.

Il distretto bresciano ha il primato assoluto in questa produzione, in particolare con la Fabbrica Beretta. Le chiedo il governo riesce a controllare l’export di questa multinazionale italiana? Ovvero vi sono affari della “Beretta” con i regimi repressivi?
I governi che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno alcun interesse a controllare severamente un’azienda florida come Beretta, fiore all’occhiello del made in Italy e capofila della lobby nazionale delle armi. Soltanto il governo Letta, anche grazie alla presenza di Emma Bonino agli Esteri, intervenne per sospendere l’export di armi (anche di Beretta) verso l’Egitto, durante la sanguinosa repressione dei “fratelli musulmani”, caso però rimasto isolato.
Le “armi comuni” italiane vengono prodotte da aziende che si sono nel tempo fortemente concentrate, tanto sul territorio che nella composizione del capitale. Il “distretto armiero” bresciano è oggi dominato da una multinazionale come il gruppo Beretta, che ha importanti impianti produttivi in Italia (Gardone Val Trompia e Urbino) e all’estero (in Finlandia, negli Stati Uniti e soprattutto in Turchia) e che è anche produttore in proprio di ottiche di precisione e controlla numerose aziende commerciali in tutti i continenti. Beretta può facilmente eludere le legislazioni restrittive spostando semilavorati e prodotti finiti all’interno del proprio gruppo e decidendo di esportare da altri paesi: per esempio, dalla Turchia il gruppo Beretta fornisce clienti in altri 40 paesi del mondo.

Non c’è solo il caso della Beretta, c’è anche la Fiocchi di Lecco (azienda leader per le munizioni leggere). Quali sono le anomalie nell’export di quest’ azienda?
Nel settore delle munizioni leggere, Fiocchi ricopre un ruolo simile a quello di Beretta nelle armi leggere. È molto presente sul mercato USA, dove ha una controllata industriale, ed esporta tutte le aree geografiche del mondo grazie a elevati standard di qualità. Anche Fiocchi è da sempre impegnato nell’export militare, tuttavia nelle Relazioni della legge 185/90 le registrazioni relative a Fiocchi sono stranamente carenti, come se le forniture non fossero state effettuate, mentre risultano invece regolarmente pagate.

Ultima domanda: Come giudica il livello di controllo politico del Parlamento italiano su tutta questa rilevantissima materia? Cosa andrebbe fatto per garantire maggior trasparenza?
Lo giudico colpevolmente distratto, dal momento che sono pochissimi i parlamentari che prestano attenzione alla materia, e la maggior parte è espressione della lobby armiera che è fortemente avversa a ogni trasparenza. Basti pensare che da ben otto anni il parlamento non esamina le Relazioni della legge 185/90, e che nel frattempo gli esperti governativi hanno silenziosamente operato cambiamenti “tecnici”che rendono sempre meno leggibili i dati stessi.